L'Italia unita

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

L’Italia Unita
Chiara P.
ITCG IGEA
A.S. 2001-2002
PRESENTAZIONE
L’argomento di partenza della mia tesina pluridisciplinare è il Verismo e come suo esponente principale il Verga. Movimento collegato ad esso che nasce in Francia è il Naturalismo e principale esponente è Émile Zola. Il periodo storico in cui nasce e prende forma il movimento sono gli anni successivi all’unità d’Italia ed oltre ad affrontare i problemi di carattere politico-economico mi è sembrato giusto approfondire i problemi di carattere sociale. Con l’unità d’Italia le condizioni dei contadini del Sud peggiorarono e molti furono costretti ad abbandonare le loro terre ed emigrare in America per diventare manodopera sottopagata nelle industrie americane. Tra i molti ad emigrare ci furono anche Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: la loro storia, molto significativa, è narrata in inglese. Attualmente l’Italia non è più un paese di emigrati , ma bensì di immigrati e in diritto ho affrontato le norme che regolano la loro entrata e la loro permanenza nel nostro paese. Purtroppo molte delle leggi che io ho riportato e commentato non sono più in vigore perché la nuova legge “Bossi-Fini”, definitivamente approvata solo verso la fine di giugno inizio luglio, ha un po’ rivoluzionato la legge “Turco-Napolitano” (ad esempio ha abolito lo sponsor) .
INDICE
ITALIANO – VERISMO
1. Il quadro storico
2. Definizione
3. Dove e quando
4. Le caratteristiche
5. Le regole
6. I temi e i soggetti
7. Le opere più significative
VERGA
1. La vita
2. Le opere principali
3. La poetica e le tecniche narrative
4. La concezione della vita
5. La donna e l’amore
6. I vinti
STORIA – L’ITALIA UNITA
1. L’organizzazione del nuovo stato unitario
2. La questione meridionale
3. Il brigantaggio e il divario tra Nord e Sud
4. La formazione del mercato nazionale e la società italiana
5. L’emigrazione italiana
6. Roma capitale
FRANCESE
LE NATURALISME
ÉMILE ZOLA (1840-1902)
1. La vie
2. Principales ouevres
3. Zola romancier
La doctrine naturaliste
Le scientifique
Le romancier épique
La forme
INGLESE
1. America, a nation of immigrants
2. Events of the Sacco and Vanzetti Case
DIRITTO
1. Le norme per gli immigrati
2. La cittadinanza : acquisto e perdita
Il quadro storico
L’Italia era appena costituita in unità e i problemi esistenti diventavano sempre più forti perché il nuovo stato era prima diviso in tanti staterelli diversissimi tra loro per condizioni politiche, economiche e culturali.
In Italia la questione sociale fra patronato e masse lavoratrici era complicata:
• dalle differenze sociali ed economiche fra Nord e Sud (la questione meridionale);
• dalla scarsa partecipazione della plebe rurale al risorgimento che aveva sentito come fatto borghese, estraneo ai suoi interessi;
• dalla riluttanza delle masse contadine alla nuova struttura politico-sociale (il brigantaggio dell’Italia meridionale);
• dalle difficoltà di bilancio;
• dalla tendenza delle classi egemoni e dei gruppi industriali a costituire, a spese delle masse meridionali e contadine, l’accumulazione del capitale per fondare l’industria italiana.
Definizione
E’ un movimento letterario e artistico italiano che ispirandosi al Naturalismo francese e al Positivismo teorizza una rigorosa fedeltà alla realtà effettiva (al “vero”) delle situazioni, dei fatti, degli ambienti, dei personaggi e una corrispondenza con il sentire e il parlare dei soggetti che vengono rappresentati. Il movimento tende a descrivere la vita della gente umile, dei reietti della società che si affannano nella lotta per la sopravvivenza, contro la fatalità del destino.
Dove e quando
Si sviluppa negli anni successivi all’unità e prosegue fino al primo decennio del Novecento, raggiungendo la piena maturità nell’ultimo trentennio dell’Ottocento.
Fu elaborato nell’ambito dell’ambiente milanese dove erano forti gli influssi della cultura europea ma si allargò in tutta l’Italia diffondendosi in alcune regioni più che in altre.
La diversa diffusione del Verismo dipende dalla posizione delle regioni in Italia, in quanto la scoperta delle realtà dei veristi riguarda le sue situazioni socio - geografiche estreme sul piano nazionale: da un lato Firenze, capitale provvisoria fino al 1871 e centro politico italiano, dall’altro la Sicilia arretrata, semifeudale e a un livello ancora rurale. Successivamente a Firenze, dove sono nate le prime pagine dei tanti romanzi veristi, si affianca Milano, che è la città più importante dell’economia imprenditoriale nazionale.
Caratteristiche
==> Accettazione delle leggi scientifiche che regolano la vita associata e i comportamenti: lo scrittore cerca di scoprire le leggi che regolano la società umana, muovendo dalle forme sociali più basse verso quelle più alte, come fa lo scienziato in laboratorio quando cerca di scoprire le leggi fisiche che stanno dietro a un fenomeno.
==> Attenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano: lo scrittore predilige una narrazione realistica e scientifica degli ambienti e dei soggetti della narrazione; piuttosto che raccontare emozioni, lo scrittore presenta la situazione quotidiana come un’indagine scientifica, ricercando le cause del suo evolversi, che sono sempre naturali e determinate (determinismo o dawinismo sociale); anche la vita interiore dell’uomo, spiegabile in termini psico – fisiologici, può essere oggetto di uno studio scientifico o sociale.
==> L’artista deve ispirarsi unicamente al vero cioè desumere la materia della propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente contemporanei, ricostruendoli rispecchiando la realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali.
==> La necessità di una riproduzione obiettiva e integrale della realtà, secondo il canone dell’impersonalità, cioè l’applicazione in letteratura del principio scientifico della non interferenza dell’osservatore sugli oggetti osservati (deriva dal Positivismo). A causa delle diversità regionali rappresentate dagli scrittori anche il modo di scrivere cambia nel Verismo dando spazio ai dialetti.
Le regole
L’artista deve ispirarsi unicamente al vero, cioè deve desumere la materia della propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente contemporanei, limitandosi a ricostruirli obiettivamente rispecchiando la realtà di tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali : è la teoria verghiana dell’impersonalità. Il narratore entra nei suoi personaggi per raccontare documenti umani. Il narratore raccoglie il fremito delle passioni, delle sofferenze e, impassibile, lascia parlare l’evidenza dei fatti, la logica delle cose. L’autore deve mettersi nella pelle dei suoi personaggi, vedere le cose con i loro occhi ed esprimerle con le loro parole. Il lettore avrà così l’impressione di assistere a fatti che si svolgono sotto i suoi occhi. Nel far parlare i suoi personaggi il narratore, usa il loro linguaggio: uno stile stringato, una sintassi semplice e disadorna, una lingua paesana e viva con espressioni popolaresche e proverbiali che mettono in luce l’oggettività della narrazione. Si parla di mimesi linguistica dell’autore (mimetizzare = nascondersi nell’ambiente circostante in modo da risultare non visibile). La “scientificità” non deve consistere nel trasformare la narrazione in esperimento per dimostrare le tesi scientifiche, ma nella tecnica con cui lo scrittore rappresenta, che è simile al metodo dell’osservazione scientifica. La scientificità si manifesta solo nella forma dell’artistica, nella maniera con cui l’artista crea le sue figure e organizza i suoi materiali espressivi. Ciò che viene raccontato deve essere reale e documentato, deve anche essere raccontato in modo da porre il lettore faccia a faccia col fatto nudo e schietto, in modo che non abbia l’impressione di vederlo attraverso la “lente dello scrittore”. Per questo lo scrittore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive e con le sue riflessioni.
I temi e i soggetti
Lo scrittore verista:
==> si occupa di situazioni quotidiane reali, vissute cioè nella realtà nazionale: le plebi meridionali, il lavoro minorile, l’emigrazione, ecc.;
==> cerca il vero attraverso l’analisi delle classi subalterne;
==> predilige gli ambienti delle plebi rurali perché non ancora contaminate dai pregiudizi della convenzione sociale.
Il Verismo italiano ebbe una forte caratterizzazione regionale e diversi furono i temi e gli ambienti rappresentati dai veristi.
Al nord, l’affermarsi di una media e piccola borghesia costituita da professionisti e da ceti impiegatizi legati all’apparato industriale, porta all’ampliamento della “base sociale” della letteratura, cioè al numero degli autori e dei lettori, parallelamente a nuove varietà letterarie, dal romanzo di consumo al romanzo di appendice. La nuova cultura positivista sposta l’attenzione su nuovi tipi umani e su nuovi problemi: protagonista dei romanzi e del teatro, accanto al contadino e al pescatore, è l’impiegato. Nuovi eroi sono l’industriale, lo scienziato, il medico e il maestro. I nuovi temi sono quelli della famiglia, fondamentale cellula della società e quelli dell’adulterio e della prostituzione.
Al sud il Verismo si interessò all’umile vita dei contadini e dei pastori con le loro passioni elementari.
Le opere più significative
Il romanzo “Giacinta” di Luigi Capuana può essere considerato una delle più rappresentative del Verismo. Narra di un caso di suicidio che viene studiato, dall’autore, con fermezza scientifica se non addirittura clinica. Altro colosso del Verismo è “I Malavoglia” di Giovanni Verga, opera che tratta la lotta per i bisogni primari della vita quando comincia a farsi viva nell’anima delle persone la voglia di benessere. L’ambiente umano è umile, culturalmente lontano dal narratore che lo descrive senza interventi personali in modo tale che possa risultare assolutamente veritiero. Altre opere importanti sono: “I Viceré” di Federico De Roberto e “Canne al vento” di Grazia Deledda, che narrano le vicende di miserie, rancori e liti di un ceto aristocratico ormai decaduto.
Giovanni Verga
La vita
Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di agiati possidenti. L’insegnamento che gli viene impartito da un professore e sacerdote Abate, liberale e patriota, di tendenze letterarie incline al romanticismo, lo avvia a cimentarsi nell’ispirazione patriottica. Nascono così “Amore e patria” e “I carbonari di montagna”. Tra il 1860 e il 1864 Verga si dedica al giornalismo politico, fondando e dirigendo alcuni periodici e pubblica così il suo terzo romanzo, “Sulle lagune”. Nel 1865 soggiorna a Firenze, attirato dal prestigio culturale di cui godeva questa città. Qui ritornerà più volte e vi risiede quasi stabilmente tra il 1869 e 1871. A questo periodo appartengono i primi due romanzi “scapigliati”, “Una peccatrice” e “Storia di una capinera”. Nel 1872 si trasferisce a Milano e qui frequenta gli scrittori della Scapigliatura e partecipa intensamente alla vita letteraria e teatrale di quel tempo. Negli anni che seguono scrive ancora opere di gusto scapigliato e tardo – romantico, ma si accosta sempre più alla narrativa del realismo francese (Zola). Nel 1878 ha già delineato il programma del ciclo dei “vinti”. Nel 1881 pubblica i “I Malavoglia” accolti con scarso entusiasmo dai lettori. Nel 1895 a Roma si scontra più volte, assieme a Capuana, con il maestro del naturalismo francese Zola, il quale si mostra piuttosto perplesso di fronte alle idee che il Verga gli espone in fatto di letteratura. A fine ‘800 si dedica prevalentemente al teatro con i drammi “La lupa” e “In portineria” e intorno al 1907 lavora alla “Duchessa di Leyra”. Appartato e solitario, vive gli ultimi anni a Catania, dove muore nel 1922.
Pur partendo dai postulati teorici del Verismo, scrisse opere di grande valore umano e poetico. Infatti il suo verismo non fu una fredda, distaccata e anonima produzione del reale: nonostante l’intenzionale impersonalità, la sua opera rispecchia una personale visione del mondo ed il suo forte sentimento di dolore e di tristezza di fronte alla vita. Il verismo produsse nell’autore due effetti positivi. Lo distolse dagli ambienti aristocratici borghesi e dall’osservazione sentimentale dei romanzi giovanili orientandolo verso il mondo più vero e reale degli umili. Inoltre, aiutò il Verga a esprimere i propri sentimenti con commozione contenuta ma ugualmente intensa.
Le opere principali
Nell’attività letteraria del Verga si distinguono tre periodi:
• il periodo romantico patriottico;
• il periodo romantico passionale;
• il periodo verista.
Al primo periodo appartengono i romanzi giovanili “Amore e patria” (incompiuto), “I carbonari della montagna”, “Sulle lagune”, tutti ispirati alla storia del Risorgimento e a motivi patriottici e amorosi.
Al secondo periodo romantico passionale appartengono i romanzi scritti durante il soggiorno fiorentino e milanese quando il Verga viene a contatto con la cultura positivistica e con gli ambienti della Scapigliatura. Sono romanzi in cui si narrano torbide storie d’amore e di morte in ambienti aristocratici e borghesi.
Una peccatrice: è la storia dell’amore tra la contessa Narcisa e il giovane scrittore Pietro Brusio, il quale, dopo aver destato in lei una tormentosa passione, la trascura, spingendola al suicidio.
Storia di una capinera: pubblicata nel ’71 dove Verga svolse un tema che in passato aveva ispirato vari autori tra i quali Manzoni. La fanciulla Maria, costretta dalla matrigna a farsi novizia, torna per breve tempo in famiglia conoscendo la libertà e innamorandosi di Nino, il fidanzato della sorellastra. Il ritorno al convento con la definitiva assunzione dei voti scatena in lei una follia mortale. Il romanzo ha il carattere di una confessione intima, orientata verso la resa dei sentimenti e di nascoste passioni ma vi è anche la documentazione dell’inflessibile autorità familiare e del rigido cerimoniale dei conventi.
Eva: attraverso la vicenda del pittore Enrico Lanti, che conquista una danzatrice e, dopo averla lasciata, muore, si rispetta il tema dell’amore passione che a un certo punto si esaurisce nella sazietà e nell’apatia.
Tigre reale: compare un altro contrasto doloroso, anch’esso di stampo romantico, quello tra la seduzione di una passione d’amore e l’opposto richiamo alla semplicità degli affetti familiari: il diplomatico Giorgio La Ferlita è diviso tra Nata, la contessa russa sua amante, e la moglie Erminia.
Eros: il marchese Alberto Alberti, dopo aver interrotto la sua relazione con l’amante Velleda, sposa la virtuosa e riservata Adele, ma, in seguito ad un nuovo incontro con Velleda, si rifiuta nella vita dissoluta; la conclusione è il suicidio di Alberto sul letto di morte di Adele, ammalatasi per il dolore provato dopo l’abbandono del marito.
La svolta verista si ha con la novella “Nedda” del 1874 ed è dovuta alla scoperta dei naturalisti francesi, all’amicizia col Capuana, alla letteratura della prosa asciutta e distaccata di un giornale di bordo.
Nedda: nella novella si narra la storia triste di Nedda che lavora come raccoglitrice di olive per curare la madre malata. Ella si innamora di un giovane, Janu, ma prima perde il suo uomo, morto per la caduta da un albero, poi la bambina nata da questa relazione. Con Nedda il Verga abbandona i personaggi passionali, evoluti e raffinati dei romanzi giovanili e ritrae la vita degli umili, che vivono rassegnati e silenziosi tra gli stenti e le fatiche; abbandona anche le complicate analisi psicologiche ed i lirismi dei romanzi iniziando una narrazione in un linguaggio semplice e scarno.
I Malavoglia: racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive e lavora ad Aci Trezza, un piccolo paese vicino a Catania. Protagonista del romanzo è tutto il paese, fatto di personaggi uniti da una stessa cultura ma divisi da antiche rivalità. Grazie a una scrittura sapiente che riproduce alcune caratteristiche del dialetto e che riesce ad adattarsi ai diversi punti di vista dei vari personaggi, il romanzo crea l’illusione che a parlare sia il mondo raccontato, rinunciando così alla presenza in “prima linea” dell’autore.
Mastro don Gesualdo: mette in risalto la storia del protagonista che dà il titolo al romanzo. Di origini modeste, Gesualdo riesce a vivere il suo destino di miseria e diventa ricco. Il matrimonio con la nobile Bianca Trao non cancella la sua modesta estrazione sociale: perfino la sua figlia Isabella si vergogna del padre. Rimasto solo, Gesualdo muore nel palazzo ducale di Palermo, abbandonato dai suoi e ignorato dalla servitù che si prende gioco di lui. Anche qui l’ambiente è siciliano e la lingua rispecchia in modo tecnicamente molto raffinata la realtà che fa da sfondo al romanzo.
La poetica e le tecniche narrative
Verga non espose le proprie idee sulla letteratura e sull’arte in opere compiute; preferisce invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto lavoro di scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello dell’impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende innanzi tutto come “schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa”. Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato “raccolto per viottoli dei campi, press’a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare”, sacrificando “l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale" ; l’obiettivo è quello di giungere a un romanzo in cui l’affinità di ogni sua parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà un mistero, la mano dell’artista rimarrà invisibile e “l’opera d’arte sembrerà fatta da se”.
Verga rappresenta la lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi a quelli più elevati.
Le tecniche narrative riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche espressive, la sintassi e il lessico. La novità di Verga sta nella distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del narratore regredito. L’autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la sua presenza. Verga cerca di realizzare l’eclissi dell’autore delegando la funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito nell’ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei personaggi rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare l’idea dell’autore.
Verga vuole essere impersonale fino in fondo e cerca di adottare un tipo di espressione più vicina possibile agli umili rappresentati; cerca di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che appartengono alla cultura locale. Utilizza anche la tecnica del discorso indiretto libero tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di identificarsi col pensiero della gente del posto.
Concezione della vita
Il Verga ebbe una concezione dolorosa e tragica della vita. Secondo il suo pensiero tutti gli uomini erano sottoposti a un destino impietoso e crudele che li condannava non solo all’infelicità e al dolore, ma ad una condizione di immobilismo nell’ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, ma va incontro a sofferenze maggiori, come succede a ‘Ntoni Malavoglia e a Mastro Don Gesualdo.
Con questa visione un po’ pietrificata della società il Verga rinnova il mito del fato (cioè la credenza in una potenza oscura e misteriosa che regola imperscrutabilmente le vicende degli uomini), ma senza accompagnarlo con il sentimento della ribellione in quanto non crede nella possibilità di un qualsiasi cambiamento o riscatto. Per il Verga non rimane che la rassegnazione eroica e dignitosa al proprio destino. Questa concezione fatalistica e immobile dell’uomo sembra contraddire la fede nel progresso propria delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche. In verità, Verga non nega il progresso, ma lo riduce alle sole forme esteriori ed appariscenti; in ogni caso, è un progresso che comporta pene infinite.
La visione verghiana del mondo sarebbe la più squallida e desolata di tutta la letteratura italiana se non fosse confortata da tre elementi positivi. Il primo è quel sentimento della grandezza e dell’eroismo che porta il Verga ad assumere verso i “vinti” un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione: pietà per le miseria e le sventure che li travagliano, ammirazione per la loro rassegnazione.
Il secondo elemento positivo è la fede in alcuni valori che sfuggono alle dure leggi del destino e della società: la religione, la famiglia, la casa, la dedizione al lavoro, lo spirito del sacrificio e l’amore nutrito di sentimenti profondi ma fatto di silenzi, sguardi furtivi e di pudore.
Il terzo elemento è la saggezza che ci viene dalla coscienza dei nostri limiti e ci porta a sopportare le delusioni.
La donna e l’amore
Nelle opere previste Verga rappresenta un amore passionale, travolgente , spesso non corrisposto , con esiti negativi e che si conclude talvolta con un suicidio.
La donna è una creatura lussuriosa, inquietante e quindi mette in scena un amore sensuale, contrastato e spesso torbido. Nelle opere veriste l’amore viene concepito come un istinto, analizzato con metodo scientifico e rappresentato in relazione all’ambiente sociale e culturale. L’amore non rappresenta un valore “sentimentale”, non è consolatorio, non modifica la condizione di vinti dei personaggi.
In “Mastro Don Gesualdo” esso si identifica con il matrimonio ed è utile per garantirsi un’ambita promozione sociale, ma anche in questo caso il protagonista non può che constatare la sua solitudine e la sua sconfitta. Neppure ne “I Malavoglia” l’amore è un ideale per il quale si lotta, ma spesso è accompagnato dalla sottoscrizione e dalla rinuncia: è il caso di Mena che rinuncia al matrimonio con compar Alfio perché si sente disonorata dalla sorella Lia.
Il pessimismo verghiano, inoltre, comporta il rifiuto della società borghese e dei suoi valori, in quanto essi si oppongono a quelli della società arcaica. Tra questi il valore della famiglia, difeso tenacemente da Padron ‘Ntoni, è tenuto vivo dal nipote Alessi che sposa la Nunziata. L’autore però non propone un lieto fine consolatorio, ma mette in luce la condizione sofferta di tutti i personaggi e l’inesorabile sconfitta che tutti subiscono.
I vinti
Verga, diversamente dai naturalisti francesi, ha del progresso una visione negativa: “esso è grandioso nel suo risultato , visto nell’insieme da lontano”, ma in esso i deboli sono travolti dai più forti, fatalmente saranno sopraffatti a loro volta da altri. Da qui l’espressione Ciclo dei vinti, poiché in questa prospettiva nessuno si salva a nessun livello. Lo scrittore non può giudicare; “è già molto se riesce a trarsi un istante fuori dal campo della lotta per studiarla senza passione, e dare una rappresentazione della realtà come è stata, o come avrebbe dovuto essere”.
Per Verga proprio la ricerca del meglio, insita in ogni persona, è la causa della sconfitta, tutti sono indotti a migliorare la loro condizione e in questo tentativo assaporando una sconfitta ancora più dura. I suoi personaggi sono “vinti” quando obbediscono a tale legge.
Verga considera la società come una serie di classi che non possano livellarsi e dalle quali non si può uscire: chi si stacca dal suo ambiente è destinato a fallire e l’unico modo per sopravvivere è rimanere legati alle proprie radici. E’ come se la vita fosse predestinata fatalmente, senza possibilità di scampo: chi è povero deve rimanere tale, non perché sia giusto così, ma perché è così e non si può cambiare.
Questo permette a Verga di far emergere una visione della società profondamente negativa, pessimistica, priva di qualsiasi fiducia e speranza nel progresso; infatti inizialmente i Malavoglia e il paese sono in buoni rapporti poi il negozio dei lupini crea un contrasto netto tra questi perché la famiglia ha infranto una legge che per tutti è acquisita; da Verga definita “ideale dell’ostrica”. Tale legge vede la società come una struttura immobile dove ognuno deve rinunciare al posto che la sorte gli ha desinato e chi la infrange rimane vittima di un declassamento morale, sociale ed economico.
L’Italia unita
Il 17 marzo 1861 il primo parlamento dell’Italia unita proclamò la fondazione del regno d’Italia, conferendone la corona a Vittorio Emanuele II.
L’organizzazione del nuovo stato unitario
Il 27 gennaio 1861, poche settimane prima che, a Torino, Vittorio Emanuele proclamasse il regno d’Italia, si erano svolte le prime elezioni politiche del nuovo Stato. Gli iscritti alle liste elettorali non superavano 450 mila, pari a meno del 2 per cento della popolazione (22 milioni circa). Infatti, la legislazione elettorale sabauda, sancita dallo statuto albertino, che era stata estesa a tutti i territori annessi al nuovo regno d’Italia, limitava il diritto di voto a quei cittadini abbienti che avessero superato i 25 anni d’età e soprattutto che sapessero leggere e scrivere. Ma se si pensa che più dell’80 per cento della popolazione non conosceva l’italiano, si può ben capire quanto fosse ristretta la base elettorale del nuovo stato. Per essere eletti era sufficiente ottenere qualche decina di preferenze, quindi il delicato compito di eleggere il parlamento era affidato a una ristrettissima minoranza. Questa ristretta base elettorale era costituita principalmente da proprietari fondiari e ricchi imprenditori agricoli, industriali e aristocratici, agiati commercianti e alti gradi militari, funzionari di Stato e affermati professionisti. Era in sostanza la nuova classe dominante sorta dall’integrazione tra vecchi proprietari fondiari di origine nobile e aristocratica e i nuovi ceti borghesi legati all’industria e alla finanza. Il nuovo Stato nasceva quindi facendo leva su una limitatissima base sociale, che escludeva dai diritti politici la stragrande maggioranza della popolazione. Il nuovo Stato si servì nei primi anni della sua esistenza di un personale politico prevalentemente piemontese allargato ad alcuni rappresentanti del moderatismo toscano.
Si riaffermava così quella continuità istituzionale tra il vecchio regno sabaudo e il nuovo Stato unitario. Questa continuità si fondava essenzialmente sul fatto che l’organizzazione costituzionale del nuovo Stato (rapporti tra i poteri dello Stato e tra la monarchia e parlamento, natura dei compiti delle camere) era stabilita dal vecchio statuto albertino, promulgato negli Stati sardi nel 1848. Il sovrano del nuovo regno, Vittorio Emanuele II, mantenne la stessa numerazione ereditaria, come se nulla fosse cambiato rispetto alla sua precedente carica di re di Sardegna. Inoltre non venne modificata la numerazione progressiva delle legislature. Eppure i plebisciti, con cui si era stabilita l’annessione dei vecchi stati al nuovo regno, con la loro vasta partecipazione popolare avevano indicato come fosse diffusa l’aspirazione a una più vasta partecipazione politica e come fosse sentita l’esigenza di un profondo rinnovamento, soprattutto in campo sociale. Ma allargare il suffragio e consentire anche agli strati popolari di esprimere la propria volontà politica era un rischio troppo grosso per quella ristretta oligarchia che aveva saldamente governato il processo di unificazione nazionale in nome di un rigoroso conservatorismo sociale.
Questo ristretto gruppo dirigente nel parlamento era diviso in due tendenze politiche distinte: nei banchi di destra sedevano i moderati, liberali conservatori, seguaci delle idee e dei metodi di Cavour; in quelli di sinistra i progressisti, provenienti dal movimento democratico d'ispirazione mazziniana e garibaldina. Alla Destra, definita storica, gli elettori e la monarchia affidarono il difficile compito di dirigere la vita politica e di amministrare lo Stato nel primo quindicennio dopo l’unificazione nazionale. Questo compito si presentava molto difficile e complesso perché l’Italia, pur unificata politicamente, mancava ancora di una struttura amministrativa, di ordinamenti scolastici, militari, giuridici unitari e omogenei. Anche gli abitanti delle varie regioni erano separati da barriere secolari fatte di tradizioni e di culture diverse. Di fronte a questi problemi, emersero due ipotesi d’intervento. La prima puntava ad accentrare tutti i poteri nelle mani del governo e si proponeva di estendere la legislazione sabauda alle nuove regioni annesse; la seconda propugnava invece un cauto decentramento, prevedendo la formazione di un istituto intermedio fra i comuni, le province e lo Stato, cioè le regioni. Questa proposta aveva l’intento di salvaguardare spazi di autogoverno nelle diverse zone del paese operando con gradualità l’integrazione delle classi dirigenti dei vecchi stati nel nuovo Stato unitario. Ma il timore di non riuscire a governare il paese, sia perché il processo di unificazione era ancora troppo fragile e precario, sia perché le spinte democratiche e repubblicane erano ben presenti in molti settori della popolazione, portò la Destra a scegliere la prima soluzione, concentrando nel governo il controllo totale della macchina statale. Il 22 dicembre 1861 il governo presieduto da Ricasoli estese a tutta l’Italia la legge comunale e provinciale esistente nel Piemonte che sancì la nascita di una nuova struttura: i prefetti. Il prefetto, rappresentante del governo in ogni provincia, fu lo strumento principale per realizzare quella gestione politica e amministrativa dal centro, che i moderati avevano imposto. A lui facevano capo la tutela dell’ordine pubblico, la direzione degli organismi sanitari provinciali, il controllo sulla scuola e sui lavori pubblici, la nomina dei sindaci e dei deputati provinciali.
Vennero soppresse tutte le barriere protezionistiche che tutelavano il tessuto industriale dei singoli stati e l’instaurazione di una politica liberistica di ispirazione cavouriana. Nel 1862 fu adottata la legge Casati che prevedeva quattro anni di scuola elementare, dei quali i primi due erano gratuiti e obbligatori; nel 1865 vennero promulgati il nuovo codice civile e le norme di pubblica sicurezza; nello stesso anno venne imposto in tutto il regno l’obbligo del servizio militare. Già dal 1861 migliaia di italiani del Sud si ribellarono al governo dei piemontesi, dando vita al vasto fenomeno del brigantaggio.
La questione meridionale
Il dibattito sulla questione meridionale ebbe inizio nel 1873. Per il Nord, ed in particolare per i Piemontesi, era difficile capire quale era la dimensione globale del problema del Mezzogiorno e ritenevano anzi, che si trattasse di un malessere di dimensioni locali, causato dai briganti, dallo schiavismo dei bambini, dai latifondisti, dalla fame, dalla mancanza di acqua e dalla disperazione sociale delle città. Al momento dell’Unità d’Italia si scopriva però che essa era divisa in due parti che non avevano i presupposti per integrarsi spontaneamente: il Sud era essenzialmente agricolo e non aveva prodotti che interessassero al Nord, non poteva fornire neanche i suoi prodotti agricoli, perché il Nord aveva un’agricoltura ancora più sviluppata. Se nel settore agricolo il Sud tentò di sviluppare culture pregiate come viti, olivi ed agrumi, il Nord era da tempo anche dedito all’allevamento bovino. Investire nel Mezzogiorno, in un’economia precaria come quella del neonato Stato Italiano, avrebbe dunque significato, una scelta politica lungimirante ma senza immediato “ritorno” economico. Per quanto riguarda il sistema elettorale, la situazione politica evidenziava le differenze tra il “paese legale” e il “paese reale”, senza capacità di intervenirvi, dato che la classe politica era in buona parte espressione degli interessi di un ceto sostanzialmente omogeneo in cui i latifondisti del Sud e gli agrari del Nord tendevano a mantenere i loro privilegi, non certamente a migliorare la situazione dei contadini e dei braccianti. Come conseguenza, nello stesso Mezzogiorno, si allargava la distanza tra la disperazione dei contadini, che avevano come unica prospettiva l’emigrazione e l’assorbimento del vecchio notabilato nel pubblico impiego e nelle professioni.
Il brigantaggio e il divario tra Nord e Sud
Il distacco tra Nord e Sud si è manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell’Unità, con un fenomeno che investì l’intero Meridione tra il 1861 ed il 1865: il brigantaggio. Le sue cause sono antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall’accentramento amministrativo poi sono i motivi più recenti del fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rilevando più tirannica dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e propria guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni.
Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottavano anche ex garibaldini sbandati, ex soldati borbonici e numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. All’inizio essi combattevano per due scopi l’uno in contrasto con l’altro:
• ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze;
• impedire la realizzazione dell’Unità d’Italia per far tornare i Borboni, cioè proprio quei Re che avevano sempre protetto i latifondi della nobiltà e della Chiesa, negando ogni riforma.
A creare questa confusione agivano numerosi fattori:
• l’odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera;
• l’incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non “italiane” ma “piemontesi”, cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi;
• la protezione concessa ad ecclesiastici e aristocratici, necessaria ai briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fedeltà al Re di Napoli in esilio;
• l’equivoco che lo Stato Italiano “laico e liberale”, fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza-dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali.
I briganti non furono “criminali comuni”, come però pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all’infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera “Questione Meridionale”. Il fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza.
Lo stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicchè nel 1863 ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari, fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell’opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i fiancheggiatori. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo Stato aveva vinto la guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo una repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud e il resto dell’Italia non fece che approfondirsi. Le classi povere, soprattutto contadine, immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e anche nella stampa dell’epoca furono proposte figure di briganti “buoni”.
La formazione del mercato nazionale e la società italiana
Uno dei primi obiettivi che il nuovo Stato si pose fu quello di costruire una efficiente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie. Insieme con l’abolizione delle barriere doganali essa avrebbe dovuto consentire una libera e agevole circolazione delle merci per fare dell’Italia un unico grande mercato. Alla vigilia dell’unificazione il Sud era praticamente sprovvisto di strade ferrate.
ANNI
LUNGHEZZA
(km)
VIAGGIATORI
(in migliaia)
MERCI
(migliaia di q)
1865
4200
?
?
1870
6007
18,2
42,0
1875
7670
28,0
68,0
1880
8710
32,5
93,3
1885
10 530
40,8
133,9
1890
13 160
50,9
164,8
1895
15 480
52,0
180,0
Grazie all’ampliamento delle comunicazioni i prodotti industriali del Nord riuscirono a raggiungere i mercati meridionali. Inoltre i gruppi capitalistici trovarono nelle costruzioni ferroviarie una delle prime forme redditizie d’investimento e di accumulazione. Questo processo accentuò le differenze sociali già esistenti. L’impatto dell’industria del Nord con quella del Sud, meno sviluppata e moderna, significò il crollo di quest’ultima, incapace di reggere la concorrenza. Il Sud veniva condannato a essere una regione agricola, dipendente dall’industria settentrionale per quanto riguarda i mezzi di produzione, macchinari, manufatti di largo consumo. La creazione di un moderno mercato nazionale significò la lenta scomparsa dell’artigianato locale e del lavoro a domicilio. La diffusione della produzione industriale cancellò questa diffusa attività contadina con la forza delle sue tecnologie e dei suoi bassi prezzi. Migliaia di contadini, tra il 1860 e il 1900, e migliaia di produttori vennero di fatto privati del lavoro e occupati stabilmente come operai salariati nelle moderne manifatture. Questo fenomeno non riguardò soltanto l’industria tessile, ma toccò anche altri settori produttivi, come quello meccanico, siderurgico e alimentare. Nonostante l’avvio di un irreversibile sviluppo industriale dell’economia nazionale nei primi decenni postunitari , l’Italia rimaneva ancora un paese marcatamente agricolo. I contadini non erano proprietari delle terre che lavoravano: erano braccianti, coloni, mezzadri, piccoli affittuari, generalmente poverissimi. La mezzadria (patto fra un proprietario e un contadino con l’obbligo di fare a mezzo del prodotto e l’obbligo di residenza della famiglia colonica nel fondo agricolo) era una forma di conduzione superata e in crisi perché più legata all’autoconsumo che al mercato. Il bracciante che rappresentava la maggioranza della forza - lavoro agricola nella Pianura Padana e in Puglia non aveva fissa dimora e abitava dove trovava lavoro. Nella diversità delle esperienze e delle condizioni di lavoro una sola cosa univa i contadini italiani: quasi tutti non sapevano né leggere né scrivere. Nelle città brulicava un popolo minuto di artigiani, fattorini, ciabattini, calzolai, cappellai, muratori e manovali. I lavoratori agricoli e urbani erano accomunati da uno stato di notevole povertà, che si traduceva in condizioni di vita estremamente precarie. La speranza di vita della popolazione non superava comunque i 35-40 anni, e la mortalità rimaneva a livelli molto alti. A causa della scarsa alimentazione la popolazione era esposta ai rischi delle malattie epidemiche che imperversavano nelle città e nelle campagne. La legislazione era inadeguata e lo Stato investiva assai poco nella tutela della salute pubblica. Il vaiolo mieteva numerosissime vittime. La bonifica idraulica della zone paludose, concentrate nel Mezzogiorno e nella Maremma tosco- laziale, non era ancora stata programmata e diffondeva il rischio malarico.
Sul bilancio dello Stato gravavano i debiti ereditati dagli stati preunitari, le spese affrontate per realizzare l’unità e per combattere il brigantaggio e inoltre quelle necessarie per organizzare la nuova burocrazia e i servizi indispensabili , come ospedali e scuole. Lo Stato si trovò, quindi, nella necessità di spendere molto di più di quello che incassava con la tassazione in vigore agli inizi degli anni sessanta. Il bilancio dello Stato era in deficit, cioè in disavanzo. Per irrobustire le finanze statali, i governi della Destra imposero a tutti i cittadini di pagare tasse più alte. L’inasprimento non riguardava tanto le imposte dirette, bensì quelle indirette, vale a dire quelle che gravavano in maniera uguale per tutti, sulle singole merci di larghissimo consumo come la farina, il sale, il carbone, i fiammiferi. Ciò consentì di far pagare le tasse anche a chi non aveva redditi tassabili, cioè alla maggioranza della popolazione italiana. L’aumento dei prezzi dei prodotti di largo consumo contribuì così ad aggravare le condizioni di vita già misere dei contadini e dei lavoratori urbani, determinando uno stato di grave tensione sociale. Nel 1868 la tassa sul macinato fece esplodere una violenta protesta popolare contro la politica del governo che richiese l’intervento dell’esercito. Nonostante le gravissime tensioni sociali che innescava questa politica, perseguita con estrema fermezza soprattutto dal ministro delle finanze Quintino Sella, nel 1876 sortì l’effetto voluto: il pareggio del bilancio.
Alla fine degli anni ‘80 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia – maggior cliente del Mezzogiorno agrario- inflissero un duro colpo all’agricoltura meridionale. In questi stessi anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno trovò sbocco nel movimento migratorio torrenziale che nel giro di un paio di decenni portò alle lontane Americhe alcuni milioni di meridionali e di Siciliani.
L’emigrazione italiana
A partire dal 1876 sotto la guida di L. Bodio s’iniziò a rilevare con regolarità l’emigrazione italiana anche se il fenomeno assunse la consistenza di un vero fenomeno di massa già dal 1870. Dal 1887, per l’aumentata offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppò rapidamente l’emigrazione transoceanica e la media annua complessiva raddoppiò. La Francia, seguita a una certa distanza dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tenne sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale; l’Argentina e il Brasile, che assorbivano la maggior parte dell’emigrazione transoceanica nei primi venti anni, si videro invece sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo. L’incremento dell’emigrazione transoceanica e lo spostamento della sua direzione dall’America meridionale alla settentrionale, si devono mettere in relazione sia alle mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani che con la diversa partecipazione delle varie regioni d’Italia all’espatrio.
Nei primi anni del Regno emigrarono soprattutto abitanti delle regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsa viabilità e dell’ignoranza, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale. In pochi decenni il rapporto si invertì sia a causa dell’intenso ritmo di accrescimento demografico sia per le poche floride condizioni economiche che non permettevano l’eccesso di manodopera. Negli ultimi anni del secolo XX, la quota fornita all’emigrazione complessiva dell’Italia settentrionale diminuì, mentre crescevano quella dell’Italia meridionale, insulare e dell’Italia centrale. In questo periodo il fenomeno fu lasciato a se stesso: la sola legge varata dal Parlamento del 30 dicembre 1888 si limitava a sancire quasi esclusivamente norme di polizia in vista dei molteplici abusi degl’incettatori di manodopera. I soprusi degli speculatori cessarono solamente quando fu approvata una legge organica dell’emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l’applicazione della legge stessa:
• furono abolite le agenzie e subagenzie;
• il trasporto fu consentito solo sotto l’osservanza di determinate cautele e garanzie;
• si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio;
• si stabilirono norme per l’assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell’emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l’estero.
Assistita ed organizzata l’emigrazione aumentò nei primi anni del secolo XX.
Roma capitale
Mentre il Veneto era stato annesso nel 1866 con la partecipazione del regno italiano alla guerra austro - prussiana (terza guerra d’indipendenza), restava ancora aperta la delicata questione dell’annessione dei territori dello Stato della chiesa, nota come “questione romana”. Cavour con la formula “ libera Chiesa in libero Stato” aveva proposto un nuovo rapporto fra Stato e Chiesa, la quale , rinunciando al potere temporale, avrebbe meglio svolto la funzione spirituale che le era propria. Ma tutte le trattative che i governi della Destra cercarono di avviare con Pio IX per una soluzione pacifica della questione si scontravano con l’intransigenza del pontefice. Il movimento democratico premeva con forza perché si proceda alla sua liberazione, ma un primo tentativo guidato da Garibaldi venne fermato dall’esercito che intercettò il manipolo in Aspromonte; ne seguì un conflitto a fuoco, in cui venne ferito lo stesso Garibaldi. Nel 1967 un secondo tentativo fu invece stroncato dalle truppe francesi che sconfissero gli insorti a Mentana. Il momento favorevole giunse infine alla caduta del secondo Impero, dopo Sedan. Il 20 settembre le truppe regolari italiane, aperto un varco a Porta Pia, entrarono a Roma che venne proclamata capitale del Regno d’Italia. Il 13 marzo 1871 il governo italiano approvò una serie di norme (legge delle guarentigie) che garantivano alla chiesa la libertà di culto e la piena sovranità sul Vaticano. In tutta risposta il papa dichiarò di ritenersi prigioniero della Stato italiano e interdisse a tutti cattolici qualsiasi forma di partecipazione alla vita politica (non expedit).

Le Naturalisme
Le naturalisme est une tendance extrême du realisme et elle s’attache à décrire spécialement les « basses classes » de la société et prétend appliquer au roman les méthodes des sciences expérimentales. Zola est le principal représentant du naturalisme en France. Sous l’influence de Claud Bernard et de Taine, il applique à l’etude des réalités humaines la méthode des sciences expérimentales et il vise à peindre les milieux populaires et même les bas fonds. J.-K. Huysmans et Maupassant sont les plus importants représentants du groupe naturaliste qui se manifesta par la publication d’un recueil de nouvelles, Les Soirées de Médan (1880). Mais les plus remarquables d’entre eux se dégagèrent de cette doctrine étroite et de ces prétentions scientifiques; en effet chez Maupassant, le naturalisme c’est l’observation de la réalité jusque dans ses plus humbles détails.
Émile Zola
La vie
Né a Paris en 1840, fils d’un pére Italien naturalisé, Emile Zola fait ses études à Aix-en-Provence puis à Paris. Les succès des ses premiers écrits , le lance dans le journalisme avec des feuilletons et des articles virulents. Les idées de Taine et de Claude Bernard le rapprochent vers le réalisme et même le «naturalisme»
qui se manifeste déjà dans Thérèse Raquin et Madelaine Férat dis ans avant qu’il n’en expose la doctrine.
Dans 1868, il commance un cycle de romans (Rougon-Macquart) qui raconte les événement et les problèmes d’une famille française sous le second Empire. Il va publier à la cadance moyenne d’un roman per an. C’est à partir du 7° volume, L’Assommoir(1877), que le succés, dû au scandale, le rend célèbre. Autor Zola se groupent alors les écrivains de l’école naturaliste. Pour exposer sa doctrine, il donne Le Roman expérimental (1880), Le Naturalisme au Thèatre (1881) et Les Romanciers Naturalistes (1881). Il obtien son plus grand triomphe avec Germinal (1885). Quelques disciples protestent contre l’outrances du naturalisme, Zola termine en 1893 la série des Rougon-Mocquart. Ses enquêtes sur le monde du travail l’on conduit au socialisme et il s’engage dans la mêlée politique et sociale. Il public un vibrant article en faveur de Dreyfus, J’accuse (1898) : condamné à un an de prison ,il doit s’exiler en Angleterre.A son retour, en 1902, il entame un autre cycle d’ouvrages, où il fait part de son idéal humanitaire. En 1902, il meurt asphyxiè au cours d’un accident suspect, avait d’avoir pu terminer sa dernière oeuvre. La même année il s’est vu refuser le premier prix Nobel de littérature pour avoir écrit un roman (Nana) jugé trop choquant pour la moral publique.
PRINCIPALES OUEVRES
Thérèse Raquin (1867)
C’est le premier roman qui décrit les hommes comme des « brutes » agissant par impulsion, par instict.
Les Rougon-Macquart (1871-1893)
Ce cycle en ving volumes rapelle La Comédie humaine de Balzac. Il a pour sous-titre Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire. Il y a plus de mille personnages. Il crée un univers composé de milieux très divers. Les romans les plus remercables sont les suivants :
-L’assommoir (1877) : c’est l’histoire d’un ouvrier qui devient alcoolique. Zola a le courage de mettre dans la bouche du peuple le langage du peuple, audace qui fait scandale dans les milieux littéraires. Dans la Préface de ce roman, il explique ses intentions: il a voulu peindre la déchéance fatale d’une famille ouvrière, dans le milieu empesté des faubourgs. Il y a le relâchements des liens de la famille, les ordres de la promiscuité, l’oubli progressif des sentiments honnêtes, puis comme denoument, la honte et la morte. C’est la morale en action. C’est une oeuvre de vérité, le premier roman sur le peuple, qui ne mente pas et qui ait l’odeur du peuple.
-Nana (1879) : raconte l’histoire d’une courtisane. Il a fait scandale à sa pariution.
-Germinal (1885) : sous la direction d’Etienne Lantier, les ouvriers d’une mine du nord du France se mettent en grève,mais par la faim, ils deviennent violents et la grève dégénère. Un anerchiste russe commet un attentat et les mineurs sont bloqués au fond de la mine. Au bout de quelques jours les mineurs survivants sont sauvés. Lantier a compris que la lutte des classes doit s’organiser et il va tenter d’entamer une action plus raisonnée pour faire triompher la justice.
-La terre (1887) :sa parution provoque la protestation de quelques disciples de Zola. Ils l’accusent d’être l’auteur d’une «littérature putride».
-La bête humaine (890) : un chauffeur de locomotive, Jacques Lantier, est victime de sa jalousie qui le pousse au meurtre.
-Le roman expérimental (1880) : expression d’une doctrine qui compare le romancier naturaliste à un expérimentateur qui cherche à dégager les lois de la nature. C’est l’influence de Claude Bernard qui a inspiré à Zola cette conception scientifiques et analytique de la littérature.
Zola romancier
Comme Flaubert , Zola a la passion du document : il prépare chaque roman par une enquéte sociologique et engage même le réalisme dans les voies du naturalisme à prétentions scientifiques.
LA DOCTRINE NATURALISTE
Zola a subi l’influance de Taine et il a appliqué les conceptions naturalistes à la littérature. L’homme est soumis au déterminisme :l’hérédité, le milieu social,l’époque sont très importants dans la formation de son caractère. Zola croit à la subordination de la psychologie à la physiologie, c’est-à-dire la physiologie et les conditionnements extérieus sont plus forts que la volonté de s’élever au-dessus d’eux et de sortir d’une situation de détresse. Ce sont les cinq sens et du milieu naturel qui guident l’homme. Cette base théorique peut expliquer les cadres crus et presque vulgaires que peint Zola. La peinture des caractéres n’est pas toujours très nuancée chez Zola. Il se contente de donner une vague idée des personnages. Il brille par contre dans la description de la foule, d’un group animé par le même idéal.
Le scientifique
Zola croit aux thèses du physiologiste Claude Bernard et adapte celles-ci à la littérature. Comme un expérimentateur, il se donne pour tâche d’étudier le « mécanisme des faits », d’arriver à la connaissance de l’homme. Il modifie les conditions dans lesquelles se déroule « l’expérience », « sans jamais s’écarter des lois de la nature », pour pouvoir dégager une règle de comportement générale. Selon Zola, comme il y a une biologie expérimentale, il y aurait un roman expérimental, que il présente dans sa doctrine de 1880. Le caractère documentaire de son oeuvre romanesque confirme les ambitions scientifiques de Zola :les milieux ouvriers, les conditions de travail, la vie quotidienne des mineurs sont bien décrits, ce sont des témoignages uniques de cette époque. Cependant Zola est amené à grossir des événements, à exagérer des situations, à dramatiser, pour provoquer des émotions chez le lecteur.
LE ROMANCIER EPIQUE
Zola est un incomparable évocateur des foules, surtout des foules en mouvement, avec la diversité des vêtements, des attitudes, des visages. Il suggère le caractere confus et démesuré de ces masses humaines, mais il fait aussi percevoir l’existance d’une âme collective chez ceux qui partagent la même détresse ou la même exaltation. Sans son imagination et sa veine épique, Zola n’aurait pas créé un univers de personnages si verié, si coloré. C’est surtout la force d’expression de son langage qui fait son génie. Dans les descriptions du milieu, il n’insiste pas, comme Balzac, sur le détail, mais brosse un tableau d’ensemble qui vise à rendre une atmosphère.
LA FORME
C’est sans doute l’aspect le plus controversé de ses romans. Ses adversaires lui ont reproché son langage cru. En effet Zola adapte en tous points la langue de ses personnages à leur catégorie sociale.

America, a nation of immigrants
At the beginning of the 20th century it was easy to enter the USA due to the 1862 Homestead Act. This offered free land in Western USA to those who wanted to settle there. Many European agricultural workers came hoping to obtain their own land for the first time in their lives. Then this great flood of immigrants from Europe supplied the essential labor for the growing American industries. Many people left the Old World to come to the New World and they supplied American industry with the cheap labor. The reasons were many, in fact in this period the potato crop in Ireland failed because of a fungus infections, then Jews left Russia and Poland to avoid the persecution, and in the end the Italians left Italy because the economy of the southern part of the country was ruined by its union. At first they looked for work in the big cities and they often worked at home in tiny, filthy apartments called tenements.
The immigrants did have one fairly good ally in their battle to make good in America; this was the party boss, the head of the political machines of the big cities. The party bosses used the techniques developed by Van Buren and Jackson: they gave out favors and jobs in return for votes. Immigrants had someone who was willing to help them to find jobs; to get citizenship, to lend them money, to get them out of jail and so on, and all this in exchange for a vote. To be sure, these bosses were more interested in their own power and helped the immigrants only to be helped themselves, but the social ties created in this way did help the immigrants to survive.
Events of the Sacco and Vanzetti Case
Bartolomeo Vanzetti was born in Cuneo and Nicola Sacco was born in Foggia. They were born on a farm and they arrived to America in 1908 with one of the many Italian migratory waves. After various and back-breaking jobs in many cities, they settled in Massachusetts where they married and had children. They didn’t give up their humanitarian commitment. They had anarchical ideals. They took part in struggles and in strikes, supported the trade-union propaganda to defend immigrants and unemployed’s rights, then they demonstrated against the War at the moment of big social conflicts (1912-1916).
On April 15, 1920 in the main street of South Braintree, Massachusetts, there was a brutal murder and robbery and two people died.
Three weeks later, on the evening of May 5, 1920, Nicola Sacco and Bartolomeo Vanzetti, fell into a police trap that had been set for a suspect in the Braintree crime. Both men were carrying guns at the time of their arrest and when questioned by the authorities they lied. Vanzetti was also charged with an earlier holdup attempt that had taken place on December 24, 1919, in the nearby town of Bridgewater.
Vanzetti was tried first in the summer of 1920 on the lesser of the two charges, the failed Bridgewater robbery. Despite a strong alibi supported by many witnesses, Vanzetti was found guilty. Most of Vanzetti's witnesses were Italians who spoke English poorly, and their trial testimony, given largely in translation, failed to convince the American jury. Vanzetti's case had also been seriously damaged when he, did not take the stand in his own defense.
Vanzetti received a sentence that was much harsher than usual, ten to fifteen years. On the advice of the anarchist militant and editor Carlo Tresca, a new legal counsel was brought in - Fred H. Moore, the well-known socialist lawyer from the West. He had collaborated in many labor and Industrial Workers of the World trials and was especially noted for his important role in the celebrated Ettor-Giovannitti case, which came out of the 1912 Lawrence, Massachusetts, textile strike.
The arrest of Sacco and Vanzetti had coincided with the period of the most intense political repression in American history, the "Red Scare" 1919-20. They were long recognized by the authorities and their communities as anarchist militants who had been involved in labor strikes, political agitation, and antiwar propaganda and who had had several serious confrontations with the law. They were also known to be dedicated supporters of Luigi Galleani's Italian language journal Cronaca Sovversiva, the most influential anarchist journal in America, feared by the authorities for its militancy and its acceptance of revolutionary violence. On the night of their arrest, authorities found in Sacco's pocket a draft of a handbill for an anarchist meeting that featured Vanzetti as the main speaker. In this treacherous atmosphere, when initial questioning by the police focused on their radical activities and not on the specifics of the Braintree crime, the two men lied in response. These falsehoods created a "consciousness of guilt" in the minds of the authorities. Their new lawyer, Moore, completely changed the nature of the legal strategy. He decided it was no longer possible to defend Sacco and Vanzetti solely against the criminal charges of murder and robbery. Instead he would have them frankly acknowledge their anarchism in court, try to establish that their arrest and prosecution stemmed from their radical activities, and dispute the prosecution's insistence that only hard, nonpolitical evidence had implicated the two men in common crimes. Moore would try to expose the prosecution's hidden motive: its desire to aid the federal and military authorities in suppressing the Italian anarchist movement to which Sacco and Vanzetti belonged.
Moore's defense of the two men soon became so openly and energetically political that its scope quickly transcended its local roots. He organized public meetings, solicited the support of labor unions, contacted international organizations, initiated new investigations, and distributed tens of thousands of defense pamphlets throughout the United States and the world. Much to the chagrin of some anarchist comrades, Moore would even enlist the aid of the Italian government in the defense of Sacco and Vanzetti, who were still, nominally at least, Italian citizens. Moore's aggressive strategy transformed a little known case into an international cause celebre.
The jury found Sacco and Vanzetti guilty of robbery and murder on July 14,1921. This verdict marked, only the beginning of a lengthy legal struggle to save the two men. Presented in these motions were evidence of perjury by prosecution witnesses, of illegal activities by the police and the federal authorities.
From the beginning, Moore's strategy of politicizing the trial in tradition- bound Massachusetts had been controversial and confrontational. His manner of utilizing mass media was quite modern and effective, but it required enormous sums of money. Moore's efforts came to be questioned even by the two defendants, when he, contrary to anarchist ideals, offered a large reward to find the real criminals. As a result, in 1924 he was replaced by a respected Boston lawyer, William Thompson, who assumed control of the legal defense for the last three years of the case. Thompson, had no particular sympathy for the ideas of the two men, but he later came to admire them deeply as individuals.
Throughout America liberals and well-meaning people of every sort, troubled and outraged by the injustice of the legal process, joined the more politically radical anarchists, socialists, and communists in protesting the verdict against Sacco and Vanzetti. Ranged against the defenders of Sacco and Vanzetti were conservatives and patriots who wanted to defend the honor of American justice and to uphold law and order.
On April 9, 1927, after all recourse in the Massachusetts courts had failed, Sacco and Vanzetti were sentenced to death. Public agitation on their behalf by radicals, workers, immigrants, and Italians had become international in scope, and many demonstrations in the world's great cities protested the unfairness of their trial. This great public pressure, finally persuaded the governor of Massachusetts to consider the question of executive clemency for the two men. He appointed an advisory committee, the "Lowell Committee," so-called because its most prominent member was A. Lawrence Lowell, president of Harvard University. The committee, in a decision that was notorious for its loose thinking, concluded that the trial and judicial process had been just "on the whole" and that clemency was not warranted. Sacco and Vanzetti were executed on August 23, 1927, a date that became a watershed in the twentieth-century American history.
Up to the present, most writers have focused their attention on the legal, social, and cultural dimensions of the Sacco-Vanzetti case. The legal dimension, in particular, has been rather exhaustively considered, and its two major issues - the fairness of the trial and the innocence or guilt of the two men - still dominates most of the literature about the case.
Earlier opinion almost unanimously felt that the two men were innocent and had been unjustly executed, but later revisionist points of view emerged: some totally, if implausibly, defending the verdict as correct; others more plausibly arguing that, based on new ballistics tests and words by Carlo Tresca and Fred Moore, Sacco was guilty, Vanzetti innocent.
Surprisingly, although the Sacco-Vanzetti case is considered the political case par excellence, few accounts have taken the politics of the two men - their anarchism - very seriously and fewer still are knowledgeable about it. As in all great political trials, the figures of Sacco and Vanzetti have been transformed into passionate symbols, symbols that are often rather understood. A full and accurate account of the political dimension - and, in particular, the anarchist dimension - still remains to be written. The importance of the Sacco-Vanzetti case remains not only because it called into question some of the fundamental assumptions of American society, but because it calls into question some of the fundamental assumptions of American history.
Le norme per gli immigrati
La tutela degli immigrati è oggetto specifico della Convenzione sui diritti dei lavoratori migrati e dei membri delle loro famiglie, approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 18 dicembre 1990.
Le politiche di immigrazione, ovvero l’insieme delle misure approvate da uno Stato per disciplinare il fenomeno dell'immigrazione, sono attuate dalle singole nazioni.
A differenza degli altri paesi europei, come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, che conoscono da decenni il fenomeno dell’immigrazione, l’Italia fino agli anni Sessanta non contava una presenza esigua di stranieri sul proprio territorio. Solo negli anni Settanta si verifica un vero e proprio movimento immigratorio, con l’arrivo di lavoratori dal Nord Africa impiegati essenzialmente in agricoltura, di collaboratrici domestiche provenienti dalle Filippine e dall’isola di Capoverde e di rifugiati politici dal Cile e dell’Argentina. Ma è negli anni Ottanta che aumenta sensibilmente la presenza di stranieri nel nostro Paese: gli immigrati provengono, oltre che dal Nord Africa, dall’America latina e dall’Asia. Dieci anni fa sono cominciati i grandi sbarchi dall’Albania, incoraggiati dall’opulenza propagandata dalle nostre trasmissioni televisive.
Oggi gli stranieri costituiscono più del 2% della popolazione italiana, una media bassissima rispetto alle altre nazioni europee.
L’Italia ha affrontato con ritardo i problemi connessi all’immigrazione e solo recentemente ha adottato provvedimenti legislativi che, oltre a disciplinare le modalità di ingresso degli stranieri nel nostro territorio, precisano in maniera dettagliata anche i diritti sociali e civili dell’immigrato.
L’Italia riconosce il diritto d’asilo, cioè il diritto dello straniero di soggiornare nel territorio italiano per sfuggire alle persecuzioni politiche del paese d’origine ed esercitare i diritti e le libertà sancite dalla Costituzione italiana e negate dallo stato di appartenenza. Un’altra forma di solidarietà di carattere unitario a favore dei perseguitati politici è l’esclusione dell’estradizione per i reati politici, cioè quei reati commessi per opporsi a un regime non democratico.
L’immigrato può essere legale, illegale (entrato in Italia legalmente, ad esempio come turista o studente, ma non in regola con la normativa del nostro Paese) o clandestino (entrato in maniera illegale e quindi privo di documenti ufficiali). L’immigrazione clandestina è, sia in Italia sia negli altri paesi europei, molto frequente e il più delle volte è da considerarsi una vera e propria tratta di essere umani. La normativa sull’immigrazione si applica inoltre solo agli apolidi (persone che, per una qualsiasi causa, hanno perso la propria cittadinanza originaria e non hanno i requisiti per acquistare la cittadinanza di un altro stato) e ai cittadini extracomunitari, cioè di paesi non appartenenti all’Unione europea. I cittadini comunitari possono infatti liberamente circolare all’interno dei vari stati della comunità europea, senza bisogno di alcuna autorizzazione e senza alcun tipo di controllo.
A partire dal 1990 il legislatore italiano ha posto l’attenzione sul problema dell’immigrazione. La prima legge, detta legge Martelli, si poneva essenzialmente in un’ottica di ordine pubblico, ma anche molte delle successive, in realtà, affrontavano la questione con una logica di “emergenza” e non di valutazione complessiva di un fenomeno che può considerarsi di lunga durata, non solo nel nostro Paese ma in tutti gli Stati ad economia avanzata. La legge 6 marzo 1998 n.40 (meglio conosciuta come «legge Turco-Napolitano»), successivamente inserita nel Testo Unico sull’immigrazione, decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286, può considerarsi la prima manifestazione reale del legislatore italiano di realizzare un equilibrio tra esigenza di controllare i flussi degli immigrati e garanzia di diritti sociali, economici e culturali nei loro confronti.
L’integrazione effettiva degli stranieri che soggiornano in Italia regolarmente è perseguita, con azioni volte a prevenire situazioni di emarginazione e a rendere concreta l’affermazione dei principi universali del valore della vita umana, della dignità della persona, della tutela dell’infanzia.
Gli ingressi per motivi di lavoro sono consentiti agli stranieri solo nell’ambito di una programmazione annuale. E’ il governo a fissare, ogni anno, il numero degli stranieri non comunitari che possono entrare in Italia e ogni tre anni predispone il «Documento programmatico» con cui delinea la politica dell’immigrazione di lungo periodo. L’intento è quello di prevenire l’immigrazione clandestina e, nel contempo, aprire le porte a quei lavoratori stranieri che possono colmare la mancanza di personale con mansioni specifiche. Tale obiettivo è purtroppo ancora lontano: la presenza di clandestini in Italia, come negli altri paesi europei, è notevole.
I criteri con cui si determinano i flussi d’ingresso sono dettati, essenzialmente, dalla situazione interna del mercato del lavoro, dagli accordi che il nostro Paese conclude con alcuni paesi di provenienza dei lavoratori stranieri e da una quota di ingressi riservata alle richieste nominative, vale a dire richieste che fanno i datori di lavoro che già conoscono i lavoratori stranieri che vogliono assumere.
La nuova normativa permette a un cittadino italiano o a un cittadino straniero regolarmente soggiornante in Italia, alle organizzazioni e associazioni professionali, sindacali e di volontariato, di garantire l’ingresso in Italia per la ricerca di lavoro di un cittadino straniero per un periodo di tempo limitato. Questa procedura è denominata prestazione di garanzia o sponsor.
L’ingresso nel territorio dello Stato italiano è consentito allo straniero in possesso di documento valido e visto d’ingresso e dalla documentazione idonea a provare lo scopo del soggiorno. Il visto è rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello stato di origine o di stabile residenza dello straniero. Il cittadino straniero deve anche dimostrare di avere mezzi di sussistenza per la durata del soggiorno e per il ritorno nel paese di provenienza.
I cittadini stranieri che vogliono soggiornare in Italia devono munirsi di un documento, il permesso di soggiorno, che va richiesto al questore della provincia in cui lo straniero si trova entro otto giorni lavorativi dal suo ingresso nel territorio dello Stato italiano. La sua durata dipende dal motivo per il quale viene rilasciato (lavoro subordinato o autonomo o stagionale, studio, affari, turismo, ecc.). E’ rinnovabile e può essere rilasciato anche per motivi umanitari a favore di persone provenienti da paesi in guerra o colpiti da disastri naturali.
Il permesso di soggiorno deve essere mostrato ogni volta che lo richiedano uffici e agenti di pubblica sicurezza.
Una delle innovazioni più importanti della nuova normativa è l’istituzione della carta di soggiorno, che consente agli stranieri di soggiornare in Italia a tempo indeterminato e, di fatto, assegna loro gli stessi diritti del cittadino italiano. Può chiedere tale documento chi soggiorna regolarmente nel territorio italiano da almeno cinque anni, è titolare di un permesso di soggiorno che consenta un numero indeterminato di rinnovi, e ha un reddito sufficiente al proprio sostentamento e a quello della propria famiglia.
Se si decide di dare ospitalità ai cittadini stranieri è necessario tenere presente che:
Articolo 7 D.Lsg. 25 luglio 1998, n.286
1.Chiunque, a qualsiasi titolo, dà alloggio ovvero ospita uno straniero o apolide, anche se parente o affine o lo assume per qualsiasi causa alle proprie dipendenze ovvero cede allo stesso la proprietà o il godimento di beni immobili, rustici o urbani, posti nel territorio dello Stato, è tenuto a darne comunicazione scritta, entro quarantotto ore, all’autorità locale di pubblica sicurezza.
Il cittadino straniero, in quanto titolare di diritti fondamentali, ha diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare cioè a stare vicino al proprio coniuge e ai propri figli. Di tale possibilità ci si può avvalere solo in presenza di determinate condizioni.
Articolo 28 D.Lsg. 25 luglio 1998, n.286
1.Il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente testo unico, agli stranieri titolari di carta di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi.
Articolo 29 D.Lsg 25 luglio 1998, n.286
1. Lo straniero può chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari:
a) coniuge non legalmente separato;
b) figli minori a carico, anche del coniuge o nati fuori dal matrimonio, non coniugati ovvero legalmente separati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso;
c) genitori a carico;
d) parenti entro il terzo grado, a carico, inabili al lavoro, secondo la legislazione italiana.
2. Ai fini del ricongiungimento si considerano minori i figli di età inferiore a 18 anni. I minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli.
3. Salvo se si tratti di rifugiato, lo straniero che riconosce il ricongiungimento deve mostrare la disponibilità:
a) di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ovvero, nel caso di un figlio di età inferiore agli anni 14 al seguito di uno dei genitori, del consenso del titolare dell’alloggio nel quale il minore effettivamente dimorerà;
b) di un reddito annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di un solo familiare, al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di due o tre familiari, al triplo dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di quattro o più familiari. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito complessivo annuo dei familiari conviventi con il richiedente.
Secondo la legge italiana sulla cittadinanza il minore straniero nato in Italia o arrivato nel nostro Paese per ricongiungersi con i propri familiari o rifugiatosi per sfuggire a persecuzioni, molto probabilmente diverrà un cittadino italiano. La società italiana si avvia a diventare sempre più una società multiculturale e multietnica.
La cittadinanza: acquisto e perdita
La cittadinanza si acquista e si perde. Ogni Stato stabilisce i criteri per mezzo dei quali ciò avviene. Tali criteri si ispirano alla duplice esigenza:
a) di evitare, per quanto è possibile, che sussistono casi di doppia cittadinanza (cioè di cittadini di due o più Stati) o di nessuna cittadinanza (il caso degli apolidi);
b) di far dipendere l’acquisto (e perdita) della cittadinanza da elementi oggettivi (con la nascita o la residenza nel territorio dello Stato per un certo numero di anni), piuttosto che da elementi soggettivi (come la volontà dell’individuo).
La disciplina dell’acquisto e della perdita della cittadinanza italiana è stata recentemente riformulata nella l. n.91 del 1992, la quale prevede che gli interessati devono in ogni caso rivolgersi all’Ufficio di stato civile del Comune di residenza.
La cittadinanza italiana spetta automaticamente:
• per diritto di nascita, ai nati (anche all’estero) da un genitore italiano. Al caso del nato da genitori italiani è equiparato quello della filiazione e dell’adozione da parte di cittadini italiani;
• per diritto del suolo, ai nati in Italia, ai figli di genitori o apolidi e a coloro ai quali i genitori stranieri non possono trasmettere la loro cittadinanza, secondo la legislazione dello Stato cui appartengono. A coloro che sono nati in Italia da genitori ignoti sono equiparati coloro che sono trovati in Italia e non abbiamo un’altra cittadinanza.
Agevolazioni sono previste per i figli o i discendenti da cittadini italiani (si pensi ai figli e ai nipoti degli emigrati). I figli o i nipoti in linea retta di padre o madre italiana acquistano la cittadinanza italiana su semplice loro dichiarazione di volontà quando:
• prestino servizio militare nelle FF. AA. italiane;
• assumono un impiego, anche all’estero, alla dipendenza dello Stato italiano;
• abbiano la residenza da almeno due anni in Italia, al momento in cui compiono il 18° anno di età.
La cittadinanza italiana spetta inoltre, su richiesta dell’interessato al Ministro dell’Interno:
• per diritto di matrimonio, al coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, quando risiede da almeno sei mesi in Italia, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio.
La cittadinanza può essere negata, in questo caso, a chi sia stato condannato per gravi reati o per ragioni attinenti alla sicurezza dello Stato.
Con decreto del Presidente della Repubblica (su proposta del Ministro dell’Interno) la cittadinanza può essere concessa discrezionalmente quando si verifichino determinate situazioni. In tal caso si parla di naturalizzazione. Ciò può riguardare:
➢ i figli di genitori che siano stati cittadini italiani e i nati in Italia, dopo almeno tre anni di residenza;
➢ lo straniero che ha prestato servizio per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato italiano;
➢ i cittadini di Stati dell’Unione europea che risiedono da almeno quattro anni in Italia;
➢ apolide residente in Italia da almeno cinque anni;
➢ lo straniero che vi risiede da almeno dieci anni;
➢ lo straniero che abbia reso eminenti servizi all’Italia o verso il quale ci sia un eccezionale interesse dallo Stato italiano.
In ogni caso, gli interessati devono prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, di osservare la Costituzione e le sue leggi, senza di che la neutralizzazione non ha effetto.
La perdita di cittadinanza può avvenire per rinuncia (quando il cittadino italiano ne possieda anche un’altra e non intenda vivere in regime di doppia cittadinanza), ovvero quando si assumono presso Stati esteri incarichi che comportino speciali obblighi di fedeltà verso di essi.

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