La crisi della Fisica classica

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare
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Testo

La crisi della fisica classica
e le sue conseguenze nella cultura contemporanea

percorso multidisciplinare di Christian S.
per Liceo Scientifico

introduzione

La tesina è incentrata sulla terza tematica e svolge il proprio percorso attraverso la fase del secolo scorso nella quale la scoperta della teoria della relatività diede molti spunti sia filosofici che letterari, nonché artistici.
La tesina è corredata di note alla fine di alcune pagine, note che mi sono tornate utili per accorciare il testo stesso, in quanto i prof. ci hanno raccomandato di essere brevi
Materie coinvolte nel percorso multidisciplinare
• Fisica
• Scienze
• Filosofia
• Italiano
• Inglese
• Storia dell’Arte
• Storia

Punto di partenza di questo percorso multidisciplinare non può non essere la trattazione di come la crisi della Fisica Classica si è espansa fino a fare cadere del tutto le concezioni che animavano la stessa.

Ma come si è arrivati al concepimento di teorie come quella della relatività ristretta, nonché alla completa messa in dubbio del sistema che Galileo e Newton avevano eretto a suo tempo?
Il compito principale di Einstein fu quello di affermare che non esistono sistemi di riferimento privilegiati, in quanto in ognuno di questi le leggi della fisica non variano, e inoltre la velocità della luce nel vuoto risulta costante per tutti gli osservatori.
Questi, che sono i due postulati principali della relatività einsteiniana, non sono altro che le conclusioni ricavate dopo anni di esperimenti e contrasti tra scienziati.
Secondo i canoni della Fisica Classica tutte le onde erano in grado di propagarsi esclusivamente in presenza di una qualsiasi materia da poter attraversare. Se quindi nel sistema S la luce viaggia alla velocità che noi già conosciamo (c=3 x 108 m/s), in un altro sistema S’, che viaggia a una velocità v, la velocità c della luce risulta variata del valore di questa nuova velocità.
Questo pensiero comportava quindi la presenza di un mezzo nel quale la luce potesse propagarsi grazie alle vibrazioni che interagissero fra questa e la materia. Questa materia, necessaria per la propagazione di qualsiasi onda elettromagnetica, fu identificata nell’ipotetico etere. Risultò dunque naturale collegare il sistema di riferimento privilegiato (nel quale la luce aveva velocità=c) con l’etere.
Si cercò allora di stabilire l’unicità della velocità della luce all’esterno di un sistema di riferimento terrestre (infatti, se la velocità della luce era contraria all’ipotetica velocità dell’etere, risultava minore rispetto a un altro punto, nel quale si sommava alla velocità dell’etere stesso).
A questo punto, Michelson e Morley tentarono di misurare questa presunta velocità con un esperimento: costruendo un inteferometro fecero passare attraverso questo dei raggi luminosi in modo tale che arrivassero su uno schermo in istanti deversi, i due scienziati si aspettavano che, ruotando di 90º l’apparecchiatura e invertendo l’ordine d’arrivo dei raggi, le frange sullo schermo cambiassero posizione rispetto alla prima prova1. Così non fu.
L’abbattimento della teoria dell’esistenza dell’etere fu completato quando le leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell furono rese invarianti dalle trasformazioni di Lorentz, nonché venne confermato che le onde (elettromagnetiche, fra cui anche la luce) regolate dalle stesse leggi di Maxwell non avevano la necessità di attraversare dei corpi per essere propagate, poiché non elastiche.
L’importanza delle trasformazioni galileiane, secondo le quali variava soltanto lo spazio percorso nei due differenti sistemi, venne quindi ridimensionata e, con essa, il modo di ragionare della Fisica Classica.
Il “colpo di grazia” fu inferto dai due postulati fondamentali della relatività ristretta (di cui sopra accennato), emessi nel 1905 da Albert Einstein: 1) le leggi della fisica sono uguali in tutti i sistemi inerziali (quindi non solo le leggi meccaniche galileo-newtoniane, ma anche quelle elettromagnetiche); 2) la velocità della luce nel vuoto è costante per tutti gli osservatori (il che giustifica il fallimento dell’esperimento di Michelson e Morley).
Entrambi i postulati sono validi in qualsiasi sistema inerziale di riferimento. Ciò ci permette di affermare che non esistono sistemi privilegiati rispetto ad altri.
A supporto di queste teorie furono svolti molti esperimenti, che sconvolsero anche la visione nonché lo studio dell’Universo.
Fu soprattutto la scoperta dello spazio-tempo (derivata dalla relatività generale di Einstein) e della proprietà che possiede la materia di far curvare questo, a innescare la scintilla dello studio della vita dell’Universo in cui ci troviamo.
Si sa infatti come abbia avuto origine il cosmo (la teoria del big bang è ormai presa come certa da tutti gli studiosi) e come si sia espanso fino ai nostri giorni grazie all’immensa quantità di energia sprigionata al momento dell’esplosione2.
I ricercatori, in primis l’americano Edwin Hubble, hanno cercato di provare quest’espansione.
E proprio Hubble è stato il fautore delle più importanti ricerche che hanno portato a quanto segue.
Osservando le galassie presenti nell’Universo, Hubble si accorse che esse presentavano righe spettrali che si approssimavano al rosso3. Da ciò dedusse che queste erano in fase di allontanamento rispetto al suo punto di osservazione. Notò inoltre che, più un corpo celeste era distante, maggiore risultava la sua velocità di spostamento. Questa velocità fu ricavata dalla relazione
v = Hd;
nella quale la velocità di allontanamento v, espressa in km/s, è il prodotto fra la costante di Hubble H (di difficile misura, varia tra i 55 e i 100 km/s) e la distanza d misurata in megaparsec4 (1.000.000 di pc).
Grazie a questa preziosa relazione possiamo calcolare quanto tempo è trascorso dal big bang. L’inverso della cosiddetta costante di Hubble (1/H = d/V) determina l’età dell’Universo: 18 x 109 anni.
L’espansione del cosmo è costante. Questa legge, da non sottovalutare, alimenta il principio cosmologico: il moto di allontanamento vale per qualsiasi osservatore, quale che sia la sua posizione nell’Universo.
La legge di Hubble e la scoperta radiazione di fondo sono le fondamenta sulle quali si basa la cosmologia moderna.
In precedenza si accennava alla proprietà della materia di curvare la linea spazio-temporale. Il futuro dell’Universo dipende dalla densità di questa materia: se non raggiunge il livello critico5, la curvatura dello spazio non si chiude su se stessa, dando allo stesso una configurazione iperbolica (avremo uno spazio infinito o aperto); se, al contrario, la materia è così densa da far curvare lo spazio sino a farlo chiudere su se stesso, avremo uno spazio finito o chiuso (spazio sferico).
Allo stato attuale la densità è pari a un decimo di quella critica. In questo modo la curva spazio-temporale risulterebbe aperta e quindi infinita, come anche l’età e le dimensioni del cosmo. Poiché gli avvenimenti possibili nello spazio in queste condizioni si possono datare a distanza di miliardi di anni dall’era attuale, essi sono del tutto trascurabili.
Se invece la densità fosse il doppio del valore di quella critica, lo spazio si espanderebbe sino a smaltire la radiazione di fondo, la spinta che permette all’Universo di allargarsi cesserebbe, e questo tenderebbe restringersi, compiendo il percorso che l’ha portato alla massima espansione all’inverso. Si verrebbe a verificare il big crunch.
Il concetto di Relatività acquista grande importanza anche nel sistema filosofico dell’epoca. Il modo di vedere la vita e il suo scorrere vengono nettamente influenzati dall’importanza che si dà al tempo, addirittura alla diversa durata che esso acquisisce a seconda di come ogni singolo momento viene vissuto.
Henri Bergson, filosofo francese vissuto fra l’Ottocento e il Novecento, nel mezzo di quella che è stata una vera e propria rivoluzione del pensiero, ha interpretato questa teoria sotto il punto di vista della durata del tempo, esprimendo concetti forse astratti per quell’epoca, ma che correlati alla società che si stava delineando, danno il senso di questo radicale cambiamento.
La filosofia bergsoniana esamina queste teorie nei primi due libri che il pensatore francese scrisse: “Materia e memoria” del 1896 e “Saggio sui dati immediati della coscienza”, edito nel 1889. Bergson afferma che la realtà viene vissuta da individuo a individuo, che questa non si può appiattire, ridurre a realtà unica per chiunque, a realtà determinata. Quella realtà il cui tempo è definito come tempo spazializzato6 che modella ogni attimo come quello precedente ad esso e che preclude il successivo esattamente identico ad esso stesso. Basti pensare ad una collana dove tutte le perle infilate sono l’una uguale all’altra: nessuna di esse è in grado di distinguersi.
Di contro esiste un tempo inteso come durata, dove ogni attimo risulta essere diverso da ogni altro, precedente o successivo ad esso che sia. È questo il tempo posseduto dalla coscienza, che, come un gomitolo di lana cresce su se stesso conservando la propria anima, mantenendo la memoria del passato e la percezione del presente, orientata dal ricordo di qualsivoglia azione del passato.
Bergson ci espone quindi il suo concetto di libertà, dato dalla durata: non essendoci momenti correlati tra di loro ed essendo questi tutti imprevedibili, l’uomo avverte un senso di piena espressione della propria personalità, proprio perché egli non è limitato dalla meccanicità del tempo spazzializzato.
Proprio per questo bisogno di codificare ogni singolo momento della realtà come uno e inscindibile, Bergson si pone il problema di come rendere tutti questi momenti, cioè di come porre la fonte di tutti questi momenti. Ne “L’evoluzione creatrice”, scritta nel 1907, viene a formarsi il concetto di slancio vitale (tanto caro a Svevo), con il quale il filosofo parigino mira a rafforzare le proprie teorie sulla diversità e varietà dei momenti della realtà, nonché a proseguire il proprio pensiero.
Poiché esiste una certa imprevedibilità nelle cose, lo slancio vitale contribuisce a rendere la vita come un continuo flusso creativo, un’«azione che di continuo si crea e s’arricchisce», senza la possibilità di alcuna connessione col passato o di taluna previsione del futuro7.
Lo slancio vitale, quindi, sotto un profilo evoluzionistico, vede l’effettivo cambiamento della coscienza, il continuo evolversi di questa in base a nessuna regola predefinita, e tanto meno vi sono parametri stabiliti per eventuali cambiamenti nel futuro.
Bergson si pone in contrasto con le teorie positiviste, con quelle evoluzionistiche di tipo meccanico e/o finalistico, le quali determinano il presente come conseguenza del passato e lo pongono come causa del futuro.
Proprio per questo motivo si pone una netta differenza tra quella che Bergson definisce “società aperta” e quella a cui egli stesso attribuisce il nome di “società chiusa”.
Nella prima si possono denotare tutti gli elementi che contraddistinguono il concetto di slancio vitale: vi è infatti una morale assoluta che determina la realtà, che è imprevedibile, che non si può insegnare né tanto meno imparare. È insita nell’uomo e si basa su un’opera creatrice di valori universali, indipendenti l’un l’altro, con i quali l’uomo pone le basi della “società aperta” basata sull’amore per essa.
La “società chiusa” è invece “murata” dalle regole della convivenza, quelle regole che modellano la vita associata di qualsiasi individuo al fine di preservare la vita stessa. Essa impone all’individuo di conformarsi, di seguire strade già percorse dai suoi predecessori e quindi non nuove, prevedibili.
Bergson pone come facoltà di seguire le non-regole della “società aperta” l’intelligenza, la quale ci permette la conoscenza dei rapporti fra le cose, l’imprevedibilità delle scelte, una certa dinamicità8 nel percorso intellettuale di ogni individuo.
Molti elementi del pensiero di Bergson posso riscontrarsi anche esaminando una delle figure letterarie più importanti del secolo scorso: Luigi Pirandello.
Nato a Girgenti (L’attuale Agrigento) il 28 giugno del 1867 lo scrittore siciliano assume molti punti di rottura con i canoni classici, mostrando un modo nuovo ed estremamente innovativo di scrivere romanzi.
Patriottico, assai influenzato dai genitori e dal loro passato (il padre Stefano era garibaldino, la madre Caterina apparteneva ad una famiglia di patrioti antiborbonici), sul suolo natio Luigi frequenta alcuni circoli letterari, nei quali si confronta con alcune correnti anarchiche, e delle quali confuta le tesi, mancanti, secondo la sua opinione, di quella eticità e moralità tipiche dell’Ottocento che erano il suo punto di riferimento agli inizi della sua carriera.
La frustrazione derivata dal suo rapporto con il padre viene forse compensata con l’adesione alla letteratura, che assume per Pirandello l’unica valvola di sfogo per uscire da quella che egli stesso definisce l’“enorme pupazzata della vita”9.
Gli anni che vanno dal 1892 al 190310 sono contraddistinti da una coscienza della crisi dei valori ottocenteschi, dall’accenno quindi della sua adesione alla cultura relativistica. Ciò si dimostra alquanto vero quando viene pubblicato “L’esclusa” e allorché egli inizia a collaborare con la rivista “Ariel”, dove entra in netto contrasto con le teorie simboliste11, misticiste e dell’Estetismo12.
Sono questi gli anni che danno la vita a “Il fu Mattia Pascal”. Esattamente nel 1904, lo scrittore esce da un brutto periodo economico che determina l’infermità della moglie.
Inizia il periodo della narrativa umoristica, che dura circa dieci anni e che dà i natali a “I vecchi e i giovani”, “Si gira…” e “Suo marito” e che intravede la venuta alla luce di “Uno, Nessuno, Centomila”.
Dal ’16 al ’25 Pirandello è concentrato sulle sue maggiori produzioni teatrali quali “Pensaci Giacomino!” e “Liolà” del 1916, “Così è (se vi pare)” e “Il berretto a sonagli” di due anni più tardi.
Sono questi gli anni nei quali Pirandello “inventa” un nuovo modo di fare teatro: il cosiddetto metateatro, dove i personaggi parlano di se stessi, dove il teatro apre una finestra sul teatro stesso, interagendo a volte con il pubblico (con ciò avviene il cosiddetto “abbattimento della quarta parete”).
Da qui parte il periodo del surrealismo, che porterà Pirandello sino alla morte, ma che comunque ci permette di conoscere l’opinione pirandelliana della “vita”, intesa in quanto tale e contrapposta alla “forma” (che rappresenta le norme e le consuetudini)13.
La produzione narrativa pirandelliana esprime il suo pensiero relativistico e si contraddistingue particolarmente in alcune opere come “L’esclusa”. Scritto nel 1893 e pubblicato otto anni dopo, il romanzo narra di una donna – Marta Ajala – vittima delle considerazioni prettamente personali della cittadinanza. La soggettività della verità viene messa in luce dallo svilupparsi della vicenda, nella quale la vita della protagonista dipende dalle idee e dalle opinioni che la gente si fa su di lei. La protagonista diviene così maschera, modellata a piacere da chi le sta attorno.
Oltre a questo, che è il tema principale (fondamentale nella poetica pirandelliana), possiamo notare come Pirandello tratti dell’esclusione dell’intellettuale dalla società e della predisposizione di questo a scoprire ciò che c’è di umoristico nelle cose che lo circondano; quest’esclusione riflette, inoltre, la vita dello scrittore stesso, in netto contrasto con il padre anche per le proprie doti letterarie.
La vena umoristica viene marcata maggiormente ne “Il fu Mattia Pascal”, nel quale appare il tema fondamentale dello sdoppiamento dell’io, la critica al moderno e alla civiltà delle macchine che precludono a una crisi dell’identità (tra l’altro la critica alla meccanicità viene espressa in “Serafino Gubbio operatore”, con la totale estraneità e impassibilità dalla realtà allegorizzate dal mutismo del protagonista).
Il culmine della «teoria dello sdoppiamento dell’io» si ha in “Uno, nessuno e centomila”, dove il protagonista (Vitangelo Moscarda) ribellandosi all’opinione che gli altri hanno di lui, assume tante identità quante sono coloro che gliele attribuiscono. Il percorso che va da «uno», cioè l’acquisizione di un’identità sociale differita dai «centomila», termina quando il protagonista diventa «nessuno», in quanto immerso nel «fluire insensato della vita».
Dalla produzione letteraria scaturisce quella teatrale, dove Pirandello gioca le carte del surrealismo, come già accennato in precedenza.
Il teatro pirandelliano è caratteristico per la sua visione… sul teatro. Non è più il Personaggio a essere modellato dalle idee del suo inventore, bensì è chi scrive la storia a modellarla in base alle caratteristiche e alle peculiarità della personalità di ogni singolo componente della scena.
In “Sei personaggi in cerca d’autore”, del 1921, Pirandello esprime questo concetto mettendo sulla scena sei storie alla ricerca di qualche attore che sia disposto a impersonarle, a raccontarle.
Tutta la produzione di Pirandello si basa sulla Poetica dell’Umorismo, scaturita da un’attenta riflessione sulla crisi della fisica classica, la quale porta molti letterati a considerare questa globalizzante della cultura.
È infatti noto come Pirandello stesso, dopo aver rinnegato l’etica e la moralità tipiche dell’Ottocento, inizi a produrre romanzi pieni di relativismo (applicato alla letteratura, se è possibile usare tale terminologia).
Principalmente, sviluppando la cosiddetta Poetica dell’Umorismo, lo scrittore si pone il problema di come ormai ogni verità non sia totalmente oggettiva, bensì vista sotto varie prospettive, raccontata in tante maniere differenti, tante quante sono le fonti da cui esse scaturiscono14.
Ne viene fuori, dunque, un quadro alquanto chiaro della posizione dello scrittore nei riguardi dell’Esistenza e della sua molteplicità.
Ed è proprio questa crisi della certezze che porta alla nascita dell’Umorismo, alla creazione del grottesco: un innato bisogno dell’uomo di esprimere il proprio disappunto verso qualcosa di diverso, oppressivo, in modo nettamente ironico.
James Joyce
Master of the literature in the Twentieth century is James Joyce, dubliner writer born in 1882, author of very impersonal novels, where narrator can express every character’s state of mind.
One of the main matters Joyce undertakes to solve is that one about point of view: just to ensure to the reader the total lack of author’s messages, the author himself uses some devices like the third-person narration or the stream of consciousness.
This is made to make the reader more aware about what he’s reading. In fact, Joyce doesn’t describes characters’ meanings or worth, but gives all the elements that allow the readers to make an own consideration about the events.
One of irish writer’s features is the use of linguistic forms adapted to character who’s speaking, of fragments or forms borrowed from another tongues, the attemption to make some onomatopeic sounds written words (i.e. newborns’ notes).
These narrative techniques contribute to a multi-faced vision of the reality.
Joyce writes “Dubliners”, a collection of stories set in Dublin, now ‘paralysed’ city, where its inhabitants, of every age, are swallowed by this paralyse with a sense of stagnation.
Each story, like the Eveline’s one, shows the frustration of the life in city.
Eveline (who gives her name to the story) is a young woman, but oppressed by the place where she lives. She dreams of escaping from Dublin, but, when she can do it (they propose to her to marry), draws back, wiping out her adult personality.
Writing “Ulysses”, Joyce reaches his higher mastery in putting in evidence his characters’ states of mind. Thanks to myhtical method, he can symbolize the eternal trip making a parallelism with the Homer’s “Odyssey” and with its proutagonist’s journey throuought the Mediterranean Sea. According to Joyce the journey is throuought ourselves. ‘Ulysses’, or better Leopold Bloom, isn’t a hero, but travels inside himself.
Myth is a logic device that serves to link different characters, otherwise impossible to link. So myth creates a logic web.
The journey is a continuous search of freedom (this element is also present in “Eveline”).
Abbiamo visto come James Joyce tenti di rendere consapevole della realtà i suoi lettori, come secondo Bergson la nostra mente rimuova solo ciò che non è funzionale alla nostra vita reale.
Allo stesso modo fanno alcuni pittori, appartenenti a un’importante corrente artistica, denominata «Cubismo» da Matisse15, che vedrà come suoi principali esponenti l’andaluso Pablo Ricasso e il francese Georges Braque. Questa corrente è, in buona parte, frutto del decadimento dei valori ottocenteschi.
La sostanziale crisi in cui si addentra anche questo filone artistico pone le sue basi dallo stacco fondamentale che Cezanne ebbe dall’Impressionismo16, che rivelò l’attitudine del pittore nel rilevare le figure che più rimanevano impresse nella memoria di chi le guardava, anche perché qualsiasi oggetto veniva proposto da diverse prospettive, proprio per facilitare questo compito di memorizzazione.
Inoltre il Cubismo ha importanti influenze derivate dall’arte africana: in questa esiste una massiccia esemplificazione delle forme che si sposa con il rifiuto delle forme classiche (anche qui è forte una crisi dei valori antichi) e dà adito alle tesi di Cezanne nell’affermare che le forme semplici rimangono impresse più a lungo nella memoria.
Nasce quindi la quarta dimensione, quella del tempo, quella che rende l’immagine eterna. Ogni immagine, inoltre, viene vista e interpretata diversamente non solo da chi la guarda, ma anche da ogni pittore che la mette su tela; né questo seguirà un metodo unico per portare a termine la sua opera.
In Cubismo adotta al suo interno persino una biforcazione di vedute: la prima assume uno stampo analitico, nel quale gli oggetti vengono scomposti ed analizzati nelle sue parti (è questo il CUBISMO ANALITICO, appunto); l’altra sotto-corrente pone su un livello più alto i sentimenti dell’autore, mostrando una sintesi (da qui la definizione di CUBISMO SINTETICO) di ciò che il pittore ha osservato per trarre la spunto del proprio dipinto17.
Pocanzi si facevano i nomi di due dei più grandi esponenti di questa corrente: uno è Georges Braque.
Francese, egli si occupa di esporre, nelle sue opere, l’annullamento della prospettiva: nessuna figura segue lo stesso filo logico di qualunque altra presente nel quadro, nessuna si rifà a un punto prestabilito. Braque è solito, inoltre, rappresentare strumenti musicali associati a lettere. Gli uni simboleggiano il senso dello spazio (come anche i numeri, spesso utilizzati), le altre occorrono a determinare, quasi venendo in contrasto, un certo senso di piattezza18.
La ricerca artistica di Braque si fonda quindi sulla conquista dello spazio, manifestata principalmente nella serie degli uccelli in volo, simbolo, appunto, dell’impadronimento, ovviamente metaforico, dello spazio.
Pablo Picasso invece, sembra più influenzato dalla corrente impressionista rispetto al collega e amico francese.
Lo si nota principalmente all’inizio della sua carriera artistica quando si cimenta nel riprodurre “Il Moulin de la Galette”, dipinto anni prima da Renoir: si avverte già un’espressività cromatica tipica del pittore spagnolo. La sua produzione continua su questa scia, attraversando i periodi «blu» e «rosa», colori che simboleggiano la tristezza e la staticità della vita19 nonché una visione della stessa meno drammatica, più gioiosa, ma allo stesso tempo ancora malinconica20.
La principale svolta avviene adesso: l’interesse per lo spazio e il volume assumono fondamentale importanza nei suoi dipinti. “Les damoiselles d’Avignon” ne è un lampante esempio.
Le figure vengo incastrate nei piani bidimensionali, si sospingono reciprocamente, ci fanno percepire la dimensione della profondità, inesistente sulla tela, ma presente nelle nostre sensazioni.
Molti quadri di Picasso altro non sono che la rappresentazione della realtà sotto vari punti di vista, la riunione di diverse vedute in una sola, la quale contribuisce a unificare e allo stesso tempo dividere diversi punti di veduta prospettiva.
Picasso sembra sintetizzare la realtà, le sue impressioni del mondo esterno. Ne ha una grande possibilità (tristissima peraltro) quando la flotta aerea tedesca attacca la cittadina basca di Guernica. In soli due mesi venne prodotta un’opera d’arte, il “Guernica” appunto, alla quale il pittore è riuscito a dare un senso universale: non viene raccontata la tragedia basca in sé, ma qualunque tragedia trova la sua sintesi in questo quadro, pieno di brutalità.
Quella brutalità della guerra che sfociò in un modo nuovo ed estremamente violento.
Anche la I Guerra Mondiale sembrò risentire degli stravolgimenti che stavano cambiando il Mondo: una guerra basata sulla continua lotta tra gli schieramenti, fondata su problemi ed interessi economici forse più grandi degli stessi Stati che li possedevano.
L’attentato di Sarajevo fu solo l’ultima e forse la più piccola delle scintille che fecero accendere il conflitto.
Vi erano infatti ben altre questioni che ponevano in contrasto le potenze europee (tra le quali Germania, Inghilterra, Francia e Russia): la Germania aveva l’interesse di espandere i propri commerci nell’Europa sud-orientale e di costituire un’egemonia economica in questi territori. Ciò andava contro i progetti inglesi nel Medio Oriente e intimoriva Francia e Russia; la Francia era animata dalla volontà di rivincita (il cosiddetto revanscismo) nei confronti dei tedeschi, che si erano impadroniti dell’Alsazia e della Lorena, e che a loro volta recriminavano il protettorato francese in Marocco (deciso dall’Inghilterra negli anni Dieci); la Germania tendeva ad estendere i propri territori fino al Mar Baltico, al fine di creare un territorio dove avessero patria tutte le etnie tedesche (pangermanesimo del Reich); la caduta dell’Impero Ottomano alimentava gli appetiti dell’Impero Austro-Ungarico nel conquistare le terre balcane. La Russia, storica protettrice dei popoli slavi (panslavismo), alimentò la voglia di ribellione, soprattutto dei Serbi, nei confronti dell’oppressore austriaco.
Il quadro della situazione politico-economica in Europa era questo.
Quando la Serbia non consegnò all’Austria i responsabili dell’attentato (nel quale rimasero vittime l’Arciduca Ereditario d’Austria, Francesco Ferdinando, e la moglie), questa le dichiarò guerra. Ne approfittò la Germania, da tempo in attesa di un pretesto per attaccare Francia e Russia, che diede il suo appoggio all’impero austriaco e scatenò anche l’ira inglese invadendo il Belgio, dichiaratosi neutrale, venendo meno agli accordi già stipulati con i Britannici.
Anche l’Italia prese parte al conflitto (Patto di Londra, 26 aprile 1915). Dapprima in stato di neutralità, non potendo intervenire a fianco della Triplice Alleanza, poiché quest’idea veniva a cozzare con il sentimento di molta parte della popolazione che recriminava ancora Trento e Trieste, l’Italia si alleò con l’Intesa, dividendo comunque in due il Paese fra coloro che credevano giusto l’intervento bellico e coloro che supponevano che il Paese non fosse né preparato né tanto meno attrezzato per affrontare un simile conflitto.
Ostili all’intervento in guerra era chiaramente il mondo cattolico, anche per motivi politici: l’Austria era stata da sempre caratterizzata da un’influenza cattolica.
Ma la svolta al conflitto si ebbe nel 1917, dopo tre anni di guerra. L’Intesa conobbe il momento più difficile: le truppe erano solite disertare per la durezza delle condizioni in cui versavano i soldati e nelle piazze dei Paesi impegnati nel conflitto iniziarono a scorrere cortei che inneggiavano alla fine delle ostilità. Ma l’evento che sconvolse maggiormente l’andamento delle operazioni belliche fu la ritirata della Russia.
La continua espansione dell’industrializzazione contribuì alla caduta del regime zarista, basato ancora su una società di stampo feudale. La Russia inoltre, vedendo aumentare la dissoluzione del proprio esercito, si rese conto che non poteva più sobbarcarsi spese belliche né poteva permettersi un esercito degno di affrontare una guerra di simili proporzioni. Inoltre la Russia era pervasa da un’ideologia socialista che le impediva la partecipazione a un conflitto bellico.
Il 1917 fu anche l’anno dell’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco dell’Intesa, determinante per la vittoria di questa sugli Imperi Centrali.
La guerra intravide la sua fine grazie al periodo di dissoluzione che gli Imperi Centrali stavano attraversando: la caduta del Reich in Germania e le sconfitte austriache per mano degli Italiani e non solo, determinarono un rafforzamento della potenza bellica degli Stati dell’Intesa (grazie anche all’intervento statunitense).
I vari trattati stipulati dopo la fine del conflitto consentirono a quei Paesi che recriminavano dei territori di riaverli (la Francia riebbe l’Alsazia, l’Italia Trento e Trieste), ma condannò altri Stati alla perdita di immensi territori (la Russia perse tutti gli Stati baltici, parte della Polonia, Finlandia e Ucraina).
Al di là del contrasto bellico, della marea di stragi che, come altre, caratterizzarono questa guerra, il dato più importante da rilevare è quello di una guerra nuova, diversa dalle altre avutesi in passato.
L’industrializzazione in continua crescita disegnò un conflitto mai visto prima, un conflitto basato sulla brama di potenza economica degli Stati europei, capaci di improntare una simile guerra non per la contesa di territori (come è stato in tutte le guerre precedenti a questa), ma per la conquista economica degli stessi.
La stessa industrializzazione e il crescere continuo della tecnologia hanno poi contribuito alla nascita di nuovi strumenti di combattimento, nuove armi in grado di abbattere ciò che prima sembrava solidamente eretto. Carri armati, mitragliatrici, aerei organizzati in flotte: fu questo l’arsenale di cui disposero le potenze belliche per lacerarsi fino allo stremo delle forze.
Per non contare poi i morti sul campo di battaglia. Un numero impressionante rispetto al passato, alimentato anche dal fatto che le strategie di guerra prevedevano l’impiego in prima linea di truppe, le quali erano costrette a rimanere mesi nelle trincee, in condizioni igienico-sanitarie alquanto disumane e senza la sicurezza di cosa sarebbe potuto accadere un domani (sempre che per qualcuno ci fosse la possibilità di arrivarci)
Il Novecento è stato anche questo. Sconvolto nei modi di pensare, di ragionare, di vedere la scienza, nelle coscienze di chi ha assistito a una guerra simile, impensabile fino a qualche decennio prima.
1 È premesso che l’intero sistema avesse una velocità propria rispetto all’etere.
2 Al momento dell’esplosione si sprigionò una tale energia di cui ancora oggi sentiamo gli effetti: è la cosiddetta radiazione di fondo, pari a 3º K allo stato attuale, ma che si pensa maggiore in ere precedenti.
3 Meglio conosciuta col il nome di red shift, questa teoria si basa sulle conseguenze dell’effetto Doppler: se osservatore e sorgente (meccanica o elettromagnetica che sia) sono fermi, le lunghezze d’onda risultano uguali; se la sorgente si allontana, allora la nuova lunghezza d’onda sarà uguale al prodotto della velocità di allontanamento e del tempo impiegato per percorrere questo tratto. Nella spettrometria ciò significa che un corpo celeste si sta allontanando dal nostro punto di osservazione. Viceversa, lo spettro di un corpo in avvicinamento presenta delle frange di interferenza prossime al violetto.
4 Un parsec (abbreviazione di parallasse secondo) è la distanza dalla quale un osservatore vedrebbe il semiasse maggiore dell’orbita terrestre (la distanza media fra il nostro pianeta e il Sole) sotto l’angolo di 1’’. Ricordiamo, inoltre, che 1 megaparsec equivale a 3,26 x 106 a.l.
5 La densità della materia ha la capacità di curvare lo spazio.
6 Tempo spazializzato: è inteso anche come tempo reversibile, poiché ci è permesso tornare indietro e rivivere i momenti passati, data l’egualità di questi.
7 La memoria di cui parla Bergson ha connessioni con il passato, ma essa si limita solo all’accumulo dell’esperienza fatta. Ricordiamo (ed è importante) che la filosofia di Bergson pretende che ogni azione precedente non precluda a quella successiva.
8 L’attuazione dei concetti di “religione statica” “dinamica” è intesa da Bergson come la capacità della religione di limitare l’intelligenza delle persone e assoggettarle, rendendo il loro pensiero statico, appunto, e non permettendo loro un itinerario intellettuale alla ricerca di una dinamicità che non li fossilizzi ai dogmi imposti in partenza.
9 Questo concetto è espresso in una lettera che lo scrittore invia alla sorella Lina, lamentando il bisogno di crearsi degli autoinganni per continuare a vivere una vita altrimenti inutile.
10 Di questo periodo sono “Amori senza amore” (1894), “Arte e coscienza d’oggi” (1893) e “Il turno” (1894).
11 Simbolismo: trasfigurazione della realtà rendendo importanti solo gli aspetti che suscitano in chi li coglie la propria reazione emotiva.
12 Estetismo: esaltazione della bellezza e dell’arte come sostituti dei valori tradizionali.
13 Quasi in perfetta sintonia con le teorie di H. Bergson, la distinzione fra “vita” e “forma” si fonda sul fatto che la seconda contiene la prima, la quale, esprimendosi, fa uscire la vera essenza di un individuo, lo rende libero dagli autoinganni che è costretto a costruirsi per continuare a esistere. La “forma”, di contro, è posta dal meccanismo della nostra vita sociale, regolata secondo norme e leggi civili. Il soggetto costretto a vivere sotto la “forma” acquista l’aspetto di “maschera”, negando quindi la propria “persona”, il proprio io.
Ciò è in parte costitutivo della Poetica dell’Umorismo.
14 L’estremo contrasto tra verità oggettiva e soggettiva porta alla conclusione che non c’è falso e non c’è vero, bene e male vengono a formare un formidabile miscuglio difficilmente decodificabile.
15 Henri Matisse: esponente dei fauves, il pittore francese stravolge la pittura, rinnegando del tutto l’Impressionismo ed esprimendo le proprie sensazioni per mezzo della materia pittorica.
16 Impressionismo: corrente artistica che interpretava, secondo chi vi aderiva, la realtà in modo non accademistico, ma libero.
17 Vi sarebbe anche un terzo tipo di Cubismo, denominato «orfico». Questo mirava all’accostamento di elementi tratti dall’immaginazione dell’artista e non dalla realtà, ma che acquistavano una carica realistica data ad essi dal pittore stesso.
18 Vedi opere come “Il portoghese” (1911), “Le Quotidien, violino e pipa” (1912) e “La musicista” (1917-18).
19 Del «periodo blu» sono “Poveri, in riva al mare” (1903) e “La vita” (1903).
20 Del «periodo rosa» sono “I giocolieri” (1905).
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Esempio