La Scuola e i suoi sviluppi nel corso della storia

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Testo

L’EDUCAZIONE NELLA ROMA ANTICA
Il sistema formativo della Roma più antica era una sorta di "autarchia educativa", in cui il paterfamilias giocava un ruolo fondamentale nel trasmettere e perpetuare i valori della civis.
La paideia dell'età monarchica e repubblicana mirava infatti a trasmettere il mos maiorum, cioè il culto degli antenati e della tradizione, nonché valori come la virtus e il senso “cieco” della disciplina verso i superiori. Tutti elementi alla base del sistema etico-sociale dei romani e principi di conservazione e di stabilità dello Stato. La famiglia era considerata infatti, anche dalle istituzioni, il migliore serbatoio dei valori tradizionali. Rientrava in questa pedagogia anche l'insegnamento di conoscenze più pratiche legate a un'economia agro-pastorale e all'arte della guerra.
Le prime tracce di una scuola a Roma risalgono al III secolo a.C. che come ci racconta Plutarco, era stata aperta da un certo Spurio Carvilio.
La scuola non disponeva di grandi edifici, come ai nostri giorni, ma era costituita da piccole stanze o addirittura si teneva in luoghi all'aperto. Non c'erano banchi ma solo degli sgabelli e gli studenti per scrivere dovevano appoggiare la tavoletta sulle ginocchia.
I livelli di istruzione erano diversi e tutti insieme costituivano il corso degli studi elementari e medi, il litterator insegnava a leggere e scrivere e successivamente si frequentava la scuola del grammaticus, i cosiddetti studi medi, dove si imparava la letteratura greca e latina, ma anche la storia e la geografia, la metrica, l’astronomia, la fisica, la filosofia e la musica.
Largo spazio era dedicato all'esprimersi e allo scrivere in modo corretto, ma anche alla lettura soprattutto dei poeti. Il metodo usato prevalentemente dai grammatici era quello indicato da un autore greco di epoca ellenistica, Dionisio Trace: prima si procedeva con la lettura di un testo (lectio), cui seguiva la spiegazione (enarratio), cioè il commento delle parole (verborum interpretatio) e dei fatti (historiarum cognitio). Infine si aveva la correzione (emendatio) e il giudizio del maestro (iudicium).
Chi se lo poteva permettere proseguiva il suo corso formativo frequentando anche gli studi di retorica, per perfezionare le proprie capacità oratorie. Il rethor insegnava l'eloquenza attraverso lo studio dei testi classici. La scuola secondaria superiore, dai diciassette ai vent'anni circa, era la rhetoris schola: l'adulescens veniva affidato a un maestro di retorica, il rhetor, che aveva il compito di instradarlo nell'arte oratoria. Si trattava di uno studio specialistico, intrapreso da pochi, soprattutto dai giovani della nobiltà e della più ricca borghesia latina. Esso mirava a predisporre un'oratio corretta, plausibile, convincente e soprattutto efficace.
Il lavoro di elaborazione di un testo secondo le spesso complicate norme grammaticali e retoriche era seguito da quello non meno importante di memorizzazione e di "recitazione" del testo secondo altre regole relative all'impostazione della voce, all'uso dei toni, all'impiego di specifici gesti di tutto il corpo, dalla testa, alle mani, alle gambe.
Grande spazio era riservato alle esercitazioni scolastiche, in cui spesso si affrontavano argomenti fittizi e improbabili, proprio perché il discente si abituasse ad argomentare su qualsiasi tema, anche il più astruso.
Gli studenti che intendevano specializzarsi ulteriormente potevano frequentare le famose scuole di retorica di Atene, di Pergamo, di Alessandria d'Egitto o di Rodi.
L’EDUCAZIONE NELLA GRECIA ANTICA
l'educazione era molto diversa a Sparta e ad Atene:
-ad Atene, lo scopo dell'educazione dei giovani era produrre cittadini addestrati nelle arti e prepararli per la pace e la guerra. Le ragazze non andavano a scuola, ma molte imparavano a leggere e scrivere a casa, nel conforto del loro cortile. Fino all'età di 6 o 7 anni, i ragazzi imparavano a casa dalla madre o da uno schiavo maschio. Dall'età di 6 anni fino ai 14 andavano ad una scuola elementare di quartiere o ad una scuola privata. I libri erano molto costosi e rari, così i pochi disponibili per la scuola erano letti ad alta voce e gli allievi dovevano imparare tutto a memoria. I ragazzi usavano tavolette di scrittura e regoli. Nella scuola elementare, dovevano imparare due cose importanti: i versi di Omero, il poeta dell'Iliade e dell'Odissea e suonare la lira. Il loro insegnante, che era sempre un uomo, poteva scegliere liberamente materie supplementari da insegnare. Spesso si sceglievano teatro, retorica, politica, arte, lettura, scrittura, matematica, ed un altro strumento musicale molto popolare: il flauto.
Dopo le elementari alcuni ragazzi seguivano corsi di studio superiori per quattro anni. Al compimento del 18° anno di età entravano nella scuola militare per altri due anni, a 20 anni conseguivano la laurea.
-a Sparta lo scopo dell'educazione giovanile era di creare i presupposti per un esercito forte e disciplinato.
Quando nascevano i bambini a Sparta, i soldati Spartani venivano in casa e controllavano il bambino. Se il bambino non appariva sano e forte, l'infante veniva portato via, e lasciato a morire su una collina a meno che non fosse stato raccolto da qualcuno dei Perieci o degli Iloti. I bambini che passavano questo esame erano assegnati a una fratellanza o sorellanza, di solito la stessa a cui appartenevano il padre o la madre.
I ragazzi di Sparta venivano mandati alla scuola militare all'età di 6/7 anni e vivevano si addestravano e dormivano negli alloggi della loro fratellanza. A scuola insegnavano loro capacità di sopravvivere e altre abilità necessarie ad essere un grande soldato. I corsi erano molto duri e spesso dolorosi. Anche se agli studenti insegnavano a leggere e scrivere, queste abilità non erano molto importanti per lo Spartano antico. I maschi spartani all'età di 18 o 20 anni dovevano superare una prova difficile di capacità di adattamento, abilità militare e abilità di comando. Ogni maschio spartano che non passava questi esami diventava un perioikos. (al perieco era permesso di avere proprietà, praticare il commercio, ma non poteva esercitare diritti politici e non era considerato cittadino). Se invece superava la prova diventava cittadino a pieno diritto e soldato di Sparta. Ai cittadini di Sparta non era permesso maneggiare i soldi, questo era compito dei perieci. I soldati spartani trascorrevano la maggior parte della loro vita con i loro compagni d'arme. Mangiavano, dormivano, e continuavano ad addestrarsi nei loro alloggi di fratellanza. Anche se si sposavano, non vivevano con le loro mogli e famiglie. Vivevano negli alloggi. Il servizio militare terminava all'età di 60 anni. All'età di 60 anni, un soldato di Sparta poteva andare in pensione, e poteva vivere in casa con la famiglia.
A Sparta le ragazze andavano a scuola all'età di 6/7 anni. Anche loro vivevano, dormivano e si addestravano negli alloggi della loro sorellanza. Non si sa se la scuola femminile fosse crudele e dura come quella maschile, comunque alle ragazze erano insegnate lotta, ginnastica e abilità di combattimento. Alcuni storici credono che le due scuole fossero molto simili, e che si tentava di addestrare le ragazze come si addestravano i ragazzi. Gli Spartani credevano che giovani donne forti avrebbero prodotto bambini forti. All'età di 18 anni, se una ragazza di Sparta superava le sue prove di adattamento, abilità, e coraggio le veniva assegnato un marito e le era permesso di tornare a casa. Se falliva perdeva i suoi diritti di cittadina, e diventava una dei perieci. A Sparta, le donne cittadine erano libere di muoversi e godevano di molta libertà; come i loro mariti non vivevano in casa. Nessun capolavoro di arte o di architettura uscirono da Sparta, ma gli Spartani ebbero una forza militare che terrorizzava i nemici.
QUINTILAINO (I secolo d.C.)
Peculiarità dell’opera quintilianea è l’attenzione ai problemi didattici e pedagogici. Quintiliano traccia quindi l’intero percorso necessario alla formazione dell’oratore, accompagnato da una serie di indicazioni didattiche legate in modo organico e coerente. D’altronde egli crede fermamente alla determinante importanza dell’insegnamento nella formazione, tanto che ritiene che vi sia possibilità di miglioramento per l’oratoria futura se vi sarà il contributo di docenti validi, moralmente ineccepibili. Per Quintiliano l’oratore deve raggiungere una formazione morale e culturale completa; per conseguire tale scopo è necessario che il maestro segua l’allievo sin dall’infanzia fornendogli non solo competenze tecniche, ma anche un esempio morale che ne permetta un armonico sviluppo interiore. In questo modo Quintiliano riporta nella sua opera (Institutio) la sua esperienza di docente attento e sensibile, dimostrando di conoscere le caratteristiche e le esigenze dell’età infantile e di come i fanciulli vadano trattati per ottenere da loro i migliori risultati nell’apprendimento.
Nel I libro, vengono discusse le doti e le capacità delle nutrici e dei pedagoghi, il modo di insegnare i primi elementi di scrittura e lettura e l’importanza di riconoscere e invogliare le capacità dei singoli discepoli.
Il II, invece, chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori "optimi", né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro declamazioni attinenti alla vita reale (e che puntassero comunque alla "sostanza delle cose"), con un linguaggio semplice ed appropriato.
I libri dal III al VII trattano dell’ "inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti da inserire nelle cause e l’arte di distribuirli;
i libri dall’VIII al X, dell’ "elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell’orazione.
Il X libro insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura nell’espressione;
l’XI libro parla della "memoria" e dell’ "actio", cioè dell’arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli.
Il XII (la parte "longe gravissimam", "di gran lunga più impegnativa" dell'opera) presenta, infine, la figura dell’oratore ideale: le sue qualità morali, i princìpi del suo agire, i criteri da osservare.
Quintiliano era profondamente consapevole del valore assunto dall'educazione e dall'istruzione per la vita del Romanus civis. Non c'è parte della sua voluminosa opera, dedicata in gran parte all'eloquenza, che non sottintenda la convinzione del valore assoluto dell'ars docendi. Ha fede nella possibilità di insegnare qualsiasi cosa, poiché per natura tutti gli esseri umani sono dotati di un ingegno sufficiente a capire, memorizzare, interpretare: si esige una cultura più ampia, articolata, raffinata, che presupponga la conoscenza del greco, delle leggi, della letteratura e dell'eloquenza, oltre che una perfetta padronanza del latino e la consapevolezza dei valori della tradizione.
Per Quintiliano l'educazione dell'infans, cioè del bambino sino a 7 anni, dev'essere impartita, in prima istanza, dal padre (non a caso questa prima educazione veniva chiamata praecepta paterna) e riguardava temi pratici, politici, sociali e soprattutto morali.
Quintiliano sottolinea anche l'importante ruolo formativo delle madri. Il coinvolgimento della donna nella prassi educativa non nasce tanto, come presso di noi, dalle esigenze di divisione dei compiti domestico-familiari conseguenti all'emancipazione femminile, quanto dall'assunto che la prole, come bene più prezioso di una famiglia e di ogni essere umano, debba godere delle cure più attente da parte di entrambi i genitori.
Dopo queste premesse, con autentico spirito didattico, Quintiliano apre la trattazione sull'apprendimento della lingua latina da parte dei bambini più piccoli: consiglia pertanto che le nutrici, che affiancavano e spesso sostituivano la matrona nell'allevamento degli infantes, sappiano parlare un latino corretto ("saranno le prime persone che il bambino ascolterà"): se questo non accade, si possono creare danni nell'espressione verbale dei piccolo tali da poter pregiudicare la sua futura eloquenza (e si sa quanto l'eloquenza fosse fondamentale per il Romanus civis). La mente del bambino è infatti estremamente malleabile, nel bene come nel male, ragion per cui certi errori si fissano più tenacemente.
Dopo genitori e nutrici Quintiliano introduce la figura del pedagogo (paedagogus), un servo che di solito si occupava della formazione culturale del bambino fra i quattro e i sette anni, età in cui cominciava poi ad accompagnarlo alla scuola elementare. Anche i pedagoghi devono costituire un "personale altamente qualificato": "essi devono essere o coltissimi o avere consapevolezza della loro mancanza di erudizione. Nulla fa più danno di quegli individui che, per essere andati appena al di là delle conoscenze minime, si sono illusi di sapere davvero" (I 1, 8).
All'epoca di Quintiliano, a sette anni i pueri lasciavano l'educazione domestica per intraprendere quella esterna. Cominciavano cioè a frequentare la scuola (ludus litterarius). Gli allievi iniziavano con la scrittura e la lettura di singole lettere, poi di sillabe e di frasi. Ampio spazio era riservato alla lettura di testi che venivano scelti soprattutto per il loro contenuto formativo. Anche l'esercizio di memorizzazione era considerato fondamentale: gli studenti latini si cimentavano con i testi delle XII Tavole e con repertori di massime e sentenze, e anche con brani di poesia.
Quintiliano consiglia poi che lo studio sia come un gioco (I 1, 20):
"il bambino riceva domande ed elogi e sia sempre contento di essersi impegnato. Se qualche volta appare svogliato, è bene passare ad insegnare a un altro, in modo che provi gelosia: talora entri in competizione, e il più delle volte creda di essere lui il più bravo; lo si attiri anche con premi che si accettano a quell'età".
Alla scuola elementare seguiva l'insegnamento secondario (grammatici schola), basato essenzialmente sullo studio della grammatica, che non va inteso nella nostra accezione ristretta di studio della morfosintassi di una lingua.
Quintiliano difende questa fase degli studi: "non dobbiamo quindi tollerare l'opinione di quanti scherniscono la grammatica come futile e limitata: se prima non è stata lei a gettare con cura le fondamenta del futuro oratore, crollerà qualunque edificio ci si costruisca sopra. Indispensabile ai ragazzi, gradita ai vecchi, dolce compagna della solitudine, la grammatica è forse la sola disciplina che in tutti i tipi di studio risulta più utile che appariscente" (I 4, 5).
SCUOLA PRIVATA O SCUOLA PUBBLICA?
Quintiliano tratta anche del valore della scuola privata, cioè di lezioni tenute in casa da un maestro, spesso di origine greca o orientale, e della scuola pubblica. Probabilmente alla sua epoca, molte famiglie prediligevano l'insegnamento privato per evitare ai ragazzi la frequentazione di "cattive compagnie" (I 2, 4 "ritengono che nelle scuole i costumi si corrompano") e nella convinzione che il rapporto insegnante-allievo sia più proficuo di fronte a un numero nettamente inferiore di discenti. Alla prima perplessità Quintiliano ribatte che se l'indole del giovane è buona, difficilmente potrà essere corrotta, quindi quello che conta è la prima educazione ricevuta in casa.
Passa poi a elencare i vantaggi di un'istruzione condotta in classe. Prima di tutto, poiché questo tipo di educazione è rivolta a formare un oratore e cittadino che dovrà vivere all'interno di una comunità, venendo a contatto con moltissima gente, occorre che fin da piccolo "si abitui a non aver paura degli uomini e a non sbiadire come nell'ombra di quell'esistenza solitaria". Quintiliano insiste proprio sul confronto con gli altri e la convivenza come momento fondamentale della crescita individuale; il confronto e l'interazione con gli altri consente di "tenere sveglia la mente e volgerla ad alti pensieri, perché in recessi di quel genere o perde vigore e prende la muffa, come un oggetto lasciato al buio, oppure, al contrario, si gonfia di vuote illusioni; è infatti inevitabile che chi non si misura con nessuno finisca per presumere troppo di se stesso".
Il secondo argomento del retore latino a sostegno del lavoro della "classe" insiste poi sull'assoluta importanza che rivestono le amicizie nate a scuola per la vita futura. È per noi difficile cogliere appieno il significato di questa affermazione, in quanto per l'uomo latino l'amicitia era davvero un valore
inestimabile: nel sistema dei valori della repubblica, l'amicitia indicava, originariamente, l'alleanza sia tra gentes sia con popoli stranieri; solo con la conquista della Grecia e dell'Oriente, e con la conseguente influenza delle filosofie ellenistiche, come quella epicurea, i latini evolsero il loro concetto di amicizia nella direzione di un legame affettivo, interiore, basato non sull'utilitas, ma sulla confidenza e sulla fiducia.
Ebbene, in quest'ottica, Quintiliano riprende quello che non è solo un topos letterario, ma uno dei valori più sentiti della latinità, per sostenere che al bambino deve essere concesso il rapporto privilegiato che nasce "sui banchi di scuola”.
Ma il punto forte della sua argomentazione a favore della scuola pubblica si basa sul concetto di emulazione, che garantisce l'apprendimento anche attraverso l'apprendimento degli altri: "si aggiunga che il bambino, a casa sua, può apprendere solo quanto verrà insegnato a lui, a scuola anche quanto verrà insegnato agli altri. Sentirà ogni giorno molte affermazioni ottenere l'approvazione del maestro e molte altre subirne la correzione; gli gioverà veder biasimata la pigrizia di qualcuno; gli gioverà veder elogiata l'applicazione; la lode stimolerà il suo spirito di emulazione (aemulatio)" (I 2, 21).
L'emulazione, infatti, favorisce i progressi sia di chi è già avanti negli studi, ma anche dei principianti, cioè dei più giovani, che cercano di imitare i compagni più dotati e preparati.
TACITO (I secolo d.C.)
Tacito nei capitoli del Dialogus de oratoribus manifesta il suo dissenso per la decadenza dell’eloquenza del suo periodo (I sec. d.C.), dovuta principalmente ad un sistema educativo lassivo.
La formazione dell’individuo inizia all’interno del nucleo familiare (è questo che Tacito desidera sottolineare ed è anche un punto di vista espresso dal suo maestro Quintiliano), se dunque, nell’ambito dell’ambiente domestico non sono più rispettate le direttive che garantivano una correttezza morale di base era pressoché ovvio che la corruzione dilagasse successivamente. Il cambiamento degli equilibri della famiglia, all’interno della quale non si individuano più i ruoli definiti della madre (responsabile della crescita del figlio nei primi anni di vita) e del padre (che ne segue lo sviluppo successivo), attestano, nel piccolo, una perdita delle regole morali all’interno della società.
Ciò che emerge è il disinteresse dei genitori per i propri figli e l’incuria con cui li lasciano nelle mani di tutori o pedagoghi non qualificati (servi di bassa estrazione – si noti, a tal proposito, che anche nei tempi più antichi la prima educazione letteraria era spesso affidata ad uno schiavo ma si trattava di un servo di levatura culturale notevole – spesso greco od orientale. In ogni caso ciò accadeva dopo la prima educazione infantile impartita dalla madre). Il problema vero, per Tacito è che tutto si è svilito, i genitori sono i primi a non dare peso a certi comportamenti e paiono anzi incoraggiare nei figli le scorrettezze.
I maggiori difetti dell’educazione impartita dalla scuola, invece, s’identificano:
a) nella mancanza di attinenza effettiva con la realtà per quanto è relativo agli argomenti, fittizi e non realisticamente applicabili alla quotidianità (ci vengono, in tal caso, date comunque informazioni sui temi ed i contenuti di controversie e suasorie)
b) nell’assurdità che il confronto avvenga tra interlocutori di pari (in)esperienza e, quindi, non effettivamente valido per una crescita ed un rafforzamento di stile, abilità e maniera
c) nella superbia ed alterigia che si generano dalla convinzione di essere veramente bravi senza aver acquisito un effettivo bagaglio d’esperienza. Mentre prima, nell’età repubblicana, il ragazzo era abituato a seguire i discorsi del maestro in tribunale e nelle assemblee e ad ascoltare le sentenze dei giudici nel foro e ad occuparsi delle cause in tribunale; ora si trova ad occuparsi di questioni alquanto improbabili, come quella sui rimedi contro la peste, che hanno come oggetto della trattazione argomenti che non capiteranno mai in un foro.
E’ importante quindi, secondo Tacito, che il ragazzo nei suoi studi abbia un confronto e un riscontro con il reale.

ROUSSEAU (1762)
Rousseu nell’Emilio prevede che l’educazione del protagonista del suo romanzo pedagogico avvenga in una dimensione “domestica”, affidata esclusivamente ad un precettore privato. L’affidamento del piccolo Emilio all’ambiente sociale ne provocherebbe infatti l’inevitabile corrompimento, compromettendo in origine la formazione dell’uomo nuovo per la società di domani. In campagna Emilio sarà al riparo dalle costrizioni sociali e potrà seguire la spontaneità della propria natura. Il fine dell'educazione è pertanto quello di impedire che il fanciullo subisca l'influenza negativa della società.
Lo scopo di educare l'animo si raggiunge attraverso l'educazione negativa: l'insegnante non deve indottrinare l'allievo; il bambino deve imparare autonomamente, attraverso le sue stesse esperienze; l'impostazione educativa deve, a tal fine, essere adeguata al suo grado di sviluppo.
In un primo momento è quindi necessario che il bambino conservi la propria autonomia e tragga insegnamenti direttamente dalle cose, quindi niente libri, niente ammaestramenti e niente concetti, “il fanciullo è un essere in continuo movimento che deve anzitutto osservare molte cose, deve poter apprendere realtà svariate e multiformi con l’esperienza diretta; non dagli uomini ma dalla natura egli riceve ogni insegnamento”. Il precettore ha quindi il compito di agire sull’ambiente in cui vive il bambino, eliminando gli ostacoli innaturali e le influenze nocive provenienti dalla società ed introducendovi, viceversa, circostanze ed occasioni utili alla sua educazione.
In questo modo, al termine dell’infanzia, tra i dodici e i quindici anni, verrà accumulando un sapere, frutto della sua personale esperienza, operativo, motivato da un reale interesse ad averlo. Emilio sotto la spinta della curiosità e di bisogni divenuti via via più complessi e difficili da soddisfare, costruirà con le proprie mani macchine per sperimentare e carte geografiche e giungerà così da solo alla scoperta delle leggi della natura, diventando “filosofo, pur credendo di essere soltanto operaio”. Nell'ultimo periodo formativo, dai quindici ai vent'anni , lo spirito sarà spontaneamente indotto a conseguire le sue più alte conquiste . Dapprima maturerà il sentimento morale e sociale, risvegliato non dalle prediche astratte ma dall'esempio concreto del precettore ; poi l'attenzione alle condizioni della vita sociale susciterà l'interesse per la storia ; infine, coronamento dell'intera educazione, sboccerà spontaneamente il sentimento religioso, il cui insegnamento deve quindi essere l'ultima opera del pedagogo .
Il principio generale è quello dell' educazione negativa: occorre lasciare che la natura, che di per sé è buona, compia la sua opera pedagogica, senza interferire con precetti o insegnamenti che non rispondono al grado di sviluppo e alle esigenze del ragazzo.
Non bisogna quindi mai pretendere di vedere nel fanciullo l' uomo, bensì limitarsi ad assecondare e a favorire la maturazione di quelle facoltà conoscitive e pratiche cui la natura stessa ha predisposto l' essere umano secondo un certo ordine e una certa gradualità.
LA SCUOLA NELLA STORIA
NELL’ITALIA UNITA
La legge Casati (ministro della pubblica istruzione del regno sardo con il gabinetto Lamarmora), promulgata il 13 novembre 1859, fu il testo su cui si imperniò la scuola italiana fino alla riforma Gentile del 1923 che ne riprenderà le caratteristiche essenziali.
Essa introduceva il principio dell’obbligo scolastico, anche se per il momento circoscritto al primo ciclo della scuola elementare (fino all’ottavo anno di età). La legge ebbe però scarsa efficacia in primo luogo perché la maggioranza dei Comuni, cui essa aveva demandato l’obbligo di aprire scuola, era piuttosto povera, secondariamente perché, dedite all’agricoltura e legate pertanto ad un assetto sociale sostanzialmente statico, molte famiglie vedevano nell’istruzione più un lusso che una necessità.
Tuttavia con la proclamazione del Regno d’Italia venne estesa a tutta la penisola.
La situazione andò migliorando per merito di alcune leggi varate nei decenni successivi, tra queste leggi ricordiamo quella di Coppino del 1877 che promulgò l’obbligo scolastico fino al nono anno di età, fissando le sanzioni per gli inadempienti e instaurò il controllo statale sulle nomine dei maestri.
LA RIFORMA GENTILE
La riforma di Giovanni Gentile, varata nel 1923, non creò una scuola fascista: creò una scuola “gentiliana”, nella quale l’istruzione classica era considerata il punto centrale e la sintesi della preparazione culturale del giovane.
La scuola elementare, obbligatoria e gratuita, era suddivisa in due corsi: inferiore (fino alla 3° classe) e superiore (4° e 5° classe). Per l’ammissione al corso superiore bisognava superare un apposito esame di Stato. Dopo la scuola elementare, che si concludeva con l’esame per conseguire il "certificato di compimento", lo studente che desiderava proseguire la carriera scolastica fino ai più alti gradi doveva sostenere un altro esame: quello di ammissione al Ginnasio. Anche il Ginnasio era suddiviso in due corsi, e il passaggio dal corso inferiore a quello superiore comportava un esame, che si sosteneva alla fine della terza Ginnasio. Alla fine del quinto anno di Ginnasio lo studente doveva ancora sostenere degli esami, quelli conclusivi della scuola ginnasiale, e che avevano il nome di "esami di ammissione al liceo". Il superamento di questi esami permetteva l’iscrizione al Liceo Classico, triennale. Infine, il conseguimento del diploma di maturità classica permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie.
Il giovane che arrivava all’Università aveva quindi superato un numero di sbarramenti non indifferente: sei esami nei primi tredici anni di studi. Le materie di insegnamento del ginnasio erano italiano, latino, greco, storia, geografia, matematica, lingua straniera (dalla 2° alla 5° ginnasio), religione ed educazione fisica.
Il Liceo Scientifico, di durata quadriennale e al quale si accedeva con gli stessi titoli di ammissione per il Liceo Classico, prevedeva un approfondimento degli studi scientifici e il proseguimento dello studio della lingua straniera, oltre all’insegnamento del disegno. La mancanza dell’insegnamento del greco e il numero minore di ore dedicate alle altre materie letterarie limitavano, per i maturati al Liceo Scientifico, l’accesso agli studi universitari, escludendo la possibilità di iscrizione alle facoltà di lettere, filosofia e giurisprudenza.
Lo schema gentiliano della scuola poneva quindi già dalla quinta elementare una scelta per il futuro del giovane perché l’istruzione classica restava la scuola per eccellenza, aprendo la strada ad ogni possibilità di studi universitari, mentre le alternative al ginnasio andavano dalla scuola secondaria di avviamento professionale (il più basso gradino, che serviva in sostanza ad avviare i giovani al lavoro dopo il 14° anno d’età), all’istituto tecnico e all’istituto magistrale, che erano pure scuole di avviamento al lavoro, ma prevedevano anche un accesso limitato agli studi universitari (la facoltà di agraria o di economia per il primo, la facoltà di magistero per il secondo).
Il liceo artistico infine dava la possibilità di proseguire gli studi solo all’Accademia di belle arti o alla facoltà di architettura.
Qui di seguito forniamo i costi, riferiti al 1933, di un corso di studi completo (ossia fino al conseguimento del diploma finale) nei diversi settori dell’istruzione secondaria:
- ginnasio e liceo classico: Lit. 3.700
- ginnasio e liceo scientifico: Lit. 4.120
- scuola di avviamento al lavoro: Lit. 50
- istituto magistrale: da Lit. 1.610 a Lit. 2.400
Diplomarsi geometri o ragionieri costava Lit. 2.136, mentre chi terminava gli studi al grado inferiore degli istituto tecnici pagava in tutto Lit. 1.038.
DURANTE IL FASCISMO
Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fascistizzare l’istruzione.
Infatti già dal 1925 era iniziata quella che è stata definita la “politica dei ritocchi” alla Riforma Gentile, e stava prendendo forma tutta un’altra visione dell’educazione e della pedagogia: la scuola sarebbe dovuta divenire il luogo dove plasmare l’italiano nuovo, l’italiano fascista.
1925-1931: il progressivo adeguamento al fascismo
Gli anni che vanno dal 1925 al 1931 sono quelli che vedono un lento ma progressivo appiattimento della produzione di testi scolastici sulle direttive e sulle esigenze del regime. Da più parti negli ambienti fascisti del Ministero della pubblica istruzione si lamentava poca attenzione al fascismo nei libri di lettura, tanto che la Commissione Giuliano, già nel 1926, iniziò a definire i nuovi criteri per valutare i libri scolastici: le qualità da apprezzare diventavano quelle capaci di alimentare sentimenti patriottici e virili, l’accento si poneva sul valore militare.
Negli anni seguenti si fece più esplicita l’intenzione di propagandare ed esaltare il fascismo: ai compilatori delle letture si chiese di dare un’immagine favorevole del regime, di elencarne le conquiste e di sottolinearne i meriti. I libri iniziarono a popolarsi di Balilla, di martiri della Rivoluzione, della figura e dei discorsi del Duce (il primo appare in un testo nel 1929 ), dei miti della Roma antica. Il processo di progressivo smantellamento della Riforma Gentile e la fascistizzazione dell’educazione, e quindi delle letture scolastiche, furono due fenomeni che procedettero di pari passo.
L’obiettivo non era di formare individui che potessero affrontare liberamente la società ma di fabbricare nuove coscienze per uno stato rigenerato.
1929: l’accordo con la Chiesa
Il Concordato introduce l’insegnamento della religione cattolica nella scuola, offrendo però la possibilità ai genitori di esonerare, con un’apposita dichiarazione scritta al capo dell’istituto all’inizio dell’anno scolastico, i loro figli.
1931: il testo unico di Stato e il giuramento fascista universitario
Negli anni Trenta, la tendenza a fascistizzare la scuola, e di conseguenza i testi scolastici, che già si era manifestata a partire almeno dal 1926, si fece completa. Al Ministero per l’Educazione Nazionale si avvicendarono ministri di sicura fede fascista come Belluzzo, Ercole, De Vecchi e Bottai. La politica della scuola continuava i suoi ritocchi alla Riforma del 1923; la nomina di Bottai rispose alle esigenze del momento: organizzatore di cultura e intellettuale, a partire dal novembre 1936 fu ministro per l’Educazione Nazionale con il chiaro obiettivo di realizzare una riforma autenticamente fascista della scuola. Nel 1939 i suoi sforzi riformistici culminarono nella stesura della Carta della Scuola, che avrebbe dovuto sancire l’inizio della scuola veramente fascista e con la quale ci si riprometteva di adeguare l’intera legislazione scolastica ai principi ideologici del regime. Lo scoppio della guerra ne impedì la realizzazione pratica, se non in minima parte, quella cioè volta a unificare i corsi inferiori del ginnasio, degli istituti tecnici e dell’istituto magistrale. Un controllo totale venne imposto però dall’introduzione, a partire dall’anno scolastico 1930-31, del testo unico di Stato.
Le motivazioni ufficiali erano di tipo ideologico e didattico e dovevano ruotare intorno a tre principi:
1)Tenere i ragazzi non chiusi in un mondo artificioso senza rispondenza nella vita, ma a contatto con la realtà, specie la realtà educativa.
2)Dare ai ragazzi il senso di questo meraviglioso rinnovamento di italianità, opera del Fascismo.
3)Formare un’educazione fascista che non fosse effimera sovrapposizione retorica, ma che sorgesse spontanea nei giovani animi al contatto con la vita reale.
In realtà i risultati che si volevano raggiungere erano altri. Oltre a voler ottenere un consenso ed un controllo maggiori, si voleva costruire l’immagine di un regime che funzionava in tutti i settori, che aveva saputo ricostruire e ridare splendore all’Italia con una efficienza tipicamente militare. Inoltre l’innovazione del testo unico e la sua revisione triennale volevano dare l’idea di un processo di modernizzazione della struttura didattica precedente. C’era, poi, il prestigio che lo Stato sperava di ottenere nel curare un’operazione editoriale di alto livello, avvalendosi di autori illustri. Infine, il fascismo intendeva, demagogicamente, anche andare incontro ai problemi finanziari che l’acquisto dei libri comportava, soprattutto per le classi meno agiate.

L’8 ottobre 1931 la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò un decreto legge intitolato “Disposizioni sull’istruzione superiore” in cui si stabiliva:
… i professori di ruolo e i professori incaricati sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: “Giuro di essere fedele al re, ai suoi reali successori, al regime fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio” …
LA REPUBBLICA ITALIANA
Con la fine della guerra seguirono importanti riforme che riportarono nella scuola l’aspetto democratico eliminato dal regime fascista. Nel 1945 venne abolito il testo unico di Stato per le scuole elementari.
GLI ANNI ‘60
Nel 1962 si istituiva la legge per la scuola media unica. Essa sostituiva qualsiasi altro tipo di scuola secondaria inferiore, ed era gratuita e obbligatoria per tutti i ragazzi dagli 11 ai 14 anni. Venne eliminato così ogni motivo di discriminazione sociale degli allievi.
A tale legge corrispose anche una ampia gamma di discipline, in un primo tempo obbligatorie e facoltative, poi tutte obbligatorie, che impostavano un più funzionale raggruppamento delle materie, suggerivano nuovi criteri di valutazione degli alunni e abolivano l’insegnamento del latino come lingua a sé stante.
Sette anni dopo, nel 1969 venne poi abolito l’esame di ammissione dalla V ginnasio alla I liceo classico.
Fino al fatidico 1968 la scuola viveva una sua vita separata scossa da ben pochi eventi. Dalla Liberazione vi era stato un unico momento molto qualificante, quello appunto dell’introduzione della Scuola Media Unica (1962/1963).
Il resto restava immutato con una struttura essenzialmente piramidale della scuola che vedeva al vertice il Liceo Classico. Gli studi erano molto faticosi e per pochi. In compenso chi arrivava alla fine di essi era quasi sempre gratificato con un sicuro sbocco professionale.
Gli anni ’60 sono ricordati come gli anni del ‘boom’ economico: un benessere sempre maggiore riguardava il tessuto sociale del Paese (anche se profondi squilibri continuavano ad esistere). La chiusa e rigida struttura della scuola non si adattava più ad una richiesta maggiore di scolarizzazione.
Il malcontento, il disagio, le difficoltà di accesso per nuovi soggetti diede il via alle vicende del 1968, che portarono a questi risultati:
- Semplificazione degli esami finali (1969). Gli esami che fino ad allora vertevano su tutte le materie di studio con scritti ed orali (ed importanti incursioni sull'ultimo triennio di studio), si facevano ora su due soli scritti e due materie su quattro possibili (una indicata dal candidato e la seconda, date le circolari ministeriali che invitavano le commissioni a favorire e non penalizzare i ragazzi, praticamente pure).
Si tenga conto che questo esame era stato introdotto sperimentalmente e sarebbe stato cambiato nell’arco di due anni diventati, con disinvoltura, 30.
- Liberalizzazione degli sbocchi universitari (1969). Mentre prima l’accesso a qualunque facoltà universitaria era prerogativa degli studenti del Liceo Classico, ora la liberalizzazione garantiva l’ingresso ad ogni facoltà agli studenti provenienti da qualsiasi tipo di scuola.
- Gestione collegiale della scuola (1974). Creazione di organismi (Organi Collegiali), mediante dei Decreti Legge di Delega al governo, che avrebbero permesso la direzione delle scelte di fondo della scuola a studenti, famiglie e docenti. Questa legge rimase incompiuta proprio nella parte che avrebbe reso importanti e funzionali tali organi: quella economica.
In pratica si poteva programmare ciò che si voleva, poi però non era quasi mai possibile realizzarlo (si tenga conto che questa fallimentare esperienza è alla base della sfiducia che tutti hanno nella possibilità di modificare le cose attraverso strutture istituzionalmente costruite).
ANNI ’90: LA GRANDE SVOLTA, DA BERLINGUER ALLA MORATTI
Svolta decisiva nella storia scolastica è quella offerta, nel 1997-1998, dal progetto del ministro Berlinguer, progetto che sarà poi tradotto in disegno di legge nel luglio dello stesso anno. Eccone i punti fondamentali, presentati nella legge del 1999:
1) L'organizzazione complessiva. Il provvedimento estende l'obbligo scolastico a 15 anni, e crea inoltre un secondo tipo di obbligo, quello alla formazione professionale, che dura fino ai 18 anni. E già questa è una novità. Il secondo elemento di rottura con il passato riguarda il numero complessivo di anni dedicati all'istruzione: adesso sono 13 (cinque elementari, tre medie, cinque superiori), diventeranno 12. Resta invece intatta la possibilità di frequentare i 3 anni di scuola materna, dai 3 ai 6 anni.
2) Il ciclo primario. Comprende tre bienni, a cui seguirà un anno definito "di orientamento". In pratica, è una sorta di sintesi tra le elementari e le medie, con una maggiore attenzione, però, alla preparazione agli studi del successivo ciclo di istruzione.
3) Il ciclo secondario. Dura cinque anni, e si articola in cinque differenti aree: umanistica, scientifica, tecnica, artistica e musicale. Nel primo biennio molti insegnamenti sono comuni, in modo da permettere, se lo studente vuole, di passare da un indirizzo ad un altro. Al termine dei 5 anni, i ragazzi dovranno sottoporsi, come adesso, all'esame di Stato.
4) L'obbligo. Quello scolastico si estende oltre il ciclo primario, e comprende anche il primo biennio del ciclo secondario (cioè fino ai 15 anni). Chi, a questo punto, sceglie di lasciare gli studi, ha comunque il diritto-dovere alla formazione, fino ai 18 anni.
5) I docenti. Entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, il ministro della Pubblica istruzione predispone un piano complessivo, un "progetto di riqualificazione professionale degli insegnanti" per aggiornare il corpo docente.
Operato, quello di Berlinguer, integrato qualche anno dopo, nel 2001, dalla Moratti, che introduce, nella riforma che porta il suo nome, le seguenti principali novità inerenti la scuola superiore:
-ritorna il 7 in condotta come discrimine fondamentale tra promozione e bocciatura
-gli Organi Collegiali (Consiglio di Istituto e di Classe) vengono pesantemente ridimensionati nel proprio ruolo di gestione democratica e collegiale della scuola. Gran parte dei poteri sono accentrati della mani del preside-manager, che diventa in pratica il “capo” dell’istituto senza alcuna possibilità di influire sulle sue decisioni.
I Consigli di Classe, oggi luoghi di discussione e confronto tra studenti, insegnanti e genitori, vengono cancellati.
La composizione del Consiglio di Istituto, che dovrebbe perdere tra l’altro parte dei propri poteri, viene ridefinita nel senso di un’ulteriore riduzione della presenza della componente studentesca
-sparisce l’attuale distinzione tra istituti tecnici, professionali e licei. Dopo la terza media ogni studente dovrà irrimediabilmente scegliere tra due opzioni, senza poi possibilità reale di passare da un percorso all’altro: o iscriversi ad un “liceo”, o frequentare una scuola professionale, molto probabilmente in un meccanismo di alternanza scuola-lavoro.
Quelli che finiranno il liceo potranno (anzi dovranno, perché i licei non rilasceranno alcun titolo di studio realmente spendibile sul mercato del lavoro) iscriversi all’università, cosa che invece quelli che avranno frequentato un istituto professionale non potranno in pratica fare. Questi ultimi, per tentare di proseguire gli studi, dovranno frequentare un anno integrativo, sempre che tutte le scuole lo istituiscano, e poi cercare di passare il test di ingresso all’università, visto che quasi tutte le facoltà, con la strada spianata dalle riforme del centro-sinistra, stanno introducendo il numero chiuso. Peccato che i programmi della scuole professionali saranno stati talmente indirizzati alla spendibilità sul mondo del lavoro.
-ogni scuola assicurerà a tutti soltanto 25 ore di lezione settimanali in alcune materie definite come “fondamentali” (tra le quali la religione cattolica).
Le altre saranno “facoltative” (ossia non sarà obbligatorio per lo studente sceglierle né per la scuola offrirle), ed in parte a pagamento. La valutazione verrà fatta poi in base a tutti i corsi frequentati. Logicamente più corsi si frequenteranno, anche messi a disposizione in altri istituti, più la valutazione sarà alta.
-l’istruzione verrà svenduta al mercato e alle aziende, nel senso che le scuole dovranno reperire parte dei fondi per il proprio funzionamento da sponsor privati, che in cambio avranno un proprio rappresentante in Consiglio di Istituto e potranno condizionare il piano di studi.

BIBLIOGRAFIA
1) SERIO MAURO, SCRITTURE LATINE (TACITO), VARESE, ED. SCOLASTICHE BRUNO MONDADORI, 2004
2) GIARDINA ANDREA, SABBATUCCI GIOVANNI, VIDOTTO VITTORIO, PROFILI STORICI (DAL 1900 A OGGI), BOLOGNA, EDITORI LATERZA, 2002
3) GIORDANO RAMPIONI ANNA, PIAZZI FRANCESCO, SABATINO TUMSCITZ MARIA ATTILIA, NOVOS DECERPERE FLORES (4), BOLOGNA, CAPPELLI EDITORE, 2001
4) SALVATORELLI LUIGI E MIRA GIOVANNI, STORIA D’ITALIA NEL PERIODO FASCISTA, TORINO, EINAUDI, 1964
5) CAMBIANO, MORI, STORIA E ANTOLOGIA DELLA FILOSOFIA (2), BOLOGNA, EDITORI LATERZA, 2002
6) GENOVESI GIOVANNI, STORIA DELLA SCUOLA IN ITALIA DAL SETTECENTO A OGGI, BARI, LATERZA, 2004.
Liceo Ginnasio G. Carducci, anno scolastico 2004-2005, III E
Marta Fattorossi, La scuola e le sue tappe nel corso della storia

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