Le Variazioni Goldberg

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Le Variazioni Goldberg

Le ultime opere di Johann Sebastian Bach mostrano una complessità artistica niente affatto casuale. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, la sua prolificità si riduce ed il suo impegno si concentra su poche opere, non solo perché egli è consapevole di essere “fuori moda”, ma soprattutto perché egli stesso si impegna a lasciare una sorta di “testamento spirituale”. Infatti, sentendosi un po’ come l’unico “sopravvissuto” di un’ epoca passata, quale poteva essere considerato il Barocco, ed in particolare lo stile di Bach (più vicino ai maestri fiamminghi rinascimentali che a Corelli e Vivaldi), in piena età illuministica (Gould 1993), si ritiene l’erede di un mondo musicale destinato all’estinzione e decide, quindi, di consacrarsi a quel mondo e costruire la sua Arca di Noè, concependo le sue opere secondo una prospettiva enciclopedica, come una sintesi di esperienze e tecniche che, senza di lui, sarebbero destinate all’oblio.
Questo «singolare “storicismo” bachiano» (Oliveri 2000, 3) comprende opere decisamente essoteriche e di gradevole ascolto come i Concerti Brandeburghesi, le Sonate e Partite per violino solo, le Suites per violoncello, ma raggiunge il suo apice in opere estremamente complesse ed esoteriche come l’Offerta musicale e l’Arte della fuga, molto vicine, per la destinazione a un pubblico competente, alla musica reservata cinquecentesca.
L’opera BVW 988, nota col nome di Variazioni Goldberg, sembra appartenere ad entrambi i gruppi e a nessuno, infatti non è stata espressamente concepita per esecuzioni nei più importanti salotti musicali dell’epoca, ma è molto gradevole all’ascolto, non appare complessa come le ultime due opere di Bach.
La storia della nascita di quest’opera è tutt’ora al confine tra leggenda e realtà. Ci tramanda Forkel, uno dei primi biografi di Johann Sebastian Bach e tra i più accreditati grazie alla collaborazione dei figli del compositore, di cui poté avvalersi, che il conte Carl Von Keyserlingk, intorno al 1740, commissionò al musicista una serie di «pezzi da far suonare al suo Goldberg (giovane clavicembalista di corte N.d.R), che fossero insieme delicati e spiritosi, così da poter distrarre le sue notti insonni» (Forkel in Buscaroli 1985, 1000).
La veridicità del racconto è stato, tuttavia, messa in discussione a causa di un ricco compenso di cui parla Forkel, una coppa d’oro che, però, non fu mai trovata. Inoltre, se davvero l’opera fu commissionata a Bach dal conte Keyserlingk, avrebbe dovuto essergli dedicata, ma questa dedica non appare da nessuna parte. Dunque potrebbe anche trattarsi di un’opera scritta precedentemente dal compositore e poi “tirata fuori” all’occasione, ad ogni modo, in assenza di circostanze chiare, ognuno può decidere di credere a ciò che vuole. Da parte mia, trovo molto suggestiva, nonché “romantica” l’immagine di un giovane ragazzo seduto al clavicembalo, magari un po’ pallido e sonnecchiante, costretto a suonare solo per tenere compagnia al suo patrono.
L’opera è costituita da 32 brani, il primo dei quali è un’aria bipartita di 32 battute, intitolata, appunto, Aria; seguono 30 Variazioni e nuovamente l’Aria alla fine.
La caratteristica dell’intera opera è che le variazioni non interessano la melodia, bensì il basso che la sostiene. Innanzi tutto si tratta di un basso particolare, non è né un basso di ciaccona né di passacaglia (che possiedono una formula scandita ed ostinata), è un basso noto come «Gagliarda italiana» (Basso 1983, 692), che si vede continuamente variato, abbellito, frantumato e ricostruito, mentre l’Aria vera e propria, ossia la voce superiore, viene ogni volta inventata da capo. Proprio a sottolineare questa caratteristica, il titolo originale che Bach diede all’opera è Aria con diverse variazioni, e non Aria variata, titolo che aveva dato ad un precedente ciclo di variazioni (Carapezza 1985, 8).
Nel periodo in cui fu composta quest’opera, il genere che andava di moda era la suite, ed effettivamente si nota un lieve “profumo” di suite nelle 32 composizioni: la forma bipartita che si riscontra in tutti i pezzi, la riconducibilità di alcuni alle forme di danza stilizzate proprie della suite, quali la giga, la sarabanda, la corrente, la gavotta. La caratteristica che, però, la distingue nettamente da una suite è la successione dei singoli brani, che non segue un moto rettilineo, ma al contrario quello circolare. La particolarità più straordinaria delle Variazioni Goldberg, infatti, è proprio la forma di circonferenza che assume via via che si procede nell’ascolto. È come se l’intera opera fosse concepita attorno all’idea di “perpetuo”, qualcosa che non ha né inizio né fine e che può, quindi, ricominciare daccapo infinite volte durante una notte. Infatti il compositore «non sapeva […] se e quando il conte Keyserlingk si sarebbe addormentato» (Carapezza 1985,10).
Così il “finale a sorpresa” dell’opera è l’improvvisa ricomparsa dell’Aria, come ultimo brano, dopo l’ultima variazione. Riascoltandola a questo punto, però, sebbene l’Aria sia assolutamente identica, la sensazione che abbiamo è molto strana; nella sua evoluzione in 30 tappe, l’Aria, che dapprima sembrava fragile e indifesa, sembra essere cambiata, cresciuta, maturata, ha mostrato le sue potenzialità e, dopo tutto quello che ha dimostrato di saper creare, ha acquistato una nuova forza, e quando la ritroviamo lì, alla fine, ci rendiamo conto che, in realtà, i veri fragili siamo noi.

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