24 dipinti di Klimt

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Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

LE TRE ETA’ DELLA DONNA
Dopo il clamoroso successo alla Biennale di Venezia del 1910, l’anno successivo l’arte di Klimt giunge a Roma in occasione delle roboanti celebrazioni del cinquantenario dell’Unità d’Italia, nell’ambito delle quali ha luogo, a Valle Giulia, una grande esposizione internazionale di Belle Arti organizzata in padiglioni dedicati ai vari paesi partecipanti.
Vincitore del primo premio, Klimt conosce a Roma un nuovo trionfo, cui contribuiscono non poco l’assai lodato padiglione austriaco progettato da Hoffmann in raffinate e semplificate forme classiche, e il sacrale allestimento delle tele nell’abside semicircolare che, come in un rituale percorso iniziatico, conclude il padiglione espositivo.
È in questa occasione che lo Stato italiano acquista Le tre età della donna, nel quadro di una non troppo lungimirante politica di acquisizioni di opere d’arte straniere destinate ad arricchire le collezioni della Galleria d’arte moderna: assieme al dipinto di Klimt, che rappresenta la scelta migliore, e ad altre valide opere, come Oreste e le Erinni del celebrato von Stuck, si registra infatti una serie di incauti acquisti destinati, col tempo, a essere relegati nei depositi.
Anche a Roma, come già a Venezia l’anno precedente, si levano voci discordi da parte della critica. Tra i commentatori più autorevoli e severi vi è Emilio Cecchi, che individua con acume la sostanziale duplicità dell’arte klimtiana: "Si prova l’impressione, nell’abside che a Klimt è stata dedicata, di camminare in un lembo tutto fiorito [Il bacio], sommerso dalla foga di una primavera che irrompe sotto un cielo d’oro. Ma, a un tratto ci si accorge di trovarsi in un cimitero [Vita e morte], per un sogghignare di teschi e qualche chiazza di macabri disfacimenti fra l’erba tutta stellata, sì che un diaccio funebre si mesce nell’aria colorata e festosa e la fa raggelare. Se non che, a un esame più attento, si vede che i teschi son di cartone e le anatomie di cera dipinta. Quest’arte che vuole essere pittura non è che vetreria e mosaico; vuole essere lirica immensa ed è ricamo, ed evoca le cose più grandi: la Morte, il Rimorso, l’Amore, tanto per trovare il pretesto di dire le più mediocri. È la pittura ricondotta nel caos".
Tra le opere più note del "periodo d’oro" di Klimt, Le tre età affida il suo trasparente significato simbolico ai raffinati geometrismi decorativi che avvolgono le tre figure; la resa figurativa, forse un po’ leziosa e scontata, è pienamente riscattata dallo straordinario fondo astratto, una vibrante superficie chiusa da un’ampia fascia nera nella quale si incastra il pullulante cromatismo della scena centrale.
La figura della vecchia, analoga a quella che compare nella Giurisprudenza, è probabilmente ispirata a una nota opera di Rodin, La Bella Elmiera, che Klimt aveva assai apprezzato alla mostra dello scultore francese tenutasi alla Secessione viennese nel 1901.
DANAE
Nell’opera di un pittore dedito, come Klimt, alla celebrazione della donna e dell’eros attraverso l’uso privilegiato di un colore altamente simbolico quale l’oro, non poteva mancare la raffigurazione del mito di Danae.
Danae era l’unica figlia di Acrisio, re di Argo. L’oracolo di Delfi predisse al re che non avrebbe avuto altri figli oltre Danae, e che il figlio di questa gli sarebbe stato fatale. Acrisio fece quindi costruire nel cortile del suo palazzo una stanza di bronzo sotterranea come una tomba, nella quale rinchiuse Danae, con una nutrice, affinché non potesse generare. Ma fu lo stesso re degli dèi che desiderò la ragazza: sotto forma di pioggia d’oro, Zeus penetrò attraverso il tetto nella stanza sotterranea, e fecondò Danae. La tomba divenne camera nuziale e dall’unione nacque Perseo.
Il tema di Danae aveva, in pittura, celebri precedenti nell’opera di grandi maestri: dal fiammingo Mabuse al Correggio fino alle varie versioni dipinte da Tiziano1 (una delle quali conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna). Klimt affronta il soggetto in maniera assai diversa: la sua Danae non è una giovane donna consapevole e, in un certo senso, partecipe del miracoloso evento, ma una fanciulla persa nel sonno e nella dimensione onirica, totalmente dimentica di sé e in balìa dei propri istinti sessuali.
Ogni aspetto narrativo è assente, tutto si concentra sull’unico eterno momento della fecondazione: all’interno del formato quadrato del dipinto, la straordinaria corrente erotica assume un andamento ellittico; nella posizione fetale e nei tratti infantili della ragazza circola una sensualità dolce e appagata, quasi un desiderio prenatale di un erotismo dimentico e inconscio.
Oro ed eros, in Danae, si congiungono e si cristallizzano nelle forme di un capolavoro fuori del tempo: "L’eros diventa icona", come ha scritto Werner Hofmann. In nessun altro dipinto di Klimt la donna è così interamente identificata con la propria sessualità, una sessualità da cui l’uomo è escluso.
Il principio maschile, ridotto in Danae al piccolo rettangolo nero confuso nella cascata della pioggia d’oro, apparirà con più corposa evidenza in un altro dipinto ispirato agli amori di Zeus, Leda. Ma, anche qui, la protagonista è persa in un inconscio e passivo stato di dormiveglia: e non è inutile ricordare che, all’inizio del secolo, il medico viennese Sigmund Freud aveva pubblicato L’interpretazione dei sogni.
IL BACIO
Apice del "periodo d’oro" ormai prossimo alla conclusione, Il bacio è indubbiamente l’opera più popolare di Klimt: acquistato alla Kunstschau del 1908 dalla Galleria di Stato, già all’epoca era ritenuto il massimo capolavoro dell’artista.
Il tema della coppia persa nell’inebriante unione amorosa non è certo nuovo per Klimt: dal giovanile Amore, ancora sospeso tra realismo e allegoria, alla scena conclusiva del Fregio di Beethoven2 e all'Abbraccio1 del Fregio Stoclet, immagini ormai appartenenti a una sfera mitico-simbolica indipendente dalla realtà. Anche gli elementi formali e compositivi del Bacio sono già stati ampiamente sperimentati da Klimt in opere precedenti: dallo schema piramidale al fondo d’oro, dalla decorazione astratto-geometrica al trattamento simile al mosaico.
Ciò che rende il Bacio un’autentica e splendida summa dell’arte di Klimt fino a quel momento, è il perfetto equilibrio con il quale i diversi aspetti del suo linguaggio vengono a comporsi: un equilibrio perfetto, ma al tempo stesso precario e sottile, tra il naturalismo dei volti e delle mani e l'astrattismo delle vesti, tra l’assolutezza del fondo d’oro e il brulicante prato fiorito, tra la forte carica erotica e il potente afflato cosmico.
Isolati dal mondo in un abbraccio che è fusione sensuale e spirituale al tempo stesso, gli amanti del Bacio celebrano il trionfo del potere risolutore dell’eros, in grado di ridurre in estatica armonia i conflitti tra uomo e donna e tra persona e natura. Alla differente decorazione delle vesti dei due amanti, modulata sulle varie tonalità dell’oro, è affidato il ruolo di segnalare, all’interno della cosmica unione, l’irrinunciabile diversità dei sessi: secondo un codice simbolico ampiamente diffuso le forme dure e angolose, quali i rettangoli eretti, sono connaturate al mondo maschile; quelle morbide e curvilinee, quali i cerchi concentrici, al mondo femminile.
Nella sua utopica visione della pittura come strumento di miracolose armonie, Il bacio è un’autentica sintesi estetica della cultura "fin de siècle", con tutte le sue illusioni e le sue profezie, i suoi limiti e le sue conquiste. Lo notava bene un critico che, nel 1909, scriveva a proposito dell’arte di Klimt: "Tutte quelle cose che si sono chiamate impressionismo, divisionismo, pointillismo, preraffaellismo, simbolismo e che so io, tutte finiscono e si concentrano qui, e tutte fanno la figura di discussioni retoriche, di piccole quisquilie scolastiche d’un genere nuovo, punto migliore dell’antico, di fronte a questa sistesi estetica del concetto modernista".
I "concetti modernisti", che avevano affidato alla decorazione un ruolo chiave nella trasformazione della società, stavano però mostrando sempre più la loro inattuabilità: nello stesso 1908, l’architetto viennese Adolf Loos pubblica il celebre saggio Ornamento e delitto, in cui condanna ogni tipo di decorazione sulla base di motivazioni estetiche, etiche ed economiche.
E lo stesso Egon Schiele, entusiasta allievo e ammiratore di Klimt, solo qualche anno dopo dipingerà quella disperata caricatura espressionista dell’estatico Bacio klimtiano che è Cardinale e suora.
RITRATTO DI SIGNORA
Assieme a Le tre età della donna e a Giuditta II, il Ritratto di signora è uno dei tre dipinti di Klimt conservati in Italia. Pervenne alla sede odierna, la magnifica e poco nota Galleria d'arte moderna Ricci Oddi di Piacenza, nel 1925.(ora rubato e non più presente) Il collezionista Giuseppe Ricci Oddi l’acquistò dietro suggerimento di Giulio Ulisse Arata, un architetto già attivo nell’ultima fase del Liberty e indirizzato, negli anni Venti, verso un moderno ed elegante recupero delle forme storiche.Il Ritratto di signora di Piacenza fa parte di un gruppo di ritratti femminili eseguiti da Klimt negli ultimi anni della sua attività (1916-1918), alcuni dei quali rimasti incompiuti alla morte dell’artista: le altere e inaccessibili donne-idolo del "periodo d’oro" lasciano ora il posto a spigliate e argute donne moderne o a languide e distratte signore, come quella della collezione piacentina.
Anche se il sanguinoso dramma della guerra mondiale sembra scalfire appena il sospeso e fiabesco mondo klimtiano, nei ritratti e nei molti disegni di questi anni il pittore dimostra una nuova attenzione per il volto e la sua espressività, con una caduta o almeno una estrema riduzione dell’elaborato contesto decorativo che, nelle opere precedenti, incastonava come gemme l’astratta ieraticità dei suoi personaggi femminili. Il trattamento energico e quasi inquieto avvicina alcuni di questi ultimi ritratti alla pittura fauve ed espressionista, di cui però Klimt coglie non la dirompente aggressività ma la novità della stesura rapida e sommaria, invariabilmente rielaborata all’interno di un quadro di seducente eleganza.
Se Klimt giunge alle soglie dell’espressionismo, come in altre opere a quelle dell'astrattismo, senza tuttavia oltrepassarle, ciò non dipende da un’ignoranza delle contemporanee vicende internazionali, ma dalla scelta, cosciente e obbligata, derivante dalla struttura stessa della sua personalità artistica, sospesa tra tradizione e sperimentazione.
Lo dimostrano altri ritratti femminili di questi stessi anni, nei quali una variopinta ornamentazione ancora investe, assieme al fondo, le figure: non più icone di una società paga dei propri riti, ma superstiti protagoniste di un mondo in declino alle quali Klimt affida l’estrema rappresentazione del proprio ideale, sostanzialmente ottocentesco, di raffinata bellezza. L’incompiuto e bellissimo Ritratto di Amalie Zuckerkandl (1917-1918) è forse l’ultimo a essere iniziato: la nobile signora, pur nella solennità della posa, ha ormai perso ogni altera sicurezza; nel suo sguardo stupefatto si legge come un vago smarrimento di fronte al crollo di un Impero, e del mondo che rappresenta, che si credevano eterni.
RITRATTO DI ADELE BLOCH-BAUER
Splendido ed esangue, il Ritratto di Adele Bloch-Bauer I è l’opera più sensazionale del "periodo d’oro" di Klimt e uno dei suoi capolavori in assoluto. L’effigiata, moglie di un facoltoso banchiere e industriale viennese e animatrice di un salotto letterario frequentato anche da Stefan Zweig, è l’unico personaggio che Klimt abbia ritratto più di una volta: in quest’opera del 1907 e cinque anni più tardi, quando proprio con il Ritratto di Adele Bloch-Bauer II, ormai concluso il "periodo d’oro", inaugura una nuova stagione, cromaticamente accesa e fiorita, della sua attività artistica.
I Bloch-Bauer possedevano diversi importanti dipinti di Klimt, tra i quali Bosco di betulle, Schloss Kammer III, Il melo I e Case a Unterach: tutte opere che, nel 1948, sono state generosamente donate all’Österreichische Galerie assieme ai due superbi ritratti di Adele. Forse la bella e colta signora ebrea ebbe una relazione con il pittore; e forse la medesima Adele è la modella della sensuale Giuditta I, della quale, nel ritratto del 1907, sembra indossare lo stesso grande collare barbarico.
L’abbagliante e sontuoso ritratto del 1907 non nasce di getto: Klimt vi lavora fin dal 1903, studiando la posa della sua modella e soprattutto concentrandosi sull’effetto decorativo prodotto dalle fluenze dell’abito. Il risultato finale è tuttavia assolutamente inatteso: un’astratta superficie rutilante di decorazioni auree in cui del corpo di Adele sopravvivono di reale solo le mani e il volto. Nella sua inedita fusione di barbarie e raffinatezza, il Ritratto di Adele Bloch-Bauer attinge motivi e simboli da civiltà antiche e lontane: da Bisanzio, innanzitutto; ma anche dall’Egitto, da cui deriva l’"Ugiat", occhio sacro e fonte di fluido magico, di cui è composto l’abito di Adele.
La profusione dell’oro, nelle sue varie tonalità opache e brillanti, intesse intorno alla figura una nicchia in cui l’individualità è protetta ed esaltata, fissando l’immagine nel prezioso distacco di una sacrale ieraticità: come una sensuale e sublimata icona, Adele emerge inattingibile dai metallici bagliori di un ambiente sfarzosamente astratto. Nel delirio dei quadrati, delle ellissi, delle spirali Klimt celebra, a un passo dalla pittura astratta, la funzione magica e assoluta dell’ornamento. All’oro spetta il ruolo di operare la simbolica sintesi tra astrazione e organicità, tra vita e sedimentazione, tra l’assoluto della forma geometrica e la transitorietà delle signore dell’alta borghesia viennese.
Presso gli egizi, l’oro conferiva sopravvivenza divina: forse inconsciamente, alle soglie della dissoluzione dell'Impero asburgico, Klimt lo riesuma dalle civiltà estinte per eleggerlo a estremo baluardo di una civiltà in rovina. Come ha scritto con il consueto acume Giulio Carlo Argan, "in una profusione di ornati simbolici, ma del cui significato s’è perduta anche la memoria, [Klimt] sviluppa i ritmi melodici di un linearismo che finisce per ritornare al punto di partenza e chiudersi su se stesso; e li accompagna con le delicate, malinconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei, con morenti bagliori d’oro, d’argento di smalto. Vivendo con estrema sensibilità quella situazione tipicamente austriaca Klimt tocca quasi senza volerlo il punto nevralgico di una situazione ben più vasta, europea: l’arte è il prodotto di una civiltà ormai estinta, nella nuova civiltà industriale non può sopravvivere che come ricordo di se stessa".
GIUDITTA I
"Una femmina snella e flessuosa, fuoco insinuante negli occhi misteriosi, la bocca crudele e le narici frementi di voluttà": così Felix Salten descrive Giuditta I.
Sulla cornice di rame sbalzata, opera del fratello Georg, è impresso il suo nome accanto a quello di Oloferne: Giuditta infatti è la biblica eroina che sedusse e decapitò Oloferne per salvare Betulia, la sua città; per questo assurse a simbolo di virtù femminile, ma anche del debole che ha ragione del forte e divenne motivo ricorrente nella cultura figurativa occidentale: lo stesso Klimt ne produrrà due versioni.
Dai vaghi accenni d'inquietudine di opere come Signora con collo di pelliccia e dalle atmosfere ancora un po' sopite di Signora davanti al camino, nei dipinti di Klimt cresce rapidissima la volontà di scandagliare la psicologia di una femminilità decisamente moderna: intenso e magnetico è il Ritratto frontale di signora, quasi patologici appaiono i tratti di Testa di ragazza fino a toccare l'apice in questo dipinto.
La modella è forse Adele Bloch-Bauer, e appare trasfigurata rispetto al più tardo ritratto: la passione trasforma i delicati tratti di colei che, forse, fu anche l'amante del pittore. Intense saette di luce accendono lo sguardo di Giuditta, versione desacralizzata e mondana di Pallade Atena, della quale conserva sulle spalle scaglie metalliche e dorate, che preannunciano lo "stile aureo" e fanno emergere con maggiore evidenza l'opalescente pallore delle sue carni.
Gli alberi, il paesaggio stilizzato alle sue spalle e l'ornamento a palmette o rosette derivano probabilmente dalla conoscenza dei motivi decorativi micenei e della necropoli del Dipylon, mediata dalle illustrazioni riportate da Alois Riegl in Questioni di stile del 1893.
La donna è simile a una sirena che magnetizza lo sguardo dello spettatore proprio con la sua bellezza e ambiguità: se da una parte è la vendicatrice trionfante che mostra la testa decapitata dell'uomo, dall'altra Giuditta stessa appare come decapitata dall'effetto del prezioso ornamento che porta al collo, il quale torna in maniera piuttosto simile nel ritratto di Rose von Rosthorn-Friedmann e di Adele, ma anche nella sacerdotessa di Medicina, simbolo di una femminilità che rivolge lo spirito distruttore anche contro di sé. Naturalmente Giuditta scioccò la "bempensante" Vienna; nonostante ciò, Hodler, artista e uomo dallo spirito libero, decise di acquistarla quasi immediatamente.
LA VERGINE
Flessuose apparizioni femminili si destano e languide si distendono, senza turbare il sonno della fanciulla che al centro della composizione, la testa reclinata da un lato e le braccia mollemente adagiate, sogna simile a splendida Danae.
Cromatismi intensi e audaci contrapposizioni tonali s'associano a decorazioni sinuose che ondeggiano spinte verso l'alto; gli aranci si mescolano ai blu, i rosa ai verdi e i gialli "squillano" intensi: ogni tonalità acquisisce luce impastandosi al bianco. Motivi a spirale si confondono con simbologie circolari simili agli stilemi di Stolba, ogni angolo della composizione è smussato e addolcito e scompaiono le geometrie ancora presenti in Vita e morte. Il gruppo è sospeso in uno spazio vuoto e infinito, ma sembra ascendere sospinto da un dolce movimento spiraliforme.
L'attenzione si concentra sulla fanciulla il cui volto è ripreso da Vita e morte, ma torna significativamente in La sposa che ne rappresenta il naturale "pendant". Se infatti ne La vergine la dormiente è se stessa che sogna e a sé rivolge l'attenzione attraverso la materializzazione delle sue compagne, nel caso de La sposa ella è colta in una dimensione onirica mutata: l'incontro con lo sposo diventa contemporaneamente incontro con "l'Altro" e con la propria anima.
Forse anche in questo caso, come appare certo per La sposa, si può ipotizzare che Klimt abbia disegnato con grande attenzione gli splendidi corpi femminili, occultando poi per sempre il prorompente erotismo dei nudi con tessuti screziati e finemente decorati.
La dimensione del sogno, dopo il precedente del famoso Incubo di Füssli, è uno dei temi che più hanno suggestionato la creatività degli artisti dell'epoca: sogna a occhi aperti la fanciulla di un omonimo dipinto di Rossetti e si risvegliano da una dimensione di torpore le Tre donne di Moser in un'opera dai connotati ancora simbolisti.
In un clima mutato da umori ormai chiaramente espressionisti e fortemente influenzato dagli studi di Freud il sogno si trasforma e diventa ossessiva visionarietà nelle opere di Kubin e devastante allucinazione nei dipinti di Schiele o di Kokoschka.
Karl Kraus, riferendosi a Freud, fondatore della psicanalisi, dirà che a lui "va il merito di aver introdotto una costituzione nell'anarchia del sogno. Soltanto che da quello che vi succede sembra di essere in Austria", un'espressione che a ben vedere riflette anche la dimensione vissuta dagli inquieti artisti viennesi.
LA MUSICA I
È la prima delle allegorie klimtiane della Musica, ed è anche la sua prima opera compiutamente simbolista. Per l’impianto compositivo e per il largo uso dell’oro, forse Klimt trasse ispirazione dall'Orfeo (1891) di Franz von Stuck, autore allora celebratissimo, anche se lo sfumato trattamento pittorico di Musica I è tipico delle opere klimtiane di questo periodo, come per esempio l’intenso Ritratto di signora del 1894.
Nella grecizzante Musica I, sulla scorta del pensiero di Schopenhauer e Nietzsche, Klimt visualizza in chiave allegorica il primato della musica sulle altre arti, in quanto generatrice del mito tragico e liberatrice, attraverso la conoscenza dionisiaca, delle forze sepolte dell’istinto. La fanciulla con la cetra è affiancata da una scultura raffigurante una sfinge, simbolo della libertà dell’arte e dell’enigmatica integrazione dell’elemento spirituale con quello animale, e da una maschera di Sileno, il compagno di Dioniso che Nietzsche definì "simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura". Alle spalle della fanciulla spiccano delle sfere dorate: sono i pappi della pianta del tarassaco, simboli della diffusione delle nuove idee poiché, al minimo soffio di vento, si spargono ovunque.
Alle soglie della nascita della Secessione, Musica I è un autentico programma artistico, che Klimt sviluppa maggiormente in uno dei due pannelli dipinti per la sala da musica di Palazzo Dumba a Vienna, Musica II (1898). Pur riprendendo lo schema compositivo e simbolico di Musica I, Klimt ricorre a una più audace stilizzazione formale che pone in maggior risalto le figure della sfinge e di Sileno, e soprattutto sostituisce la musa pensosa del primo dipinto con una conturbante creatura femminile, prima e inquietante apparizione della "femme fatale" klimtiana. Moderna e arcaica al tempo stesso, la Musica si presenta ora come una tragica musa dotata del potere di comporre in armonia gli istinti occulti dell’uomo, in particolare quelli sessuali, con le misteriose forze cosmiche.
Klimt elaborerà ancora, nella sua opera, la figura di Musica I: nel celebre Fregio di Beethoven (1902) la musa con la cetra incarna la Poesia, unica salvezza e speranza di felicità contro le forze ostili che ingombrano minacciose il cammino dell’uomo. La stessa figura arcaica, di chiara ispirazione greca, era già apparsa l’anno precedente su Ver Sacrum1, la raffinata rivista della Secessione. In questo caso il disegno si riallaccia ancor più strettamente alle fonti greche: infatti lo sfondo simbolico-vegetale di Musica I e Musica II è sostituito dalla parziale riproduzione di un fregio vascolare greco a figure nere, che Klimt, come in altre occasioni, aveva ripreso da un volume pubblicato alla metà dell’Ottocento da E. Gerhard, Auserlesene griechische Vasenbilder.
BISCE D’ ACQUA
Scrive Hevesi riguardo Bisce d'acqua: "è una strana, stupenda macchia rettangolare di colori, come forse solamente la ciurma di un sottomarino riuscirebbe a vederla dal vetro di un boccaporto mentre scivola negli abissi di un mitico mare del sud". In tale "macchia" creature femminili per metà donne e per metà animali s'uniscono in un abbraccio languido e sensuale.
Il tenue e delicato acquerello è inondato da una profusione d'oro: piccole scaglie e filamenti ondosi s'intrecciano a foglie verdi stilizzate; le chiome fluenti si trasformano in ricchi ghirigori; spire acquatiche di un mitico mondo si "svolgono" verso l'alto, mentre appare appena un pesce screziato di luci e colori simile a quello già visto in Acqua mossa o in Pesci d'oro.
Il motivo identico compare anche in Bisce d'acqua II e nei relativi disegni: qui però il formato è orizzontale; inoltre le labbra e gli occhi socchiusi della creatura in primo piano, la dolce curva dell'anca dell'altra biscia posta di spalle e ogni altro elemento sembrano suggerire uno stato di appagato torpore.
È evidente il riferimento iconografico alla creatura dormiente dell'Ostilità delle forze avverse; ma Klimt chiaramente allude soprattutto al tema della "donna sensuale nell'acqua" già apparso in altre opere come Sangue di pesce e Pesci d'argento: queste se ne differenziano per la tecnica, ma anche per il fatto che in Bisce d'acqua appare esplicitamente il tema dell'amore lesbico che sarà accennato in Le sorelle, occultato in La vergine e infine trattato in maniera serena e distesa in Le amiche. Qui infatti senza più alcun "camuffamento" decorativo una donna nuda reclina teneramente il capo verso la compagna dalla veste rossa e dal turbante esotico.
Le armoniose e duttili Bisce d'acqua a contatto con il disegno nervoso di Schiele si trasformeranno in taglienti e scarnificati Spiriti acquatici, secondo un ritmo interrotto e un linearismo già espressionista che domina evidentemente anche la seconda versione.
LA SPERANZA I
Secondo quanto attesta una storia apocrifa, Klimt tra le sue modelle amava particolarmente Herma, per un suo "vezzoso attributo": uno splendido fondoschiena. Un giorno, la ragazza non si presentò più nell'atelier, provocando nell'artista un notevole turbamento. Così la mandò a cercare e venne a sapere che Herma era incinta. Klimt non volle comunque rinunciare a lei e vincendone le reticenze riuscì infine a ritrarla.
Una splendida modella per una altrettanto splendida opera: La Speranza I. Il tema della donna nuda incinta, che ritroviamo in vari studi destò chiaramente grande scalpore e lo stesso Fritz Wärndorfer, il collezionista che lo acquistò prima di fare bancarotta, lo teneva celato dietro a due paraventi. Fu in seguito Koloman Moser a realizzare una speciale "stanzetta" per il quadro, che veniva mostrato solo agli amici più intimi.
Klimt, attingendo consapevolmente all'iconografia classica, rappresenta una donna nuda incinta, simile a un'audace Primavera dai capelli rossi; dietro di lei compaiono inquietanti volti ischeletriti secondo un'iconografia che si trova già in Amore e persino una maschera crudele come quelle che il pittore stesso collezionava.
L'intensa suggestione delle opere di Edvard Munch - che sicuramente Klimt conosceva già prima della mostra alla Secessione di Vienna nel 1904 - si cela nelle fattezze di questi personaggi illividiti simili a lemuri spettrali. Essi rappresentano le minacce del mondo che attendono il bambino ancora al sicuro nel grembo materno. Accanto alla donna appare un mostro molto simile a Tifeo, la mitica scimmia alata e oscura chimera dell'Ostilità delle forze avverse.
La fanciulla ha sul capo una coroncina di fiori dal gusto chiaramente preraffaellita che prosegue però sulla testa dell'orrida creatura, creando un legame con la donna e una sorta di ambiguità nei rapporti tra la futura madre e il nascituro; ben diverso dal clima di totale fusione esistente in Le tre età della donna.
Klimt aveva realizzato questo quadro chiaramente provocatorio dopo le polemiche per i pannelli dell'Università, riprendendo da questi il gruppo della madre col bambino e portando la figurazione alle estreme conseguenze. In seguito affronta lo stesso tema con animo più disteso e intenti meno provocatori.
Schiele, invece, dopo aver visto La Speranza alla Kunsthaus del 1909, la trasforma in immagine di dissoluzione in la Madre morta, e negli autoritratti le presenze maligne diventano addirittura materializzazione del proprio "doppio".
PESCI D’ ORO
"Ai miei denigratori": così Klimt avrebbe voluto intitolare l'opera che suscitò scandalo e persino il ritiro alla mostra di Dresda del 1904 per l'arrivo del principe di Sassonia.
Dopo i violenti attacchi dei moralisti per i pannelli dell'Università, Klimt, indispettito, aveva rilanciato la sfida, estrapolando dal contesto della Medicina proprio le immagini che più avevano destato scalpore: la conturbante e sensuale figura femminile nuda e il gruppo della madre col bambino quasi in primo piano dietro la sacerdotessa, rendendoli oggetto di due opere autonome: Pesci d'oro, appunto, e La Speranza I.
Morbida e sensuale è la linea che disegna mollemente il corpo della maliziosa sirena in primo piano, la quale volgendo le spalle si mostra in tutta la sua fulgida bellezza, decisamente provocante come appare anche negli schizzi1 e in un divertente disegno di Löffler. La chioma rossa la accarezza, creando un meraviglioso contrasto cromatico col pesce dalle scaglie d'oro luccicanti; esso, simile a quello di Acqua Mossa e del disegno di "Ver Sacrum", sembra muovere le pinne giocando nell'acqua.
Nel fondo variegato di pagliuzze d'oro e filamenti scuri si muovono altre sirene, una sembra scomparire, l'altra volge lo sguardo inquietante verso lo spettatore fluttuando con movenze molto simili a quelle di Pesci d'argento, ma anche della Nuda Veritas; un modello affascinante per Klimt che lo riprende, in maniera più stilizzata, nel fregio di Beethoven, ma anche in Ragazza col velo blu. Ogni cosa sembra partecipare a questa atmosfera quasi ipnotizzante, pervasa dal soffio dei colori e dai barbagli iridescenti dell'oro, in un clima di dolci assonanze che tornano a proporsi in Bisce d'acqua I e Bisce d'acqua II.
Il critico Gesche esprimerà così tutto il suo stupore per questo clima da meraviglioso incanto: "Con queste sirene dai capelli di fiamma i pesci d'oro danno l'impressione di guardare nell'acquario di Eros; questo dipinto di Klimt ha la sontuosità di un racconto da "Mille e una notte"".
ISOLA SULL’ ATTERSEE
Più volte, nei primi paesaggi dipinti da Klimt, ricorre il tema dell’acqua, che si tratti di uno stagno, di una palude o, come in questo caso, di un lago. Ma, pur se eseguiti a distanza di poco tempo l’uno dall’altro, i diversi dipinti mostrano una rapidissima evoluzione dell’atteggiamento di Klimt verso l’elemento liquido: mentre lo Stagno nel parco Kammer è ancora una veduta di un brano di natura fatto di acqua specchiante, terra e cielo, nella successiva Palude l’attenzione si concentra maggiormente sull’acqua e sulle sue vibrazioni cromatiche. In Isola sull’Attersee, con la sua altissima linea dell’orizzonte, l’acqua diviene protagonista quasi assoluta, che nella sua astratta immobilità atemporale non rimanda ad altro che a se stessa.
È una visione che, se si discosta dalla tradizione viennese tardottocentesca dell’"impressionismo di stati d’animo", è altrettanto lontana anche dalle esperienze coeve di altri pittori della Secessione, quali quelle naturalistico-intimiste di Wilhelm Bernatzik (Stagno) o quelle più modernamente simboliste di Carl Moll (Crepuscolo).
Una parentela, semmai, può essere stabilita con le ricerche di Monet, cui certamente Klimt guardò. Ma più che con le contemporanee opere del maestro francese, ancora legate alla registrazione soggettiva della fuggevole apparenza fisica (Lo stagno delle ninfee), è in quelle degli anni posteriori, culminanti nei grandiosi cicli delle Ninfee, che la ricreazione interiore della realtà da parte di Monet e le visioni sospese nel tempo di Klimt trovano una concorde intuizione dell'astrattismo.
FREGIO
In occasione della XIV mostra della Secessione (1902) ventuno artisti tra cui Klimt e Klinger lavorano al servizio di un'unica idea: la celebrazione dell'artista, realizzando un’"opera d'arte totale". L'allestimento, curato da Hoffmann, era concepito in modo che ogni singolo elemento si rapportasse al tutto, mentre lo spettatore era "guidato" nelle varie sale in una sorta di percorso iniziatico e ipnotico fino alla statua di Beethoven, realizzata da Klinger in preziosi marmi policromi, avorio, alabastro e bronzo.
Centro focale della mostra, il monumento era posto al centro della sala principale; a fargli da cornice, sulle pareti vi erano i pannelli realizzati da Alfred Roller e Adolf Böhm. Il compositore appare seduto al centro di un elaborato trono in atteggiamento solenne e pensoso, un'aquila al suo fianco ricorda Zeus, ma forse ancor più Prometeo, metafora dell'artista creatore. Per la prima apparizione del gruppo scultoreo Gustav Mahler, musicista geniale quanto sensibile e riservato, traspose alcune parti del coro finale della Nona Sinfonia: ricorda Alma Mahler che "Klinger varcò la soglia della sala, rimase come impietrito quando dall'alto risuonarono questi suoni. Non potè trattenere la commozione, e sul viso cominciarono a scorrergli lentamente le lacrime".
Per la mostra Klimt realizzò nella navata laterale un fregio che ha per tema la lotta dell'uomo contro la propria condizione di sofferenza, dando un'interpretazione simbolica della Nona Sinfonia di Beethoven. Trattandosi di pannelli momentanei utilizzò colori alla caseina su intonaco applicato a un incannucciato e per raggiungere certi effetti inserì nella materia pittorica frammenti di specchio, vetri colorati e persino chiodi da tappezziere; ciò rese molto precaria la conservazione dell'opera e particolarmente difficoltoso il restauro.
Nel fregio stilizzazione e decorazione trovano forma compiuta e si realizzano secondo le migliori declinazioni dello "stile aureo"; il colore assume un'intensità e una luminescenza totale; un eclettico estro inventivo porta Klimt a raccogliere suggerimenti nell'ambito delle culture più disparate: echi della pittura vascolare greca e di quella egizia si mescolano nella scelta di una fascia narrativa continua; le stampe di Utamaro e Hokusai influenzano la dura incidenza del segno; l'amore per la sua nascente collezione di scultura africana s'avverte nelle orribili e maligne maschere; un po' ovunque nelle figure serpeggia sotterranea la cultura Art Nouveau di Beardsley e Minne, Mackintosh, Toorop e Hodler.
Nella scena iniziale del fregio è raffigurato l'Anelito alla felicità: un'umanità emaciata e dolente rivolge la sua disperata richiesta d'aiuto al cavaliere. Questi, simile a Pallade Atena o a Teseo che combatte con il Minotauro, è l'eroe simbolo di virtù, chiara metafora del ruolo dell'artista. Klimt lo "cesella" nei minimi dettagli: studia la corazza sugli esempi antichi e dà al volto, significativamente, i tratti di Gustav Mahler, che fu suo buon amico e che forse gli trasmise l'interpretazione wagneriana del testo, nonché la teoria di Nietzsche circa il genio e le sue sofferenze. Compassione e Orgoglio, appiattite nelle tuniche geometriche e vibranti di bagliori dorati, accompagnano il cavaliere insieme a una corrente fluttuante e benevola: sono le forze interiori che spingono l'eroe a intraprendere la lotta per la felicità.
Ad attenderlo una serie di prove pericolose rappresentate dalle forze ostili: il gigante Tifeo e le sue figlie, le terribili Gorgoni prototipo della "femme fatale"; al di sopra Malattia, Follia e Morte, che riappaiono in La Speranza I e nelle opere di Schiele. Dall'altra parte, il gruppo di Lussuria e Impudicizia (quest’ultima ha il volto sensuale di Maria Janaich, una ballerina dell'Opera di Vienna) e Incontinenza, simile a un'illustrazione di Beardsley per la copertina di Alì Babà e i quaranta ladroni. Le segue Dolore struggente, figura femminile simile a un lemure spettrale.
Infine, L'anelito alla felicità si placa nella poesia: altre figure fluttuanti simili alle creature di Toorop lo accompagnano verso la Poesia che suona la lira: è il culmine della composizione. Qui l'uomo potrà far riposare il suo animo stanco e trovare infine la verità che si risolve in un abbraccio fraterno e liberatore (anche se inquietanti spire avviluppano le gambe dei due personaggi); purificato rispetto alle passioni degli amanti di Amore, più spirituale rispetto a Il bacio e all'Abbraccio di Palazzo Stoclet.
La narrazione è conclusa da un coro di moderni angeli bizantini che intona lo schilleriano Inno alla gioia; morbidamente serrate nello spazio, le divine creature citano nella posizione dei corpi e delle mani, nonché nella sospensione dei piedi, L'eletto di Hodler e rappresentano un sottinteso omaggio al grande artista.
Qui l'eroe ha terminato il suo viaggio e ha placato il suo animo; Klimt invece tornerà sul tema in Il cavaliere d'oro (ovvero La vita è un combattimento) opera esposta nel 1904 a Dresda con Pesci d'oro, due ulteriori chiare risposte alle critiche del pubblico: l'artista-eroe continua dunque a lottare.
L’ ATTESA
Dopo la grande esperienza collettiva della XIV mostra della Secessione (1902), compiuta ma effimera "opera d’arte totale", nel 1905 si presenta agli artisti viennesi un’opportunità davvero unica di dare forma concreta e permanente all’utopico sogno di integrare arte e vita: il Palazzo Stoclet.
Come un illuminato principe rinascimentale, il magnate del carbone Adolphe Stoclet commissiona a Josef Hoffmann la costruzione della propria dimora, non ponendo alcun limite di spesa. Hoffmann coinvolge nella progettazione dell’edificio l’intero gruppo della Wiener Werkstätte, che cura ogni minimo dettaglio fino alla perfezione formale, e affida a Klimt la decorazione della sala da pranzo. La costruzione del palazzo si conclude nel 1911: ogni aspetto, dall'arredo ai giardini, è concepito in armonica consonanza con la totalità.
Nel quadro della sobria ma effettiva regalità dell’impresa, attuata nello spirito di un’estetizzante rarefazione formale, il Palazzo Stoclet oltre a essere il capolavoro di Hoffmann si pone come uno dei più significativi episodi dell’arte del Novecento, tanto dal punto di vista architettonico che come insuperato esempio di integrazione delle arti. Paradossalmente, quest’autentica apoteosi della Secessione viennese non sorge a Vienna, ma a Bruxelles.
Il fregio che Klimt disegna per la sala da pranzo viene magistralmente realizzato in mosaico, dietro sue precise indicazioni, dagli artigiani della Wiener Werkstätte. Consta di tre pannelli: due, di m 2 x 7,40, sulle pareti lunghe, e uno isolato sulla parete di fondo della sala. I pannelli principali presentano il medesimo motivo decorativo, un albero d’oro dalle innumerevoli ramificazioni a spirale, nel quale è inserita la raffigurazione dell'Attesa su di uno, e dell'Abbraccio sull’altro.
Klimt considerava il mosaico Stoclet come la sua massima opera di carattere ornamentale: in effetti, abbandonati a causa della destinazione privata e borghese del palazzo i complessi simbolismi del Fregio di Beethoven, i pannelli Stoclet non sono altro che una raffinata e preziosissima decorazione, realizzata con la tecnica più adatta a tradurre le concezioni artistiche klimtiane.
Derivando spunti formali dall’antico Egitto, da Bisanzio, dal Giappone, nel Fregio Stoclet Klimt racconta un’esile quanto fascinosa "favola bella": tra i racemi dorati dell'albero della vita una fanciulla attende l’amato, cui infine si ricongiunge appassionatamente.
L’effetto complessivo (a giudicare dalle poche fotografie, in quanto il Palazzo Stoclet è rigorosamente inaccessibile) è di magica sontuosità, cui contribuisce non poco il lusso e la varietà delle materie utilizzate: marmo, rame, oro, pietre dure, maiolica, corallo. In questo senso il Fregio non soltanto rappresenta la ricchezza del committente, ma la "materializza": basti pensare che i soli materiali costarono 100.000 corone, quando per Il bacio di Klimt, artista peraltro assai caro, ne vennero pagate 40.000.
A Vienna sono visibili i magnifici cartoni del Fregio, cui si accompagnano due bozzetti a scala ridotta che mostrano l’evoluzione da un'iniziale schema esclusivamente geometrico-decorativo a un’ambientazione, per quanto astrattizzante, delle due scene. Nella redazione definitiva, l'Abbraccio rappresenta una versione stilizzata dell’analogo gruppo del Fregio di Beethoven1, a sua volta ulteriormente rielaborata nel contemporaneo Bacio.
Anche nelle figure del Fregio Stoclet vi è il contrasto, tipico del "periodo d’oro" di Klimt, tra il trattamento naturalistico dei volti e delle braccia e l’astratto appiattimento decorativo delle vesti. Qui, nell’uso delle figure geometriche, Klimt sembra anticipare il linguaggio simbolico delle forme che Kandinskij, appena qualche anno dopo, avrebbe tentato di codificare: così come nell'Attesa1 la veste è composta da forme triangolari, che suggeriscono tensione, nell'Abbraccio dominano le forme ovali e quadrate, che indicano appagamento.
All’astratto pannello isolato, una pura decorazione geometrica su fondo oro, è affidato il compito di mediazione tra lo stilizzato mondo figurativo del Fregio e il rarefatto spazio architettonico in cui è inserito.
"Via da Vienna!": disgustato dalle pesanti accuse e dalle infinite polemiche suscitate dai suoi pannelli per l’Università, Klimt non volle che i mosaici Stoclet fossero esposti a Vienna prima di lasciare la bottega della Wiener Werkstätte alla volta di Bruxelles. I suoi concittadini poterono ammirare i cartoni del Fregio solo dopo la morte del pittore, quando nel 1920 venne allestita una mostra in una galleria privata.
CAMPO DI PAPAVERI
Osservando il bellissimo Campo di papaveri klimtiano non possono non venire in mente gli analoghi soggetti dipinti da Claude Monet trent’anni prima, e che indubbiamente il pittore viennese conosceva. Ma la morbida stesura, densa di valori atmosferici, delle opere del maestro impressionista si traduce in Klimt in un formicolante trattamento pittorico simile alla tecnica del mosaico, dove per mezzo di una struttura decorativa composta di forme piatte combinate tra loro si attua il distacco dalla pittura intesa come illusionismo spaziale.
Nei campi di papaveri di Monet le figure umane sono solo una parte della natura, non più vive di questa: Klimt, come in tutti i suoi paesaggi, le abolisce del tutto, evitando il sia pur minimo spunto aneddotico o narrativo, e consacrandosi alla celebrazione di una natura lussureggiante e bastante a se stessa nel suo decorativo disordine organico.
Come in altri paesaggi klimtiani degli stessi anni, la linea dell’orizzonte è posta molto in alto e ciò che viene inquadrato è una porzione "qualunque" di terra, con il suo inesausto e anonimo pulsare vitale: vero protagonista è il "corpo" vibrante della Natura, sensuale come quello di una bella donna.
Già lo notava nel 1909 lo scrittore Peter Altenberg, entusiasta ammiratore di Klimt (nonché di Hoffmann): "Sei un vero, sincero amico della natura? Allora bevi con gli occhi in questi paesaggi: giardini di campagna, boschi di betulle, rose, girasoli, papaveri! Il paesaggio è trattato come se fosse una donna: è innalzato all’acme del suo romanticismo, trova la propria essenza, viene trasfigurato e reso visibile agli occhi senza gioia degli scettici! Gustav Klimt, uno strano miscuglio di forza primitiva e romanticismo storico. Tuo sia il trofeo!".

VIALE NEL PARCO DELLO SCHLOSS KAMMER
I paesaggi di Klimt sembrano essere còlti col teleobiettivo: in realtà l'artista utilizzava talvolta un binocolo da teatro o addirittura un cartone con un buco al centro; voleva "afferrare" il particolare, il frammento interno alla visione, "intensificando" la messa a fuoco fino a creare un effetto di sospensione temporale.
In Viale nel parco dello Schloss Kammer i fusti dalla struttura nodosa si levano verso l'alto, le fronde e le foglie formano una fitta trama cromatica; solo sul fondo nel bagliore luminoso si può riconoscere, "frammentato", il portone di una casa dal tetto rosso.
Qualche anno prima, nel 1906 a Vienna una grande mostra aveva celebrato l'estro di Vincent van Gogh; da quel momento in poi l'eco delle sue opere riecheggia nei paesaggi e nei fiori di Klimt. Talvolta si tratta di dettagli, talvolta si riverbera con fare più contenuto e decorativo come nel caso di La casa del guardaboschi oppure è tutto l'insieme a esserne influenzato.
Un'intensa vibrazione interiore percorre infatti quest'opera: la natura lussureggiante è "contenuta" all'interno del formato quadrato; la prospettiva è "abbreviata"; la pennellata "serpeggia" lungo i tronchi ben delineati, è ritmata e convulsa, animata da un coagulo di tensioni sentimentali e psicologiche. Permane il clima magico e sospeso di paesaggi precedenti come Schloss Kammer sull'Attersee III o Casa colonica nell'Alta Austria, ove la vegetazione opulenta è resa attraverso un tocco Neoimpressionista e decorativo al tempo stesso.
I fiori, i frutti e le foglie appaiono trasformati in ricchi stilemi con motivi simili ad anelli, mentre una "macchia" colorata sul fondo, il tetto, ricorda più il rosso vibrante di Campo di papaveri, che non una vera architettura: è significativamente riassorbita nel ciclico rinnovarsi della Natura.
E, come le donne, anche la natura si riveste di un tappeto musivo screziato, è una creatura viva e palpitante: Klimt la "blocca" nell'attimo dell'esplosione della vita e della bellezza, la rappresenta come un mondo magico e rasserenante. Esclude significativamente l'uomo, ma ne riammette, a partire all'incirca dal 1908, con Schloss Kammer sull'Attersee I le creazioni, le "mute" architetture.
Il senso di disfacimento e di precarietà assente dal mondo klimtiano (o occultato con sapienza) riemerge invece nei dipinti di Schiele in opere quali Alberi autunnali: la natura rigogliosa diventa infatti improvvisamente arida, l'atmosfera è cupa e inquietante, gli alberi spogli sono tesi verso l'alto quasi in muta preghiera.
CASE A UNTERACH SULL’ ATTERSEE
Klimt si trovava in quel periodo a Unterach sul lago di Attersee; dal momento che amava dipingere en plein air ha quasi certamente realizzato quest'opera "servendosi" di una barca e della consueta "tecnica": un binocolo da teatro o forse un cartone con un foro al centro in modo tale da "inquadrare" l'immagine.
Che si tratti di fiori, giardini o paesaggi la visione è data sempre dalla messa a fuoco di un frammento, una sorta d'ingrandimento fotografico, che renda il senso di vita interiore che anima la natura. Klimt dipingeva in queste condizioni però solo quando era sicuro di non essere disturbato, essendo straordinariamente sensibile a qualsiasi forma di interruzione.
In questo paesaggio, "particolare" della più vasta veduta proposta in Pendio montano a Unterach, assistiamo alla progressiva semplificazione della natura e dell'architettura, a una loro riduzione in forme geometriche semplici e linee nitide e pure, secondo un procedimento molto simile a quello di Chiesa a Unterach sull'Attersee.
Klimt contemporaneamente realizzava numerosi ritratti come quelli di Elisabeth Bachofen-Echt e di Friedericke Maria Beer, stranamente però mentre si sono conservati un gran numero di disegni e schizzi dei suoi ritratti e allegorie, non esiste nulla riguardo ai paesaggi, come se Klimt non avesse mai preso un "appunto" o realizzato uno schizzo a riguardo. È come se egli non ne avesse mai avuto bisogno, come se fosse automatico penetrare nel silenzioso segreto della vita, cogliendone in intima assonanza le infinite e indicibili sfumature. Una circolarità simbiotica tra sé e una natura immota, vibrante, infinita.
In Case a Unterach sull'Attersee in particolare Klimt continua a operare con il formato quadrato, che annulla il senso di "dimensionalità" dell'opera, insieme alla resa di scorcio che appiattisce le case (sorta di figurine bidimensionali) che s'inerpicano lungo un viale estremamente scosceso, ma privo di qualsiasi profondità. La composizione è geometrica, lineare, simile in questo a Chiesa a Cassone sul lago di Garda, gli stessi colori e la stessa forte accentuazione del disegno, che ritaglia e costruisce le immagini, ricomponendole.
È evidente che il legame con il neoimpressionismo francese si va sfaldando, così come la suggestione delle opere di van Gogh, palese in Viale nel parco dello Schloss Kammer, s'allontana.
Case a Unterach sull'Attersee rivela l'intenso scambio tra Klimt e altri artisti come Schiele in Città al tramonto II ove compaiono le stesse identiche finestre trasformate in inquietanti fessure (simili a occhi funesti) o in Villaggio tra gli alberi ove si rivela l'uso di una tavolozza vivificata da cromatismi intensi.
ADAMO ED EVA
Quando Hoffmann progettò il salotto dell'abitazione di Sonja Knips scelse Adamo ed Eva come centro focale dell'ambiente e le opalescenti cromie (dai rosa più delicati alle tonalità più raffinate) del suo ritratto, per armonizzare la composizione, persino i sedili di color carminio spento, con l'eburnea bellezza di Sonja, vista dall'architetto come una sorta di "Eva klimtiana".
In Adamo ed Eva non c'è più la coppia di amanti di Amore e Il Bacio, non c'è l'ardente passione e il desiderio dei corpi, ma un'atmosfera di appagamento dei sensi e soprattutto di armoniosa corrispondenza spirituale. La donna ha un volto addolcito nell'espressione e nell'opulenta rotondità, emerge da un piedistallo di fiori, il capo è reclinato da un lato come ne La vergine e poi La sposa, ma gli occhi cristallini sono ben aperti sul mondo. La linea del disegno corre veloce attorno al suo diafano corpo, come appare evidente anche in uno schizzo, esaltato dalla "scura fisicità" di Adamo e dai cromatismi vivaci della decorazione.
Eva rappresenta forse l'aspirazione a quel mondo primigenio ormai perduto e il superamento di quella battaglia tra i sessi, che compare in maniera ossessiva invece in dipinti quali La donna e la morte di Schiele. La donna è protettiva e rassicurante nei confronti di Adamo e veglia sul suo sonno; o, forse, è la sua stessa emanazione, non più fisica, ma onirica, colta nel momento stesso della creazione.
Un velo di mistero avvolge comunque i dipinti di questi ultimi anni, i cosiddetti dipinti "filosofici", rimasti per lo più incompiuti. In quest'ultima fase infatti tutto sembra "mescolarsi", ma non c'è compiacimento edonistico ed è difficile credere che Klimt tentasse semplicemente di occultare le pieghe più spiacevoli dell'esistenza. Sembrerebbe piuttosto delinearsi una nuova fase di disincanto: i ruoli tra i due amanti si ribaltano e, mentre l'uomo sogna, Eva recupera la propria autocoscienza, non è più la seduttrice languida o la sirena distruttrice, ma una nuova creatrice per l'umanità.

LA SPOSA
La sposa può considerarsi più che un testamento artistico una sorta di magico puzzle lasciato irrisolto, misterioso e suggestivo, sintesi creativa rispetto al passato e premonizione di forme future. Una fotografia dell'epoca ce lo mostra ancora nello studio di Klimt accanto a Signora con ventaglio.
Al centro della composizione vi è la fanciulla con il capo reclinato e il sorriso sognante: è forse la medesima donna còlta in una "dimensione onirica" ne La vergine, di cui costituisce infatti il naturale "pendant". Klimt rappresenta il momento di un delicato trapasso e la figura è salda eppur sospesa tra i due gruppi: a sinistra si snoda un coacervo di corpi simile a quello di Vita e morte; mentre lo splendido nudo di spalle con la testa mollemente occultata da cromatismi geometrici è un palese riferimento iconografico (ma probabilmente non solo) a Pesci d'oro.
Dorme dolcemente il bimbo che rimanda significativamente all'altro dipinto "filosofico" dello stesso ciclo, mentre una figura maschile (forse la stessa di Adamo ed Eva) scruta la sposa inconsapevole. Ella è pronta per il distacco e il dono di sé, sembra muoversi sospinta da una figura dionisiaca, metafora in qualche modo del risveglio dell'eros. Alcuni disegni e studi preparatori rivelano l'intenzione di Klimt di rappresentare un ermafrodito forse per esprimere la potenza di un'unione primigenia e totalizzante, al di là della divisione dei sessi e dunque perfetta.
Dall'analisi del dipinto, che rimase incompiuto, sembrerebbe che l'artista abbia disegnato con grande attenzione lo splendido corpo della donna per poi rivestirlo solo successivamente d'un abito finemente decorato. Non si sa se questo fosse il suo modo di procedere abituale: forse l'artista voleva descrivere solo per sé il sensuale splendore di quei corpi femminili oppure, più semplicemente, la linea e il disegno incarnavano per Klimt l'essenza stessa della creazione pittorica, come appare evidente in uno schizzo e in un disegno preparatorio, opera già conclusa in sé.
La sposa rimane comunque un dipinto enigmatico che lascia irrisolti molti quesiti; probabilmente un'opera di transizione aperta a nuove possibilità creative, come dimostra anche il Ritratto di Johanna Staude.
FAGGETO I
Simile a un lago è per Klimt l’interno di un bosco: come Isola sull’Attersee, anche Faggeto I è una visione sospesa nel tempo; un frammento "qualunque" di natura in cui non sono narrati avvenimenti ma è la natura stessa che, semplicemente, racconta di sé e del suo infinito presente.
Nei primi paesaggi di Klimt ricorre più volte il motivo dell’iterazione verticale dei tronchi d’albero, inquadrati senza che si vedano le fronde. Appena accennato in Casa colonica con betulle, diviene il tema dominante in opere di poco successive come Abetaia I e Abetaia II, dove la chiusura dell’orizzonte non produce un senso di oppressione ma, al contrario, crea una sorta di spazio interno pervaso dalla quiete della vita autonoma della natura.
In Faggeto I ricompare, molto alta, la linea dell’orizzonte, e l’attenzione si concentra sull’autunnale brulichio cromatico del terreno, scandito dal fitto parallelismo decorativo degli esili tronchi. Scrisse un contemporaneo di Klimt che "la sua potenza primigenia colpiva la gente, soprattutto le donne, e in sua presenza si avvertiva fortemente l’elemento terra": e la terra appunto, con la corrente organica che la percorre e il suo ciclico susseguirsi di crescita e disfacimento, sarà la protagonista dei successivi paesaggi klimtiani, a partire dal bellissimo Bosco di betulle, ripreso da un punto di vista quasi "immerso" nella terra stessa.

CASA COLONICA CON BETULLE
Pur essendosi dedicato tardivamente al paesaggio, Klimt non lo abbandonerà più nel corso degli ultimi venti anni della sua attività, tanto che i paesaggi rappresentano numericamente un quarto dell’intera sua produzione. Tranne qualche rarissima eccezione, tutti i paesaggi di Klimt ritraggono diversi aspetti della bella regione lacustre dell'Attersee, nell’Alta Austria, dove dal 1897 il pittore trascorre i tre mesi estivi in compagnia della sua compagna Emilie Flöge e della sua famiglia. Le estati trascorse sull’Attersee sono periodi sereni, scanditi da ritmi lenti e dedicati allo svago e al lavoro: abbigliato delle sue immancabili tuniche, il pittore compie lunghe passeggiate e gite sul lago, oppure dipinge "en plein air", abbozzando direttamente l’opera sul posto, dalla barca o nei prati, per poi terminarla nell’atelier.
In Casa colonica con betulle, uno dei primissimi paesaggi di Klimt, già compaiono molte delle caratteristiche che saranno costanti nella sua vasta produzione paesaggistica successiva: il formato rigorosamente quadrato, l’orizzonte collocato al limite estremo della tela (di solito in alto), la totale assenza dell’uomo.
Lo spazio pittorico, centrato sul vibrante prato verde, è scandito e attraversato dagli esili elegantissimi tronchi delle betulle, che creano un leggero e sapiente gioco di linee dal sapore tipicamente Art Nouveau. Il motivo degli alberi, di cui vengono inquadrati solo i tronchi sottili e mai le fronde, ricorre spesso in questa prima fase paesaggistica di Klimt: boschi di abeti, di betulle e di faggi che, con il fitto parallelismo dei loro magri tronchi, creano effetti decorativi di altissima suggestione.
Va ricordato che Casa colonica con betulle è stato donato assieme ad altre due opere (Ritratto frontale di signora e Il melo II) alla sede attuale nel 1961 dal produttore cinematografico Gustav Ucicky, uno dei figli illegittimi di Klimt. Nato da una delle sue molte modelle occasionali, forse una lavandaia, Ucicky fu uno dei quattro a esser riconosciuto figlio del pittore tra le quattordici persone che, all’indomani della morte di Klimt, si erano presentate in tribunale come suoi figli naturali e avanzando, ovviamente, diritti sull’eredità.
CAPPELLO NERO
Come nel Ritratto di signora con cappello e boa di piume dipinto l’anno prima, anche nel Cappello nero l’effigiata non è una signora dell’alta società viennese, ma una semplice modella: ciò consente a Klimt di cogliere con più immediatezza la spontaneità dei gesti e delle espressioni, senza ricorrere alla preziosa ieraticità con la quale, nei ritratti precedenti, celebrava algide e distanti donne-idolo.
Il bellissimo Cappello nero si differenzia dagli altri ritratti di questo periodo per la totale assenza di decorazione e per le smorzate tonalità, che creano un raffinato gioco cromatico di bianco su bianco sul quale spicca la grande forma nera del cappello. In uno studio preparatorio il nero, colore raro in Klimt, invadeva anche l’abito della ragazza, che ancora non ha assunto l’affascinante naturalezza del suo pensoso atteggiamento.
Innegabile, anche se reinterpretata con una sensibilità tutta mitteleuropea, è nel Cappello nero l’influenza di Toulouse-Lautrec, le cui opere Klimt aveva potuto conoscere alla mostra della Secessione del 1903, e con maggiore ampiezza nel viaggio compiuto a Parigi alla fine del 1909. Dipinti del maestro francese quali La rossa in caraco bianco o, ancor più, la celebre Modista, fornirono certamente delle indicazioni al pittore viennese, il quale, pur attraversando un periodo di ricerca e di transizione stilistica, produce in questi anni alcuni autentici capolavori.
Il Cappello nero di Klimt fu a sua volta occasione di suggerimenti per il giovane Schiele, come dimostra una cartolina disegnata per la Wiener Werkstätte, sempre nel 1910, nella quale sembra di riconoscere la stessa modella klimtiana con il medesimo cappello. Ma Schiele sta ormai per affrancarsi definitivamente dall’ammirato maestro; e la composta, ma tesa, posa della ragazza della cartolina è già pronta a deformarsi nello straziante urlo espressionista.
NEONATO
"I tuoi bimbi dormienti sono frutto dell'abbandono più dolce e nobile e la loro vista può commuovere l'animo di madri giovani e sensibili!" così scrive Peter Altenberg nel 1917.
Neonato è uno degli ultimi lavori di Klimt, rimasto incompiuto alla sua morte. Se è vero che si tratta di uno dei pochi lavori dell'ultimo periodo in cui il soggetto appare in posizione orizzontale è anche vero che, trattandosi di un neonato, non vi erano molte alternative.
Ciò che appare più interessante è la sperimentazione stilistica che Klimt compie sul dipinto, "stravolgendo" il formato quadrato con un audace assetto compositivo per cui la testa rosea del bambino appare al vertice di una piramide colorata con una prospettiva che accentua fortemente la veduta dal basso. L'uso dello schema compositivo triangolare spesso utilizzato con scopi costruttivo-decorativi come nel caso de L'attesa, La Speranza II o de Il ritratto della baronessa Elisabeth Bachofen-Echt trova in questo dipinto la sintesi definitiva.
Già in Medicina era presente la delicata e tenera immagine di madre col bambino; la stessa quiete rasserenante dell'abbraccio si riverberava in Le tre età della donna, anche se turbata dalla crudezza del nudo di vecchia. E a un analogo turbamento inducevano le inquietanti e malefiche presenze che attendono l'arrivo del nascituro in La Speranza I, mentre in Vita e morte si aveva la sensazione che il bimbo venisse quasi sospinto nella direzione opposta rispetto all'orribile creatura.
Di tutto ciò rimane in questa immagine il candore del bimbo, il suo sguardo vòlto a seguire i movimenti di chi lo rassicura con la sua presenza (chiaramente esterna al dipinto), ma soprattutto la capacità d'intensità psicologica di Klimt unita a un'esplosione di colore, di movimenti interni zigzagati, fatti di luci delicate e contrapposizioni coloristiche intense: l'arancio con il blu, il rosso con l'azzurro e ancora il giallo e il viola. Il tutto vòlto a creare preziose trame ondulate che salgono e sembrano quasi sostenere il bimbo in una culla (questo è l'altro titolo) fatta esclusivamente di colore.
Klimt realizza un abile e tenero gioco compositivo ben lontano dalla violenza espressionista dei bambini di Schiele o del Bambino con le mani dei genitori di Kokoschka: qui infatti mani di personaggi con le "carni di gelatina", come le definiva Trakl, "tendono" la loro creatura verso un futuro ignoto e minaccioso.
VITA E MORTE
L'opera iniziata probabilmente nel 1908, subisce un mutamento significativo tra il 1911 e il 1915: l'originario fondo oro viene sostituito con uno verde-blu, inoltre nuove figure dall'andamento più sinuoso vengono inserite nella composizione.
Non è da escludersi che questo ripensamento sia da mettere in relazione, oltre che con un periodo di profonda crisi interiore, anche con l’impressione suscitata dalle opere di Matisse, esposte nel 1909 insieme ad altre di Gauguin, Toorop, van Gogh, ma anche di Bonnard, Vuillard, Vallotton alla Internationale Kunstschau Wien, presieduta dallo stesso Klimt.
Vita e morte segna il trapasso dallo "stile dorato" e dall'ornamentismo di opere quali il Ritratto di Adele Bloch Bauer I a forme che si realizzano in una riconquistata spazialità, resa dalla carica fisica ed emotiva del colore.
La riflessione sul tema della vita, che si realizza nel perpetuo mutamento delle cose, nel legame inscindibile tra la nascita, l'amore e la morte torna in quest’opera con rinnovato vigore dopo essere stato affrontato in opere come Medicina.
La composizione si svolge in entrambi i dipinti in modo molto simile: una figura isolata si contrappone a un groviglio di corpi, secondo uno schema costruttivo riproposto in La vergine e La sposa. In Vita e morte tale groviglio si risolve in un insieme di figure che sembrano schiudersi l'una sull'altra all'interno di un involucro protettivo, quasi "uterino", intarsiato di frammenti cristallizzati colorati; mentre l'immagine isolata di Igea, la sacerdotessa del pannello Medicina, è ora sostituita da un'altra ben più inquietante: la morte. Anche in Medicina appariva la lugubre effigie, indistinta però all'interno del gruppo, "relativizzata" come qualsiasi altro elemento dell'esperienza umana; ora, invece, diviene la vera e propria antagonista dell'uomo.
Klimt la rappresenta in modo alquanto originale: se infatti da una parte conserva la tradizionale immagine della testa umana trasformata in teschio (secondo un'iconografia che affonda le sue radici nel tardo medioevo), dall'altra il corpo scheletrico "indossa" una veste dalla bizzarra decorazione: una sorta di "patchwork" di croci, che a ben vedere annulla ogni effetto di possibile drammaticità.
E infatti non c'è dramma, né tensione: Klimt, attraverso una commistione di simboli di vita e di morte, segue il trascorrere delle stagioni dell'uomo nella loro circolarità: ciò che è evidente è la forza primigenia della natura che irrompe nell'abbraccio collettivo in cui si risolvono tutte le figure, còlte in una sorta di languida sospensione; la stessa rappresentata, con un carattere più spiccatamente onirico, in La vergine.
La tensione dinamica del gruppo contrapposto alla figura della morte è poi improvvisamente bilanciata dalla figura femminile a sinistra, che non appariva nella prima versione: ella si volge, spalanca gli occhi e fissa il suo sguardo, quasi amoroso, nei bulbi vuoti e dilatati della morte; ella porta le mani verso il volto, non sembra ritrarsi né appare spaventata: forse si sta chiedendo se è proprio a lei che l'orribile creatura si sta rivolgendo.
A livello iconografico sembrerebbe una moderna meditazione sul tema "la morte e la fanciulla", affrontato in alcune straordinarie opere da Hans Baldung Grien agli inizi del Cinquecento, secondo una tradizione che sopravvive e verrà ripresa con drammatica icasticità da altri artisti viennesi, in particolare da Schiele in un'opera del 1915-1916 dal titolo La morte e la ragazza.

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