La scrittura

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Testo

LA SCRITTURA
INTRODUZIONE 3
PARTE I 6
1. LA SCRITTURA NEL VICINO ORIENTE ANTICO NEL III E II MILLENNIO 6
2. LA SCRITTURA IN EGITTO 12
3. LE SCRITTURE ALFABETICHE 16
4. LA SCRITTURA GRECA 19
4.1 I PRIMI DOCUMENTI E IL MONDO EGEO 19
4.1.1 Scritture dell'area egea 21
4.2 L'ORIGINE DELL'ALFABETO GRECO 28
4.2.1 Uso della scrittura 34
4.2.2 Evoluzione della scrittura 37
4.3 DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA GRECA 40
5. DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA NELL'ITALIA E NELL'EUROPA ANTICA 42
5.1 LA SCRITTURA ETRUSCA 43
5.2 SCRITTURE ITALICHE ENCORIE 46
5.3 LA SCRITTURA LATINA 52
5.3.1 La scrittura umanistica 63
5.4 DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA LATINA 65
PARTE II 68
1. DALL’ORALITÀ ALLA SCRITTURA: INTERPRETAZIONE 69
2. CHE COS’È UN TESTO? 77
3. LA TRIPLICE MIMESIS 86
4. L'IDENTITÀ NARRATIVA 95
5. IL SÉ E L'IDENTITÀ PERSONALE 98
6. IL SÉ E L'IDENTITÀ NARRATIVA 106
CONCLUSIONI 112
BIBLIOGRAFIA 115
Introduzione
Cinquemila anni fa nasceva la scrittura e da allora non si è più smesso di scrivere, quasi fosse un bisogno, come bere o mangiare. Si è scritto, si scrive e speriamo si continuerà a scrivere, per piacere o per necessità, per far conoscere il proprio pensiero o per tenere i conti, per narrare delle storie o per ricordare cosa fare domani.
Tanti sono gli usi e spesso anche gli abusi della scrittura, ma a nessuno è mai venuto in mente di intitolare una via o fare una statua a quello che è il primo prodotto della scrittura, il Libro; questa cosa, a prima vista inanimata, ha un potere di gran lunga superiore a quello dell’uomo, ché vince la morte e a distanza di secoli, attraverso le sue pagine, può dare vita e azione e pensiero a personaggi e fatti che ormai non sono più.
È per questa capacità dei libri e della scrittura di far vivere ciò che non è più, di dare anche solo un velo di eternità all’anima di colui che ha scritto che ho scelto di elaborare la mia tesi su questo argomento, osservandolo dalla sua prospettiva storica e filosofica.
Come dicevo, nella Parte I di questo lavoro ci soffermeremo sulla storia della scrittura antica nel bacino del Mediterraneo, dalla scrittura cuneiforme a quella latina. Ho scelto di restringere il campo della mia ricerca all’elaborazioni scrittorie del Mediterraneo per un motivo interiore: quest’ultime sono il centro del mio interesse specifico, perché mi hanno sempre incuriosito profondamente i “primi passi” di questo affascinante fenomeno che è la scrittura; ho potuto così soddisfare un desiderio che avevo da molto tempo.
Nella Parte II, ci occuperemo dei problemi filosofici che comporta la scrittura. Ci baseremo sulle analisi di Paul Ricoeur, egli affronta la tematica in chiave ermeneutica, evidenziando, da un lato, i
tratti della parola viva suscettibili di alterazione nel passaggio dall’oralità alla scrittura; dall’altro come la scrittura, nella fattispecie il testo, possa aiutare a dispiegare il racconto di una vita, cioè possa accrescere la consapevolezza e la comprensione di sé del lettore che rilegge se stesso alla luce del mondo che il testo progetta.
Parte I
La prima parte del nostro lavoro, come dicevamo nell’introduzione, è dedicata a una rassegna storica della problematica della scrittura. Iniziamo, dunque, dal Vicino Oriente e poi, passo passo, ci sposteremo fino a considerare la diffusione della scrittura nell’Italia e nell’Europa antica.
Ci serviamo di materiali scelti nella vasta produzione sull’argomento, di cui daremo notizia nel corso del lavoro.
1. La scrittura nel Vicino Oriente antico nel III e II millennio
Il sistema di scrittura dall'elaborazione più antica è l'ortografia cuneiforme apparsa all'inizio del terzo millennio a.C. Questa scrittura veniva usata per registrare la lingua della stirpe sumerica che abitava la Mesopotamia inferiore e cioè “la terra tra i due fiumi” del Tigri e dell'Eufrate nel loro corso verso il Golfo Persico. Il supporto di tale scrittura – come rileva Jack Goody – erano tavolette d'argilla umida sulle quali “lo scriba imprimeva la punta triangolare di uno stilo di canna affilato”. Quando l'argilla si asciugava, la tavoletta veniva archiviata oppure spedita al destinatario1.
Nelle tavolette più antiche i segni “non sembrano distribuiti in modo predeterminato nella superficie scrittoria”; il loro numero è molto alto, e – dice Jack Goody – presenta “oscillazioni anche all'interno di uno stesso testo”. Sono “convenzionalizzati” il materiale della scrittura – le tavolette e lo stilo di canna – ma anche la forma del tracciato, a cuneo; molti dei segni sono ancora riconoscibilmente “pittografici”, ma altri non più.
Là dove possiamo osservare un parallelismo tra scrittura e lingua vediamo che i singoli segni vengono usati come “logogrammi”: un segno sta per la parola; il passo successivo è che un segno serva per quella parola ma anche per altre, “omofone o quasi”, come nei nostri rebus moderni; questo principio può essere “sistematico” fino a disporre di un segno grafico non per una serie di parole, che “limita grandemente le possibilità di combinazioni”, ma per una serie di sillabe; ogni parola può essere scomposta in sillabe. Ma il percorso che porta dalla scrittura per immagini alla scrittura fonetica è lungo; infatti la lingua scritta, che via via si veniva a consolidare, non necessariamente deve essere pensata come “riflesso speculare” di quella parlata, ma bensì come una “specifica modalità mentale”. I segni tracciati avevano, inizialmente almeno, “un forte valore di supporto mnemotecnico” che rendeva la lettura più agevole integrando anche elementi non presenti nello scritto.
L'avvento della scrittura cuneiforme appare il risultato della necessità economica. I primi documenti sumerici non hanno alcuna attinenza con la “comunicazione” come la intendiamo oggi abitualmente, e neppure con la trascrizione di “miti orali” o con la composizione di poesie. Si tratta di mere liste di oggetti, di transazioni commerciali, di vendite di terreni. Tali registrazioni generalmente erano legate agli antichi centri di culto o di corte, e pertanto si riferiscono alle proprietà e ai conti dei templi. Sembra che questa situazione si sia protratta per i primi cinquecento anni della storia della scrittura: le uniche eccezioni erano alcuni testi scolastici.
Pur essendo nato per una lingua determinata, il sistema grafico del sumero venne poi “felicemente adattato alla notazione di altre lingue” – come fa notare Giorgio Raimondo Cardona – certo per la “mediazione di scribi plurilingui”, cioè quelle figure che avevano un ruolo determinante nel passaggio di una scrittura da una comunità all'altra2. È il problema della traduzione, problema attualissimo dal momento che nessuna “lingua artificiale” è riuscita a rispondere all’esigenza di un esperanto capace di rendere tutte le sfumature di senso delle lingue vive. Lo scriba o letterato plurilingue che, conosceva un sistema di scrittura, questo stesso sistema adattava dall'una all'altra lingua da lui conosciuta, e lo modificava via via secondo le necessità. In questo modo la scrittura cuneiforme fu adottata e adattata per scrivere le proprie lingue da molti popoli del Vicino Oriente antico: Ittiti, Accadi, Urartei, Assiri, Babilonesi, Persiani.
L'andamento della scrittura cuneiforme è verticale, e da destra a sinistra, fino alla prima metà del II millennio; a partire dall'epoca cassita si diffonde in Mesopotamia un andamento orizzontale della scrittura da sinistra a destra. Per giustificare questo cambiamento si è ricorsi a una spiegazione tecnica, legata a un aumento delle dimensioni della tavoletta: Giorgio Raimondo Cardona fa rilevare come una tavoletta piccola può essere impugnata in una sola mano e questa posizione si presta al tracciato verticale; ma usando tavolette più grandi, con testi più lunghi, anche il modo di impugnare la tavoletta avrebbe dovuto cambiare ed è allora che si sarebbe cominciato a disporre i segni per righe orizzontali3.
2. La scrittura in Egitto
I primi documenti di scrittura in ambito egiziano risalgono all'età predinastica tarda o "tinita" (forse 3000-2850 a.C.). Il documento più antico è la cosiddetta “tavolozza di Narmer”, una lastra di scisto trovata a Hierakonpolis, l'odierna Kom el-Ahmar in Egitto che celebra la vittoria del sovrano N3rmr sui nemici del Basso Egitto. Seguendo le indicazioni di Giorgio Raimondo Cardona vediamo che i segni egiziani (per i quali è invalso il nome di geroglifici, “lettere sacre incise” dato ad essi dagli scrittori greci) possono assumere tre valori differenti:
* un valore logografico: un segno sta per la parola di cui esso rappresenta il referente;
* uno fonetico: un segno sta per i suoni della parola di cui esso rappresenta il referente;
* uno pittografico: il segno sta a specificare quale si intenda, tra le varie parole di stesso suono4.
Ne risulta un sistema volutamente complesso, in cui una parola è suggerita da prospettive diverse. Ma insieme c'è un'evidente cura per l'aspetto estetico figurativo dei segni.
Se nelle prime epoche i segni sono allineati con una certa libertà, già con la II dinastia si afferma una “serie di regole compositive che presiedono all'impaginazione dei simboli”: i segni sono disposti in quadrati successivi, da destra a sinistra o anche da sinistra a destra, in verticale o in orizzontale; gli esseri animati guardano sempre verso l'inizio della riga di scrittura; i vari segni si inseriscono sempre all'interno di un modulo basato sui sottomultipli del quadrato (intero, mezzo, un quarto), senza lasciare “antiestetici spazi vuoti”. Questa impaginazione fa sì che il “tessuto” stesso del testo, oltre ai singoli segni che lo compongono, abbia un “valore estetico decorativo e ricopra in maniera omogenea pareti, basamenti, oggetti”5.
Sempre seguendo il cammino di Cardona, vediamo poi che ben presto ai geroglifici si affiancò un “sistema secondario”, che permetteva di realizzare segni con pennello e inchiostro. Questo riduceva molto gli aspetti figurativi e otteneva una scrittura “di tipo corsivo”, anche se “pur sempre accurata e di scuola”; è il cosìddetto “ieratico”, d'uso non monumentale.
Dallo ieratico, poi, progressivamente si viene ad elaborare una forma autonoma, il “demotico”, che serve anche a trascrivere una varietà di lingua diversa, il neoegiziano; esso si allontana ancor di più dall'aspetto figurativo del geroglifico e a questo concorrono anche le tecniche di realizzazione, più semplici e povere, che prevedono l'uso del calamo a becco in luogo del pennello.

3. Le scritture alfabetiche
Esistono due interpretazioni sull'origine dell'alfabeto. In base alla prima, l'invenzione risale a circa il 750 a.C. in Grecia, nel periodo immediatamente anteriore ai grandi esiti attinti dalle civiltà ionica e ateniese; stando alla seconda, l'invenzione è da ascriversi ai Semiti occidentali.
Da alcuni punti di vista – secondo quanto mette in evidenza Cardona – tanto l'una quanto l'altra prospettiva sono corrette, facendo riferimento la prima a un alfabeto completo, la seconda a un alfabeto consonantico. Comunque l'importanza della cultura greca per la successiva storia dell'Europa occidentale ha condotto gli studiosi a “sopravvalutare” l'aggiunta di specifici segni vocalici al gruppo di segni consonantici che era stato precedentemente sviluppato in Asia occidentale. Il sistema consonantico stesso, “come dimostrano l'ordine e la forma dei segni”, fu realizzato dai parlanti cananeo, una lingua semitica; e “l'elaborazione della notazione vocalica” da parte dei Greci non è altro che un adattamento minore.
L'alfabeto consonantico si è dunque sviluppato in un'area situata tra le antiche civiltà della scrittura dell'Egitto e della Mesopotamia, tra una popolazione, quella dei Cananei, che parlava lingua semitica e abitava la Siria e la Palestina prima della venuta degli Israeliti, dai quali è difficile distinguerla. La scrittura protocananea probabilmente si sviluppò sotto l'influsso dei geroglifici egizi. “Aiutati dalla struttura morfologica della loro lingua”, i Cananei seppero escogitare alfabeti consonantici, uno basato su caratteri cuneiformi, l'altro lineare. Questa scrittura lineare nota come protocananea, si diffuse largamente nella tarda Età del Bronzo: dal Sinai meridionale a Biblo, città costiera di Canaan; sembra fosse la più comoda per scrivere su papiro, pergamena e materiali del genere6. La nostra conoscenza di Canaan dipende soprattutto dai testi cuneiformi di Ugarit, poiché della scrittura lineare resta assai poco.
Furono i Fenici i primi ad adottare l'alfabeto cananeo nel 1400, seguiti poi dagli Ebrei (dodicesimo-undicesimo secolo a.C) e subito dopo dagli Aramei.
Pertanto la scrittura protocananea è la progenitrice comune delle varietà fenicia, ebraica e aramaica. Intorno al 1500 a.C. essa doveva consistere di ventisette lettere pittoriche, ridotte poi a ventidue nel tredicesimo secolo: a quel tempo quasi tutte le lettere avevano mutato la loro forma originaria per assumerne una lineare; a metà dell'undicesimo secolo la direzione della scrittura si era stabilizzata da sinistra a destra7.
4. La scrittura greca
4.1 I primi documenti e il mondo egeo
Fino alla fine del secolo scorso e fino agli scavi di H. Schliemann8, lo scopritore di Troia, il "miracolo greco", la straordinaria fioritura in ogni possibile manifestazione dello spirito umano, “splendeva” – come si esprime Cardona – in “assoluto isolamento”. Infatti quel che si conosceva delle altre civiltà del mondo antico non era talmente cospicuo da mostrare “fili e raccordi” che “spiegassero passaggi di temi e invenzioni”; ora, mentre tutte le letterature hanno periodi iniziali “oscuri e faticosi”, la letteratura greca esordiva con “il fulgore di una supernova”, e cioè con i poemi omerici. Quello che Cardona ha definito un lento viaggio di avvicinamento attraverso le scoperte archeologiche, che andavano svelando nuovi luoghi, nuovi testi, nuovi miti, ha consentito di determinare i contorni dello “scenario” intorno ai Greci, e quindi i rapporti con la scienza mesopotamica e gli avvenimenti storici di cui i poemi omerici sono l'eco. Il confronto con la letteratura epica ancora vivente in altre regioni ha permesso di riconquistare, a partire dalle analisi di A.B. Lord e Milmam Parry, “l'ampio spazio dell'oralità poetica” che precede la fissazione della scrittura. Ma le cose si presentavano diversamente, secondo i nostri autori, quando si indagava intorno alla scrittura greca dove continuava a “rimanere il nulla”: che cosa c'era sul territorio greco prima delle più antiche manifestazioni dell'alfabeto? Gli scavi a Creta e nelle altre isole egee, sul continente, a Micene e Tirinto hanno lentamente portato alla luce, frammento su frammento, singoli documenti (ma in qualche caso interi archivi di palazzo) che hanno cominciato a colmare “l'immenso vuoto lasciato alla nostra immaginazione”9. I documenti più antichi sono quelli di Creta e assumono varie forme, alcune delle quali non sono ancora del tutto trasparenti, e in alcuni casi decisamente enigmatiche.
4.1.1 Scritture dell'area egea
Per buona parte del II millennio sono state usate nel mondo egeo, a Creta e sulla Grecia continentale varie forme di scritture, che non sono tutte connesse tra loro. Creta cominciò ad essere abitata dal 6000 a.C., e verso il 2800 vi approdarono popolazioni provenienti dall'Anatolia nord-occidentale. La fondazione dei primi palazzi della civiltà minoica: di Cnosso, di Festo, di Kudonia, di Mallia risale al 2000 a.C. e qui sorgono i principali centri palatini della civiltà minoica, attorno ai quali si organizza una fiorente vita economica. I Minoici commerciavano attivamente e scambiavano materie prime preziose con l'Egitto e il Vicino Oriente antico, e questo facilitava l’apprendimento di tecniche prima sconosciute, come la lavorazione della pietra. Inoltre bisogna sottolineare il fatto che tutti i popoli con cui i Minoici avevano contatti commerciali già conoscevano forme di scrittura.
Le manifestazioni di forme di scrittura che ritroviamo a Creta sono numerose; già nei sigilli del Minoico antico III (2200 a.C.) sono usati elementi che, come fa notare Cardona, possiamo definire “forme grafiche” e che comunque vediamo ricomparire, anche se “non sappiamo se con identico valore” quattrocento anni più tardi. Comunque, i diversi sistemi di scrittura si svilupparono con la fondazione dei primi palazzi, verso il 2000 a.C., e quando si assistette al “sorgere di specifiche esigenze funzionali”: queste forme di notazione dovrebbero infatti aver avuto origine – come possiamo leggere in Cardona – dalle necessità “contabili ed amministrative” legate alla gestione dei palazzi di Cnosso, Mallia e Festo. Gli storici, inoltre, suggeriscono che ciò sia avvenuto forse anche per influsso delle scritture orientali, anche se non è riscontrabile “nessun rapporto preciso di forme”.
La cosiddetta “scrittura geroglifica” è attestata da un insieme di circa trecento documenti, duecento sigilli in pietra, metallo, avorio, e poi cretule10, tavolette e altri oggetti in pietra e in avorio; ma non ci sono elementi per leggerla. Contemporaneamente alla geroglifica era usata a Creta un'altra scrittura, la cosiddetta lineare A. Anche in questo caso gli storici si basano su quasi millecinquecento documenti che poggiano su grande varietà di supporti e materiali: tavolette, cretule, ceramica, pietra, metallo. Lo scopritore della civiltà minoica, sir Arthur Evans, pensava che il geroglifico fosse alla origine della lineare A, e questa a sua volta del terzo tipo di scrittura, la lineare B; ma, come rileva Cardona, la compresenza di geroglifica e lineare A negli stessi periodi e archivi e la corrispondenza di solo una dozzina di segni sui novanta circa che costituiscono i due inventari “fanno oggi escludere questa filiazione”. L’ipotesi che sembra più probabile agli interpreti è che quella geroglifica sia solo una scrittura specializzata, usata esclusivamente per i sigilli, i quali evidententemente avevano necessità di un testo diverso da quello di un documento di archivio11.
Verso la fine del Medio Minoico II B i Primi Palazzi vengono distrutti da un violento terremoto e vengono poco tempo dopo ricostruiti; la fase rappresentata dai Secondi Palazzi è anche l'acme della prosperità cretese. Per quanto riguarda la scrittura, la lineare A si diffonde in tutta l'isola e giunge fino alla Grecia continentale, sicuramente a Sparta, mentre la geroglifica scompare. La lineare A è ancora oggi indecifrata; non si conosce la lingua, detta convenzionalmente "minoico", e non è nemmeno da escludere che le lingue possano anzi essere due, una d'uso sacrale e una d'uso economico12.
Più recente, ma comunque formatosi antecedentemente alle prime attestazioni, è il cosiddetto lineare B: esso è conosciuto attraverso iscrizioni su tavole d'argilla negli archivi di palazzo di Cnosso, e dunque prima del 1370, cioè della data di distruzione del palazzo, ma anche, e soprattutto sul continente greco a Pilo, Micene, Orcomeno, Tebe, Tirinto, Eleusi, da tavolette o anfore ritrovate (1200 ca).
I Micenei dell'Argolide avevano stretti rapporti economici con i Minoici forse fin dal XIX o XVIII sec. Da essi appresero un gran numero delle loro tecniche e raggiunsero un notevole livello tecnico ed economico. Nel XVI sec. le loro necessità amministrative divennero analoghe a quelle dei palazzi cretesi, ed anche la trasmissione della scrittura sembra seguire lo stesso corso, determinato dal flusso di contatti economici e culturali tra le due popolazioni. La lineare B, che è stata ormai completamente decifrata nel 1952, grazie soprattutto a Michael Ventris13, si è rivelata un “adattamento formatosi sul continente greco verso il 1550, della lineare A per la notazione della varietà di greco parlata dagli Achei”14. Ogni segno lineare ha un “valore sillabico” e naturalmente, data la struttura della lingua greca che esso deve inscrivere, richiede un “certo grado di adattamento”: in greco sono infatti possibili dittonghi e nessi di consonanti: un nome come Alektrúwon Etewokleweios deve essere notato così: a-re-ku-ru-wo e-te-wo-ke-re-we-yo15. I testi micenei si sono rivelati documenti di ragioneria, inventari di persone in servizio, beni posseduti, registrazioni di beni in entrata e in uscita, di offerte ecc., tutto materiale che, come nota Cardona, si rivela “prezioso” per la ricostruzione della vita quotidiana e della struttura economica, ma non per quella degli eventi storici: “mancano del tutto i documenti relativi alla vita politica e alle relazioni con gli altri stati, e si pensa che essi potessero essere scritti su altri materiali, come papiro o pelli, più preziosi ma meno duraturi”16.
Tutte queste forme cadono in desuetudine con la fine dei regni cretese e miceneo, e tra questi e la comparsa dell'alfabeto greco si apre “uno iato non ancora colmato da nessun nuovo elemento di transizione”17.
4.2 L'origine dell'alfabeto greco
È ormai certo che l'alfabeto greco che noi conosciamo sia di origine fenicia. Gli elementi che giocano a favore di tale tesi sono diversi: la puntuale rispondenza nella forma, nel valore e nell'ordine dei segni; l'iniziale andamento sinistrorso della scrittura; gli stessi nomi semitici delle lettere (alpha, beta ecc.). Inoltre, in greco l'alfabeto è detto anche ta phoinikeia grámmata, ‘le lettere fenicie’. A queste prove dirette – secondo Cardona – se ne aggiunge una indiretta, e cioè che non è mai stata trovata finora scrittura greca alfabetica su tavolette d'argilla, materiale disponibile in Grecia e che di fatto era stato ampiamente usato per la scrittura micenea, ma che non era mai stato usato dai Fenici.
Quello che invece gli studiosi non sono riusciti a stabilire con altrettanta “certezza documentaria” è la data e la zona geografica in cui è avvenuta “l'adozione”. Sono state proposte tutte le date comprese tra i due estremi, 1500-1400 e 750 a.C. Tuttavia gli studiosi tendono ad eliminare sia le datazioni più alte che quelle più basse: le più alte perché allontanano l'adozione fin quasi all'età degli altri documenti micenei e cretesi, ma sembra assai poco probabile che siano scomparse del tutto le testimonianze di un sistema e si siano invece conservate in così grande numero quelle degli altri; le più basse sono ugualmente da scartare perché, secondo quanto afferma Cardona, “anche a voler ammettere che la scrittura sia stata adottata dai Greci quasi nello stesso periodo in cui noi la vediamo apparire per la prima volta, bisogna tener presente che le prime testimonianze appunto sono tutte entro l'VIII sec”18. È datata al 735-725 l'oinokhoe del Dipulon, al 740-720 lo skúphos di Nestore trovato a Pitekhoussa, nell'isola di Ischia; Pitekhoussa fu fondata nel secondo quarto dell'VIII sec. da Greci della Calcide e di Eretria, che avranno portato con sé una scrittura evidentemente già usuale e consolidata nel loro paese19. Il periodo più probabile è dunque quello tra il IX e VIII sec., poiché in questo periodo avvengono i più intensi scambi commerciali e culturali tra i Greci e i popoli stanziati nel Mediterraneo orientale: si pensi, ad esempio, al passaggio dallo stile geometrico a quello orientaleggiante nell'arte.
Per quanto riguarda la forma dei segni, Cardona afferma che potrebbe essere sufficiente cercare nella storia della scrittura fenicia il periodo in cui i segni mostrano il “massimo di rassomiglianza” con i primi segni greci, ma, egli aggiunge, evidentemente per spiegare il contatto non basta “un'intersezione di forme”. Perché un gruppo, che fino a quel momento è privo della scrittura e perciò ne adotta una da un altro gruppo, secondo il nostro autore, ci vorrà un “contatto prolungato, certo non episodico e superficiale come quello che può aversi tra gruppi che commerciano”20. La spiegazione “più verosimile” del processo dunque è quella che “meno si adatta alla mitologia del miracolo greco”, e cioè che non ci sia stata affatto invenzione da parte dei Greci, ma che, addirittura siano stati i Fenici stessi, già “padroni della scrittura alfabetica”, e già “in possesso di quei particolari meccanismi che fanno sì che a una certa lingua si sposino dei simboli grafici”21, a tentare l'applicazione anche al greco, che evidentemente avevano avuto occasione di apprendere anche perfettamente.
Comunque sia avvenuto il passaggio, un “luogo del contatto” deve esserci stato, e molti sono i luoghi che vengono proposti dagli studiosi: al-Minah, l'antica Poseideion, sulla costa fenicia; oppure l'isola di Cipro, dove i fenici avevano santuari e stazioni commerciali, e dove i Greci erano attirati dall'abbondanza di rame; altra possibilità ancora è l'isola di Creta.
I Greci non adottarono la scrittura fenicia per fini commerciali; i primissimi documenti di greco scritto in alfabeto greco sono infatti iscrizioni metriche. La principale caratteristica dell'alfabeto greco è quella di essere un alfabeto che segna consonanti e vocali alla stessa stregua, e non solo consonanti, come quello fenicio. Ci si è chiesti perché per il greco si sia sentita con “tanta precisione e immediatezza” la necessità di notare le vocali; una possibile risposta – dice Cardona – è che per i Greci la prima utilizzazione della scrittura avrebbe dovuto essere quella dei testi poetici, metrici (come di fatto appare dalle testimonianze), in cui “la presenza delle vocali è essenziale per la costituzione stessa del ritmo e del metro”22.
La diffusione dell'alfabeto greco nella Grecia può essere vista attraverso le varie forme locali, encorie23 che esso ha assunto da una città all'altra; nell'età arcaica le scritture delle varie città hanno una loro peculiarità che le rende riconoscibili. Solo in seguito, tra il VII e il IV sec., una sola ed unica forma di alfabeto si espande su tutto il territorio greco eliminandone progressivamente tutte le altre, ed è la varietà ionica, quella adottata originariamente dai Greci delle coste dell'Asia Minore; ad Atene l'adozione dell'alfabeto ionico nei documenti ufficiali è sancita con un decreto del 403-2 a.C.
4.2.1 Uso della scrittura
Le testimonianze dirette, epigrafiche, e quelle indirette ci mostrano che all'uso della scrittura “accedeva un numero relativamente alto di persone, certo non soltanto una classe di scribi e di letterati di professione”24; c'erano naturalmente in Grecia, come ovunque, “specialisti della scrittura”, che avranno eseguito per esempio le dediche nelle offerte nei santuari o le iscrizioni ufficiali delle leggi cittadine, ma è interessante rilevare che troviamo fin dalla fine dell'VIII
sec. documenti diversi per provenienza e materiale che “parlano decisamente in favore della presenza di scriventi di diversa appartenenza sociale”25. Le testimonianze quindi parlano in favore di un
certo grado di “alfabetizzazione diffusa”26, dal quale non erano escluse per esempio le donne. Di contro, è più difficile stabilire quando la società greca divenne una “società completamente letterata” nel senso che noi diamo al termine, una società cioè in cui “gli intellettuali si servivano della scrittura in tutte le fasi della produzione delle loro opere (stesura,correzione,lettura)”27 e di conseguenza venivano a conoscere il pensiero degli altri soltanto attraverso i libri, che potevano anche possedere essi stessi, e raccogliere in biblioteche. Gli studiosi pensano che questa trasformazione si sia completata soltanto negli ultimi decenni del V. sec. Ne danno testimonianza le opere platoniche, in cui la scrittura è ancora vista come un “qualcosa di nuovo che sta
prendendo piede” e contro i cui “pericoli” si deve ancora mettere in guardia. A questo proposito è altamente interessante il Fedro, in cui Platone critica l'eliminazione della parola viva del maestro, sostituita dal libro che non può rispondere alla domanda dell'allievo. La scrittura, insomma, come tutte le novità, spaventa e il filosofo teme che possa ridursi a un soccorso debole, poiché impedisce di concentrarsi sulla reminescenza, che aiuta l’anima a ricordare ciò che già aveva conosciuto nel Mondo delle Idee. Dice Platone:
“Questa (la scrittura) infatti produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché non fa esercitare la memoria. Infatti facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi.”28
Più avanti avremo di nuovo modo di incontrare questa difficoltà, poiché analizzeremo – attraverso l’opera di Ricoeur – i problemi legati al passaggio dal discorso orale a quello scritto.
4.2.2 Evoluzione della scrittura
Le forme più antiche di scrittura libraria sono quella dei frammenti orfici del papiro di Derveni29, in Tessalonica, che risale al 330 a.C. circa. Questa scrittura è legata alle forme epigrafiche, mentre quella del papiro di Abusir, nel Medio Egitto, del IV sec. a.C., è in
maiuscola lapidaria. Ma la documentazione è scarsa fino al I sec. d.C. Come fa notare Cardona, nei primi due secoli della nostra èra la “scrittura greca è rappresentata soprattutto da una forma di maiuscola molto accurata e geometrica”30. Poiché gli esempi migliori sono costituiti dai principali codici di testi biblici, G. Cavallo ha introdotto la dizione di “maiuscola biblica greca”. Lo sviluppo di questa scrittura corrisponde a due importanti “mutamenti tecnici”, che sono rappresentati dal passaggio dal rotolo al codice e dalla sostituzione del papiro con la pergamena (III sec.). Ambedue le modificazioni della tecnica scrittoria sono “tali da avere riflessi sulla forma stessa della scrittura”31. Le ultime forme di maiuscole sono la maiuscola ogivale e la rotonda liturgica.
Verso il II sec. a.C. la “greca documentaria” comincia a svilupparsi in senso corsivo e rimane autonoma fino al III d.C.; ma dal IV. d.C. per influenza del contatto con la scrittura dell'amministrazione romana, si può parlare di una “koiné grafica greco-romana per usi burocratici”32.
Nel secolo successivo si ha la “corsiva bizantina”, nella varietà documentaria e in quella corrente; la caratteristica più saliente di queste corsive è data dalle legature tra le lettere, con nessi speciali per gruppi di lettere, e dalla divisione tra le parole. Solo nel IX comincia la produzione di libri in minuscola, con lettere arrotondate e legate; dalla
varietà elaborata in quel periodo derivano tutte le varietà moderne33.
4.3 Diffusione della scrittura greca
Nel corso della sua storia la scrittura greca è stata adottata per notare un gran numero di lingue diverse.
La scrittura greca venne usata anche per notare l'illirico e per varie lingue dell'Italia antica come il messapico, la lingua degli Iapigi di Apulia e Calabria attorno al IV sec., testimoniata in iscrizioni, e il siculo. In epoca moderna è stato usato l'alfabeto greco per la varietà tosca dell'albanese, per il turco dei Greci di Caramania e per i testi dell'Italia meridionale in siciliano e calabrese.
La scrittura greca si diffuse anche a oriente, giunse fino in Battriana, dove la cultura di tipo ellenistico si incontrò con le culture buddiste; la più orientale iscrizione greca conosciuta è quella bilingue del re Asoka, in greco e in aramaico, datata al 158 a.C34.
5. Diffusione della scrittura nell'Italia e nell'Europa antica
Verso la fine dell' VIII sec., in una zona già da molti secoli particolarmente aperta e favorevole agli scambi come il golfo di Napoli, gli Etruschi vengono a contatto con i Greci delle Colonie, prevalentemente Euboici di Cuma e Pitekhoussa. Questo contatto coincide con una “fase di trasformazione delle strutture sociali ed economiche etrusche”, che va nel senso di “un'apertura più dinamica ai commerci e agli scambi in una dimensione mediterranea”35. Uno dei risultati più significativi di tale movimento è proprio l'adozione della scrittura. L'alfabeto, nella forma greca occidentale, comincia così a diffondersi tra i popoli dell'Italia antica.
5.1 La scrittura etrusca
Gli Etruschi, dunque, furono le prime genti italiche ad adottare l'alfabeto greco. La più antica prova di questo passaggio ci è fornita dall'alfabetario di Marsiliana, che è datato appunto al 700 a.C. Si tratta di una tavoletta d'avorio che porta inciso sul contorno un alfabeto completo, “modello di scuola ma anche, probabilmente, oggetto votivo”36. Gli Etruschi conservarono la serie alfabetica greca completa solo negli alfabetari; nell'uso testuale invece essi adattarono l'alfabeto alle specificità della loro lingua, abbandonando alcuni segni sentiti inutili per la notazione dell'etrusco.
A partire dal VI sec. l'alfabeto etrusco si diffuse in tutta l'Etruria propriamente detta, e poi a nord di essa e a sud, nell'Etruria campana, e in questo movimento si plasmò con l’assunzione di varianti locali. Sappiamo che l'insegnamento della scrittura era svolto soprattutto presso i santuari, come Pyrgi o Veii.
In lingua etrusca si è conservato un gran numero di testi, forse diecimila, tutti provenienti dall'Etruria. Le uniche eccezioni che possiamo nominare sono l'iscrizione di Lemno “dieci brevi righe scritte bustrofedicamente in un alfabeto greco del VI a.C. in una lingua molto vicina all'etrusco”37, le bende della mummia di Zagabria e un amuleto trovato a Cartagine.
Le iscrizioni più antiche sono bustrofediche38 e senza separazione di parole; ma la maggior parte sono sinistrorse con pause o punti tra le
parole. La più antica è la stele di Vetulonia (VII sec. a.C.). Si tratta per la maggior parte di testi funerari, assai brevi, spesso brevissimi, con prevalenza di nomi propri e formule stereotipe. Le bende di Zagabria sono l'unico esempio conservato dei libri lintei ricordati dagli autori classici39; il lino di uno di questi libri venne riutilizzato in Egitto per farne bende per avvolgere una mummia, e come rilevano gli studiosi solo “quest'uso improprio” ce lo ha conservato.
Inoltre vi sono iscrizioni su una quantità di oggetti, specchi, vasi, affreschi nelle camere funerarie.
5.2 Scritture italiche encorie
Tutte le manifestazioni a noi note in lingue italiche sono scritte in alfabeti di diretta derivazione greca, in alfabeti di derivazione etrusca,e infine e in misura minore, in alfabeto latino. I Messapi per notare la loro lingua si servirono di un adattamento dell’alfabeto greco, nella versione tarantino-ionica. In realtà anche questo alfabeto, “pur non essendo di immediata derivazione etrusca”40, poiché i Messapi erano al di fuori dell'influenza etrusca diretta, mostra “alcune affinità” con l'alfabeto etrusco41. In alfabeti greci di diversa provenienza sono notate le iscrizioni anelleniche di Sicilia, si tratta del siculo ( tipo euboico-calcidese), dell’elimo (tipo corinto-megarese) e del sicano.

Le altre lingue italiche si sono servite soprattutto dell'alfabeto etrusco: la varietà di alfabeto etrusco settentrionale di Lugano è usata per notare un gruppo di iscrizioni, che secondo gli interpreti, non sono più antiche del 400 a.C. e che sono distribuite nella zona dei grandi laghi dell'Italia settentrionale (Maggiore, Orta, Como, e Lugano). Poiché questa era la sede storica dei Leponzi – dice Cardona – “questo nome diamo alle iscrizioni e alla lingua che vi è notata e che sembra essere celtica”42.
Con il nome di “retiche” si definiscono le iscrizioni che all'incirca ricoprono il territorio della provincia della Rezia augustea, tra la Val Camonica a occidente, Padova a oriente e il Tirolo a nord. L'alfabeto è di tipo etrusco, ma si aggiungono alcune peculiarità. Anche gli abitanti di lingua indoeuropea del Veneto preromano assunsero la scrittura nella forma etrusca settentrionale, tra il VI e il I sec. a.C.; in venetico esistono un buon numero di iscrizioni funerarie e votive, da Este, Padova,Vicenza, Belluno43.
Vicina agli alfabeti etruschi settentrionali e al venetico è la grafia del norico, una lingua prelatina usata nella prima età imperiale accanto al latino e attestata da iscrizioni a Magdalensberg.
Come rappresentanti della scrittura nordpicena si assumono le iscrizioni di Novilara, rinvenute tra Pesaro e Fano e scritte in una lingua non meglio conosciuta.
Il falisco, parlato principalmente a Falerii veteres, odierna Civita Castellana, è testimoniato in iscrizioni su vasellame e stele funerarie; l'alfabeto è di derivazione probabilmente etrusca, anche qui con peculiarità della zona.
In una ventina di iscrizioni su stele, cippi, ciottoli è attestata una lingua detta convenzionalmente sudpiceno, o anche medioadriatico o sabellico. L'alfabeto è originariamente quello etrusco, ma con varie peculiarità, per esempio l'andamento “bustrofedico serpentino”, con “rovesciamento delle lettere”44.
L'umbro è rappresentato soprattutto dalle Tavole di Gubbio, il “più importante testo rituale di tutta l'antichità classica”, ritrovate nel 1444, e scritte in due alfabeti, l'uno in latino e l'altro locale di origine etrusca cortonese45.
L'osco è notato in tre diversi alfabeti, greco e latino, ed uno encorio di derivazione etrusca. Le popolazioni osche centrali della
Campania, del Sannio e dell'Irpinia hanno adottato nel V sec l'alfabeto delle città etrusche della Campania, creandone una loro “varietà nazionale a base etrusca”, e integrandolo poi “con l'uso di un modello accessorio greco”. Più tardi, le popolazioni osche della Lucania e del Bruzio e i Mamertini di Messina adottarono non questa scrittura campana, ma quella greca, evidentemente per un “sentimento di appartenenza al mondo ellenico, e creando così la varietà nazionale a base greca”46. Un caratteristico documento osco sono le "iovile", tavole di terracotta o tufo, proprie della cultura campano-sannita tra il IV e II sec. a.C. Sono così chiamate convenzionalmente a partire dalla parola , che vi compare frequentemente; il loro uso – come rileva Cardona – è incerto, probabilmente funerario47.
In vari casi, per esempio per le iscrizioni anelleniche di Sicilia, la “scarsezza e frammentarietà della documentazione rende estremamente difficile decidere se la singola attestazione faccia tipo a sé e dunque rappresenti una scrittura e magari anche una lingua non altrimenti conosciuta, o non si tratti invece di una semplice variante locale”48. Spesso le variazioni si risolvono in una “variante grafica”, oppure un segno scritto “specularmente” rispetto al tracciato normale, ma appunto per questo è difficile – secondo gli studiosi – delimitare con esattezza la portata di queste innovazioni o discrepanze. Pertanto a volte è proprio l'esame degli aspetti grafici ( delle formule, dei nomi propri ecc.) che “permette di avviare nello stesso tempo l'esame delle forme linguistiche che vi sono notate”49; ma altre volte non è possibile spingersi al di là dell'oggettivo esame della forma dei segni50.
5.3 La scrittura latina
L'alfabeto che chiamiamo latino è una trasformazione di quello etrusco; esso servì a notare soprattutto il latino, ma anche occasionalmente altre lingue dell'Italia antica, come venetico, osco, peligno, marrucino.
L'andamento delle prime iscrizioni romane è dapprima bustrofedico, poi destrorso e tale rimarrà; l'alfabeto repubblicano è di
ventun lettere, e tale rimane fino al I sec. Le uniche innovazioni fino a quel periodo sono la scrittura con delle parole che originariamente avevano tra vocali: siamo verso il 340 a.C. quando Papirio Crasso decide di scrivere il suo nome Papirius e non Papisius. L'atto formale con cui si sancisce che negli atti ufficiali si debba scrivere anziché tra vocali è del 312, quando era censore Appio Claudio. La necessità di notare con più esattezza le numerose parole greche entrate in latino farà sì che nel I sec. a queste si aggiungeranno alcune lettere, quali e 51.
Ma nel complesso “la scrittura latina mostra una sua stabilità che non si modifica nelle diverse epoche della sua storia”52.

Le forme arcaiche delle prime iscrizioni latine si conservarono fino alla prima metà del III sec.; con la metà di questo secolo, per influsso della scrittura epigrafica greca, si afferma nella scrittura romana una “forte componente estetica”. Dice Cardona: “Il disegno delle varie lettere della scrittura epigrafica viene reso più geometrico e normalizzato in modo da accentuare le simmetrie e le rispondenze tra lettere simili. Il canone dello stile monumentale è ormai definitivo nell'ultimo secolo a.C., e si conserverà poi in epoca augustea”53.
Accanto all'uso ufficiale e monumentale, la scrittura ebbe a Roma anche un uso privato, almeno dal V sec; quest'uso, che si basava sulla tecnica del graffito su materiali duri, portava a modificare le forme della lettera capitale in senso corsivo.
Anche la scrittura libraria romana ha origini antiche; sappiamo da varie testimonianze che nel periodo arcaico si scriveva su tessuto e pelle; ma la vera e propria “produzione libraria” comincia nel periodo repubblicano, in connessione con una vera pratica sociale della letteratura e delle attività legate alla scrittura e alla riproduzione dei testi. La varietà di scrittura usata in questa produzione libraria, la “capitale” detta impropriamente “rustica”, è vicina a quella epigrafica, ma “con le modificazioni e gli ammorbidimenti di tratto permessi dal calamo e dall'inchiostro”54. Le lettere, tutte fortemente geometriche, sono “abbellite con tratti terminali”, e mostrano “effetti di chiaroscuro” quali si possono ottenere solo con penna e inchiostro su materiali morbidi. La rustica è attestata dal I sec a.C. al VI d.C., per esempio nei papiri di Ercolano, e, nel IV-VI sec., in numerosi manoscritti di lusso commissionati dalla classe senatoria del basso Impero.
Accanto a queste forme, tra II e III sec a.C. ne emerge un'altra, con “caratteristiche minuscole”, che ha particolare importanza per la storia della scrittura perché la conformazione delle sue lettere è quella che diverrà poi abituale nel mondo occidentale, sia nelle scritture a mano che in quelle tipografiche.
Sempre nel III sec. vediamo affermarsi una scrittura documentaria d'uso più corrente, detta corsiva, perché “il calamo corre sulla superficie scrittoria distaccandosene il meno possibile”. Questa corsiva è attestata da una massa di materiali diversi: papiri, soprattutto di provenienza egiziana, tavolette cerate, graffiti, e iscrizioni private. Inizialmente si tratta di una maiuscola corsiva, ma già con le caratteristiche che noi attribuiamo alla minuscola (la forma di certe lettere, quattro linee di scrittura anziché due). La corsiva influenzò anche un nuovo tipo di scrittura libraria, anche per influsso delle coeve scritture librarie greche, l'onciale.
L'onciale è una scrittura particolarmente legata alla produzione libraria di contenuto cristiano, e rimase in uso fino all'XI sec., cioè fino alla riforma carolingia; altra scrittura usata tra il IV e il VII sec. per testi patristici, ma anche canonici e giuridici, fu la cosidetta “semionciale”, “una derivazione della minuscola libraria, più irrigidita e compressa”.
Nel V sec., con le invasioni germaniche, Roma e l'Italia vengono separate dal resto dell'Impero e viene a mancare “l'effetto unificante dell'amministrazione romana”; cominciano così a far sentire il loro peso le variazioni regionali, nel latino parlato così come nelle scritture usate. Verso il VII sec. si può già parlare di “varietà scrittorie locali”, così come poco tempo dopo possiamo già parlare di “varietà nazionali di lingua” (tra cui la prima attestata è il francese). Il VII secolo, epoca in cui prendono forma le scritture nazionali, può essere assunto come “spartiacque temporale” da cui far iniziare il Medioevo; il modello di educazione diventa ecclesiastico e non più secolare, la cultura non cristiana sparisce pressoché del tutto.
La scrittura nazionale insulare che si sviluppò in Inghilterra e Irlanda era basata sulla semionciale; nel VII sec. questa insulare in una varietà "arrotondata" ed una più "appuntita" si diffuse in Inghilterra contrastando l'espansione dell'onciale introdotta dai missionari. Sono in questa scrittura due famosi evangeliari, il Libro di Kells, irlandese, e il codice Lindisfarne, scritto in Inghilterra verso il 700, in arrotondata, e il Libro di Armagh, dell'807, in appuntita. L'insulare venne diffusa anche sul continente, ad opera dei missionari irlandesi e inglesi; nelle isole rimase a lungo la scrittura propria dei testi anglosassoni, anche quando la carolina divenne la scrittura dei classici latini, fino a scomparire del tutto nell'XI sec. con la conquista normanna.
La visigotica, o littera toletana, è la scrittura che si manifestò in Iberia a partire dalla fine del VII fino al XII sec. Questa scrittura sviluppatasi da una corsiva, ha molte “abbreviazioni e legature”, “tratti sottili”, “occhielli”.
In Italia, a partire dalla seconda metà dell'VIII sec., si sviluppa una scrittura nazionale della Longobardia minore, e cioè di tutta l'Italia centromeridionale direttamente o indirettamente influenzata dal dominio longobardo. Questa scrittura che è detta beneventana dal nome del Ducato di Benevento ha in realtà il suo centro principale nel monastero benedettino di Montecassino. La caratterizzano “visivamente” l'opposizione dei tratti sottili e di quelli spessi e l'effetto di "cordellatto". Spiega Cardona: “le aste verticali delle lettere che non oltrepassano le due linee guida della riga sono eseguite con due tratti della penna e non con un tratto unico, e possono arrivare a spezzarsi in due rombi l'uno sull'altro”55. I codici cassinesi sono anche caratterizzati dalla particolare cura dedicata “all'impaginazione del testo”; questo è frequentemente diviso su due colonne, con largo margine bianco, cosa che comporta quindi un maggior consumo di pergamena; i capoversi hanno una maiuscola ornata e tutti questi elementi, attentamente costruiti e pensati, concorrono a fare del libro un “oggetto fortemente investito di valori simbolici e sacrali”56. Resta di fatto che la produzione libraria in questo monastero era vista come mezzo di “arrichimento spirituale” in senso esteso.
La scrittura beneventana comunque non fu soltanto d'uso librario e monastico; nella sua diffusione (attraverso le dipendenze di Montecassino la cassinese si estese a tutta l'Italia centrale e alla Dalmazia) essa giunse a toccare la realtà urbana, la produzione documentaria, il laicato alfabeta. Un'indagine condotta su dati d'archivio salernitani, datati tra il 792 e l'899, ha permesso di individuare 488 diverse "mani"; tra questi scriventi solo 60 sono ecclesiastici, e 47 sono notai di professione57.
Altra scrittura nazionale è la merovingica, un insieme di tipi sviluppatosi in Francia .
Tra il VI e VII sec in molti centri culturali della Francia carolina si matura un tipo scrittorio comune , una littera gallica.
Questa scrittura si accorda molto bene alla riforma dell'insegnamento e della liturgia voluta da Carlo Magno e da Alcuino. In seguito alla riforma carolingia, alle varie scritture locali e regionali si va “definitivamente sostituendo nei primi dell'800 una scrittura d'uso corrente, che si diffonde al di là dei confini dell'Europa franca; la carolina si afferma non solo nelle carte private ma anche nei documenti di cancelleria”58.
Tra il XII e il XIII sec. dalla carolina si distacca un nuovo tipo, la scrittura che nei tempi moderni prese il nome di gotica, ma che per i contemporanei era la littera moderna; pur conservando “forma e ductus” della carolina, essa ne “ispessisce i tratti”, “aumenta le legature”, “elimina le curve” a favore degli “angoli vivi”, dei “tagli a becco”. L'uso della gotica coincide con “una nuova concezione del libro” come strumento di studio: basti pensare che in quegli anni nascevano le prime università. All'interno di uno stile complessivo, "gotico", si distinguono numerose varietà specializzate, molte dellle quali italiane; si ricorderanno la cancelleresca italiana (XIV-XV sec.), le litterae scholasticae, di uso universitario, come la littera bononiensis e la littera parisiensis, e la cosiddetta bastarda francese, propria della corte di Borgogna.
5.3.1 La scrittura umanistica
Gli studiosi del problema fanno notare che da Petrarca a Boccaccio, ai primi Umanisti, un arco importante della nostra letteratura è pervaso da un profondo interesse per le forme grafiche; Petrarca stesso fu un raffinato copista di molte sue opere59 e creò una sua varietà libraria semigotica, adottata dal Boccaccio e imitata da altri.
Così come consideravano “artificiose, poco chiare, non
armoniose” tutte le scritture per loro "gotiche", cioè altomedievali, gli “Umanisti apprezzavano grandemente le qualità estetiche della varietà carolina esemplificata nei codici che venivano riscoprendo nelle biblioteche conventuali”60. Soprattutto usata come libraria, questa scrittura umanistica ebbe anche una varietà corsiva, inclinata verso destra e con legamenti tra le lettere, che ebbe applicazione soprattutto nelle cancellerie tra la fine del XV e gli inizi del XVI.
L'invenzione della stampa si colloca nel momento in cui sono in uso più varietà scrittorie, ciascuna con sue specifiche connotazioni, e i primi caratteri “vengono esemplati su un tipo o l'altro” ( al gotico si rifece Gutenberg, per esempio) fino a che “i tipografi non cominciarono a disegnare essi stessi i loro caratteri”. I primi saggi a stampa “comprimono l'inventario di varietà calligrafiche e specializzate di ciascuna tradizione a favore di un dato tipo, che diventa in qualche modo quello canonico per la stampa in quel determinato carattere”61.
5.4 Diffusione della scrittura latina
Col diffondersi del Cristianesimo occidentale e della cultura latina si diffuse di pari passo in Europa anche la scrittura latina, e la storia di questa propagazione, come nota Cardona, è uno dei capitoli più interessanti della storia delle idee62. Molte lingue europee vennero
notate per la prima volta per iscritto proprio nella scrittura latina, per qualcun'altra esisteva una tradizione precedente che regredì di fronte alla nuova. È una storia che si distribuisce nell'arco di vari secoli, cominciando dall'irlandese, che fu tra le prime lingue ad essere notata in caratteri latini, e dall'ungherese per arrivare al suomi, o finnico, al romeno e al turco.
Dovunque l'adozione della scrittura latina – dice Cardona – fu un “processo colto e meditato, per nulla affidato all'improvvisazione o allo stimolo del momento, ma sempre originato da un progetto culturale definito, e poggiante su solide basi grammaticali e linguistiche, in cui aveva parte la conoscenza della tradizione grammaticale latina”63. È caratteristico infatti che, nel processo di adattamento a lingue sufficientemente diverse, “ben poche torsioni vennero esercitate
sull'alfabeto vero proprio”, non vennero inventati segni nuovi, e anzi “non venne addirittura modificata la forma dei segni esistenti”. Fin dove era possibile vennero “conservati i valori dell'alfabeto latino” (molte divergenze tra grafia e suono delle lingue europee sono dovute solo a successivi cambiamenti fonetici della lingua), e “invece di moltiplicare i segni si preferi utilizzare la possibilità di combinazione”64. Questo era un “espediente classico”: già i Romani erano ricorsi ai digrammi per notare alcuni suoni del greco a loro non consueti, e questo espediente venne riadottato e sviluppato.
Parte II
In questa seconda parte del nostro lavoro, ci soffermeremo sulle presupposizioni e sulle implicazioni teoretiche connesse al problema della scrittura. Ci baseremo sulle analisi di Paul Ricoeur, poiché egli affronta la tematica in chiave ermeneutica, mettendo in risalto, da una parte, gli elementi strutturali che il passaggio dalla oralità alla scrittura comporta; dall’altra, seguendo il cammino della scrittura a partire dalla intenzione di colui che scrive fino alla ricezione del testo da parte di colui che legge.
1. Dall’oralità alla scrittura: interpretazione
Tre sono, per Ricoeur, i tratti della parola viva suscettibili di maggior alterazione nel passaggio alla scrittura: “il rapporto tra il soggetto e il proprio discorso”, che nel discorso parlato si attua mediante la voce che “tace” – per così dire – nello scritto; “il rapporto del parlante con l’interlocutore” con la sua logica della domanda e della risposta; ma anche il “nucleo” stesso del “dire qualcosa su qualcosa” è condizionato dalla diversa esecuzione del discorso. Che il rapporto di colui che parla con colui che ascolta subisca una profonda trasformazione, nel momento in cui il discorso si “fissa” nella scrittura, è abbastanza evidente: ciò che cade è il “faccia a faccia”, l’immediatezza del dialogo, per cui il discorso diventa un messaggio indirizzato a “chiunque sappia leggere”. E chiunque sappia leggere in genere non conosce l’Autore dello scritto, che gli può essere estraneo sia per un diverso contesto geografico di appartenenza, sia per una distanza temporale che fa tacere l’autore ma non la sua opera. Strettamente connesso appare, allora, il problema della referenza del discorso scritto, del suo “dire qualcosa su qualcosa”: questo nella parola presenta “una costituzione a due facce" dal momento che locutore e interlocutore si riferiscono alla stessa situazione di discorso. Rispetto al “dire qualcosa”, la parola opera “una coincidenza fra l’intenzione di dire e il significato del detto”; coincidenza che, per esempio, l’ironia tende a nascondere: con le sue battute “il significato del detto smentisce l’intenzione del dire”. Intenzione che il passaggio alla scrittura nasconde ancora di più. Se, infatti, il fatto di parlare “di qualcosa” evidenzia “il carattere ostensivo della referenza”, in quanto “tutti i dimostrativi funzionano come mezzi per mostrare”, la lontananza instaurata dalla scrittura annulla la possibilità di un riferimento comune all’autore e al lettore. Ma questo, come vedremo, non significa per Ricoeur che venga abolita qualsiasi funzione referenziale del discorso, bensì che bisogna instaurare una referenza di secondo grado, la referenza cioè al “mondo dell’opera”. Mondo che l’opera propone al lettore e che il lettore potrebbe abitare su di un modo immaginativo. Più avanti, torneremo sull’argomento.
La comparsa della scrittura – ci fa rilevare allora Ricoeur – è un fatto culturale di portata “incommensurabile”. Di primo acchito sembrerebbe essere solo “un’estensione della parola grazie alla fissazione della parola in segni esteriori”65. Ma l’ampiezza dei cambiamenti politico-sociali che tale evento comporta e che vanno dal sorgere di un forte potere politico alla nascita dell’economia, della storiografia e della legge, fanno “sospettare” come tale fenomeno superi di gran lunga la semplice fissazione materiale. Insomma la scrittura non può essere un semplice supporto strumentale, ma segna l’atto di nascita di un nuovo modo di comunicazione. Si tratta dunque di un vero e proprio “cambiamento epocale”, per dirla con le parole di Heidegger.
Ricoeur inizia la sua riflessione affrontando le accuse contro la scrittura presenti nel Fedro di Platone. In questo dialogo si afferma che “affidare il discorso all’esteriorità dei segni si pone…contro l’autentica reminescenza, cioè il risveglio della verità nell’interiorità dell’anima”66,
E Socrate dice che la scrittura “erra” in cerca di un destinatario, cioè che è orfana. Egli sottolinea come:
“Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente. Lo stesso vale anche per i discorsi: potresti avere l’impressione che essi parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’intenzione di comprenderlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa.”67
Ribatte Ricoeur, partendo dall’ultima affermazione di Socrate, che le pitture non sono “smorti doppioni della realtà”, ma “occasione” e “strumento” di un “incremento di senso”; per esempio, le varie rappresentazioni pittoriche della crocifissione, da Rembrandt a Dalì, non fanno altro che essere delle nuove letture del fatto evangelico ed apportano nuovo significato alla nostra interpretazione dei Vangeli stessi. Così è anche per la scrittura che causa rispetto alla perdita della viva voce un “incremento del potere di dire”.
Ricoeur introduce quindi la nozione di “autonomia semantica del testo”, intendendo con questa la “triplice liberazione” che la scrittura rende possibile. Liberazione rispetto al parlante: “il testo non coincide più con ciò che l’autore ha voluto dire”, il lettore del testo può dare una lettura completamente diversa dall’intenzione dell’autore; liberazione rispetto all’interlocutore presente nel faccia a faccia: il testo viene così “offerto” ad un pubblico immenso; liberazione della referenza dalla situazione comune di discorso: se nel discorso faccia a faccia la referenza è legata all’ambiente, con la scrittura la referenza diviene il mondo. Ma di questo abbiamo già fatto cenno in precedenza.
Conseguenze dell’ “autonomia semantica del testo” sono: la “tessitura”, cioè “la composizione codificata che fa di un testo un’opera”68, e che si aggiunge alla scrittura; la “sedimentazione “ e la “stratificazione”: un testo nel suo stadio definitivo contiene la storia delle scritture che vi si sono sedimentate. Si tratta del fenomeno della “intertestualità”: un testo non tratta solo il proprio “tema” (eventi, fatti, cose, pensieri) nella chiusura del suo contesto proprio, ma si riferisce anche all’insieme dei testi che formano la letteratura, adottandone canoni, codici, stili.
Ricoeur conclude dicendo che nella lettura, il lettore dà compimento al senso del testo. Il lettore, così, prende il posto dell’interlocutore ormai assente e, con la sua interpretazione del messaggio dell’opera, contribuisce al suo incremento di senso. È quanto accade in occasione della lettura di un classico: nella sua interpretazione noi non ci rifacciamo soltanto all’opera ma anche alla storia delle sue interpretazioni. L’ “altro”, cioè il testo, prende il posto della “reminescenza” platonica. Vedremo più avanti (nel capitolo “La triplice Mimesis”) l’importanza che Ricoeur connette alla lettura e al lettore per dare senso e compimento al “destino” di un testo.
2. Che cos’è un testo?
In questo capitolo ci soffermeremo, con l’aiuto sempre di Paul Ricoeur, su alcune caratteristiche della scrittura, del testo, in rapporto alla parola fissata. Questo ci porterà ad analizzare il rapporto tra spiegazione e comprensione che così tanti frutti ha dato nella storia della filosofia e che aiuterà anche noi a cogliere nuovi risultati sul versante da noi studiato.
Un testo è “ogni discorso fissato dalla scrittura”. Ma che rapporto c’è fra testo e parola? Si sarebbe tentati di dire che “la scrittura si aggiunge ad una qualche parola anteriore”, e in effetti, se vogliamo utilizzare un vocabolario proprio della linguistica, la scrittura sta alla parola come la parola sta al “realizzarsi della lingua come accadere del discorso”. La scrittura inoltre sembra non “aggiungere nulla alla parola, è una parola fissata”, che assicura durata e conservazione nel tempo. Ma siamo proprio sicuri che la scrittura abbia a che fare solo con la fissazione di una “parola anteriore”? E invece, spesso non “iscrive direttamente nella lettera quel che il discorso vuole dire”, cioè il discorso non passa prima attraverso il linguaggio parlato, ma viene fissato direttamente con la scrittura. Nelle parole di Ricoeur “ciò che giunge a scrittura è il discorso in quanto intenzione di dire…la scrittura è una diretta iscrizione di questa intenzione”69. Con l’affrancarsi della scrittura dalla semplice fissazione dei segni e con questo mettersi al posto della parola, è segnato, per Ricoeur, l’atto di nascita del testo. La “liberazione” del testo dall’ “oralità” causa “un vero e proprio rovesciamento sia dei rapporti tra linguaggio e mondo che della relazione tra il linguaggio e le diverse soggettività coinvolte”70 (autore e lettore).
Per quanto riguarda il “rapporto referenziale tra linguaggio e mondo”, “nello scambio di parola i locutori sono presenti l’uno all’altro” e sono presenti anche “la situazione, l’ambiente, le circostanze del discorso”, solo in rapporto a quest’ultime il discorso è pienamente significante, tant’è che il linguaggio ordinario è ricco di “indicatori deittici” (dimostrativi, avverbi di tempo e di luogo, pronomi personali, tempi del verbo) che “servono ad ancorare il discorso nella realtà circonstanziale” che circonda il discorso.
La situazione cambia quando un testo prende il posto della parola. Si verifica allora un “occultamento del mondo contestuale”, la referenza, che nello scambio di parola era “ancorata” all’ambiente, ora è “sospesa”. Questo dà la possibilità al testo di “entrare in rapporto con tutti gli altri testi” che costituiscono la letteratura e creare così un “quasi-mondo dei testi”. Solo la lettura, “in quanto interpretazione”, realizzerà successivamente la referenza.
Per quanto riguarda il rapporto tra il linguaggio e la soggettività dell’autore e del lettore, si può dire che “l’autore è istituito dal testo”, poiché non si può più parlare di locutore, nel senso di “un’autodesignazione immediata e diretta”. Così vista, la nozione di testo “richiede un aggiornamento delle due nozioni di spiegazione e di interpretazione" e di una concezione “meno antinomica” del loro rapporto.
Dilthey è il primo ad elaborare la “dualità” di spiegazione e comprensione. O meglio, in Dilthey l’opposizione tra spiegare e comprendere è quella che c’è tra “due sfere della realtà”: la scienza della natura e la scienza dello spirito. Tra la “regione della natura” e la “regione delle individualità psichiche”. Dilthey vuole instaurare un parallelismo epistemologico, che consenta alle scienze dello spirito di avere un criterio epistemologico adeguato a quello delle scienze della natura. Se, allora, le scienze della natura si basano sulla spiegazione, le scienze dello spirito si dovranno basare sulla comprensione. La comprensione, precisamente, dei prodotti delle “individualità psichiche” estranee. L’interpretazione, a sua volta, è un settore particolare della comprensione, è “l’arte di comprendere” tutte le manifestazioni di cui la scrittura è il carattere “distintivo”:
“Nella coppia comprendere-interpretare, la comprensione offre il fondamento, cioè la conoscenza attraverso segni di uno psichismo estraneo al mio, mentre l’interpretazione conferisce il grado di oggettività, grazie alla fissazione e alla conservazione garantita ai segni dalla scrittura.”71
Negli sviluppi successivi del suo pensiero Dilthey tenderà a “depsicologizzare” sempre più l’interpretazione, per renderla più scientifica, non cercando più “la sua norma di intellegibilità nella comprensione dell’altro”. Ma allora, si domanda Ricoeur, non è necessario “smettere di considerare” l’interpretazione come un caso particolare della comprensione e riconsiderare l’interpretazione in rapporto con la spiegazione?
Per fare questo, il Nostro sostiene che oggi la spiegazione “non è più un concetto preso a prestito dalle scienze naturali…ma è trasferito dalla stessa sfera del linguaggio”72, dalla linguistica. Riprendendo l’analisi del testo, Ricoeur dice che davanti ad un testo noi lettori abbiamo due possibilità. La prima consiste nello spiegarlo “per mezzo delle sue relazioni interne”, della sua struttura, e riusciremo a fare questo solo con il “modello esplicativo strutturale”, la cui ipotesi di lavoro consiste:
“…nel riconoscere che in particolari condizioni le grandi unità linguistiche, cioè le unità di grado superiore alla frase, forniscono organizzazioni paragonabili a quelle delle piccole unità linguistiche, cioè le unità inferiori alla frase, quelle che propriamente sono di pertinenza della linguistica.”73
Facciamo un esempio. Nel caso del mito di Edipo, analizzato da Levy Strauss, si hanno quattro colonne che dividono le frasi del mito in quattro classi (rapporto di parentela sovrastimato, rapporto di parentela sottostimato, i mostri e la loro distruzione, i nomi propri il cui significato suggerisce una difficoltà a camminare diritto); queste quattro classi sono a due a due in relazione tra di loro. Questo evidenzia come “il mito appare…come una sorta di strumento logico che mette vicino delle contraddizioni per superarle”74. Questo metodo evidenzia la “logica delle operazioni che mettono in rapporto reciproco i fasci di relazioni; questa logica costituisce la legge strutturale del mito considerato”. Questo metodo però ci consente di spiegare il mito non di interpretarlo.
È con la seconda possibilità – che noi abbiamo come lettori – che possiamo interpretare un testo e così far “confrontare” spiegazione e interpretazione. La spiegazione strutturale non fa altro che restituire “ad un livello di ancora maggiore radicalità” gli interrogativi che il mito si pone. La sua “funzione” è quella di far apparire una “semantica profonda”, la “semantica viva” del mito. Essa è una “tappa” necessaria tra “un’interpretazione ingenua e un’interpretazione critica, tra un’interpretazione di superficie e un’interpretazione in profondità”75. È così, per il Nostro, che spiegazione e interpretazione si “ricollocano”su un unico “arco ermeneutico”:
“…spiegare è liberare la struttura, cioè le relazioni interne di dipendenza che costituiscono la statica del testo; interpretare è intraprendere il cammino di pensiero indicato dal testo, mettersi in marcia verso l’oriente del testo.”76
Cogliere l’ “oriente” del testo significa, come dicevamo in precedenza, far riferimento al mondo che esso descrive e al cui orizzonte il lettore può immaginativamente trasportarsi.
Da quanto siamo venuti dicendo, appoggiandoci sull’analisi di Ricoeur, è chiaro che il fenomeno della scrittura è considerato in chiave positiva, anche se non immediata, ai fini della comunicazione.
3. La triplice mimesis
In questo capitolo soffermeremo la nostra attenzione su quello che è uno dei principali lavori di Ricoeur, Tempo e racconto. L’ipotesi di base di questo lavoro, composto da 3 tomi, è che esista una “correlazione” tra l’attività di raccontare una storia e “il carattere temporale dell’esperienza umana” o meglio:
“…che il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, e che il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale77”.
Insomma si vuole trovare una mediazione fra tempo e racconto; e questo è possibile “costruendo il rapporto”, cioè spiegando il “processo concreto” attraverso il quale la “configurazione testuale” (che Ricoeur chiama mimesis II) fa da mediazione tra la “prefigurazione del campo pratico” (mimesis I) e la “rifigurazione attraverso la ricezione dell’opera” (mimesis III) o detto in parole povere, spiegando come la costruzione dell’intreccio media tra uno “stadio” dell’esperienza pratica che la precede e uno “stadio” della lettura che la segue. La mimesis aristotelica, mette in evidenza Ricoeur, è mimesis d’azione, essa cioè non riproduce un mondo statico quasi fosse uno specchio, ma l’azione cioè quel processo creativo che consente all’uomo di prendere l’iniziativa.
La “composizione dell’intreccio” è quindi, per primo, “radicata in una precomprensione del mondo dell’azione”, la quale è costituita da tre aspetti: “strutturali”, “simbolici”, “temporali”.
Per costruire un intreccio, che è una “connessione di fatti”, quindi di azioni, è necessario conoscere e dominare il “dispositivo concettuale” che sta alla base delle azioni: l’azione è fatta da Tizio, per questo motivo, con questo fine, in queste circostanze, con o contro Caio. Questa è la “competenza” che possiamo chiamare “comprensione pratica”. Ora questa comprensione pratica è in un rapporto con la comprensione narrativa di “presupposizione”, perché ogni racconto presuppone da parte del narratore e del lettore una “familiarità” con il dispositivo concettuale dell’azione, e di “trasformazione” perché ogni racconto “aggiunge” degli “aspetti discorsivi”, “sintattici” che lo distinguono da una semplice successione di frasi d’azione; esso esige così una “familiarità” con le regole di composizione che “reggono” l’ordine della storia.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello simbolico, c’è da dire che un’azione, potendosi raccontare, è “già articolata in segni, regole, norme”78, cioè è “mediata simbolicamente”. I simboli consentono di interpretare un certo comportamento, danno una prima “leggibilità” all’azione; per esempio, il gesto di alzare un braccio è inteso a seconda del contesto come un modo di salutare, di chiamare un taxi o di esprimere il voto. È così che i simboli consentono di parlare dell’azione di un “quasi-testo”.
Il terzo aspetto riguarda i caratteri temporali “sui quali il tempo narrativo innesta le sue configurazioni”. La comprensione dell’azione riconosce “nell’azione talune strutture temporali che richiedono la narrazione”79. Ricoeur a questo punto analizza il concetto heideggeriano di intra-temporalità con lo scopo di mostrare la “rottura” che questo concetto “opera” con la rappresentazione lineare del tempo, perché l’intra-temporalità riduce la Cura alla modalità del prendersi cura, modalità che rende più autentico il nostro senso del tempo, il quale se fosse legato solamente alle cose della nostra Cura sarebbe soltanto la misura degli “intervalli tra istanti-limite”. Egli, inoltre, vuole evidenziare come questo nuovo “grado” di temporalità consente “di gettare un ponte tra l’ordine del racconto e la Cura”, perché se il racconto è mimesis d’azione, cioè costruzione d’intreccio dato dalla configurazione di agenti, fini, mezzi, interazioni, circostanze, risultati inattesi, così la Cura è il progetto che, in quanto autentico, si configura nell’orizzonte dell’essere-per-la-morte.
Possiamo ora parlare della “configurazione” e della sua capacità di mediazione tra la “prefigurazione” e la “rifigurazione”. La sua funzione è mediatrice a tre livelli: anzitutto “fa mediazione tra eventi o accadimenti individuali e una storia intesa come un tutto”, cioè da una “diversità di eventi” ricava una storia sensata, “da una semplice successione ricava una configurazione; inoltre “compone insieme fattori così eterogenei come agenti, fini, mezzi, interazioni, circostanze, risultati inattesi”80, cioè lega tra di loro i vari elementi slegati che stanno al livello della prefigurazione e li costruisce in “intreccio”; media per una terza ragione, quella “dei suoi caratteri temporali propri”, cioè l’atto di costruzione dell’intreccio organizza “due dimensioni temporali”: “una cronologica e l’altra non cronologica”. La prima è la “dimensione episodica” del racconto, cioè la “storia in quanto fatta di accadimenti” che si svolgono nel tempo, a partire da un inizio, uno svolgimento e una fine. La seconda è “la dimensione configurante”, cioè l’atto attraverso il quale “l’intreccio trasforma gli eventi in storia”, l’atto attraverso il quale da una “diversità” di eventi si ricava “l’unità di una totalità temporale”. E la totalità temporale è quella di una vita raccontata, dove il tempo cronologico – il tempo dell’orologio, del lavoro, degli impegni programmati – si mescola con il tempo dell’anima disteso tra il passato e il futuro nell’attimo del presente, che li attualizza: come dice S.Agostino, c’è – un presente del passato – ed è il ricordo; un presente del futuro – ed è l’attesa; un presente del presente – ed è l’attenzione.
Affrontiamo ora l’ultimo stadio, quello della “rifigurazione”, stadio nel quale si segna l’ “intersezione” del mondo del testo e del mondo del lettore, l’ “intersezione…del mondo configurato dal poema e del mondo nel quale l’azione si dispiega e dispiega la sua specifica temporalità”81 attraverso l’atto di lettura, che può essere considerato come il “vettore della capacità dell’intrigo a modellare l’esperienza”, e questo può farlo perché l’atto di lettura “riprende” e “compie” l’atto configurante.
Tramite l’atto di lettura viene comunicato “al di là del senso di un’opera”, anche il mondo che l’opera “progetta” e che “ne costituisce l’orizzonte”. L’opera vuole portare a linguaggio e fare partecipi gli altri di una “esperienza nuova”, di un modo nuovo di vedere le cose, di rapportarsi col mondo e le persone. L’esperienza nuova, configurata nel racconto, si profila allora come il messaggio che riceve il lettore e che si scontra con la sua esperienza quotidiana, con la sua visione del mondo, con la sua vita. Il racconto, cioè offre al lettore un mondo che egli potrebbe abitare. Ne consegue che il lettore può rileggere se stesso alla luce di quel mondo e, così, anticipare le proprie scelte, le proprie valutazioni, i propri progetti. In questo senso, la letteratura diventa per Ricoeur un “laboratorio etico” in cui l’artista “realizza” e offre al lettore una “sperimentazione” con i valori, un laboratorio in cui delle “convenzioni” e “convinzioni” devono essere demolite, ma soprattutto dei problemi devono essere risolti in via ipotetica. Ricoeur parla accettando un espressione di Hans Georg Gadamer, di “fusione di orizzonti”, di “intersezione del mondo del testo con il mondo del lettore”. Afferma il Nostro inoltre che “è proprio alle opere di finzione che noi dobbiamo in gran parte la dilatazione del nostro orizzonte di esistenza”82; esse “ rappresentano la realtà accrescendola” grazie al loro raggiungere le radici dell’esistenza; esse riescono a svelare aspetti dell’essere della realtà che noi , indaffarati nella nostra vita quotidiana, non riusciamo a vedere, e così ci consentono di approfondire la nostra conoscenza del mondo, delle cose, ma soprattutto di noi stessi.
4. L'identità narrativa
L'identità narrativa non è l'identità "sostanziale" o "formale", cioè l'identità del "medesimo", ma è l'identità "compresa nel senso di un se stesso", è l'identità costitutiva dell'ipseità, che a differenza dell'identità astratta del medesimo, "include il cambiamento, la mutabilità, nella coesione di una vita"83. Questa "connessione" tra ipseità e identità narrativa, conferma una convinzione del Nostro, e cioè che "il sé della conoscenza di sé non è l'io egoista e narcisista di cui l'ermeneutiche del sospetto hanno denunciato l'ipocrisia e l'ingenuità"84, ma è "il frutto di una vita sottoposta ad esame", "chiarificata" attraverso le opere della cultura, una vita che attraverso la lettura dei testi ha trovato la propria identità.
È evidente che in questa impostazione funge la critica di Ricoeur a Cartesio, il quale, formulando la teoria del cogito come base incontrovertibile della conoscenza, ha dato l’avvio all’epoca moderna soggettivistica che nella potenza illuministica della ragione ha preteso di risolvere tutti i problemi dell’uomo e del suo essere-nel-mondo. Il tentativo – fallito come dimostra l’epiteto di “postmoderna” con cui designamo la nostra epoca – è confluito oggi in una nuova interrogazione circa il senso globale della soggettività e della sua relazione costitutiva all’altro da sé. Quanto a Ricoeur, nella “via longa” dell’attraversamento dei segni, dei simboli e delle opere in cui si manifesta l’attività del soggetto, egli propone un coglimento del sé come in un racconto, e cioè il racconto della propria vita.
La nozione di identità narrativa, per il Nostro, acquista allora una portata vastissima e si applica fecondamente non solo all'individuo ma anche alle comunità: basti pensare all'Israele biblico che "ha tratto la propria identità dalla ricezione stessa dei testi che ha prodotto"85.
5. Il sé e l'identità personale
Come d’abitudine, Ricoeur arriva a formulare il concetto di “identità narrativa”, di cui abbiamo accennato, dopo aver esplicitato le problematiche insite alla definizione dell’identità stessa.
Due sono gli usi del concetto d'identità personale: l'identità come medesimezza (lat. idem; ingl. sameness; ted. Gleichheit) e l'identità come ipseità (lat. ipse; ingl. selfhood; ted. Selbstheit). Questi due usi si vengono a confrontare e a differenziare con la questione della permanenza del tempo.
A prima vista la questione della permanenza nel tempo sembra "connettersi" solo con l'identità-idem.
La medesimezza è "un concetto di relazione e una relazione di relazioni". Essa è costituita dall'identità numerica: cioè, "di due occorrenze di una cosa, designata con nome invariabile nel linguaggio ordinario, noi diciamo che esse non formano due cose differenti ma una sola e medesima cosa"86. Poi viene l'identità qualitativa, cioè la somiglianza estrema: di due persone diciamo che indossano il medesimo abito, cioè dei vestiti talmente simili da essere indifferente che li si scambi per l'uno o per l'altro.
Queste due "componenti" sono "irriducibili" l'una all'altra, ma non sono "estranee l'una all'altra": " la somiglianza estrema tra due o più occorrenze può…essere invocata a titolo di criterio indiretto per rafforzare la presunzione di identità numerica"87, anche se il tempo, in questo caso, gioca come un fattore disturbante. Si dia per esempio il caso dell'identificazione del proprio aggressore fra una serie di sospettati da parte di una vittima dopo un lungo periodo, qui la distanza nel tempo non fa altro che suscitare l'esitazione, il dubbio.
Per la debolezza di questo criterio di similitudine entra in gioco una terza componente della nozione di identità, la continuità ininterrotta "fra il primo e l'ultimo stadio dello sviluppo di quello che riteniamo il medesimo individuo"88; questa componente "prevale in tutti i casi" in cui la crescita, l'invecchiamento operano come "fattori" di dissimiglianza e di diversità numerica: "di una quercia diciamo che è la medesima dalla ghianda all'albero interamente sviluppato", così di un uomo diciamo che è lo stesso da quando è bambino alla sua vecchiaia. Anche qui, quindi, il tempo è "fattore di dissimiglianza, di scarto, di differenza".
Per questo motivo occorre un quarto elemento per "scongiurare" la minaccia che il tempo rappresenta per l'identità: la permanenza nel tempo. Con questo criterio di identità, il più forte che possa essere prodotto sono eliminati i problemi che il tempo poneva alla base della similitudine e della continuità ininterrotta. Il codice genetico di un individuo o la "struttura invariabile" di uno strumento cui fossero progressivamente cambiati tutti i pezzi, sono alcuni dei casi che rendono visibile questa quarta componente della medesimezza.
Ma, si domanda il Nostro, l'ipseità del sé non "implica" una forma di permanenza nel tempo "che non sia riducibile alla determinazione di un sostrato"89? Sostrato che la metafisica occidentale ha perseguito nelle vesti della sostanza assoluta, immutabile, necessaria ed eterna dell’Essere.
Ricoeur, quindi, apre una nuova riflessione dicendo che nel parlare di noi stessi, disponiamo di due modelli di permanenza nel tempo: il carattere e la parola mantenuta. L'ipotesi di Ricoeur è che:
"…la polarità di questi due modelli di permanenza della persona risulta dal fatto che la permanenza del carattere esprime il ricoprirsi quasi completo della problematica dell'idem e di quella dell'ipse una attraverso l'altra, mentre la fedeltà a sé nel mantenimento della parola data sottolinea lo scarto estremo fra la permanenza del sé e quella del medesimo, e dunque attesta pienamente l'irriducibilità delle due problematiche l'una a l'altra"90.
e continua:
"…la polarità che mi accingo a scrutare, suggerisce un intervento dell'identità narrativa nella costituzione concettuale dell'identità personale, al modo di una medietà specifica fra il polo del carattere, nel quale idem e ipse tendono a coincidere, e il polo del mantenersi, in cui l'ipseità si affranca dalla medesimezza"91.
Il carattere "designa l'insieme delle disposizioni permanenti a partire da cui si riconosce una persona"92. In questo senso il carattere è il "punto limite" in cui la problematica dell'ipse si rende indiscernibile da quella dell'idem. Di conseguenza è importante "interrogarsi" sulla dimensione temporale della disposizione.
Alla nozione di disposizione si associa quella di "abitudine in via di essere contratta" e "di abitudine già acquisita". Ora questi due aspetti hanno una "significazione temporale evidente: l'abitudine dà una storia al carattere"93. Ogni abitudine così "contratta", diventata disposizione
permanente, costituisce un tratto di carattere, che consente di "reidentificare" una persona come la medesima.
Alla nozione di disposizione si associano anche le identificazioni acquisite: l'identità di una persona, ma anche di una comunità, è fatta di queste identificazioni a valori, norme, modelli, eroi, nei quali la persona, la comunità si riconoscono. Il carattere, sempre secondo il Nostro, con la "stabilità" garantita dalle disposizioni, assicura l'identità numerica, l'identità qualitativa, la continuità ininterrotta nel cambiamento e la permanenza nel tempo, che definiscono la medesimezza, mentre la “disposizione” come tratto temporale che si acquisisce – cioè non è una sostanza già data –definisce l’ipseità come presente fin nella medesimezza.
Un altro modello di permanenza nel tempo rispetto a quello del carattere è "quello della parola mantenuta nella fedeltà alla parola data". In questo "mantenimento" il Nostro vede una identità polarmente opposta al carattere. Il mantenimento di una promessa sembra essere "una sfida al tempo", "un diniego di cambiamento", perché quando io faccio una promessa mi impegno a mantenere la parola data, per sempre, quand’anche cambiassero i miei desideri, opinioni, inclinazioni. La fedeltà alla parola data diventa, così, il paradigma di un sé, che non ha più le garanzie di autofondazione del cogito.
6. Il sé e l'identità narrativa
In questo studio Ricoeur considera come l'identità narrativa chiamata anche identità del personaggio si costruisca in collegamento con quella dell'intreccio.
C'è da dire innanzitutto che la differenza essenziale tra il modello narrativo ed altri modelli di connessione è lo "statuto" dell'evento. Se in un modello di tipo causale esso è una semplice occorrenza; l'evento narrativo è "definito per il suo rapporto con l'operazione stessa di configurazione"94. Esso partecipa della stessa struttura dell'intreccio, "è fonte di discordanza, in quanto nasce, e fonte di concordanza in quanto fa progredire la storia "; l'evento così "incorpora" un effetto di necessità, di necessità narrativa, "…in quanto semplice occorenza…è l'inatteso, il sorprendente…diventa parte della storia soltanto quando viene compreso a cose fatte, una volta trasfigurato dalla necessità"95.
Con questo richiamo, a Ricoeur, è possibile mostrare come "l'operazione narrativa sviluppa un concetto di identità dinamica del tutto originale"96 che concilia due categorie come l'identità e la diversità.
Il "passo decisivo" verso una concezione narrativa dell'identità personale si ha quando si passa dall'azione al personaggio. La tesi sostenuta da Ricoeur è che:
"…l'identità del personaggio si comprende attraverso una trasposizione su di lui della operazione di costruzione dell'intreccio, applicata in primo luogo all'azione raccontata; il personaggio, diremmo, è esso stesso costruito nell'intreccio"97.
La "correlazione" fra storia raccontata e personaggio è semplicemente postulata da Aristotele nella Poetica. Il personaggio ha nel corso della storia una identità "correlativa a quella della storia stessa precisamente nella storia raccontata"98. È con la narratologia contemporanea che questa "correlazione” assume lo "statuto di vincolo semiotico". Propp, Bremond e Greimas nelle loro analisi non fanno altro che evidenziare come nell'economia dei racconti personaggio e azione si incrocino, siano legati l'uno all'altra.
Ora da tale "correlazione" fra azione e personaggio scaturisce una dialettica interna al personaggio:
"La dialettica sta in ciò…il personaggio trae la propria singolarità dall'unità della sua vita considerata come la totalità temporale…questa totalità termporale è minacciata dall'effetto di rottura provocato dagli eventi imprevedibili che la costellano di interpunzioni (incontri, incidenti ecc…); la configurazione (aggiunta mia) fa sì che la contingenza dell'evento contribuisca alla necessità in qualche modo retroattiva della storia di una vita, sulla quale si modula l'identità del personaggio"99.
ciò mostra come il racconto costruisce l'identità del personaggio, come l'identità del personaggio è costruito nell'intreccio e non può essere compresa se non tramite questa dialettica.
Ricoeur si propone quindi di spiegare come l'identità narrativa del personaggio sia mediatrice tra i "poli" della medesimezza e della ipseità, grazie alle "variazioni immaginative" cui il racconto sottopone questa identità. Nella finzione letteraria lo "spazio" delle variazioni "aperto” per i rapporti fra le due modalità dell'identità è immenso. Si passa così dalle fiabe in cui il personaggio è "un carattere identificabile e reidentificabile come il medesimo", al romanzo classico che indaga lo "spazio intermedio" delle "variazioni" in cui "l'identificazione del medesimo decresce senza scomparire", al romanzo di formazione o del flusso di coscienza dove l'intreccio è messo al servizio del personaggio, dove il personaggio non è più un carattere, ma un groviglio di pensieri ed emozioni che mettono a nudo l'ipseità privata della medesimezza. Nella vita quotidiana, invece, ipseità e medesimezza tendono a “ricoprirsi” e “confondersi” così, contare su qualcuno significa, contemporaneamente, fidarsi della stabilità del suo carattere e attendersi che mantenga la parola data. Contare su qualcuno, per Ricoeur, significa soprattutto contare su se stessi, perché “dare la parola” significa essere in grado di mantenere la parola “ad onta delle alternanze del cuore”.

Conclusioni
Il dibattito sulla scrittura è molto antico, già Platone nel Fedro critica la “nuova invenzione”, perché, a suo dire, impedisce la reminescenza, che aiuta l’anima a ricordare ciò che già aveva conosciuto nel mondo delle Idee e biasima inoltre l’eliminazione della parola viva del maestro, sostituita dal libro che non può rispondere alle domande dell’allievo.
Da questo dialogo prende le mosse la riflessione di Ricoeur sulla scrittura. Egli evidenzia, quindi, quali tratti della parola viva sono suscettibili di maggior alterazione nel passaggio alla scrittura e critica l’impostazione platonica, perché, a suo parere, la scrittura come la pittura non è uno “smorto doppione” della realtà, ma “occasione” e “strumento” di un “incremento di senso”. Ricoeur, inoltre sottolinea come l’assenza del dialogo tra maestro e allievo viene colmata dal lettore, che prende il posto dell’interlocutore assente e, con la sua interpretazione del messaggio dell’opera, favorisce l’incremento di senso dell’opera stessa.
Abbiamo visto quali rapporti esistono tra testo e parola, e come la nozione di testo comporti una rivisitazione delle nozioni di spiegazione e interpretazione.
Ci siamo interessati delle correlazioni che esistono tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana, abbiamo visto come la “costruzione dell’intreccio” presupponga una “precomprensione del mondo dell’azione” e abbia pieno compimento nella “rifigurazione”, nell’atto di lettura, che offre al lettore un’esperienza nuova: la possibilità di abitare con la propria immaginazione il mondo che l’opera progetta e così vivere anticipatamente delle esperienze.
Siamo giunti così all’analisi dei concetti di identità personale e di identità narrativa, che ci hanno consentito di approfondire la differenza che intercorre tra ipseità e medesimezza e tra i loro rispettivi modelli di permanenza nel tempo, la parola mantenuta e il carattere; abbiamo visto inoltre come l’identità narrativa si costruisca in collegamento con l’intreccio e sia mediatrice tra i poli della medesimezza e della ipseità.
Vorrei concludere sottolineando quella che è la mia acquisizione più importante del pensiero di Ricoeur, e cioè che noi possiamo conoscere più profondamente noi stessi, trovare la nostra identità se narrativizziamo le nostre esperienze, la nostra vita come in un racconto. Dall’oceano dei pensieri e delle azioni possiamo risalire alla sorgente se cogliamo noi stessi come in un racconto.

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1 Jack Goody, Il suono e i segni: l’interfaccia tra scrittura e oralità, Mondadori, Milano 1989, pag. 41.
2 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, Mondadori, Milano 1986, pag. 118.
3 Ibidem, pag. 120.
4 Cfr. su questo argomento A. Gardiner, Egyptian grammar, being an introduction to the study of hieroglyphs, Oxford University Press, London 1953.
5 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 127.
6 Cfr. su questo argomento G.Garbini, Storia e problemi dell’epigrafia semitica, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1979.
7 Jack Goody, Il suono e i segni: l’interfaccia tra scrittura e oralità, cit., pp. 53-65.
8 Archeologo tedesco (Neubukow, Mecleburgo,1822 – Napoli 1890), è considerato il fondatore dell’archeologia greca.
9 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 183.
10 Nome generico dei boli di creta con impressioni a secco frequenti nei ritrovamenti archeologici vicinorientali; erano usati per sigillare contenitori e chiusure di locali.
11 Cfr. su questo argomento V. Carnielli, Il geroglifico cretese: un primo bilancio, Scuola Superiore di Lingue moderne per Interpreti e Traduttori, Trieste 1984.
12 Cfr. su questo argomento L. Godart, J.P. Olivier, Recueil des inscriptions en linéaire A (GORILA), I-V, Parigi 1976-1984.
13 Archeologo inglese (Wheathampstead, Hertfordshire, 1922 – Hatfield 1956).
14 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 185.
15 Cfr. su questo argomento C. Consani, Per uno studio complessivo dei segni “fuori sistema” nella lineare B, «Annali del Seminario di Studi del Mondo Classico; Sezione Linguistica», vol. 6, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1984, pp. 197-237.
16 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 186.
17 Ibidem.
18 Ibidem, pag. 187.
19 Ibidem, pag. 187.
20Ibidem, pag. 188.
21Ibidem.
22 Ibidem, pag. 190.
23 Dal gr. enchorios ‘locale, del paese’, si dice di una varietà locale di scrittura soprattutto nell'ambito delle scritture della Grecia e dell'Italia antica.
24 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 190.
25 Ibidem, pag. 191.
26 Cfr. su questo argomento E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, a cura di B. Gentili, Laterza, Bari 1973.
27 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 191.
28 Platone, Fedro, Mondadori, Milano 1998, pag. 123.
29 Il papiro di Derveni è stato trovato nel corredo di una tomba nel 1962 ed è stato pubblicato già varie volte in edizione provvisoria, cfr. da ultimo J.S. Rusten, Interim notes on the papyrus from Derveni, «Harvard Studies in Classical Philology», 89 (1985) pp 121-140.
30 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 191.
31 Ibidem, pag. 192.
32 Ibidem, pag. 192.
33 Cfr. su questo argomento E.M.Thompson, An introduction to Greek and Latin Paleography, Oxford University Press, Oxford 1912.
34 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 195.
35 Ibidem, pag. 200.
36 Ibidem, pag. 200.
37 Ibidem, pag. 201.
38 Dal gr. boustrophedon ‘che va nella direzione del bue che ara’; è l’andamento delle righe di scrittura proprio delle iscrizioni greche arcaiche: la direzione della scrittura è alternativamente da destra a sinistra e da sinistra a destra.
39 Cfr. su questo argomento Aa. Vv. Scrivere etrusco. Dalla leggenda alla conoscenza. Scrittura e letteratura nei massimi documenti della lingua etrusca, Electa, Milano 1985.
40 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 202.
41 Cfr. su questo argomento Parlangeli, Studi messapici, Olschki, Firenze 1984.
42 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 203.
43 Cfr. su questo argomento G.B. Pellegrini, A.L. Prosdocimi, La lingua venetica, I-II, Padova-Firenze 1967.
44 Cfr. su questo argomento A. Morandi, Le iscrizioni medio-adriatiche, Olschki, Firenze 1974.
45 Cfr. su questo argomento G.Devoto, Tabulae Iguvinae, Poligrafico dello Stato, Roma 1954.
46 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 204.
47 Cfr. su questo argomento A. Franchi De Bellis, Le iovile capuane, Olschki, Firenze 1981.
48 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 204.
49 Ibidem, pag. 205.
50 Cfr. su questo argomento L.Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia, Olschki, Firenze 1977.
51 Cfr. su questo argomento G. Bernardi Perini, Le “riforme” ortografiche latine di età repubblicana, «Annali del Seminario di Studi del Mondo Classico; Sezione Linguistica», vol. 5, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1983, pp. 141-169.
52 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 206.
53 Ibidem, pag. 208.
54 Ibidem, pag. 208.
55 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 211.
56 Ibidem.
57 Cfr. su questo argomento E.A. Lowe, The Beneventan script, Oxford 1914, 2 ed. a cura di V. Brown, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980.
58 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 212.
59 Cfr. su questo argomento A. Petrucci, La scrittura di Francesco Petrarca, Citta del Vaticano 1967.
60 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 213.
61 Ibidem, pag. 213.
62 Cfr. su questo argomento R. Marichal, L’écriture latine et la civilisation du Ier au XVI siècle, in L’écriture et la psycoloie des peuples, XXIIIe semaine de sinthèse, avec la collaboration de M. Cohen et al., Colin, Paris 1963.
63 Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pag. 214.
64 Ibidem, pag. 214.
65 Paul Ricoeur, Filosofia e linguaggio, a cura di Domenico Iervolino, Guerini e Associati, Milano 1994, pag. 222.
66 Ibidem, pag. 223.
67 Platone, Fedro, cit., pag. 125.
68Paul Ricoeur, Filosofia e linguaggio, cit., pag. 226.
69 Paul Ricoeur, Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano 1989, pag. 135.
70 Ibidem, pag. 136.
71 Ibidem, pag. 139.
72 Ibidem, pag. 142.
73 Paul Ricoeur, Dal testo all’azione, cit., pag. 143.
74 Ibidem, pag. 145.
75 Ibidem, pag. 151.
76 Ibidem, pag. 151.
77 Paul Ricoeur, Tempo e racconto 1, Jaca Book, Milano 1986, pag. 91.
78 Ibidem, pag. 98.
79 Ibidem, pag. 102.
80 Ibidem, pag. 110.
81 Ibidem, pag. 124.
82 Ibidem, pag. 130.
83 Paul Ricoeur, Tempo e racconto 3, Jaca Book, Milano 1988, pag. 376.
84 Ibidem.
85 Ibidem, pag. 377.
86 Paul Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pag. 204.
87 Ibidem, pag. 205.
88 Ibidem, pag. 205.
89 Ibidem, pag. 207.
90 Paul Ricoeur, Sé come un altro, cit., pag. 207.
91 Paul Ricoeur, Sé come un altro, cit., pag. 207.
92 Ibidem, pag. 210.
93 Ibidem.
94 Paul Ricoeur, Sé come un altro, cit., pag. 233.
95 Ibidem, pag. 234.
96 Ibidem.
97 Ibidem, pag. 234.
98 Ibidem.
99 Ibidem, pag. 239.
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