Cultura di massa nello stato fascista

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Testo

CULTURA DI MASSA
NELLO STATO FASCISTA
di Marco Signorelli
INTRODUZIONE
La questione del “governo basato sul consenso generale”, divenne una preoccupazione di grande importanza nel primo dopoguerra, quando i vecchi partiti cercavano di ristabilire l’ordine nei paesi devastati dal conflitto.
Anche il sistema economico e sociale andava ricostruito, non esistevano più le condizioni necessarie perché potesse ancora sopravvivere la vecchia idea di capitalismo liberistico, caratterizzato da lunghi orari di lavoro e manodopera disorganizzata.
L’unica alternativa ai propositi rivoluzionari offerti dai partiti di sinistra era un capitalismo organizzato, basato sul consenso di massa.
Occorreva un cambiamento nella distribuzione economica e sociale, nonché la creazione di una cultura politica su scala nazionale, che potesse convincere la gente che gli interessi comuni fossero più importanti delle controversie etniche o delle animosità sociali.
Bisognava far sì che i lavoratori divenissero consumatori disciplinati, che conducessero una vita di famiglia “ordinata” ed impiegassero il tempo libero in maniera proficua. A questo proposito, molto importanti furono i progressi delle tecnologie comunicative, nuovi strumenti per la diffusione delle ideologie, nonché la presenza dello sport e dei divertimenti per attirare ed intrattenere le masse.
CONSENSO NELLO STATO FASCISTA
La ricerca del consenso di massa nello stato fascista fu innanzitutto un modo per fronteggiare l’insufficienza della forza come principale strumento di governo.
In Italia, a differenza di altri paesi, non c’era una forte richiesta di “democrazia sul posto di lavoro”, perché la squadre fasciste avevano disgregato i sindacati e la messa al bando di ogni opposizione anti-fascista fu la definitiva condanna delle ultime resistenze.
Dunque il consenso divenne il mezzo per riportare la disciplina e l’ordine fra i lavoratori, la cui disorganizzazione si pensava derivasse dallo Stato liberale.
Inoltre molti fascisti credevano che lo scopo primario della rivoluzione nazionale fosse quello di fare aderire le masse allo Stato nazionale. Spesso comunque questo non era che un pretesto per gli squadristi di abusare dei lavoratori e per il fascismo spesso che si proponeva di diventare anima e coscienza dello stato.
Mussolini in ogni caso doveva mantenere la sua situazione e nel frattempo risollevare l’economia italiana; presto questo peso fu scaricato sui lavoratori con accelerazioni dei ritmi di lavoro e riduzioni salariali, dunque era importante per il duce l’appoggio di queste masse, aveva bisogno di lavoratori che accettassero silenziosamente il peggioramento della loro situazione.
Il consenso può essere quindi interpretato come lo sforzo del regime per far accettare alla popolazione i disagi provocati da un’economia sottosviluppata e dalle divergenze etniche e sociali del paese.
La decisione del fascismo di far aderire le masse allo stato venne presa dal Duce per la necessità di affrontare un’opposizione popolare ancora intensa, di pacificare gli animi e dalla richiesta di una forte presa di posizione all’interno delle industrie. Il regime aveva bisogno di creare una massa di sostenitori.
Alfredo Rocco, un teorico fascista sosteneva che l’Italia, per fronteggiare la concorrenza delle altre nazioni avesse bisogno di un’autorità che mobilitasse la forze produttive nazionali e ponesse termine all’”individualismo disgregativo” dell’ordinamento politico liberale e della “anarchia bolscevica”.
La prima cosa da fare per i fascisti, prima di creare una qualsiasi nuova istituzione su cui basare il proprio potere era il cercare di unificare le classi dirigenti italiane. Furono quindi chiusi con la forza tutti i circoli e le sedi socialiste e sindacali e le cooperative, insomma tutte le associazioni che si riunivano sotto la bandiera del socialismo, poiché erano considerate come i focolai della rivoluzione. Vi era poi da convincere i lavoratori che fosse inutile ostacolare lo sviluppo dell’economia italiana ma fosse invece importante sostenerla per renderla competitiva all’estero.
Andavano eliminate le associazioni inefficienti, ossia portatrici di divisioni di classe per istituirne di nuove su cui poter contare, ovvero organizzazioni che promuovessero la collaborazione tra manodopera e dirigenti.
Tuttavia, ben presto queste “organizzazioni di massa” si spinsero fuori dall’ambito lavorativo, per estendersi alla vita comune, ai giovani, alle donne, alle università.
L’emergenza economica fu quindi utilizzata per giustificare il rapido espandersi del monopolio fascista sulle attività del tempo libero. I circoli ricreativi fascisti erano presenti in tutti i settori della società.
Questa fu denominata “cultura di massa”, perché l’organizzazione del “dopolavoro” si dimostrava il miglior strumento di persuasione ideologica, necessaria per convincere la gente, che non poteva essere attratta dal trattamento economico impostole dal fascismo e dagli abusi del regime con un semplice appello politico.
IL DOPOLAVORO
Il centro del dopolavoro fu per prima cosa destinato ad attrarre e trattenere i lavoratori, promovendo il loro miglioramento morale, fisico ed intellettuale senza annoiarli e nello stesso tempo avrebbe inculcato loro l’idea che il lavoro è “un sacro dovere verso la Nazione e verso se stessi”.
Lo scopo definitivo era quello di convincere i lavoratori che avrebbero conseguito la loro emancipazione “non attraverso la lotta al capitalismo, ma per via del miglioramento individuale”.
I primi centri furono istituiti nel 1923, nelle zone rurali, soppiantando con la violenza i circoli socialisti preesistenti, mentre nei centri industriali, la resistenza dei lavoratori era ancora molto forte, dunque l’organizzazione procedeva ad un’andatura più lenta.
Inizialmente questi nuovi circoli, gestiti dai sindacati fascisti, incontrarono in genere indifferenza ed ostilità da parte del mondo del lavoro, ma, dovendo in ogni caso scegliere, la maggior parte dei lavoratori rimaneva fedele al loro consueto posto di ritrovo.
Tuttavia, il proletariato industriale rimaneva diffidente e dunque legato ai sindacati antifascisti ancora esistenti, dunque la Cnsf (camera nazionale dei sindacati fascisti) iniziò a chiedere con insistenza l’intervento dello Stato a favore di un unico sindacato nazionale obbligatorio.
Oltretutto, il dopolavoro aveva bisogno di forti contributi che non potevano essere richiesti alla “pubblica beneficenza” , dunque era indispensabile il sostegno statale.
Le pressioni portarono nell’Aprile del 1925 all’istituzione dell’ Opera nazionale dopolavoro.
La scelta di definire quest’ente come “opera”, fu un disegno politico per attribuire una vasta gamma di iniziative sociali all’autorità dello Stato e non al partito, per evidenziare uno sforzo nazionalista e per cercare di dare a questa organizzazione un’impronta apolitica, anche se la sua linea di condotta veniva decisa da un consiglio amministrativo composto da rappresentanti ministeriali ed il suo presidente era proposto dallo stesso Mussolini.
La capacità dell’Ond di plasmare la classe lavoratrice fu comunque all’inizio molto limitata, poiché la sua autorità si estendeva solo al coordinamento di strutture già esistenti, e la dotazione modesta di un milione di lire la legava molto alle donazioni private e alle quote d’iscrizione.
Per la ricerca del sostegno da parte di privati, si faceva leva sull’idea che un’organizzazione del tempo libero avrebbe giovato sul rendimento dei lavoratori, in quanto avrebbe offerto loro attività salutari che avrebbero reintegrato le loro forze.
Gli industriali importanti, che fino ad allora avevano diffidato dai gruppi sindacali, approvarono l’Ond, fornendo forti finanziamenti e presenziando all’inaugurazione delle nuove commissioni provinciali.
Tuttavia, l’immagine apolitica dell’organizzazione, non poteva continuare a lungo in un paese che stava subendo un processo di fascistizzazione e presto l’Ond cadde sotto il completo controllo del partito. La presidenza fu affidata al segretario del Pnf Augusto Turati e l’Ond venne trasformata in un’organizzazione fiancheggiatrice del partito, ed i poteri decisionali, in precedenza spartiti tra presidente, consigliere delegato, direttore generale e consiglio d’amministrazione furono assunti personalmente dallo stesso Turati.
Avvenne una trasformazione da ente parastatale per l’assistenza sociale in movimento nazionale.
La propaganda e la stampa vennero aumentate, dunque nacquero giornali specialistici del dopolavoro, mente le gerarchie delle commissioni locali vennero riorganizzate.
L’Ond cominciò ad occuparsi di servizi sociali del tutto coordinati: istruzione, educazione artistica, educazione fisica, assistenza. Una struttura così completa richiedeva un impegno maggiore da parte del partito fascista al fine di organizzare lo svago e l’assistenza del lavoratore.
Però, dato lo scarso personale dirigente retribuito, il “movimento dopolavoristico” si dovette servire di un ingente numero di volontari, motivati, più che da un vero e proprio spirito nazionalista, da premi che venivano dati loro in base ai propri meriti (medaglie, diplomi di benemerenza).
Gran parte degli iscritti vennero reclutati tra i membri dei vecchi circoli, confiscando le loro sedi e spesso obbligandoli all’adesione. Soltanto gli impiegati sembrarono rispondere agli appelli lanciati per l’iscrizione, poiché avendo una disponibilità economica maggiore avevano meno problemi nell’acquisto della tessera (al prezzo di cinque lire), inoltre questa permetteva loro la possibilità di avere un immagine “corretta” agli occhi del partito.
Diversa era la situazione degli operai, che rimanevano ancora fedeli alle loro società ricreative abituali, un po’ perché la propaganda non li convinceva ancora pienamente ed un po’ perché i dirigenti erano quasi totalmente indifferenti nei loro confronti, non avendo rapporti con loro; dunque i lavoratori non si sentivano ancora vicini al regime.
Nel frattempo, la situazione economica italiana stava peggiorando, quindi le difficoltà e la mancanza di lavoro non potevano più essere alleviate ricordando ai lavoratori la loro “nobilitata condizione sociale di produttori nello Stato corporativo”, bensì, l’Ond, organizzando il tempo libero, non più offerto da una settimana lavorativa più breve ma dal disagio economico, aveva adesso il compito di mettere in evidenza i vantaggi derivanti dallo svago durante il riposo per distogliere l’attenzione dall’opposizione politica (che stava andando riformandosi) agli indirizzi economici del regime. Starace, subentrato a Turati sia alla guida del Pnf che dell’Ond, diede all’organizzazione un’impronta meno indirizzata verso il miglioramento tecnologico e produttivo, dando largo spazio alle attività sportive ed ai passatempi, in questo modo, l’Ond poteva dimostrare di essere sensibile all’esigenza popolare. Lo svago, su cui si basava il programma di Storace, avrebbe distolto l’operaio dalla politica. Il nuovo segretario del partito invitò i dirigenti dell’Ond ad abbandonare i metodi coatti di tesseramento, in modo da rendere l’iscrizione un fatto libero e volontario, dunque l’organizzazione si aprì a molta gente che pur non appoggiando il regime volevano approfittare dei benefici ricreativi. Questo portò chiaramente ad un forte aumento degli aderenti.
Nell’Ond c’erano tre livelli di funzionari: l’alta burocrazia, composta da professionisti, disciplinati
“fascisti della prima ora” e uomini politici. Il secondo gruppo, che prestava servizio nei consigli provinciali in veste di commissari straordinari o di ispettori era formato da fascisti della vecchia guardia o nuovi dirigenti della burocrazia, mentre al terzo livello stavano i volontari. Questo gruppo era il più importante nelle organizzazioni locali ed erano per lo più piccolo-borghesi od intellettuali, che si distinguevano dagli altri per il tesseramento obbligatorio al partito. L’Ond fece largo affidamento sui volontari, che potevano essere considerati come mediatori della politica sociale del regime.
I primi risultati delle organizzazioni fasciste di massa si ebbero durante la guerra d’Etiopia. Prima del conflitto, venne istituito il “sabato fascista”, in base al quale la settimana lavorativa terminava alle ore 13 del sabato, così da lasciare il pomeriggio alle attività del dopolavoro.
Dopo la dichiarazione dell’impero italiano nell’Africa orientale, una serie di adunate mobilitarono tutta la nazione, fornendo una prova dell’organizzazione di massa in azione, come riconosciuta arma di propaganda del regime. Molte furono le manifestazioni spontanee a favore dello sforzo bellico, i centri dopolavoristi raccolsero rottami di ferro, i trofei e gli anelli che i suoi aderenti offrivano. Inoltre ci fu un’unanime condanna delle sanzioni delle Società delle Nazioni, che spinsero la popolazione ad appoggiare l’autarchia.
Per il momento, il regime era riuscito a fanatizzare le folle ed a soffocare la resistenza della maggior parte della popolazione.
LA NAZIONALIZZAZIONE DEL PUBBLICO
Come i fascisti si resero conto, la formazione di un’identità nazionale unitaria dipendeva tanto dai rapporti fra le classi sociali, quanto dai rapporti della massa dei cittadini con l’amministrazione centrale dello Stato. L’Ond dunque si preoccupò di mettere in risalto la sua funzione di creatore di un pubblico unificato, in contrapposizione all’associativismo regionalistico e classista del passato.
L’obiettivo comune di tutte le direttive dell’ente era quindi quello di creare un’identità culturale nazionale. A questo proposito era importante manovrare quelle tendenze che avrebbero superato i confini di classe e geografici, ovvero, urgeva un’espansione del consumo di massa a lo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Inoltre, il regime doveva controllare quelle attività tradizionali di svago già presenti nella cultura popolare, al fine di svuotarle di qualsiasi significato anteriore al fascismo, per questo motivo, molte di queste vennero standardizzate su scala nazionale.
Il controllo sulle abitudini consumistiche, ad esempio la pubblicità, offrì allo Stato un mezzo di educazione sociale e politica, inoltre era un mezzo per incrementare le iscrizioni.
L’Ond si preoccupava anche di equilibrare il consumo, infatti il dopolavorista tipico non sarebbe dovuto rimanere privo dei beni indispensabili, ne avrebbe dovuto esagerare. Inoltre, l’organizzazione consigliava al risparmiatore una scala di spese consigliate, che vedevano solitamente in cima gli investimenti nella propria casa e nelle attrezzature dei circoli, nonché il risparmio per la propria previdenza sociale. L’investimento nei circoli avrebbe offerto attrezzature migliori ed avrebbe fatto risparmiare denaro all’ente.
In ogni caso, le spese casalinghe avevano la precedenza, in quanto il “culto della casa” avrebbe sorretto la stabilità della famiglia. Vennero organizzate esposizioni di articoli casalinghi in cui si stabilivano i criteri per la tipica abitazione “decorosa”, ribaditi dalla pubblicità stampata sui giornali del dopolavoro.
Di pari passo agli sforzi per stimolare il consumo, l’Ond mise in risalto la necessità per i suoi iscritti di partecipare ai suoi piani relativi al risparmio o all’assicurazione sociale. Questo incoraggiamento alla parsimonia, non era tanto dovuto alla possibilità di un consumo futuro, quanto alla possibilità di rimediare alla scarsità di sicurezza sociale derivante dalla pensione statale e dalle indennità degli operai. Interessante fu la campagna della Società d’assicurazioni dell’Alta Italia: a chi sottoscriveva un piano di risparmio, veniva regalato un salvadanaio con un orologio incorporato, che si fermava se il salvadanaio non veniva riempito quotidianamente con una cifra che variava da una a dieci lire.
Questi fondi furono di grande aiuto per le casse dello Stato, perché il regime, soltanto con le proprie sovvenzioni non sarebbe stato in grado di affrontare le spese della guerra etiopica e del successivo insediamento coloniale.
La pubblicità dell’Ond fissò dei criteri modesti, ma a quanto pare accessibili, per attrezzare al meglio le sedi dei circoli. I messaggi propagandistici dicevano che nessun gruppo poteva fare a meno di un di un grammofono, di un cronometro per le gare sportive o, soprattutto di un apparecchio radio, poiché i progressi nelle tecnologie di radiodiffusione ed i metodi di produzione in serie avevano trasformato la radio da articolo di lusso in una merce di massa, un’importante forma di intrattenimento popolare. Però in Italia i costi per l’acquisto erano ancora molto alti rispetto ai salari medi, era dunque importante la presenza degli apparecchi nei circoli dopolavoristici, perché la radio era il tramite fra lo Stato e le zone più remote del paese.
Tuttavia, spesso anche i gruppi non erano in grado di spendere le cifre richieste dal mercato, dunque un tale strumento di propaganda non poteva essere sfruttato a pieno, tanto che alcuni produttori ebbero l’idea di farsi pubblicità vendendo i loro prodotti direttamente all’interno delle sedi, oppure distribuendo ai membri speciali tagliandi di sconto. Nacquero addirittura dei prodotti sotto il marchio “Dopolavoro”. Spesso la pubblicità inserita nei giornali faceva riferimento a temi patriottici, con l’obiettivo di esaltare la merce italiana ed in certi casi anche di colpevolizzare il lavoratore italiano che preferendo prodotti stranieri non dimostravano amore per la nazione e toglievano lavoro ai compatrioti. La colpa della disoccupazione veniva addossata agli “antipatriottici” che acquistando merce estera agivano contro l’interesse del proprio paese.
Però, l’Ond, nei suoi sforzi per coinvolgere i dopolavoristi nell’economia aziendale dovettero scontrarsi con la realtà dei fatti. In Italia esisteva solo un piccolo settore avanzato avente le caratteristiche di una società consumistica, per il resto, non esisteva un vero e proprio pubblico di consumatori. Gli sconti consentiti dalla tessera dell’organizzazione erano quasi insignificanti in confronto al diminuito potere d’acquisto della maggior parte dei lavoratori ed all’aumento dei prezzi determinato dalle tasse protettive imposte dal fascismo.
La coscienza del “consumatore” non poteva ancora sostituire quella di classe, c’era anzi il rischio che le numerose pubblicità che offrivano immagini allettanti di beni di consumo creassero speranze inappagabili dal sistema sociale del regime.
Dopo il 1932 la pubblicità scomparve da “Gente nostra” (il più importante giornale dell’Ond) e, data la scarsa adesione, vennero sospesi i programmi per il risparmio volontario, poiché la gente era più preoccupata ad andare avanti giorno per giorno e non era in grado di progettare il proprio futuro.
Dunque nasceva l’esigenza di spostare l’attenzione dal consumo di merci al “consumo del tempo libero”, perché la popolazione aveva forse come bisogno primario il potersi distrarre dalla depressione.
Come già detto, promovendo lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa il regime fascista non ottenne il successo sperato, perché soltanto una stretta cerchia di persone era in grado di usufruirne, allora si decise di puntare lo sguardo su altre forme di intrattenimento.
Il cinema, fino a quel momento era stato un lusso concesso a pochi, perché i prezzi dei biglietti non erano molto vantaggiosi ed i cinematografi non erano comunque molto diffusi, in particolare nel centro-sud. L’Ond non aveva giurisdizione su teatri e cinema e lavorò molto per permettere a questi di assumere una dimensione più “popolare”, infatti trattò con i produttori italiani, riuscendo ad ottenere delle riduzioni sul costo dei biglietti, ed uno dei primi privilegi della tessera dell’ente fu proprio la possibilità di beneficiare di uno sconto sull’ingresso nelle sale cinematografiche.
Per non creare concorrenza tra i cinematografi e le sedi dopolavoristiche, l’Ond impose a queste ultime di non proiettare film nei giorni festivi o nei teatri all’aperto e di far vedere soltanto pellicole educative fornite dall’organizzazione stessa o dall’istituto Luce, mentre per intrattenimento si doveva proiettare un film comico lungo non più di un atto.
La rete urbana dell’ente (composta da cinema e teatri) integrava quella commerciale preesistente, ma non c’era un vero e proprio circuito alternativo, appunto per la preoccupazione di creare problemi economici agli esercenti dei locali commerciali.
Per il teatro la situazione era ancor più complessa, perché era considerato da tutti un simbolo borghese ed era frequentato da gente di un certo livello culturale, tanto che i tentativi di varie città di aprirli anche ai dopolavoristi, diminuendo il prezzo dei biglietti in determinate occasioni, erano mal visti dagli spettatori abituali, che erano infastiditi dalla presenza di questo nuovo genere di frequentatori.
Durante la campagna etiopica venne organizzato il “sabato teatrale”, ovvero l’inaugurazione di spettacoli speciali da tenere il sabato mattina, aperti a tutti ma soprattutto ai dopolavoristi a basso reddito. I costi d’ingresso erano molto bassi ed erano utilizzati gli edifici teatrali più importanti del paese, tra cui La Scala di Milano, il Regio di Torino ed il teatro reale dell’opera di Roma.
Questi spettacoli speciali non furono però più di tre o quattro per stagione e durante le normali rappresentazioni, i dopolavoristi erano rigorosamente separati dagli altri spettatori.
Un’iniziativa veramente popolare dell’Ond fu quella di istituire il teatro mobile, un gruppo di autocarri che durante i mesi estivi e primaverili si spostava di città in città, trasportando attori ed orchestra, che lavoravano in appositi spiazzi preparati prima del loro arrivo ed attrezzati con sedie, gradinate e palcoscenico.
La pubblicità annunciava l’arrivo della carovana, così da garantire una forte affluenza di pubblico.
Le rappresentazioni creavano entusiasmo nelle folle, soprattutto nei centri cittadini, perché spezzavano la routine quotidiana, dunque questi modi d’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa creavano una sorta di pubblica stima per la liberalità del regime.
Un’altra risorsa importante per il partito era costituita dai giochi e dai passatempi popolari, liberi da legami commerciali e radicati nelle abitudini popolari. Quest’ultimo punto era però anche una questione in grado di generare problemi, perché molti di questi svaghi erano presenti anche prima dell’avvento del fascismo, dunque potevano avere conservato dei significati avversi al regime.
L’unico modo per evitare disagi era quello di tenerli sotto controllo. Infatti il fascismo elaborò una linea politica nei confronti di ogni attività di svago. Cominciarono ad essere pubblicizzate gare sportive di qualsiasi tipo sotto il patrocinio dell’Ond, norme e regolamenti venivano fatti rispettare per “disciplinare” i partecipanti, e per il tentativo di “elevare” il prestigio morale dello svago popolare, confermando che mettendolo in pratica si contribuiva alla formazione di una nuova cultura nazionale. Però questa eccessiva intromissione in divertimenti tipicamente spontanei rischiava di allontanare le masse o smorzare il loro entusiasmo.
Un particolare interesse fu prestato al gioco delle bocce, inizialmente disprezzato per il suo stretto legame con le osterie, perché era il gioco preferito dalle masse lavoratrici, era dunque importante regolamentarlo. I funzionari fascisti sostenevano che il ritmo di gioco particolarmente lento favoriva il mormorio fra i giocatori, che avevano l’occasione di riunirsi. Venne così stilato un regolamento nazionale ed il gioco venne dichiarato spostato dai quartieri periferici alle piazze, organizzando vere e proprie gare nazionali accompagnate da fanfare e cerimonie ufficiali.
Un’intromissione simile dello Stato può essere ritrovata in qualsiasi altro passatempo popolare,
le attività che erano sempre state espressioni autonome di classe vennero organizzate a livello nazionale e regolamentate.
Con il passare del tempo gli sport furono sempre più sovvenzionati e propagandati, perché comportavano la partecipazione appassionata di milioni di persone e le vittorie italiane all’estero venivano acclamate da tutti, senza distinzione di classe.
Il fascismo stabilì due livelli di sport: gli “sport nobili”, delle squadre olimpiche ben organizzate, della lega calcistica e di ogni altra importante associazione, e gli “sport inferiori”, dei giochi di bocce, delle partite a scacchi, delle gare di tiro alla fune e degli esercizi ginnici.
I primi erano di competenza del Coni (comitato olimpico nazionale italiano), mentre spettava all’Ond gestire i giochi più popolari e non competitivi, nonché le associazioni dilettantistiche.
L’organizzazione degli sport popolari, offriva nuove possibilità rispetto agli anni passati, perché questo problema prima era stato raramente posto. In particolare gli intellettuali socialisti li sconsigliavano perché sostenevano che distraessero dalla lotta di classe; diversa era invece la posizione dei cattolici, che avevano una propria associazione sportiva (Fasci - federazione delle associazioni sportive cattoliche italiane), la cui attività era però molto scarsa.
L’Ond cominciò a proporre gruppi sportivi nel 1926, ed uno dei loro obiettivi era quello di rendere le masse consapevoli del fatto che con poco sforzo avrebbero potuto migliorare le proprie condizioni fisiche, irrobustirsi, rinvigorirsi, opporre più resistenza alle malattie ed infine, rendersi temprati e pronti alle fatiche del lavoro e, se fosse servito, a quelle della guerra.
Molti giochi erano semplici e richiedevano scarsa abilità, in modo che potessero parteciparvi tutti, senza però mai tralasciare lo spirito agonistico.
Per incoraggiare le partecipazioni, vennero istituiti dei brevetti, che venivano attribuiti ad individui singoli o a squadre che partecipavano ai raduni sportivi. C’era comunque la tendenza a scoraggiare l’azione competitiva personale e galvanizzare il gioco di squadra. Questo serviva ad incoraggiare la solidarietà di gruppo ed a “favorire lo spirito comunitario fra i lavoratori”.
La varie gare, incitavano gli iscritti al dopolavoro a difendere i loro colori ed il buon nome dell’ufficio, della fabbrica o dell’officina in cui lavoravano, oltre che a tenere alta le bandiera della società del loro quartiere.
Le società sportive divennero le più diffuse tra le sezioni dopolavoristiche e l’Ond inventò persino un gioco che avrebbe dovuto diventare il nuovo svago nazionale degli operai italiani: la volata. Si trattava di un ibrido tra il calcio e la palla a muro, uno sport presente già nell’antica Roma, ritenuto perciò carico di significati patriottici, poiché il calcio era stato importato dall’Inghilterra, inoltre, la volata, prevedendo l’uso delle mani era considerato un gioco più razionale. Questa non era comunque la sola ragione, perché anche il calcio era fortemente pubblicizzato e amato dal fascismo, tanto che era di competenza esclusiva del Coni. In realtà la volata era un gioco dinamico ed economico da proporre ai giovani dopolavoristi, molti dei quali tifosi calcistici, che non erano allettati dalla sedentarietà delle bocce. Inoltre, questo sport non richiedeva particolari attrezzature e poteva essere praticato anche su campi pesanti.
Tuttavia, la volata, nonostante gli sforzi dell’Ond in fatto di pubblicità, non ebbe il successo sperato: gli operai giovani continuavano a preferire il calcio e quelli più anziani non lo amavano perché richiedeva sforzo e addestramento. Il gioco fu abbandonato dopo soli quattro anni dalla sua invenzione.
Gli sport dopolavoristici erano a stragrande maggioranza rivolti ai maschi, perché ogni qualvolta l’ente cercava di organizzare giochi femminili c’era l’opposizione della Chiesa, che li giudicava offensivi per la morale e la pubblica decenza, nonché pericolosi per la maternità.
I tipi di sport raccomandati per il pubblico femminile erano quelli che miglioravano la grazia o la compostezza, come il nuoto, il tennis o la ginnastica ritmica.
L’Ond puntò però alla formalizzazione di tutti i giochi più popolari, da cui le donne erano escluse, dunque, le lavoratrici avevano ben poche occasioni di concedersi alcuna ricreazione fisica.
Perché tutti gli sport di massa prendessero piede rapidamente e perché non fossero schiacciati dalle competizioni professionistiche, c’era bisogno di un miglioramento delle attrezzature disponibili, fino ad allora scarse o del tutto inesistenti. Il partito fascista dunque autorizzò i prefetti ad accettare i preventivi per la costruzione di impianti ricreativi ed i comuni a donare terreni. Tutte le altre spese
Sarebbero state sostenute da aziende private che avrebbero poi ricavato degli utili dai loro investimenti. Ciò fece aumentare il numero di campi da gioco e strutture sul territorio nazionale, ma queste rimanevano comunque scarse, inoltre, la divisione attuata dal regime, finiva col danneggiare i giochi dopolavoristici, perché le sedi dell’Ond erano finanziate solo dalle quote d’iscrizione e da modeste sovvenzioni statali, mentre gli sport nobili, oltre a forti stanziamenti del governo ricevevano anche finanziamenti da privati. Questo grande interesse nel professionismo sfociò spesso però in illeciti e fondi illegali per la costruzione di stadi nelle città più importanti.
Gli sport professionistici continuavano a guadagnare prestigio internazionale e spettatori, mentre i giochi di massa, perdevano sempre più aderenti.
Le gare in cui il le masse erano passive sopraffecero quelle in cui erano invece attive, ma il partito non era dispiaciuto, perché negli sport nobili potevano essere trovati nuovi simboli di identità nazionale, inoltre, richiamando molto pubblico, queste gare davano la possibilità di sfogare i propri istinti aggressivi, nonché di distrarsi dalla politica.
Un altro metodo utilizzato dall’Ond per la promozione della nuova identità nazionale fu quello del turismo popolare, ovvero, offriva agli aderenti la possibilità di fare escursioni, marce a piedi e gite in campagna, al mare o in montagna, d’altra parte il Paese offriva numerosi itinerari di interesse paesaggistico, storico e culturale.
Nacquero i treni popolari, destinati al trasporto di massa, che offrivano alle comitive sconti fino al cinquanta per cento. Questo mezzo di trasporto fu presto sottoposto alla solita propaganda fascista ed offrivano comunque la possibilità di trovare un attimo di respiro al di fuori dell’ambiente cittadino.
Molto successo avevano le escursioni di massa, a piedi o in bicicletta, che offrivano a tutti i lavoratori, ma anche ai non iscritti all’ente, la possibilità di “trascorrere una giornata col dopolavoro in un’atmosfera di sano divertimento”.
Spesso, per amplificarne la portata, queste gite, data la loro sporadicità, venivano accompagnate da fanfare, discorsi o gare e venivano svolte in giornate di importanza nazionale.
In realtà il tutto consisteva in massicci spostamenti di gente dalle città alle campagne e viceversa.
Annualmente venivano organizzati raduni interregionali, riunendo insieme lavoratori provenienti da svariati ambienti professionali e collocazioni geografiche, che erano però raramente membri del ceto medio. I rari casi di datori di lavoro uniti ai loro dipendenti in un’escursione erano pubblicizzati dai fascisti come la dimostrazione che l’opera del partito era riuscita ad ottenere una collaborazione fra capitalisti e lavoratori, ma in realtà, per gli alti ranghi, queste gite erano semplicemente un esempio della grossolanità del regime..
Oltretutto queste uscite si trasformavano spesso in raduni politici e spesso le destinazioni erano luoghi cari all’unità d’Italia o campi di battaglia, simboli che rappresentavano le gesta patriottiche del passato e la futura potenza dello Stato.
Dunque, i passatempi ricreativi popolari, furono sottoposti ad una standardizzazione, sorsero migliaia di nuove sedi del dopolavoro e molte persone che prima non avevano avuto nulla a che vedere con l’organizzazione di svaghi, furono coinvolte in attività che le portarono a contatto con gente proveniente da altre zone d’Italia.
Il deciso intervento dello Stato ed il coordinamento obbligatorio rinforzarono l’unione fra le comunità proletarie, ma accelerarono l’integrazione della gente nella vita nazionale.
In realtà, nonostante l’idea fascista di voler eliminare la lotta di classe, il tipo di politica adottata per l’organizzazione del tempo libero di massa era tipicamente classista, tanto che i dopolavoristi erano confinati negli spettacoli speciali o del sabato pomeriggio, non godevano degli stessi diritti borghesi in cinema e teatri e le loro attrezzature sportive erano rudimentali.
L’Ond fu comunque molto importante per il regime, perché tenette sotto controllo tutte quelle attività che avrebbero potuto unire la classe dei lavoratori, creando una propria identità che avrebbe potuto contrapporsi alla dittatura del duce.
LA FORMAZIONE DELLA CULTURA DEL CONSENSO
Il regime fascista aveva presto riconosciuto il valore della cultura ai fini del consolidamento dell’autorità.
L’idea più cara ai fascisti era quella della formazione di una cultura nazionale unificata ed unificatrice.
Punti di partenza furono tutte le culture preesistenti in Italia, da quelle borghesi a quelle popolari, da cui si potevano attingere contenuti da utilizzare per la nuova.
Anche in questo caso, il fascismo, anziché limitare la divisione di classe, la accentuò ulteriormente, distinguendo la cultura fra una di tipo “superiore” ed un’altra “inferiore”.
La cultura fascista “superiore” era associata all’Enciclopedia Treccani, pubblicata agli inizi degli anni Trenta sotto la direzione di Giovanni Gentile, che produsse il primo dizionario ufficiale della lingua italiana. Lo stesso Gentile divenne presidente di un nuovo istituto, l’Accademia d’Italia, le cui sedi periferiche avevano finalità educative e la loro propaganda era diretta alla classe media, perché ritenuta l’unica in grado di assimilare la dottrina, mentre alle altre classi rimanevano le attività culturali dell’Ond. La propaganda ufficiale sosteneva che i veri ideali fascisti, comprensibili solo alla classe dirigente, andassero tenuti separati dagli slogan adatti alle masse.
Questa organizzazione gerarchica toglieva agli intellettuali ogni responsabilità nei confronti della politica dell’Ond, perché la politica popolare consisteva semplicemente nella trasmissione alle masse di una cultura formata dall’élite. Dunque la cultura dopolavoristica veniva in genere trattata come una questione organizzativa ed era affidata a dei collaboratori culturali (docenti, funzionari del partito, maestri e professionisti). Questi, detti anche organizzatori culturali, fungevano da tramite tra il regime ed il popolo, spesso però, la loro posizione al margine della società, li spingeva ad enfatizzare eccessivamente la loro posizione ed il valore del sapere, per aumentare il rispetto nei loro confronti e rivendicare la loro funzione. La cultura fu dunque monumentalizzata, in modo da farla apparire al lavoratore come un lusso ed un privilegio per cui lottare, chiunque durante il tempo libero avrebbe così potuto emulare le “consuetudini culturali” dei loro superiori, e migliorarsi grazie alla cultura nazionale.
I temi dominanti di questa cultura dopolavorista erano di tipo nazionalista, gli elementi delle culture democratiche e liberali erano messi a confronto con le tradizioni, c’era quindi antipatia per le influenze straniere, soprattutto per l’ideologia di massa cosmopolita, indicata con il termine “americanismo”.
Per spalleggiare questo fenomeno, i fascisti fecero grande uso delle origini nazionali, definendo l’Italia come il “paese della risorta romanità”, dove il vero italiano respingeva il jazz delle bande americane e preferiva ascoltare le melodie del Verdi, e degli altri compositori compatrioti.
I grandi maestri dell’arte italiana, come Leonardo da Vinci o Michelangelo, venivano presentati al pubblico dopolavorista raccontandone aneddoti e stranezze che li rendevano più umani.
Chiaramente vi erano delle eccezioni per quanto riguardava l’arte moderna, ed il regime sosteneva il “modernismo”.
Il sapere offerto al nuovo pubblico però non era altro che il mondo dell’alta cultura così come lo concepivano i diversi organizzatori, che la presentavano quasi come “il mondo dell’occulto ai profani”.
La cultura popolare fu però sempre trattata come “roba da dopolavoro” e non godeva quindi del rispetto che era invece riservato a quella ufficiale.
Per formare un nuovo modello di cittadino era molto importante una riforma dell’istruzione, però questa preoccupazione riguardava il sistema didattico formale che le istituzioni per l’istruzione del proletariato.
La riforma entrò in vigore nel 1923 quando Gentile era ministro della Pubblica Istruzione, ma affrontò quasi esclusivamente il problema della formazione della classe dirigente. Rinforzò le distinzioni di classi, aumentando i requisiti per essere ammessi nelle discipline umanistiche ed istituì competitivi Esami di Stato per poter accedere ad un’istruzione superiore.
In questo modo, veniva confermata la separazione tra studenti borghesi ed i figli dei proletari e venne declassata l’istruzione tecnica e professionale rispetto alla “educazione”, infatti l’ammissione universitaria era preclusa ai diplomati negli istituti tecnici e vennero fondate scuole tecniche “complementari”, destinate ai ceti inferiori, che pretendevano di completare la preparazione dello studente all’età di tredici anni, fornendo solo nozioni di cultura generale.
I fascisti non scartarono immediatamente la possibilità di educare le masse, anzi, parlarono spesso delle funzioni del dopolavoro sul piano del miglioramento sociale e morale dei suoi iscritti.
Questo tipo d’istruzione era ritenuto anche un rimedio al conflitto di classe, perché avrebbe creato un proletariato più disciplinato, perché si sarebbe fatto conoscere il valore della gerarchia della collaborazione sociale e del patriottismo. All’atto pratico però non fu mai risolto niente, perché gli organizzatori culturali non erano propensi all’insegnamento e definivano il contenuto e la forma dei metodi didattici sovversivi.
Le Università popolari, che costituivano un punto d’incontro per gli intellettuali democratici e socialisti, vennero chiuse, ribadendo il concetto che questo tipo di istituzione era destinato ad una cultura d’élite, mentre il popolo doveva lavorare, per il bene della Patria.
La politica didattica nelle sedi dell’Ond fu lasciata agli organizzatori, che avevano il compito di rendere la cultura accessibile e comprensibile al livello psicologico degli organizzati. In pratica, il tipo di insegnamento si limitava a ciò che i lavoratori dovevano assimilare, ovvero, argomenti di carattere storico, la spiegazione della Carta del lavoro, della collaborazione di classe, nozioni igieniche per la prevenzione delle malattie, nonché consigli sui comportamenti da tenere nelle loro abitazioni e sul posto di lavoro; l’istruzione politica, non era altro che lo studio della legislazione e delle istituzioni fasciste.
L’Ond non fu utilizzata al meglio per scopi didattici, un po’ per la mancanza di fondi per l’acquisto di attrezzature culturali e per pagare collaboratori qualificati ma soprattutto per la propria incapacità di organizzare un adeguato programma di studi. Inoltre non si preoccupò mai abbastanza di ridurre l’analfabetismo, che nel Meridione toccava anche la soglia del settanta per cento, e la riduzione di questo fenomeno avvenuta nel secondo decennio fascista è da attribuirsi ad un’aumentata efficienza del sistema elementare.
Le carenze delle riforma Gentile nell’ambito dell’istruzione tecnica furono in parte colmate da Giuseppe Belluzzo, ministro dell’Educazione nazionale dal 1928 al 1932. Egli introdusse la scuola secondaria a indirizzo pratico per alunni fino ai 14 anni d’età e i consorzi provinciali per l’istruzione tecnica, che erano organi di controllo per tutte le attività locali di istruzione professionale.
In ogni caso, il livello ancora molto basso di questo tipo di insegnamento, forniva grossi limiti all’economia di una nazione che aveva bisogno di lavoratori molto duttili e che si ritrovava invece uomini di limitate possibilità, vittime di un’istruzione che li rendeva completamente immobili nel contesto lavorativo; inoltre, nei momenti di crisi, gli operai non specializzati erano i primi a subire licenziamenti. L’esigenza era talmente sentita che anche i portavoce di industrie importanti chiedevano in fretta un incremento dei programmi di formazione professionale.
La mancata risposta dell’Ond al problema (denunciato anche dalla Fiat) confermava le scelte prese dall’organizzazione fin dal momento in cui si era contrapposta ai sindacati, i quali affermavano che grazie all’istruzione, i lavoratori sarebbero diventati consapevoli della produzione, con vivo desiderio di progredire, ovvero, continuava a sostenere che una promozione sul posto di lavoro non avrebbe risolto il problema della “pacificazione operaia”. Dunque si lasciò che i sindacati fondassero proprie scuole e stipulassero accordi con le industrie per la concessione di indennità agli operai che frequentavano i corsi di addestramento, per regolamentare le categorie di mestiere e per garantire il riconoscimento dei corsi nella scala dei salari ed in quella gerarchica.
Respingendo una funzione nello sviluppo di una moderna cultura “tecnologica”, l’Ond dedicò le sue energie organizzative a favore delle tradizioni che lentamente, con il progredire dell’alfabetismo e dell’urbanizzazione, stavano scomparendo.
L’Ond era la principale associazione esaltatrice dei valori popolari, sopravvivenze culturali della comunità preindustriale, usanze scomparse da tempo e dissepolte dai fascisti.
Un’educazione utile sul piano sociale doveva conservare quelle tradizioni che con i loro valori avrebbero potuto tenere unita una nazione, perché se usanze tradizionali, convinzioni e costumi fossero stati posti sotto l’azione unificatrice della civiltà moderna, l’unione nazionale si sarebbe disgregata.
Invece, arti popolari, culti religiosi, superstizioni e leggende avrebbero permesso alle masse di esprimere la propria personalità, le proprie emozioni naturali. Con i ritmi di lavoro della vita moderna, queste feste di piazza sarebbero state almeno un’illusione di libertà per compensare un’effettiva perdita d’autonomia. Il regime puntava molto su queste manifestazioni che avrebbero dovuto far sentire l’uomo comune orgoglioso di appartenere ad una razza e di possedere qualcosa che i ricchi non avevano, inoltre, avrebbero indotto la gente all’ordine e alla disciplina e l’avrebbero difesa dall’ozio e dalla frivolezza.
L’Ond indicava le feste popolari come l’unico svago in cui sembrava essere ancora vivo un spirito individuale e libero, ma non sempre se ne assumeva la responsabilità, anzi, spesso sosteneva che il risveglio di queste tradizioni non era stato provocato artificiosamente ma che era la conseguenza di un’attenta propaganda che aveva rispolverato lo “splendore del passato”.
In realtà la maggior parte cerimonie popolari era caduta in disuso da parecchio tempo e le poche rimaste avevano perso ogni lustro, per mancanza di fondi o di interesse da parte del pubblico.
Per risvegliare questo interesse, furono istituite delle sezioni di folklore in ciascun consiglio provinciale, la cui organizzazione era affidata a persone esperte di usanze e consuetudini locali, assistite da storici ed etnografi. L’Ond pubblicizzò e sovvenzionò molti gruppi, bande campagnole e associazioni teatrali dialettali, mentre i mezzi di comunicazione venivano usati per diffondere musiche e balli popolari. Inoltre, l’ente promosse la fondazione di musei etnografici regionali, corredandoli di materiale e di copie dei costumi locali raccolte dai comitati provinciali.
A volte durante le manifestazioni veniva richiesto ai partecipanti di indossare questi consumi, confezionati per l’occasione dagli artigiani locali.
Quest’uso generale del costume svolgeva un ruolo importante dal punto di vista ideologico e sociale, poiché indossare l’abito “migliore”, per chi non poteva permettersi di seguire la moda borghese, era sempre stato un modo per ostentare la propria dignità ed ora, con questi abiti tradizionali, uguali per tutti, il ruolo di partecipante alla festa assumeva ancora più significato.
Il costume popolare diventava una sorta di abito ufficiale dei dopolavoristi.
L’immagine rurale in particolare era vittima di speculazione da parte del regime, poiché impersonava la tradizione del popolo italiano, tanto che avvenenti contadine erano stampate sulle copertine delle riviste, insieme ad “allegri contadini, impeccabili nel loro lavoro, sobri e parsimoniosi”.
Nel 1930 l’Ond ricevette l’ordine dal partito di organizzare feste per il raccolto ed il lavoro, per promuovere industrie artigiane ed agricole e secondo la propaganda, ogni difesa dei posti di lavoro doveva essere accompagnata da una difesa delle tradizioni ad essi collegati.
Le feste venivano organizzate per rievocare lo spirito della collettività contadina o l’unità dell’associazione di categoria e venivano celebrate secondo rituali contadini che derivavano da usanze pagane; molte di queste erano addirittura considerate feste nazionali di secondaria importanza e venivano organizzate sia nei centri urbani che nei borghi.
Anche le mostre d’arti e mestieri avevano il ruolo di evidenziare “l’inventiva tipica della razza italiana”.
Queste esposizioni erano tenute a livello regionale o provinciale ed erano dedicate all’esaltazione del modo di vivere dell’artigiano; contenevano mobilia, ceramiche, attrezzi da lavoro e dipinti dedicati alle professioni più umili, così da conferire loro dignità. Addirittura, nel 1937 a Catania, durante la festa del santo patrono si tenette una gara tra venditori ambulanti per il miglior grido di richiamo.
Le feste annuali del comune o del santo patrono erano quelle su cui si concentrava meglio l’inventiva dell’Ond, che di appoggiava sui comitati organizzativi locali; su di esse venivano investiti fondi supplementari, come se si trattasse di preparare progetti per opere pubbliche.
Già a metà degli anni Trenta, tutte le città più importanti celebravano diverse feste, con lo stesso sfarzo dell’epoca comunale, infatti la coreografia aveva lo scopo di richiamare il maggior numero possibile di persone.
Solitamente l’intera manifestazione consisteva in un evento principale, attorniato dall’esposizione di sacre immagini, da contadini in costume, da cavalli e buoi bardati, da carri allegorici o, nelle località marine, da regate con barche illuminate; a volte si tenevano competizioni sportive o gare artistiche, ma l’attenzione del pubblico era attratta dalle rappresentazioni di leggende locali, in cui gli italiani combattevano e sconfiggevano nemici che attaccavano la patria.
Molto spesso poi, la coreografia fascista si fondeva con il rituale cattolico, soprattutto nelle zone in cui il socialismo a la lotta anticlericale erano ancora vivi. Ad esempio, durante le processioni, affianco a candelabri e immagini sacre si potevano trovare camicie nere, ragazzini in divisa da balilla o ritratti del duce.
Ogni volta che tradizioni e modernità entravano in contatto, il tutto veniva completato con messaggi sociali, sovente i carri allegorici rappresentavano temi tratti dalla vita politica o slogan fascisti. Tuttavia, tutte queste manifestazioni erano a carattere locale e regionale ed avrebbero potuto portare ad un nuova identificazione con le proprie usanze ed origini geografiche, dunque ciò non concordava con la politica unificatrice del regime. Eppure, il regionalismo faceva meno paura dell’identificazione di classe, perché creava comunque un credo nella superiorità della propria razza a livello regionale, inoltre gli organizzatori culturali cercavano sempre di estrapolare dalle feste locali qualche significato nazionale.
Mescolando i tradizionali costumi contadini, le decorazioni militari di Casa Savoia e le divise del partito, si raggiunse una fusione tra consuetudini popolari e rituali fascisti.
Le festività ripristinate erano le attività più spontanee organizzate dal regime ed offrivano una certa sfera di libertà, ad esempio nella preparazione dei carri. I preparativi erano comunque controllati, perché così come avrebbero potuto mostrare l’acquiescenza del popolo, avrebbero potuto anche mostrarne il dissenso, anche se ciò accadde molto raramente.
Forse l’aspetto più singolare del contenuto della cultura del dopolavoro fu la mancanza di qualsiasi aperto richiamo politico, nel senso che l’organizzazione si preoccupava più di distogliere l’opinione pubblica da preoccupazioni d’ordine sociale che di far conoscere i principi del fascismo.
I giovani sembravano molto più interessati allo sport, per cui passavano ore di discussione nei circoli dei tifosi o nelle associazioni sportive, che al lavoro dei sindacati.
Anche il cinema, nonostante la progressiva opera di censura, forniva un diversivo culturale più che un mezzo di propaganda e vedeva sempre le pellicole statunitensi in numero notevolmente maggiore e più apprezzate rispetto a quelle italiane. Le prime alimentavano le fantasie d’evasione della popolazione, narrando storie sentimentali in cui i protagonisti vivevano in una situazione di felicità e benessere. L’unico limite posto era che prima di ogni spettacolo, vigeva l’obbligo di proiettare un cortometraggio giornalistico che mostrava immagini propagandistiche di bambini che giocavano nelle colonie fasciste, di gare sportive o feste popolari. Però gli italiani difficilmente coglievano il senso di questi filmati e li consideravano come innocui passatempi in attesa della proiezione principale.
Il cinema italiano provò a produrre film sullo stile Hollywoodiano, adattando le vicende raccontate oltre oceano alla realtà italiana, alla piccola borghesia e al dopolavoro, ma questi tentativi, seppur apprezzati dalla gente, erano duramente condannati dagli intellettuali fascisti, poiché ritenevano questo tipo di produzione politicamente corrotta. Secondo le loro idee, i film dovevano essere utilizzati come strumento di sottile persuasione, perché essendo basati sulle emozioni, potevano essere molto efficaci.
Per quel che riguarda i mezzi di comunicazione ufficiali, dopo l’avvento del fascismo, venne intensificato il numero di programmi radiofonici di carattere politico, a scapito delle tradizionali trasmissioni musicali, ma questi non superavano comunque un terzo del totale.
Anche la produzione teatrale era sprovvista di espliciti argomenti politici, infatti le opere si ispiravano alle tradizioni popolari o alla classica commedia dell’arte.
Questo tipo di ideologia non espressamente politica fu chiamata politica d’evasione.
Un cambiamento si ebbe durante la campagna etiopica, quando le vignette che apparivano sui giornali, rappresentavano le indigene come serve che aspettano i liberatori e l’intero stato africano come una terra in attesa della civilizzazione da parte del popolo italiano, oppure utilizzavano disegni semplici e caricature appropriatamente studiate per far comprendere alle masse la situazione dell’Italia dopo le sanzioni e ne denunciavano l’ingiustizia.
Tuttavia, al termine della guerra d’Etiopia anche le vignette politiche sparirono.
I registi cinematografici proseguivano il loro lavoro al più abbellendo argomenti impegnati con il sentimentalismo, ma senza mai evocare un’identificazione con i principi del regime.
CONCLUSIONI
Dunque la cultura popolare fascista serviva essenzialmente come distrazione, anche perché la creazione della tanto agognata nuova cultura nazionale era impedita proprio dalle istituzioni culturali del sistema, che rinforzavano le barriere economiche e sociali preesistenti.
Anche i giovani intellettuali che credevano ancora nella strategia dell’“andare al popolo”, furono scoraggiati dagli ostacoli burocratici che si ponevano tra le élite e le masse.
In ogni caso, l’opera dopolavoristica svolse un ruolo altrettanto importante nel rendere legittimo il regime; la cultura popolare fascista si appropriò di motivi ideologici piccolo borghesi e di forme rituali popolari. Quelle che erano state espressioni autonome erano state trasformate in manifestazioni culturali gradite al partito a e che gli fornivano appoggio.
L’autarchia culturale fu senza dubbio più completa ai livelli inferiori della scala sociale, dove le difese erano minori; ai lavoratori infatti vennero sottratti i mezzi di espressione politica ed i contatti con gli intellettuali. Questi ultimi invece avevano ancora la possibilità di usufruire di mezzi di informazione stranieri e di discutere con altri pari grado.
Gli organizzatori culturali avevano dunque un’autorità quasi incontrastata sui membri dell’Ond che tanto più questi erano giovani ed inesperti di politica, tanto più si facevano condizionare ed impressionare dall’opera di questi funzionari.
Però l’eclettismo della cultura del consenso, pur avendo il vantaggio di richiamare un pubblico socialmente differenziato, a lungo andare si rivelò non adatto a mantenere l’appoggio, e l’uso della censura fu fondamentale per proteggere dalla concorrenza di ideologie più coerenti.
Gli atteggiamenti sociali che l’ideologia dittatoriale favoriva, ovvero accondiscendenza, tradizionalismo, ignoranza ed evasione, funzionarono finché il governo dovette preoccuparsi solo di mantenere l’ordine, ma quando il regime cercò di ottenere una mobilitazione mediante l’identificazione con i principi fascisti, questi stessi atteggiamenti si rivelarono controproducenti, perché non si poteva pretendere di trasformare in guerriero un popolo da anni costretto alla passività.

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