L'età di Giolitti

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L’ETA’ DI GIOLITTI
LA SVOLTA MODERATA
Al cambiamento della situazione economica internazionale, corrispose in Italia la ridefinizione dell’assetto di governo. A Pelloux succedono le componenti liberali che avevano avversato l’involuzione reazionaria di fine secolo. La positiva congiunta economica permetteva di affrontare problemi politici derivanti dalla crescita numerica e organizzativa del proletariato industriale mediante concessioni e compromessi. Un maggior potere d’acquisto della popolazione avrebbe favorito la stessa evoluzione industriale del paese con l’allargamento del mercato interno. Massimo interprete di questo disegno fu Giovanni Giolitti.
IL DECOLLO INDUSTRIALE
Nei primi anni del Novecento il volume della produzione industriale iniziò a crescere a ritmi annui talmente sostenuti da inserire stabilmente l’Italia nel circolo ristretto delle potenze industrializzate. In alcuni settori della grande industria furono introdotti i sistemi teyloristici di riorganizzazione del lavoro. Il capitalismo industriale strinse solidi legami con la finanza. Oltre a garantire il consolidamento con il protezionismo doganale, l’amministrazione statale rappresentò il miglior cliente dell’industria privata per opere pubbliche e forniture all’esercito e alla marina. Lo stato contribuì ad una certa redistribuzione della ricchezza e garantì in tal modo la stabilità politica e sociale in Italia. Le campagne invece divennero un enorme serbatoio di forza lavoro a basso costo da riversare nell’industria e nel settore terziario e l’unica alternativa era l’emigrazione. Successivamente l’agricoltura registrò dei progressi, ma le regioni arretrate perdevano le loro migliori energie e il Mezzogiorno vedeva crescere le distanze rispetto ai poli dello sviluppo industriale.
RIFORME
Il nuovo gruppo dirigente italiano dichiarò la propria disponibilità ad una politica riformistica. Il centro di gravità delle lotte sociali si spostò dalle piazze al parlamento e alle altre sedi istituzionali, dove il governo interveniva come mediatore tra lavoratori e padronato, e dove i contrasti potevano essere meglio controllati. La parlamentarizzazione dei conflitti sociali indebolì le correnti rivoluzionarie del movimento operaio e favorì quelle moderate. Alle cooperative dei lavoratori furono riconosciute delle priorità nelle assegnazioni degli appalti pubblici, nel 1906 poté nascere la Confederazione generale del lavoro, con il compito di coordinare i sindacati delle varie categorie. Al sindacato fu affiancato il Consiglio nazionale del lavoro, un organismo composto dai rappresentanti dei lavoratori, degli imprenditori e del governo, destinato a prevenire gli scioperi. La politica di mediazione tra le parti sociali fu poi integrata da un’ampia legislazione riformistica che comprendeva l’estensione dell’assicurazione per gli infortuni sul luogo di lavoro, misure di tutela per i minori e per le donne in fabbrica, l’incremento degli stanziamenti per la scuola, la costruzione di case popolari nelle metropoli industrializzate, la realizzazione d’importanti opere pubbliche nel Mezzogiorno, il varo di un Alto commissariato per l’emigrazione chiamato a lenire il doloroso problema. Fu introdotto il suffragio universale maschile (1912) e ci fu l’avvento sulla scena politica di nuovi partiti di massa.
RIAVVICINAMENTO FRA STATO E CHIESA
Il progresso economico era stato vistoso. Si era registrata una sensibile espansione dei consumi e il riformismo aveva senz’altro migliorato le condizioni di vita di almeno alcuni strati della popolazione, mentre l’inurbamento e l’emigrazione alla lunga avevano implicitamente attenuato il malessere del mondo rurale. La moneta italiane era apprezzata sui mercati valutari e la stabilità politica aveva consentito una delicata operazione finanziaria d’alleggerimento del debito pubblico. Nonostante le critiche degli ambienti conservatori ci fu l’intervento pubblico nell’economia. In cambio della disponibilità governativa ad abbandonare l’anti-clericalismo della tradizione liberale, gli esponenti del mondo cattolico prima lasciarono cadere l’astensionismo politico, poi appoggiarono la conquista italiana della Libia. Raggiunsero anche un’intesa coi gruppi liberali vicini a Giolitti, vero i quali s’impegnavano a far convergere i loro suffragi purché fosse bloccata l’introduzione del divorzio, protetta la scuola privata e difeso l’insegnamento religioso nella scuola pubblica (Patto Gentiloni, 1912).
LIBIA E POLARIZZAZIONE DELLE TENSIONI SOCIALI
Nel 1911 fu decisa l’occupazione della Libia, a cui l’impero ottomano oppose una debole resistenza. Il governo aveva presentato la conquista della quarta sponda (la Libia) come risposta risolutiva al tragico problema dell’emigrazione, ma l’idea di trasferirsi in regioni semi desertiche fu ignorata quasi completamente dai lavoratori italiani. Inoltre l’iniziativa coloniale suscitò forti ripercussioni politiche di segno contrastante. A favore di essa si mobilitarono le maggiori testate giornalistiche, che disegnarono la Libia come una specie di nuovo Eldorado. La stampa cattolica diede il suo assenso e la sostennero numerosi intellettuali di tendenza nazionalistica, come D’Annunzio e Pascoli, e più ancora i futuristi. Vi si opposero invece i numerosi rappresentanti repubblicani e radicali, il Partito socialista, la Confederazione generale del lavoro e la maggior parte del movimento anarchico. Le manifestazioni spontanee delle masse popolari delinearono la rottura degli equilibri giolittiani.

IL TRAMONTO DI GIOLITTI
Pur avanzando gravi accuse contro i metodi di Giolitti, i suoi critici di destra o di sinistra non ebbero molto seguito durante il decennio felice. I meridionalisti avevano documentato le pratiche clientelari, le collusioni mafiose, i mezzi spregiudicati impiegati per mettere a tacere le opposizioni nel corso delle campagne elettorali e per tali motivi Salvemini era arrivato a definire Giolitti “ministro della mala vita”. Dal canto suo la destra conservatrice lo accusava di aver dilatato oltre ogni limite la presenza dello stato nella società e di aver violato le regole del liberalismo economico.
Il declino di Giolitti non dipese dalle recriminazioni di questi suoi avversari, quanto piuttosto dall’esaurimento della favorevole congiuntura economica interna ed internazionale. Con il rallentamento dello sviluppo si attenuò lo slancio riformistico e il potere d’acquisto dei salari cominciò a scendere, mentre crescevano le spese militari. Si configurarono due prospettive divergenti: la prima era incarnata dal Partito nazionalista, che propugnava una politica di potenza per portare l’Italia al livello delle nazioni più forti e autorevoli, la seconda era invece la prospettiva politica del movimento operaio che auspicava una radicale trasformazione della società, secondo finalità socialiste. Sindacalismo rivoluzionario, vicino alle posizioni anarchiche. Nelle file del partito socialista la corrente moderata vicino al riformismo giolittiano, fu emarginata da quell’intransigente ed ostile ad ogni compromesso con il governo. Nel giugno 1914, molte città del centro-nord divennero teatro di violente dimostrazioni di piazza che riproponevano un clima sociale incandescente quanto quello di fine secolo e che sembrarono preludere ad una generalizzata sollevazione popolare (la settimana rossa).

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