Prosa e poesia

Materie:Tesina
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Testo

Appunti per l’introduzione allo studio della poesia tratti da A. MENICHETTI, Metrica italiana, fondamenti metrici, prosodia, rima, Antenore, Padova 1998 [Medioevo e umanesimo, 83]
NOZIONI PRELIMINARI
I. PROSA E POESIA
Una consuetudine immemorabile divenuta un vero e proprio abito mentale fa sí che chi entra in contatto con un’opera letteraria di oggi o del passato sia indotto ad assegnarla istintivamente o all’ambito della «prosa» o a quello della « poesia». Ciò dipende dal fatto che nella nostra civiltà letteraria prosa e poesia si sono presentate quasi sempre come entità distinte (talvolta concorrenti), fornite cioè ciascuna di caratteri propri chiaramente individuabili; anche le loro funzioni non sono state quasi mai considerate intercambiabili.
Non si può dire che tale convinzione sia stata sconvolta né, a livello di poetiche, dall’insofferenza post-simbolista e idealistica
per le distinzioni formali entro un’esperienza espressiva di cui non a torto si rivendicava la sostanziale unità; né, in concreto, dal fatto che possa talora accadere d’imbattersi (specie, non solo, entro il perimetro novecentesco) in qualche testo ‘ambiguo’, la cui collocazione nell’orbita della prosa o in quella della poesia risulti cioè imbarazzante.
Per delimitare con la maggior precisione possibile il nostro campo di studio, sarà bene dichiarare fin d’ora che assumiamo come
appartenente all’ambito della poesia (forma-poesia), e dunque passibile di studio metrico, qualsiasi testo prodotto e recepito come letterario il quale si presenti suddiviso in segmenti tali, per estensione eper eventuali altre caratteristiche, da essere identjflcati come « versi » (Prelim., 3).
1. La «Poesia ». È ovvio e si precisa solo per scongiurare equivoci dipendenti dallo spessore polisemico di uno dei due termini qui contrapposti che in formulazioni di questo genere « poesia » equivale a « forma-poesia », testo versificato, « versi » appunto, senza implicare nessun giudizio di qualità; un testo in prosa può contenere un’intensa carica di Poesia, così come viceversa il testo più metrificato può risultare prosastico: « la prosa dell’Arcadia è addirittura più poesia delle egloghe da essa incorniciate », rileva a ragione Maria Corti (Principi, 98)….
È questo uno dei punti su cui verte già la riflessione dei commentatori cinquecenteschi della Poetica di Aristotele, i quali « dimostrarono, al principio, l’esistenza di certi passi dove il filosofo aveva insistito che ciò che determina la poesia è l’imitazione, non il verso [« conciosiacosaché, afferma il Minturno, non il verso faccia Poeta lo scrittore, ma il fingere e il dar alla materia che si tratta quella forma che alla Poesia si richiede », Arte poetica, Dedica], e d’altri passi nei quali aveva chiaramente detto che la poesia poteva esistere sia in versi sia in prosa. Ma poiché... la superstizione a favore del verso era fortissima, altri commentatori poterono produrre argomenti che facevano dire ad Aristotele esattamente il contrario di quello che aveva detto in realtà » (Weinb., Tratt., I 557, e v. Indice anal. sotto prosa opposta ai versi. La discussione si ritrova in Quadrio, i 15. Altra documentazione presso Martelli, Forme, 559-62).
In Italia l’estetica crociana assorbe e svaluta le distinzioni di forma entro la categoria unitaria e ‘superiore’ dell’« arte ». L’ingiustificatezza della contrapposizione poesia/prosa è stata propugnata con particolare vivacità dai cosiddetti « vociani »; nonché, ma con traiettoria diversissima, dai futuristi (per Marinetti anche il verso libero dovrà cedere il passo alle simultanee « parole in libertà », dove la polarità prosa/verso diventa priva di significato: solo che qui, sia detto per inciso, « il tema non solo non è più di metrica, ma neppure di poesia », Cont., Innov., 591).
2. Differenze fra prosa e poesia. Loro gerarchizzazione. Se è vero che l’opposizione prosa/verso non va radicalizzata (come, per esigenze pratiche, si è invece costretti a fare in questo manuale), occorre peraltro rilevare
1. che la poesia è stata sempre sentita come una forma più vincolata della prosa: è significativo che quest’ultima riceva la qualifica di « oratio soluta (legibus) » proprio a partire da quei teorici Cicerone e Quintiliano che pur si adoperano ad illustrare le regole a cui la prosa deve ubbidire (Lausberg, 981). Brunetto Latini ricorre a una felice metafora per caratterizzare le due forme: « la voie de prose est large et pleniere, si comme est ore la commune parleare des gens, mais li sentiers de risme est plus estrois et plus fors (« arduo »), si comme celui ki est clos et fermés de murs et de palis, c’est a dire de pois et de nombre et de mesure certaine de quoi on ne puet ne ne doit trespasser » (Tresor tu x, Carmody 327). Il riconoscimento dell’intralcio supplementare costituito dalla forma metrica è implicito anche nei versi danteschi « Chi poria mai pur con parole sciolte [cioè in prosa] Dicer del sangue e de le piaghe a pieno Ch’? ora vidi...? » (Inf 28 1-3). Dal canto loro molti autori medievali stabiliscono l’equazione poesia = falsità, fra l’altro anche per il condizionamento formale che le leggi della versificazione impongono (in particolare la rima, cf. Prelim. 4, 5) e che col loro difficile rigore indurrebbero fatalmente il poeta a distorcere il vero; basti ricordare ancora Brunetto:
« ... la rima [cioè la forma-poesia] Si stringe a una lima Di concordar parole Come la rima vuole, Sì che molte fiate Le parole rimate Ascondon la sentenza E mutan la ‘ntendenza [il significato] », Tesoretto 411-18 (PdD LI 190). Sul tòpos poesia = deformazione del vero v. anche Klopsch Dichtungslehren 9, Delbouille Evol. 242-43, Mengaldo, De vulg. eloq. (1968), XL xii; e si aggiunga, fra i moltissimi citabili, Paolo Beni, Disputatio, secondo il quale « i versi impediscono un’espressione diretta e chiara». Ma va da sé che un simile discorso non può valere per i sommi: « Io scrittore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento », afferma l’Ottimo (a proposito d’Inf 10 87 « tale orazion fa far nel nostro tempio »: « e disse tempio, e non chiesa, per più proprio parlare, e nol fece perché rima lo strignesse »); Dante pensa in terzine come l’Ariosto in ottave; e si ricordi Ovidio, Trist. 4.10.24-26 « scribere temptabam verba soluta modis; Sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos, Et quod temptabam dicere versus erat »;
2. che in compenso la poesia pur usando mezzi tutti in certo modo insiti nella lingua e in genere con essa non incompatibili (Prelim., 8) possiede molte risorse in più rispetto alla prosa: si avvale infatti della segmentazione versale (Prelim., 2), può giocare sulle discordanze fra accento linguistico e accento metrico (o ictus: 5. 3, 2) e su una sua speciale sillabazione (la dieresi per esempio, cap. 3, è quasi impensabile in prosa; quando eccezionalmente vi compare, come in Gadda, « Per un barbiere», Le meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino 1964, p. 234, « sotto malïosi cieli della sera», è a fini ironici o allusivi); per non parlare della più grande libertà sintattica di cui la poesia gode (un solo esempio: è rarissima in prosa la « transiectio » prolungata fra l’articolo e il suo sostantivo, del ti« la da lui decinante in novo impero Il Britanno severo America lasciò », Parini, Odi, xx, 32-34, oppure « e la redine, che s’apriva all’unico Raccogliersi dell’ombra nella valle, Araucaria », Ungaretti, Il dolore, « Tu ti spezzasti», I, 8-10), delle possibilità lessicali settorialmente più estese di cui la poesia ha per secoli fruito rispetto alla prosa, ecc.: in definitiva della « quidlibet audendi potestas » (Orazio, Ars poetica, io) tradizionalmente riconosciuta al poeta in misura maggiore che al prosatore. Si aggiunga che del resto i vincoli della forma anziché inceppare spesso stimolano l’inventività, quasi che fra l’artista e la resistenza del mezzo s’instauri una competizione feconda, con risultati di densità espressiva tanto maggiori quanto più ardue sono le difficoltà formali da sormontare.
Per la precedenza cronologica della poesia rispetto alla prosa fatto che a quest’ultima « quendam videtur prebere primatum » (De vulg. eloq., ii i i) v. Prelim. 5, 2.
La questione della superiorità dell’una o dell’altra forma ha stimolato ab antiquo la riflessione filosofica e dato materia a infinite dispute. Già
presso gli artigrafi medievali la tripartizione del « dictamen » in « metricum », « rithmicum » (Prelim. 5, vi-vu) e « prosaicum » è di solito accompagnata da una loro gerarchizzazione più o meno esplicita: per Bene da Firenze ad esempio il primo dei tre modi, corrispondente alla poesia quantitativa latina, « a phylosophys est inventum », mentre l’ultimo è « naturale »: « civile vocatur eo quod inter cives naturaliter locum habet et traxit etiam originem a natura » (Candelabrum, 6.3, e cf. 3.1.17- 20, e&z. Alessio). Boncompagno da Signa « afferma invece la superiorità assoluta della prosa, artium mater». Il Convivio riconosce il « maggior potenziale strutturante della poesia rispetto alla prosa » proprio mentre attua l’esperienza « di una prosa virile e autonoma, emancipata completamente dalla sudditanza alla poesia » (Mengaldo, introduz. al De vulg. eloq. (1968), xxxix-xliii).
La posizione umanistica « Poesis... procedit ex sinu Dei » (Boccaccio Genealogia) trova la sua formulazione più ragionata e perciò tanto più ardita presso Coluccio Salutati, secondo cui « nullum... dicendi genus maius habet cum divinis eloquiis et ipsa divinitate commertium quam eloquium poetanum » (Epist. XII 20, ediz. Novati Iii 541; già il Mussato aveva sostenuto che nell’antichità ebraica e greca « quisquis erat vates, vas erat ille Dei», e cf. Minturno, de poeta, 13: « Ego autem libenter sane illis assentiar qui contendunt, si qua inter se Dii ratione colloquuntur, numeris eam esse conglutinatam » e 14 « Linus, quem debuit pater Phoebus eru&rc, et Orpheus, qui potuit a matre Calliope didicisse, ut Deos laudare, ut precari deberemus, ornatissima carmina condiderunt ». Sulla questione dell’origine « orfica » e « divina » della poesia e sulla problematica implicita in affermazioni di questo genere si vedano almeno Curtius, Eur. Lit., 12 « Poesie und Theologie », Batt.-Raim., 43, 60-61 ecc., nonché Mésoniat, Poet. theol).
3. Attenuazione dell’opposizione prosa/poesia in epoca moderna. - La storia letteraria, specie nei suoi capitoli più recenti, fornisce innumerevoli prove che fra prosa e poesia non si erge una barriera invalicabile: non è raro perciò né che la prima vada a conquistare zone tradizionalmente riservate al verso, assumendone le funzioni e perciò talune caratteristiche, né che la poesia indulga ai modi prosastici. Cosi i Martyres e i Natchez di Chateaubriand vere epopee con, per non dir altro, tanto di protasi e invocazione alla Musa o all’«astre des nuits » infrangono sulle soglie dell’Ottocento il pregiudizio che legava quel genere al verso (si aggiunga che già da tempo, per Boileau come per l’abate Dubos, per Diderot come per Louis-Sébastien Mercier, l’etichetta di « poème en prose », pur designando testi assai diversi dal poemetto in prosa moderno, aveva cessato di costituire ossimoro. L’espressione « prose poetiche » è già usata dal Minturno, Arte poetica, 3).
In analoga direzione, ma misurandosi col verso lirico, vanno i Petits poèmes en prose di Baudelaire (1869), i quali, insieme con le Illuminations di Rimbaud (1886), fondano anche da noi una tradizione nuova (le esperienze di un Tommaseo o di uno Scalvini restano « fatti isolati che su essa non hanno inciso »). Tuttavia è chiaro che per quanto qui ci concerne e cioè da un punto di vista meramente esterno e classificatorio, quei rivoluzionari « poemetti » sono, come del resto il titolo stesso s’incarica di precisare, in prosa. La sostanziale equivalenza di prosa e poesia è provata dai due testi in versi inclusi nelle Illuminations; ma in Soffici, « primo divulgatore di Rimbaud » fra noi, una cosa sono, quanto a configurazione esterna, i versi, un’altra la prosa frammentistica; cosi come nei Canti orfici di Campana prosa e versi, pur essendo « sullo stesso piano », non si confondono formalmente (le citazioni provengono da Cont., Innov., 592, dove si forniscono altri significativi esempi, nell’ottica della « liberazione metrica » prodottasi fra Otto e Novecento, del nuovo rapporto che allora s’instaurò fra prosa e poesia: D’Annunzio, Cecchi, Bacchelli, Cardarelli. V. anche Menichetti Testi di frontiera).
Le poetiche contemporanee rendono perfettamente legittima l’inclusione di testi prosastici in antologie di poesia moderna (come opportunamente fa per es. Mengaldo con Rebora, Campana, Boine in PdN 272, 279 ecc., 417); oppure, come Dàmaso Alonso, del ritratto di un « escritor de ‘estampas’ » e « novelista » quale Gabriel Miré fra i saggi dei Poetas espanoles contemporaneos.
Quanto ad altre esperienze recenti, inversamente intese a distruggere la ‘poeticità’ con mezzi vari (ironia, R. Queneau; inserti di parlato o di prosa, E. Pagliarani; ecc.), a ‘umiliare’, desublimare o anche solo prosaicizzare la poesia (R. Browning, il Montale di Satura e Diario), coinvolgendo talora alcune sue impalcature formali, esse sono possibili proprio in quanto i due strumenti espressivi versi/prosa (quando non addirittura lingua di comunicazione) occupano zone in linea di principio polari nella coscienza del lettore. Più in generale si può affermare che oggi l’immissione programmata di segnali depistanti quali parallelismi, isocronie, rime e altri contrassegni metrici nei testi di prosa; artifici prosastici o di parlato in testi versificati presuppone la coscienza largamente condivisa dell’opposizione prosa/verso e quindi finisce per corroborarla: il risultato di queste contaminazioni viene recepito non tanto come un incrocio capace di vita davvero autonoma (quello che in botanica sarebbe un ibrido), quanto come un tentativo più o meno ardito, più o meno riuscito, ma in ogni caso ‘instabile’ di dilatare i confini tecnici e le capacità espressive dell’una o dell’altra delle due forme; in definitiva cioè la dualità di prosa e poesia ne esce confermata. D’altra parte « nemmeno l’avanguardia ha totalmente eliminato il verso... Sarà sufficiente sfogliare una qualsiasi rivista per rendersi immediatamente conto della ‘presenza’ fisica della poesia nel senso tradizionale della parola: margini più ampi a destra e a sinistra del foglio, spazi bianchi fra strofe e strofe, caratteri più grandi e più spaziati » (Avalle, Poesia, 2.i. Capita d’altro canto di trovare anticipati da secoli atteggiamenti ironizzanti affidati al miscuglio di verso e prosa: in quell’ambito pur formalmente rigorosissimo che è la canzone occitanica, il « no say que s’es » di Raimbaut d’Aurenga, BdT389 28, Pattison xxiv, intercala, dopo ogni strofetta di regolari octosyllabes, buffonesche appendici in prosa parlata).
4. ‘Versi’ nella prosa (cf. Prelim. 2, 5). I trattatisti antichi, da Aristotele in poi (Rhetor. 3.8.3), mettono in guardia il prosatore contro le seduzioni del metro: il che, se da un lato traduce la preoccupazione di salvaguardare la specificità delle forme (Nietzsche vedeva nella buona prosa il risultato di un rigoroso ascetismo avverso le incessanti lusinghe della poesia), dall’altro è indizio di come sia sempre stato corrente cadere in contaminazioni involontarie o abbandonarsi anche in prosa ai ritmi e, più tardi, alle rime. Cicerone giudica difettosa la presenza nell’oratoria di cadenze accusatamente poetiche e di successioni verbali richiamanti il verso: « versus in oratione si efficitur coniunctione verborum, vitium est», afferma senza mezzi termini nel de orat. (3. 175); e Quintiliano è in merito ancor più reciso. Il precetto riaffiorerà nella trattatistica di ascendenza classica, per esempio nel Breve trattato dell’oratore (1574) di Giason Denores (è « gravissimo biasmo l’incorrer in alcun verso imprudentemente », specie nell’endecasillabo « per esser più sonoro di tutti gli altri », come pure il « cader temerariamente in parole che facciano rima con le ultime sillabe del membro precedente », Weinb., Tratt., III 130). Marmontel e Vaugelas concordano nel condannare il « mélange de vers » e il ricorrere degli alessandrini nella prosa; un’ultima, ironica eco di tale atteggiamento è in Sartre, come ricorda Lausberg, 981.
La presenza involontaria o meno di ‘versi’ nella prosa (non solo letteraria del resto) è stata rilevata si può dire da sempre: almeno a partire da quel peripatetico che « nella prosa d’Isocrate... scopriva begli ed interi de’ versi » (Tommaseo, Sul numero, 164. V. anche Varchi Ercolano u 309-12). Torna sul tema con forse eccessiva insistenza la manualistica più recente (in particolare Di GiroL, 105-8); e se ne serve la critica stilistica (per es., in congiunture culturali diversissime, Branca, Bocc. med., e Beccaria, Ritmo, 283-32!). Certo, ad apertura per esempio dei Promessi Sposi èdato trovare lunghe sequele di ‘endecasillabi’: « (con un pendio) lento
A e continuo; poi si rompe A in poggi / e A in valloncelli, A in erte A e A in ispianate, / secondo l’ossatura de’ due monti, / e A il lavoro
dell’acque. A Il lembo A estremo, / tagliato dalle foci de’ torrenti, / è
quasi tutto ghiaia A e ciottoloni »; ma occorre soggiungere che una periodizzazione come quella qui effettuata è, in sé, innaturale, cf. Prelim. 2,
5, anche se indubbiamente può costituire un segnale stilistico importante.
Specialmente presa di mira è stata la rima (cf. Prelim. 4 c), croce di Stendhal, « obbrobrio dello scritto » per Gadda: la rima in prosa si trova condannata a tutte le latitudini, da Boncompagno da Siana al Salutati (Menichetti, ProbL metr., 359), daJuan de Valdés (nel Didlogo de la lengua) a Vaugelas. Evidentemente revoluti i tempi (metà del VII sec.) in cui il vescovo di Tours Frodeberto esibiva la sua perizia retorica (non, ahimè, quella grammaticale) in prose nimate e assonanzate di questo stampo:
« Fecimus inde (si parla di farina di pessima qualità) comentum; si Dominus imbolat formentum. Aforis turpis est crusta, abintus miga nimis est fusca, aspera est in palato, amara et fetius odoratus. Mixta vetus apud novella, faciunt inde oblata non bella » (» ne abbiamo fatto del pane, ma Dio impedisce la lievitazione. Esteriormente la crosta è schifosa, dentro la mica è proprio nera, è acida al palato, amara, e l’odore disgustoso. Mischiata la vecchia (farina) con la nuova, se ne sono fatte brutte ostie »; testo e bibliogr. in Norberg, Man. prat. Non fa meraviglia che prose siffatte si siano potute stampare in colonna, come di fatto avviene in Muller-Taylor, Chrest., 171-79. Ugual sorte è toccata in alcune edizioni a qualche scritto di san Francesco: in questa prospettiva, all’inverso, anche le Laudes creaturarum possono esser definite « un testo non veramente in versi», Cont., Esper., 243).
In genere il passaggio improvviso, talvolta insensibile, dalla prosa al verso segnala un’impennata emotiva o stilistica, come per esempio, a metà del Cinquecento, nel trattatello sulle Sette armi spirituali di santa Caterina Vegri (ediz. Foletti, 89), oppure in un volgarizzamento settecentesco anonimo dell’Ecerinide del Mussato (cf. I. Visintini in « Accademie e Biblioteche d’Italia», I, 1985, 30-40, e 54, 4, 1986, 81-90). V. in merito anche Prelim. 2, 5.
5. La prosa nutrice del verso. Quasi superfluo, tanto il dato è notorio e frequente, citare autori per i quali la prosa funge da « nutrice del verso », da palestra ove il poeta saggia equilibri d’insieme o esercita lo stile; Montale parla in questo senso del « grande semenzaio della prosa ». E tutt’altro che raro in epoca moderna che intere opere o loro parti siano abbozzate jtprosa prima di ricevere la definitiva veste poetica (Alfieni, Leopardi;v. inoltre Waltz, 80-83. L’espressione « nutrice del verso » applicata alla prosa risale a « una parola detta all’Alfieri da un suo intelligente amico, il padre Paciaudi, ma la sua gloria recente è nell’eco che le diede il giovane Leopardi [Zibaldone i 43, Flora] estraendola dalla Vita», BettariniContini in Montale, L’opera in versi, Torino 1980, 837. Il caso è da tenere ovviamente distinto da quello di opere presentate ufficialmente in prosa e poi riscritte in versi, come la Cassaria.
L’Ariosto maggiore fin dalle prime stesure ha « più avvii e principi di versi, nei quali è già ben chiara l’idea ritmica»; Contini, Esercizf 235, parla di « contemporaneità, e non anteriorità, dell’ispirazione rispetto al metro »).
Molto più infrequente il caso inverso, di una materia già versificata che « nutra » la prosa (anche materialmente, con riprese letterali), come avviene nell’Alfieri, cf. Branca, Alfieri, 9 e n, o nella prima delle Due prose veneziane di Montale studiate da M.A. Grignani.
Le lettere dal fronte di Ungaretti a Papini contengono in stesura continua frasi che, fittamente segmentate, diverranno versi dell’Allegria (« c’è una pena che si sconta, vivendo, la morte » > « La morte Si sconta Vivendo», Terzoli 50-51).
6. Il « verso lungo ». Incompreso almeno presso Pascoli (Carducci ne era stato « rapito », Sotis 10) è il verso lungo, salmodiante e quindi ritmica-mente prosastico, di Walt Whitman (1819-92), pur destinato a influire non poco, direttamente o soprattutto, in Italia, per il tramite di Claudel, sulla poesia del nostro secolo (cf. i, 4); ritenuto troppo compromissorio con la prosa, slombato, privo di ritmo, il verso whitmaniano è fatto oggetto di un accostamento irridente: « Tempo prima del Whitman, in Italia usava questo genere di composizione e di metrica: il salmo. Si dicevano le più comuni cose del mondo, in tono solenne, con piccoli periodi: si metteva un asterisco a mezzo, e s’andava a capo dopo il fine: il salmo era fatto... E cosi il farmacista e l’arciprete della cittaduzza di provincia diventavano tanti David, con poca spesa: un asterisco e un capoverso! » (» A G. Chiami », 955. L’avversione è comprensibile presso un artefice tanto esigente e raffinato; ma non impedirà che il Pascoli patrocini la traduzione, ad opera di Luigi Gamberale, 1907, della raccolta whitmaniana Leaves of Grass, cf Pascoli, Opere [Perugi], LI 1976, n. i. Quanto al « verso lungo » di Claudel, se ne veda la giustificazione teorica nelle sue Réflexions etpropositions sur le vers francais, in apertura del t. Xv delle (Euvres complètes, Parigi 1969; il suo Art poétique fu tradotto nel 1913 da Jahier).
7. Il verso sesquipedale. La formula che delimita qui sopra (Prelim., i) il campo di studio della metrica fa allusione all’ «estensione» del verso. «Esiste una lunghezza massima oltre la quale il verso cessa di essere un verso? »: Waltz, 218-23, ricordata una teoria fisiologica che vedeva nell’alessandrino francese il corrispettivo di un’unità di respirazione (cf. del resto Prelim. 4, 6: Kerouac, Ginsberg), tenta di risolvere il problema fondandosi, come già Sully-Prudhomme, sulla nozione di « memoria uditiva », peraltro particolarmente inconfortevole in una lingua endemicamente afflitta dalla caducità dell’e sourd (istruttivi in merito i rilievi
di B. de Cornulier, Théorie du vers, 11-67). Fra i promotori transalpini del « verso libero » risultano essere versi « giganti » quelli di 17, i8 e 19 sillabe; ma già Baif e Saint-Amand fra gli altri avevano fatto uso, nel Cinque e Seicento, di versi di 13 e 15. Occorre precisare che Waltz esclude il « verso lungo » di Claudel dall’area propriamente metrica (non da quella della Poesia, s’intende): i suoi non sarebbero « vers proprement dits », p. 229. In termini più moderni, e con l’indispensabile ironia richiesta dalla materia, il tema torna in D. Devoto, Consid. 2, 12-14, il quale ricorda fra l’altro i macroversi che Gerardo Diego attribuisce a Rafael Alberti: « Los profesores de retòrica... me estudiaràn algùn dia por mis innovaciones en la Métrica, ya que he batido el récord de dilatacién con mis versos de 127 silabas contadas, con profusiòn y variedad de hemistiquios »!
Per noi, come si è detto sopra, è convenzionalmente e dialetticamente assunto come « verso » qualunque segmento prodotto come tale dall’autore e come tale recepito dal lettore.
8. Individuazione problematica dei «formanti » metrici. Il riconoscimento della natura non prosastica di un testo antico quando non siano chiaramente individuabili i principi che fondano il suo « metro » (nel senso di Prelim. 4 B) può talvolta risultare problematico o anche meramente congetturale: si vedano, sotto la voce « Metrica » dell’Enc. it., i casi della « Metrica semitica: ebraica » (23, 102c-e: G. Levi Della Vida) e « Metrica iranica » (103 c); cE anche Prelim. 3, i.
9. Bibliografia. — Sul rapporto poesia/prosa anche in epoca mediolatina
Menichetti, ProbL metr., §5 1-2: vi si tratta fra l’altro della prosa medievale « regolata e numerosa », cioè suddivisa in « membri » rimanti fra loro (un esempio qui sopra, nota 4; v. anche Elwert, Versjffr., §5)0 delimitati da speciali cadenze sillabico-accentative (il cosiddetto « cursus »:
Schiaffini, Tradiz e poesia, 9-24; Zumthor, Lettre/voix, 192-94. Che si tratti di prosa è provato dal fatto che la segmentazione determinante èquella sintattica: rime e cursus vanno regolarmente a ornare la fine delle frasi e dei loro « cola »); nonché di alcuni testi che, secondo tipologie diverse e con diversa problematica filologica, stanno in bilico fra prosa e verso: alcune lettere di Guittone, l’anonimo Mare amoroso, Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, ecc.
Nella nostra prospettiva non fa invece problema il « prosimetro »(Klopsch, Dichtungslehren, 71-73), cioè l’opera in cui parti in prosa alternano con parti in verso (a stretto rigore di termine dovrebbe trattarsi di « metra » quantitativi), senza peraltro che le due zone si confondano. Il Medioevo riconosce nella Consolatio Philosophiae di Boezio il prototipo del genere, che fu illustrato, in opere di larga diffusione, anche da Mar-
ziano Capella, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla nonché probabilmente, almeno allo stadio progettuale, da Brunetto Latini (Tesoretto: « vi dicerò per prosa Quasi tutta la cosa », vv. 1121-22, e nota PdD u zis), prima che da Dante nella Vita nuova (e in certo modo anche nel Convivio).
In area novecentesca sono specialmente i « vociani » a giocare sull’ambivalenza prosa/verso, con presupposti culturali e motivazioni che tuttavia non hanno nulla in comune con gli antichi (cE qui sopra nota 3 e v., come un esempio fra i tanti, il « Canto di marcia » di Piero Jahier, PdN 438).
Altri contributi importanti sul tema, molto dibattuto negli ultimi anni, del discrimine fra prosa e verso: Pazzaglia, Teoria, spec. 22-28; Beccaria, Auton., spec. 45-69; Di GiroL, 102-io; D. Devoto, Consid. I e 2, particolarmente ricco di dati; Eco, Segno poesia/prosa; Avalle Poesia.
2. SEGMENTAZIONE LINGUISTICA E SEGMENTAZIONE VERSALE
Dal punto di vista etimologico il termine « prosa » (« che cammina diritta», sottintendendosi oratio: dall’aggettivo PRO(R)SUS, cf. l’avverbio PR0(R)suM,-Us) evoca l’idea di prosecuzione in linea retta e quindi di continuità; « verso » (da VERSUS, vERTÉRE « voltare ») segnala invece l’inversione, il ritorno all’indietro e quindi un procedere zigzagante, sinusoidale, bustrofedico (non solo della scrittura).
In realtà anche la prosa è discontinua: essa è interrotta da pause di importanza variabile, virtuali (cioè puramente logiche, grammaticali) o realmente effettuate come tali (6, i), che la suddivido no in segmenti minori; è inoltre modulata secondo particolari intonazioni che aiutano a gerarchizzarne logicamente i membri (frasi, sintagmi, parole). Ma tale discontinuità, che nella scrittura la divisione in parole, i segni d’interpunzione, i capoversi s’incaricano di trasporre in termini visivi (approssimativamente, del resto), è di tipo naturalistico, spontanea: essa riflette cioè una caratteristica inerente al funzionamento del linguaggio (segmentazione linguistica).
A questa segmentazione, che ovviamente resta in vigore anche nel discorso metrificato, a poesia ne aggiunge un’altra, specifica e demarcativa nei confronti della prosa: quella versale. Visualizzata di solito mediante l’a capo, questa seconda segmentazione è
extralinguistica, in tal senso « artificiale », fissata e accettata in base a una convenzione letteraria; tanto è vero che la tlne del verso può anche cadere fra elementi del discorso legati in maniera molto stretta dal punto di vista logico e grammaticale.
i. «Prosa »; « verso ». — Etimologicamente prosa e verso hanno il radicale in comune, essendo pro(r)sum, -us contrazione di pro-versum, -us (contiene dunque anche un gioco almeno remotamente etimologico la paronomasia « et prorsa et vorsa facundia », in prosa e in verso, di Apuleio,flor., i8 38).
In ambito mediolatino e volgare « prosa » è anche sinonimo di « poesia ritmica » (Prelim. 5, 7; sul progressivo affermarsi di questa accezione —698, VIII-IX secolo — v. Curtius, Eur. Lit., 8, 3, p. r6o), nonché di « sequenza ». In Gonzalo di Berceo (... 1221-1263 o ‘64) « prosa » può designare un testo (edificante) in versi; altrove — nelle lingue d’oil e d’oc come in quella del si — ha ormai assunto il significato moderno: ivi compreso Purg. 26 118, dove la contrapposizione « Versi d’amore e prose di romanzi» designa « la totalità della letteratura » (Braccini, Paralip., append. vi. V. anche qui sopra, per il prosimetro di Brunetto, Prelim. i, 9).
La terminologia metrica nel Medioevo è ancora molto instabile: si faccia attenzione al fatto che nel De vulg. eloq. il verso è detto carmen (cf. « miei carmi», i miei versi, Par. 17 in): quanto a versus, o vi equivale a « componimenti in versi » (in Il ~ 2, come versi nella Vita nuova) oppure, più spesso, serve a designare quella partizione della strofa di canzone che oggi è in genere chiamata « volta » (mentre nel Convivio « verso » èla stanza intera. CE Enc dant., v 981-82; e v. Bourgain Vers).
2. Prosa e lingua naturale. — La « naturalità » (almeno apparente) della prosa e in primo luogo l’identico modo di segmentare fanno sì che ad una considerazione superficiale le nozioni di prosa e di lingua si confondano: si ricorderà la stupefazione del « bourgeois gentilhomme » quando il maestro di filosofia gli svela che la frase « Nicole, apportez-moi mes pantoufles, et me donnez mon bonnet de nuit » è ‘prosa’ (Il iv; a Molière fa eco, e in versi!, Calderén: « Sesenta anos Ha que estoy haciendo prosa Sin saber lo que me hago »).
3. Segmentazione versale e accapo. — L’espressione segmentazione versale si avvantaggia rispetto al suo abituale corrispettivo tipografico, l’andare a capo, per una connotazione meno fisica e meno limitativa: l’accapo non èinfatti che il più vistoso e corrente dei tratti esteriori che permettono di riconoscere un testo in versi, ma in sé è tutt’altro che essenziale; può infatti essere abolito (si pensi agli alessandrini insomma regolari, rimati o assonanzati di Paul Fort) o surrogato da svariati altri espedienti: una sbarretta, uno spazio bianco un po’ protratto, una maiuscola, una pausa o un’intonazione sospensiva se il testo è trasmesso oralmente, ecc. E ben noto che nei papiri la lirica greca aveva l’apparenza di prosa; « versi son quelli i quali ne’ libri di pietà da’ Greci trascrivonsi come prosa: versi con ritmo, e sovente con metro » (Tommaseo, Sul numero, 93). Nei codici medievali, per economizzare pergamena, era assai corrente la registrazione della poesia su linee continue, senza nessun contrassegno speciale (come avviene per alcuni brevi commenti personali che agl’inizi del Duecento Wauchier de Denain immette nella prosa dei suoi volgarizzamenti e che perciò non erano stati finora identificati come versi, Szkilnik) o, più frequentemente, con un punto a separare i versi: cosi per esempio sono registrate le canzoni siciliane e siculo-toscane dal copista del manoscritto Vaticano lat. ~ il quale suole andare a capo lasciando in bianco parte della riga solo alla fine delle strofe; allo stesso modo vi formano un sol blocco i primi otto versi dei sonetti: il capoverso non si ha che con l’inizio delle terzine. La segmentazione versale èsubito percepibile, nel primo Cinquecento, nei novenari sciolti stampati a mo’ di prosa di Bonaventure Des Périers (» D’ont vient cela, mon amy Pierre, / quejamais nul ne se contente / de son estat, soit que Fortune / le luy ayt offert et donné, / ou que luy mesmes l’ayt choisy / pour certaine cause et raison? », Des mali contens, I 97-102, parafrasi di Orazio, Serm. i i; le sbarrette ovviamente sono nostre); cosi come essa èricostruibile per via filologica, in questo secolo, in alcuni testi di Miguel de Unamuno (J. de Kock, 72-73, rileva che la scrittura continua è giustificabile presso questo autore come « reazione contro la ‘prosa in verso libero’, tentativo di dissociazione di ritmo e misura, desiderio di sfuggire agli artifici visuali e, infine, di risparmiar carta
Beninteso in quei testi antichi e moderni nei quali la precisa disposizione dei versi sulla pagina è portatrice di messaggi extratestuali oppure rivela in verticale artifici che altrimenti rischierebbero di rimanere occulti — « poesia visiva » contemporanea (su cui v. Miccini Poesia e/o poesia, Accame Il segno poetico, Spatola Poesia totale), technopaegnia, calli-grammi, acrostici (G. Pozzi, La parola dipinta e Poesia per gioco) — l’accapo, nella sua fisicità, è indispensabile.
4. Inarcatura (enjambement). — La possibilità di far cadere la fine verso all’interno di sintagmi compatti (6, 6; o addirittura spezzando una parola, 7, 4, z) esiste ab antiquo nella poesia italiana, es. « Mossimi; ^ e ‘l duca mio si mosse per li Luoghi spediti pur lungo la roccia», Purg. 20 4-5 (per li rima con piacerli e merli); la segmentazione fra l’articolo (oltretutto atono) e il suo sostantivo è qui puramente convenzionale, non motivata da finalità logiche o espressive: per intenderci, non traduce una di quel-
le esitazioni tipiche del parlato che la prosa renderebbe con i puntini di sospensione.
5.1 ‘versi’ nella prosa. — Qui sopra (Prelim. 1,4) abbiamo avuto occasione di segnalare la presenza di ben sei ‘endecasillabi’ di seguito nel primo capitolo dei Promessi Sposi; e versi involontari sono segnalati dallo Stigliani in Boccaccio e in altri prosatori. Va precisato che dal punto di vista metodologico — a prescindere dalla questione spesso insolubile dell’intenzionalità o meno del fatto — una cosa è constatare che si formano automaticamente misure più o meno rispondenti a versi regolari quando si legga un brano di prosa secondo la sua pausazione linguistica normale, altra cosa ottenere criptoversi imponendo artificialmente al testo una segmentazione di tipo metrico, facendo cioè pausa anche là dove il senso non lo richiede: il passo di Manzoni, letto secondo il suo normale andamento sintattico, è prosa; il lettore non messo sull’avviso non vi percepisce cadenze versali insistite, ma tutt’al più una indeterminata « poeticità » ritmica. Questa necessaria distinzione non implica naturalmente che sia illegittimo o che debba restare infruttuoso sul piano della ricerca stilistica sondare in tal senso determinati testi (come per esempio fa proprio su Manzoni G. Orelli, Quel ramo): ma occorre senso storico, gusto e misura o si finisce come san Girolamo a percepire esametri dattilici e trimetri giambici nel testo ebraico della Bibbia (Chevalier, Poésie liturg., 6-7; la tesi gerolimiana rifluisce nel Mussato, in Petrarca Fam. X 4, 6-7, nel Salutati, ecc.); o a scovare, come con consapevole incongruenza si diletta a fare il Tommaseo, endecasillabi all’italiana nelle lettere di Cicerone (Sul numero, 22: « Ego ^ omni ^ officio ^ ac potius pietate /
ga te ceteris satisfacio ^ omnibus, / mihi ^ ipse numquam satisfacio; tanta / enim magnitudo ^ est tuorum erga / me meritorum ut... »).
La prosa che, letta normalmente, prende l’andamento di versi non è comune in Italia. Il Tommaseo, 93, ricorda i quinari di Quirico Rossi e i « frastagli d’altri retori gesuiti » e cita la « prosa di numeri, meno che anacreontei », di Sperone Speroni lodante Filippo di Spagna: fatto tanto più significativo in chi menava la controversa esperienza della Canace. Lo Speroni era troppo consapevole che « ne’ nostri alterni / ragionamenti / i pentasillabi » si formano « a gran dovizia; per un diece, se agli eptasillabi si comparano », ediz. Roaf, 198: e produce infatti a piene mani serie come « Naturalmente / la nostra vita, / conforme ^ al fango / e
allo spirito, / onde ^ è formata, / parte è sonno, / parte ^ è vigilia;
/ e la vigilia / ancora essa / parte ^ è negozio / (chiamo negozio /
qualunque nostra / professione / contemplativa / e civile, [quàternario
di rottura] / per lo cui studio / comunemente / noi siamo tali / denominati), / parte è ozio, / ciò è riposo / dalla fatica / e dal tedio, [id.]
/ che noi sentiamo / in continuando [quin.?] / alcune ^ usate / opera-
zioni », Apologia dei Dialogi, parte I, in Opere, Venezia 1740, 1271 (ct. Tratt. Cinq. [M. Pozzi], i 690-91) e per es. ivi, parte Il, p. 316 da « Ma perciocché » a « autorità » e poi da « forse siccome » a « ed il mio onore » oppure, p. 317, da « cosi al presente » a « si acqueterà ». Siffatta prosa numerosa èmeno rara in Francia, dove non per nulla i « vers blancs » hanno avuto minor successo che da noi (Waltz, 171-73, segnala brani lunghissimi di ‘prosa’ in alessandrini presso Paul-Louis Courier, in alessandrini e settenari presso Maeterlinck; il procedimento, stucchevole, non era raro presso i traduttori di poemi antichi in esametri, cE qui sopra nota 3. Delizioso, non troppo protratto in Gide, Paludes, « Angèle ou Le petit voyage », il seguente scambio: « Pourquoi, lui dis-je, chère amie, / par un ciel toujours incertain, / n’avoir emporté qu’une ombrelle? — / C’est un en-tout-cas, me dit-elle. / Pourtant, comme il pleuvait plus fort / et que je crains l’humidité, / nous rentràmes nous abriter / sous le toit du pressoir / que nous avions à peine quitté »: come si vede, qui la segmentazione segue la sintassi (le barrette, al solito, sono nostre). Si legga anche questo brano del racconto di Uberto nella « Chasse au canard »:
« Bolbos plus vieux était plus sage; /lui qui connaissait cette chasse, / par excellente amitié, / m’avait cédé la bonne place / d’où Von devait voir le premier. / — Quand tu fais des vers, ils ne valent rien du tout, lui disje; tàche donc de parler en prose »: ma Uberto non raccoglie... Speciale il citatissimo caso di Molière, che forse « cedeva inconsciamente a un’abitudine mentale volta in seconda natura »).
La mancanza del segnale dell’accapo può far sì che il riconoscimento della natura versale di certe zone del testo non sia immediato (» nel caso della Commedia nuova di Piero Francesco da Faenza (Firenze 1545), solo l’ultimo editore, G. Schizzerotto, ha ravvisato una struttura metrica nelle battute dialettali del villano che la cinquecentina presenta come prosa », Stussi, Nuovo avviam., 192-93), che resti in parte aleatoria la loro esatta delimitazione (come avviene nella traduzione settecentesca dell’Ecerinis edita da I. Visintini) o che la prosa assuma un accusato ma discontinuo andamento versale (come per es. in alcune traduzioni da Schiller di E. Pocar).
3. IL VERSO
La segmentazione versale, conferendo al testo poetico la sua tipica impaginazione in colonna (almeno di solito, ma v. Prelim. 2, 3), funge da immediato segnale visivo di riconoscimento e predispone il lettore a quel particolare tipo di ricezione che la letteratura in genere e in special modo la poesia esigono e stimolano. Il lettore è fatto subito avvertito che la sua attenzione dovrà dirigersi privilegiatamente non sull’informazione contenuta nel messaggio (come avviene nella comunicazione ordinaria o nella prosa scritta e letta a fini essenzialmente strumentali, per esempio giornalistica), bensi sulla relaziofle che lega il messaggio e il modo in cui questo è espresso, sul gioco che intercorre fra il contenuto e la forma: infatti « nell’opera letteraria si realizza un rallentamento, una morosa delectatio nel passaggio tra significante e significato: è nei Voluttuosi indugi di questa discesa al significato che si verifica, più che ‘le plaisir du texte’, l’individuazione delle valenze che sorreggono la rete intricata del senso » (Segre, Semiot. filoL, 44).
La forma esplica, specie in poesia e tanto più in quella più alta, un molo capitale. È ovvio che, per esempio, a una data parola del testo poetico non potrebbe sostituirsi un suo sinonimo senza alterare un equilibrio, distruggere una connessione fonica, annullare un effetto evocativo o una figura grammaticale, dissolvere una di quelle « sympathies occultes » (Valéry) che legano fra loro le parole; la sostituzione potrebbe inoltre incidere sul sillabismo o sull’andamento ritmico del verso, poco importa se regolare o libsro. Già il Bembo osservava, esemplificando su Petrarca, come il semplice spostamento di una parola possa produrre danni irreparabili sul tessuto ritmico: « nel verso puossi gli accenti porre di modo, che egli non rimane più verso, ma divien prosa, e muta in tutto la sua natura, di regolato in dissoluto cangiandosi; come sarebbe, se alcun dicesse: « Voi, ch’in rime sparse ascoltate il suono»; e « Per far una sua leggiadra vendetta»; o veramente « Che s’addita per cosa mirabile », e somiglianti » (Prose ii xv, Marti 334).
Fra la segmentazione linguistica di un testo in versi e la sua segmentazione versale intercorre per lo più un gioco mutevole, fatto di coincidenze e sfasature (6, 6); ma anche in quei testi (o zone di testo) in cui i margini versali collimano senza sorprese con il respiro sintattico, ciò che definisce il «verso » in quanto tale è la ( sua rispondenza a un progetto che è primariamente sillabico-ritmico (in I casi speciali quantitativo v. I, 2, oppure accentuale, I, 4), non logico-sintattico. Il lettore riconosce questo progetto se il « modello »
del verso (Prelim. 6) gli è noto; altrimenti cerca più o meno consapevolmente di afferrarne i connotati metrici essenziali, mettendo in opera l’esperienza metrica immagazzinata in letture precedenti, la sua cultura e la sua sensibilità.
Il lettore non può in nessun caso prescindere dal verso, fare cioè come se l’indicazione fornitagli dalla segmentazione versale fosse accessoria o superflua: in realtà è proprio nel verso, nel senso sopra definito, che risiede il fondamento primo della metricità.
1. Il verso e la serie. Il verso, regolare o libero, vive essenzialmente nella serie, realizzandosi pienamente ed assumendo la sua vera o, rispettivamente, piti probabile configurazione metrica nel rapporto che lo lega ai versi precedenti e seguenti, con i quali fa sistema. La serialità può, beninteso, essere puramente virtuale: un monòstico quale « D’altri diluvi una colomba ascolto » (Ungaretti, Sentimento del tempo) viene recepito come endecasillabo perché mentalmente rapportato al modello metrico ben noto di questo verso; cosi, osserva lo Stigliani, 7, « l’epigramma d’un verso solo, latino o volgare », diletta perché « quella misura ha già preso il possesso in quello orecchio, al quale la memoria serve poi per ripetitore ». Specie con enunciati brevi si danno però anche casi d’indeterminatezza, come avviene per alcune allegazioni vernacolari del De vulg. eloq., sulla cui natura versale o prosastica i pareri degli specialisti di-scordano (v. commento Mengaldo, 1979, nota 7 a i xiii z; e cE qui Prelim. i, 8).
2. Stico. È il termine greco corrispondente al lat. versus e implicante il concetto di « serie »; ne derivano distico, coppia di versi, tristico, tetràstico e simm., nonché emistichio, prima o seconda metà di un verso in linea di principio cesurato. La «sticomitia» è, nella letteratura teatrale, un passo dialogico in cui le battute dei vari personaggi occupano ciascuna un verso (con perfetta rispondenza, dunque, di segmentazione versale e sintattica), es. parte della 3a scena del v atto della Merope di Scipione Maffei.
3. Prosodia. Si riferisce al verso singolarmente considerato (non alla relazione fra versi: schemi rimici, forme metriche) il termine di origine greca prosodia, che propriamente significava « accento di parola»; il lat. accentus (AD-CANTUS) ne è il calco. Da gran parte della linguistica moderna (che recupera cosi il senso più ampio che il termine aveva presso i grammatici greci, cE Less. uniti. it. s.v.) « prosodico » è usato come sinonimo di « soprasegmentale » e designa un insieme di fenomeni quali l’intonazione, l’accento, la quantità vocalica e sillabica.

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Esempio



  


  1. ELISA MIGLIORATA

    sto cercando la poesia di Giorgio Orelli intitolata FRAMMENTO DELLA MARTORA