ebraismo

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Testo


Religione degli ebrei, la più antica fra le fedi monoteistiche. La lingua italiana utilizza convenzionalmente il termine "ebraismo", benché la religione abbracciata dagli ebrei sin dall'epoca che seguì la fine dell'esilio a Babilonia (VI secolo a.C.), venga definita scientificamente "giudaismo". La tradizione ebraica considera la propria esperienza religiosa eminentemente come osservanza della Torah, la legge suprema che Dio ha donato al suo popolo, e come Halakah, una "via", un percorso di fede e di vita da seguire scrupolosamente a livello personale e collettivo.
Nato nella regione storica della Palestina, in parte coincidente con il territorio dell'odierno stato di Israele, l'ebraismo è oggi diffuso in tutto il mondo: è praticato fuori d'Israele dalle comunità della diaspora, formatesi in seguito ai fenomeni di emigrazione che, spesso a causa di persecuzioni ed espulsioni, hanno caratterizzato l'intera storia ebraica. È comunque necessario puntualizzare il fatto che non tutti i 18 milioni di ebrei presenti nel mondo (dei quali 6.800.000 negli Stati Uniti, oltre 3.600.000 in Israele, quasi 2.000.000 in Russia, circa 1.500.000 in Europa) praticano la religione tradizionale, nell'ambito della quale non mancano poi orientamenti diversi, talora contrastanti.
Le origini
La storia dell'ebraismo corre parallela ai momenti culminanti della storia del popolo ebraico ed è testimoniata per la sua fase fondamentale, quella più antica, dai dati confluiti nella Bibbia, documento teologico costituito da elementi di origine cronologicamente e concettualmente eterogenea, connessi tuttavia in una prospettiva religiosa sostanzialmente coerente. L'adozione di una fede assoluta nell'unico Dio viene considerata da alcuni studiosi successiva a una prima fase, il cosiddetto enoteismo, in cui l'adorazione di Yahweh non comportava la negazione dell'esistenza delle divinità degli altri popoli. Il nome stesso di Dio costituisce una questione tuttora aperta, dal momento che i testi biblici presentano significativamente, accanto al nome di Yahweh, il termine più generico "Elohim", forma plurale della radice utilizzata dalle lingue semitiche per indicare la divinità. Anche nel sacrificio, l'atto di culto fondamentale praticato dai sacerdoti nel tempio di Gerusalemme con l'immolazione quotidiana di animali, si può scorgere facilmente l'evoluzione di un'antica pratica religiosa connessa con i cicli agricoli, pratica che imponeva l'offerta rituale alla divinità garante della fecondità della natura e del sostentamento degli esseri umani. D'altro canto non mancarono, soprattutto nell'epoca successiva alla separazione dei due regni di Giuda e di Israele, episodi di sincretismo religioso, nei quali il culto di Yahweh veniva accostato alle diverse pratiche del paganesimo penetrate fra gli israeliti attraverso il contatto con i popoli vicini: la ferma condanna di questi atteggiamenti costituisce un caposaldo della predicazione dei profeti, che levarono la loro voce per richiamare gli ebrei alla fedeltà ai contenuti del monoteismo, invocando nel contempo una religiosità interiore e non confinata negli spazi di un ritualismo formale, quale appariva loro la stessa pratica del sacrificio.
Il dramma del 586 a.C., che segna l'inizio della diaspora, rappresentò certamente un punto di svolta per l'ebraismo, che da questo momento si caratterizzò sempre più decisamente come una fede storica che considerava la vicenda umana, e particolarmente quella del popolo di Israele, come ambito privilegiato dell'intervento di Dio e della manifestazione della sua alleanza con i discendenti di Abramo. Se profeti come Ezechiele e il cosiddetto "deutero-Isaia" non esitarono a interpretare la deportazione a Babilonia come una punizione divina dovuta all'infedeltà del popolo eletto al patto con l'unico Dio, all'epoca dell'esilio risalirebbe la forma definitiva dei libri della Torah, che rileggono in chiave retrospettiva l'intera storia ebraica collocando la rivelazione monoteistica ai suoi primordi e facendo risalire la fede nell'intervento salvifico del loro Dio, unico signore della storia, al contesto antico della liberazione dal dominio egizio.
Il ritorno degli ebrei nella loro terra, reso possibile nel 538 a.C. dall'avvento di Ciro il Grande sulla scena politica mediorientale, inaugura un periodo di grande fervore religioso, e l'opera di Neemia e di Esdra, ampiamente descritta dagli omonimi libri biblici, appare decisamente indirizzata alla creazione di una compagine sociale fondata sul rispetto della legge sacra e sull'obbedienza a una potente classe sacerdotale. Questa profonda adesione degli ebrei ai dettami della loro identità religiosa avrebbe costituito anche il motivo ispiratore della vittoriosa rivolta dei Maccabei, che venne scatenata dalla pretesa del re Antioco IV di Siria di proibire agli ebrei la pratica della loro fede imponendo loro culti di tipo ellenistico e pagani.
L'interpretazione di questo conflitto in chiave religiosa come momento del conflitto cosmico tra le forze del bene e quelle del male costituisce uno degli elementi ispiratori della letteratura apocalittica, che introdusse nell'orizzonte teologico ebraico concetti come quello di "resurrezione" e di "giudizio", totalmente ignoti alla tradizione precedente, incline, per quanto concerne l'escatologia, a confinare i defunti, sia buoni sia malvagi, in un oltretomba tenebroso e senza speranza, lo sheol.
Il conflitto fra gli ambienti religiosi e il potere politico non cessò durante gli 80 anni di indipendenza di Israele sotto il regno degli Asmonei. Essi, per la loro tendenza ad arrogarsi, fra intrighi politici di ogni genere, il titolo di sommo sacerdote accanto a quello di re, spinsero i movimenti più tradizionalisti a forme di dissenso talora clamoroso, come il completo isolamento monastico della comunità di Qumran, divenuta nota grazie ai manoscritti del Mar Morto, talora meno esplicito ma ugualmente significativo, come nel caso dei farisei. Costoro furono i veri precursori dell'ebraismo rabbinico che fece seguito alla distruzione del tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C. per mano dei romani in seguito alla fallita rivolta antiromana che ebbe luogo fra il 66 e il 70. Se dopo il fallimento della disperata sollevazione guidata da Simon Bar Kokeba fra il 131 e il 135 d.C., episodio considerato come sciagura addirittura superiore a quella del 586 a.C., il movimento rabbinico riuscì a mantenere la vitalità dell'ebraismo nel contesto della diaspora raccogliendo i fedeli intorno allo studio della legge, non mancarono già nei primi secoli tendenze marcatamente antirabbiniche da parte di alcuni gruppi che, come i caraiti, invocavano una pratica religiosa caratterizzata da una dimensione spirituale più profonda e lontana da ogni formalismo legalista.
Il contatto con l'Islam determinò invece la diffusione, anche negli stessi ambienti rabbinici, dell'interesse per la speculazione filosofica; così, il pensiero dei maggiori filosofi greci, tradotti e commentati dai dotti musulmani, fornì ben presto agli intellettuali ebrei uno strumento apologetico per dimostrare la ragionevolezza e la ricchezza profonda della loro fede: questa ricerca di una ridefinizione della tradizione antica sulla base di nuovi orientamenti speculativi caratterizzò in età medievale l'attività degli ebrei insediati nella Spagna islamica , detti "sefarditi" da "Sefard", nome arabo della Spagna, e ispirò l'opera di personaggi di grande rilievo come Maimonide, l'autore della Guida dei perplessi (1170). Momento altrettanto importante della storia dell'ebraismo medievale è lo sviluppo di quelle tendenze mistiche che troveranno la loro espressione più compiuta nella cabala, indirizzo di pensiero esoterico ricco di suggestioni mutuate dal neoplatonismo e dallo gnosticismo e fondato sull'interpretazione della Legge in chiave simbolica, come mostrano le pagine spesso ardue di trattati come lo Zohar, redatto nel XIII secolo dal mistico Mosè de León.
Coltivato a lungo in ristretti circoli intellettuali, questo orientamento filosofico acquisì caratteri di maggiore popolarità dopo l'espulsione degli ebrei dalla Spagna cristiana (1492) e la sua prospettiva mistica poté essere reinterpretata in chiave messianica da personaggi di spicco come Isaac Luria, che, attribuendo alla sofferenza degli israeliti esuli dalla loro patria un significato preciso nel quadro dell'eterno dramma cosmico della morte e della rigenerazione dell'universo, avrebbe ispirato direttamente movimenti messianici come quello alla cui guida fu nel XVII secolo Shabbatai Zevi.
Lo slancio messianico non fu estraneo neppure agli ambienti che, influenzati dalle istanze dell'illuminismo, si fecero portatori di un ebraismo cosiddetto "riformato" per la sua tendenza a caratterizzarsi, soprattutto in Germania, come una confessione capace di acquisire nuovo vigore seguendo da vicino il modello del protestantesimo e abbandonando le pratiche più tradizionali e formali al fine di una migliore integrazione degli israeliti nella vita sociale dell'Europa moderna. Non è difficile, infatti, scorgere una forma per così dire "moderna" di messianismo in atteggiamenti quali la fede nel progresso umano, apparentemente lontani dalla dimensione religiosa; proprio questi atteggiamenti forgiarono gli ideali del sionismo, il movimento di ispirazione laica che, fondato nel 1896 dall'ebreo austriaco Theodor Herzl, si fece portavoce della rivendicazione di una identità nazionale israelitica, traducendo a livello politico la speranza rabbinica del ritorno nella terra promessa.
L'istituzione dello stato di Israele nel 1948 rappresenta dunque un momento di grande significato per l'intero mondo ebraico, sia per quanti sono rimasti fedeli alla religione dei padri, sia per le famiglie che l'hanno abbandonata ormai da generazioni, pur senza aver dimenticato la propria identità culturale: sull'intero mondo ebraico si era infatti abbattuto il dramma dell'antisemitismo, che si acuì tragicamente fino al tentativo di genocidio messo in atto dal nazismo durante gli anni della seconda guerra mondiale. Il ritorno nella terra dei padri poteva venire dunque inteso come l'atto culminante del processo di morte e di rigenerazione a cui la storia pare avere destinato questo popolo.
Lo stato di Israele è divenuto così il luogo privilegiato della ricerca di un equilibrio fra le diverse anime dell'ebraismo, che presenta oggi, accanto alla visione dell'ebraismo ortodosso, le istanze dell'ebraismo riformato e di movimenti di diverso orientamento, dalla militanza ultra-ortodossa degli uni alla pratica di una devozione più spirituale degli altri. Questa pluralità di indirizzi si riscontra anche fra tutte le comunità ebraiche tuttora presenti nei diversi paesi, e in particolare in quelle degli Stati Uniti, dove, in seguito ai flussi migratori degli anni fra il 1881 e il 1924 e dell'epoca dell'Olocausto, risiede un numero di ebrei di gran lunga superiore alla stessa popolazione di Israele.

Dottrina

Caratteristica fondamentale dell'ebraismo è un monoteismo radicale, la fede in un unico Dio, assolutamente trascendente e creatore di un universo che governa provvidenzialmente dall'inizio dei tempi. Israele esprime la consapevolezza che Dio abbia "parlato" al suo popolo e, nel corso della storia, la Scrittura sacra, la Bibbia, documenta le tappe di questa rivelazione progressiva, interpretata dagli ebrei come un'alleanza, berith, che Dio ha istituito con loro in quanto popolo eletto, chiamato a custodire gelosamente i precetti della legge.
Il tetragramma sacro YHWH esprime il nome di Dio, che probabilmente in origine si sarebbe dovuto pronunciare come Jaweh o Yahweh, parola riconducibile alla radice del verbo "essere". infatti in un passo fondamentale del libro dell'Esodo (3:14) Dio si rivela a Mosè proclamando: "Io sono colui che sono", una proposizione che ha dato luogo a infinite discussioni in sede esegetica, ma il cui significato non appare comunque discosto dall'idea esprimibile compiutamente con le parole: "Io sono colui che è", nel senso che Dio definisce se stesso come entità reale e realtà suprema per eccellenza, che, nel contesto specifico dell'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, rende manifesta la sua presenza di liberatore della sua gente dalla schiavitù. La tradizione israelitica considera illecito pronunciare il nome di Dio. Esso, a motivo dell'uso tipico della scrittura ebraica di non registrare le vocali, compariva nella redazione antica della Bibbia in forma consonantica come Yhwh, sostituito nella lettura con il termine più generico Adonai ("Signore"), in quanto soltanto il sommo sacerdote era autorizzato, una sola volta all'anno (durante la festa dello Yom Kippur), a pronunciare solennemente il nome ineffabile della divinità. Quando, nel VII secolo d.C., i dotti masoreti si accinsero a dotare di vocali i libri biblici per renderne più sicura la tradizione testuale, inserirono nel tetragramma sacro le vocali di "Adonai", dando luogo alla forma "Yehowah" che sta all'origine del nome Geova.
Signore onnipotente e legislatore, Dio esige dal suo popolo un'assoluta fedeltà e un'obbedienza incondizionata alla sua legge, promulgata solennemente sul monte Sinai ai tempi dell'esodo e registrata compiutamente nei primi cinque libri della Bibbia, detti, per l'appunto, "Torah", "legge" in ebraico, ai quali si affiancano i libri profetici e gli altri scritti canonici. La vicenda storica del popolo di Israele è interpretata dalla tradizione ebraica secondo una prospettiva teologica, come luogo privilegiato dell'intervento di Dio, che assiste costantemente il suo popolo assicurandogli la salvezza di fronte ai numerosi e potenti nemici, in virtù dell'alleanza stabilita per l'eternità; la sofferenza, elemento costante nella storia degli ebrei fin dall'antichità, soprattutto dopo la vicenda drammatica della deportazione a Babilonia nel 586 a.C., è la conseguenza tangibile dell'infedeltà del popolo eletto ai precetti della sua religione e ai doveri dell'alleanza. Dio è comunque sempre disposto a rinnovare l'alleanza, risollevando gli israeliti prostrati dall'oppressione e infondendo loro nuove speranze.
La fede incrollabile nell'intervento liberatore di Dio e la coscienza della necessità della conversione al fine di ottenere la salvezza alimentano, già nei libri profetici della Bibbia, ma soprattutto nell'ebraismo della diaspora, la speranza nell'avvento di un Messia, l'uomo dalla missione escatologica che Dio invierà alla fine dei tempi per liberare definitivamente il suo popolo dall'esilio e dalla dominazione straniera e instaurare nella terra promessa il regno di pace e prosperità destinato alla stirpe eletta dei suoi fedeli.

La tradizione rabbinica e il culto

La speranza nell'avvento del Messia divenne un tratto fondamentale della fede ebraica dopo la rovina della nazione, avvenuta nel 135 d.C. per mano dei romani, che già nel 70 avevano distrutto il tempio di Gerusalemme, luogo simbolico dell'ebraismo, sede principale del culto e altare del sacrificio offerto a Dio. Con la diaspora, lontani dal tempio e dalla terra promessa, i fedeli recavano con sé le parole della Scrittura e i precetti della legge. Essi costituirono ben presto l'oggetto di un attento e devoto studio da parte dei pii israeliti, guidati dai loro maestri, i rabbini (in ebraico e in aramaico rabbi significa appunto "maestro") alla comprensione di una tradizione orale che per secoli era stata tramandata da generazioni di saggi come complemento indispensabile del messaggio divino sedimentato nella Torah.
Frutto di questa intensa attività di studio e di interpretazione della tradizione antica condotta dalle scuole rabbiniche nei primi secoli dell'era cristiana sarebbe stata la trascrizione, avvenuta fra il V e il VI secolo d.C., del Talmud, posto accanto alla stessa Bibbia come fonte autorevole della legislazione e della condotta sociale e rituale delle comunità della diaspora fedeli alla religione dei padri e condensato nelle due versioni, redatte l'una a Babilonia e l'altra in Palestina. L'opera dei rabbini si espresse anche nelle forme tipiche del Midrash, commento ai libri della Scrittura, di cui il Targum costituisce, nelle sue diverse redazioni, una traduzione aramaica indispensabile per i fedeli dopo l'adozione dell'aramaico come lingua parlata in luogo dell'ebraico. In assenza del tempio il culto ebraico venne da allora praticato, oltre che fra le mura domestiche, nella sinagoga, il luogo privilegiato per la preghiera, per la lettura dei libri sacri e per l'istruzione rabbinica. La preghiera consiste in primo luogo in una serie di invocazioni, in ebraico tefillah (in origine 18, ma poi passate a 19), per mezzo delle quali i fedeli implorano la prosperità e l'avvento del Messia. Per le festività e per lo Shabbat, il sabato ebraico, giorno interamente consacrato al Signore, è prevista una liturgia particolare; la preghiera dello Shema, che ha preso nome dalla parola iniziale del brano biblico (Deuteronomio 6:4-9) che esso riproduce, deve essere invece recitata dagli ebrei devoti due volte al giorno, al mattino e alla sera, assieme alle formule del Kaddish, invocazione di contenuto spiccatamente messianico.
Durante la preghiera gli uomini devono coprirsi il capo con una sorta di zucchetto, detto kippah, che gli ebrei più devoti portano costantemente come segno della presenza di Dio, mentre durante l'orazione del mattino nei giorni feriali è d'obbligo indossare un mantello bianco frangiato di lana o di seta che copre le spalle, il tallet, oltre ai caratteristici filatteri, ovvero "custodie" cubiche di cuoio contenenti piccoli rotoli di pergamena che recano scritti alcuni passi della Torah, fissate con cinghie alla parte superiore del braccio e alla fronte. Il sabato, giorno di riposo assoluto da ogni attività lavorativa, è dedicato alla proclamazione solenne della Torah, letta integralmente nelle sinagoghe nel corso di un ciclo annuale che inizia in autunno con la celebrazione nota come Simhat Torah (Gioia della Legge), che ha luogo alla fine della festa di Sukkot: la lettura pubblica del testo biblico costituisce il momento più significativo del culto sinagogale e la funzione primaria assegnata in origine all'istituzione della sinagoga. Gli israeliti devoti sono tenuti a osservare alcune regole alimentari; poiché il cibo deve essere kasher, cioè "puro", essi devono astenersi dalla carne di maiale e dai pesci privi di pinne o squame, considerati impuri (Deuteronomio, 14:3-21), mentre gli animali, tutti i quadrupedi ruminanti con unghia bipartita e il pollame, delle cui carni è lecito cibarsi, debbono essere sgozzati in modo da essere completamente mondati dal sangue; è inoltre proibito consumare contemporaneamente carne e latticini. Fra le feste annuali previste dal calendario liturgico, le principali, legate in origine al ciclo delle stagioni e alle attività agricole, sono state in seguito reinterpretate come occasione di rievocazione di momenti significativi della storia ebraica. Così la Pasqua, Pesach, "passaggio", festa di primavera che segnava l'inizio del raccolto, ha acquisito il ruolo di memoria dell'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, mentre la festa di Shabuot, celebrata 50 giorni dopo la Pasqua (Pentecoste o festa delle Settimane) per sottolineare la fine del raccolto, richiama il momento in cui Dio donò al suo popolo la Torah sul monte Sinai e prevede la lettura solenne dei Dieci Comandamenti nelle sinagoghe; allo stesso modo la festa di Sukkot, "festa delle capanne", anticamente connessa al raccolto d'autunno, rievoca anche simbolicamente, con l'uso di consumare i pasti sotto caratteristiche tende, gli anni trascorsi dal popolo eletto nel deserto prima di giungere alla terra promessa. La festa di Sukkot è preceduta da un periodo penitenziale di dieci giorni, compresi fra il Capodanno ebraico, Rosh Hashanah, e Yom Kippur, il "giorno dell'espiazione", la celebrazione più sacra per gli ebrei, che trascorrono questa giornata nella preghiera e nel digiuno. Alle vicende storiche del popolo di Israele sono ispirate le feste di Hanukkah e di Purim: la prima celebra la vittoria dei Maccabei contro Antioco IV di Siria nel 165 a.C., mentre la seconda rievoca la vicenda narrata dal libro di Ester, che per l'occasione viene letto nelle sinagoghe e offre un momento gioioso per la comunità, nella commemorazione collettiva della situazione pericolosa sperimentata ai tempi del re persiano Assuero, inizialmente deciso a sterminarli.
La vita dei fedeli è segnata da alcuni momenti fondamentali, a cominciare dal rito della circoncisione, attraverso il quale i bambini di sesso maschile sono resi partecipi, otto giorni dopo la nascita, dell'alleanza stipulata da Dio con i discendenti di Abramo. All'età di tredici anni il ragazzo raggiunge la maggiore età assumendosi, come Bar Mitzvah, "figlio del comandamento", l'impegno di osservare i precetti della legge, e viene accolto fra gli adulti che guidano a turno la lettura della Torah nella sinagoga; nelle comunità più progressiste anche le ragazze vengono chiamate alla lettura al compimento del dodicesimo anno. La cerimonia delle nozze, detta Qiddushin, "santificazione", è concepita come momento particolarmente solenne per sottolineare il valore di comandamento divino attribuito all'unione coniugale.

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