Il simbolismo in Francia e dintorni

Materie:Tesina
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Testo

IL SIMBOLISMO
in Francia e dintorni
Tesina multidisciplinare
realizzata da Elena G.
Istituto Statale d’Arte
INTRODUZIONE
La mia tesina racconta un fenomeno descrivibile piuttosto che definibile, sia per le sue proporzioni che per la sua stessa natura: il simbolismo.
Il simbolismo è un movimento letterario sorto in Francia per iniziativa di Jean Moréas, che ne pubblicò il manifesto su "Le Figaro" del 18 settembre del 1886. Ma il vero precursore fu invece Charles Baudelaire, che con la poesia “Corrispondenze” diede per primo una definizione di questo complesso e nuovo pensiero. Ma il simbolismo rappresenta anche una corrente innovatrice e rivoluzionaria nella cultura artistica, che si sviluppa in Francia parallelamente al Divisionismo e all’Art nouveau e che trova i suoi esponenti più espressivi nei nomi di Moreau e Redon. Inoltre, il simbolismo si riflette anche in filosofia, attraverso il pensiero di Bergson...
Questa tesina vuole essere una fitta trama intessuta attorno ad uno dei movimenti culturali più affascinanti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
INDICE
INTRODUZIONE

IL SECONDO OTTOCENTO- QUADRO STORICO
a) Il Quarantotto- Cause di una rivoluzione
b) La rivoluzione parigina
c) La rivoluzione europea
d) Il Quarantotto in Italia
e) Il secondo impero in Francia
f) La formazione della Germania
g) La Comune di Parigi
IL SECONDO OTTOCENTO- QUADRO LETTERARIO
a) Il positivismo
b) Il materialismo storico
c) La crisi della ragione
d) Il simbolismo
JEAN MOREAS
“Manifesto del simbolismo”
CHARLES BAUDELAIRE
“Corrispondenze”
Analisi del testo poetico
JORIS KARL HUYSMANS
“A ritroso”
IL SECONDO OTTOCENTO- QUADRO ARTISTICO
a) Il naturalismo e le sue tendenze: il realismo
b) Il naturalismo e le sue tendenze: l’impressionismo
c) Postimpressionismo e simbolismo
d) L’art Nouveau
GUSTAVE MOREAU
Opere
ODILON REDON
Opere
HENRI LUIS BERGSON
EMILY DICKINSON
“The crickets sang”
GEORGE MINNE
Opere
BIBLIOGRAFIA
SCHEDA DEL LIBRO “La coscienza di Zeno”
I GIORNALI DELL’ARTE
IL SECONDO OTTOCENTO- QUADRO STORICO
a) Il Quarantotto- Cause di una rivoluzione.
A metà dell’Ottocento l’Europa fu sconvolta da un’intensa ondata rivoluzionaria che fece crollare l’ordine della restaurazione. Le cause immediate di questo fenomeno vanno ricercate direttamente nella fase negativa che stava attraversando l’economia continentale nel biennio 1846-47. Per capire meglio bisogna considerare lo stato dell’agricoltura di quegli anni. In questo settore, al contrario di quello che era avvenuto in quello industriale, le tecniche erano rimaste più arretrate e la capacità produttiva, di conseguenza, scarsa. Bastarono quindi due cattivi raccolti e una grave malattia della patata partita dall’Irlanda, per provocare in tutta Europa una grave carestia. I prodotti agricoli cominciarono a scarseggiare e il loro prezzo a salire vertiginosamente, gettando nella miseria i ceti meno abbienti. I magazzini delle industrie si riempirono di merci che rimasero invendute e molte fabbriche furono costrette a chiudere i battenti e dichiarare fallimento. Questa crisi provocò inevitabilmente un grosso aumento della disoccupazione e quindi un’ulteriore riduzione dei consumi interni. Ad aggravare la crisi si aggiunse un altro fenomeno, di tipo speculativo: nella speranza di arricchirsi, finanzieri e commercianti usarono ingenti capitali per acquistare generi alimentari all’estero, nei paesi dove costavano di meno, con lo scopo di rivenderli poi sui mercati europei, dove invece i prezzi continuavano a salire. Ma anche questi generi alimentari importati in Europa rimasero invenduti. Quindi non solo continuarono i fallimenti, ma diminuì il capitale esistente. E’ indubbio che il biennio rivoluzionario 1849-49 affondi le redici in questa grave crisi dell’economia europea. La crisi però mette in evidenza soprattutto gli squilibri e le contraddizioni che il processo industriale aveva determinato nella società. La maggiore di queste contraddizioni risiedeva nel rapporto fra produzione e consumi, scoppiata quando l’Inghilterra aveva cessato di essere il solo paese a produrre industrialmente. Quando, chi più chi meno, tutti gli stati europei si lanciarono nella corsa all’industrializzazione, nelle fabbriche si cominciò a produrre una quantità sempre maggiore di prodotti. Altro grande contrasto fu quello sociale: i bassi livelli di retribuzione degli operai riducevano la possibilità di consumo e facevano aumentare il malcontento per le gravi condizioni di sfruttamento e miseria. La partecipazione di larghi strati di operai e popolari alle rivoluzioni trova qui le sue ragioni. A questa nuova contraddizione sociale si combinava poi un altro contrasto che durava da decenni, quello tra borghesia e aristocrazia.
b) La rivoluzione parigina
Le contraddizioni economiche e sociali si manifestarono prima che altrove in Francia, dove, oltre ai problemi nati dallo sviluppo industriale, si aggiunsero due cattivi raccolti che portarono fame e disoccupazione. Questi fenomeni non solo accrebbero le tensioni tra governo e classe operaia, ma aumentarono anche i contrasti tra aristocrazia e borghesia, due classi sociali che si erano mantenute in equilibrio finché c’erano stati profitti per tutti. Fu in occasione di una manifestazione in opposizione alla monarchia, il 23 febbraio 1848, che Parigi insorse. In meno di tre giorni il potere orléanista cadde senza quasi difendersi. Il governo provvisorio proclamò la repubblica e pose al centro della sua azione l’allargamento dei diritti politici e i problemi del lavoro. Venne introdotto il suffragio universale maschile, fu abolita la schiavitù nelle colonie, fu fissata ad un massimo di dieci ore la giornata lavorativa e fu garantito il diritto al lavoro. Proprio per mantenere questo impegno e per risolvere il problema della disoccupazione, furono istituiti gli Ateliers nationaux, cioè fabbriche cooperative di proprietà dello stato.
c) La rivoluzione europea.
Mentre il governo provvisorio francese stava prendendo i suoi primi provvedimenti politici, il processo rivoluzionario messo in moto dagli avvenimenti di Parigi dilagò nell’impero austriaco e nella Confederazione germanica. In questi paesi le cause del movimento non erano le stesse che in Francia: la crisi economica e il malcontento popolare si sommavano alle aspirazioni indipendentistiche delle diverse nazionalità. D’altro canto, in questi paesi l’industrializzazione si era manifestata assai più tardi e quindi la classe operaia era presente in maniera molto limitata. Il 13 marzo a Vienna, una rivolta generale mise fine al potere di Metternich e costrinse l’imperatore Ferdinando a concedere la Costituzione. Il 15 marzo fu la volta di Budapest e Praga; il 17 marzo venne proclamata la repubblica veneta; il 18 marzo scoppiarono a Milano i moti delle “cinque giornate”, che costrinsero gli austriaci ad abbandonare precipitosamente la città. La rivoluzione esplose anche in Germania, dove Berlino fu teatro per quattro giorni di aspri combattimenti tra rivoltosi e forze dell’ordine.
d) Il Quarantotto in Italia.
In quegli stessi anni, all’interno del movimento liberale italiano, cominciò a farsi strada l’idea di superare le divisioni esistenti tra i vari stati e di dar vita ad un sistema politico più vasto, capace di abbracciare l’intera penisola. Si pose cioè il problema dell’unità nazionale. Ad animare questo movimento erano le classi medio borghesi: industriali, commercianti e moderni proprietari terrieri. Il problema dell’unità si trasferì gradualmente sul terreno politico. Cominciarono così ad apparire scritti che proponevano programmi concreti per realizzare il processo unitario. Fra questi ebbero particolare successo il libro pubblicato dall’abate Vincenzo Gioberti (che auspicava la formazione di una confederazione di stati italiani sotto la guida del papa) e lo scritto del conte Cesare Balbo (che proponeva invece che alla sua guida vi fosse la dinastia piemontese di Savoia). Gioberti e Balbo erano dunque promotori di una politica moderata. Accanto ai moderati si muovevano intellettuali radicali che intendevano il “risorgimento” nazionale come azione rivoluzionaria di tutto il popolo. Tra i pensatori radicali, un posto in primo piano spetta a Giuseppe Mazzini. Per Mazzini, a differenza dei moderati, la rivolta contro lo straniero e contro il potere assoluto doveva avere come obbiettivo la libertà di tutto il popolo e di tutti i popoli. Il “popolo” per Mazzini non era rappresentato dal proletariato di fabbrica, ma piuttosto dalla piccola borghesia urbana, dagli artigiani ai ceti medi che lavoravano nell’industria. Fedele a questa impostazione, Mazzini fondò nel 1831 un’organizzazione chiamata Giovine Italia che rapidamente si diffuse in tutta la penisola raccogliendo seguaci tra le varie organizzazioni clandestine, ormai in via d’estinzione. La Giovine Italia ben presto si fece promotrice di un’intensa attività insurrezionale. Il primo tentativo fu attuato da Mazzini nel 1833 in Piemonte e in Liguria. Il moto rimase però alla sua fase iniziale. Nonostante questo primo fallimento, Mazzini organizzò immediatamente un’altra azione: partendo dalla Svizzera, gruppi armati di patrioti dovevano penetrare nella vicina Savoia. Contemporaneamente, a Genova doveva scoppiare un moto insurrezionale organizzato, tra gli altri, dal giovane Giuseppe Garibaldi. Anche a Genova la rivolta fallì e Garibaldi riuscì a stento a salvarsi. Il fallimento di questo secondo tentativo e degli altri preparativi rivoluzionari tra il 1837 e il 1843, allontanarono sempre di più dalla ipotesi rivoluzionarie. Questa evoluzione delle scelte politiche trovò conferma nella tragica fine dei fratelli Bandiera: il loro tentativo di far insorgere nel 1844 i contadini della Calabria fallì e i fautori del moto furono fucilati. Le sommosse e le rivolte che si svilupparono in Italia nel 1848 sono sicuramente la conseguenza dei moti rivoluzionari parigini e viennesi, ma testimoniano anche un processo di crescita compiuto dal movimento liberale, che aveva fatto un decisivo passo avanti con l’elezione di papa Pio IX (1846), pontefice sicuramente più aperto dei suoi predecessori, che avviò una cauta ma chiara politica di riforme d’ispirazione liberale, concedendo un’ampia amnistia per i reati politici e istituendo una consulta di stato, una sorta di parlamento sia pure con semplici funzioni consultive. Appena si sparse la notizia che a Vienna era scoppiata una sommossa liberale, la popolazione veneziana,sempre più insofferente nei confronti del dominio austriaco, insorse (17 marzo). Immediatamente la notizia si propagò nel Lombardo-Veneto e giunse a Milano. Qui, il 18 marzo, la popolazione diede vita a violente manifestazioni antiaustriache, che rapidamente si trasformarono nelle epiche “cinque giornate”, nelle quali le truppe imperiali del generale Radetzky furono sconfitte. L’eco della sconfitta austriaca si diffuse rapidamente in tutta la penisola, attivando nuove rivolte. Mentre si svolgevano i combattimenti, esponenti influenti dell’aristocrazia e della borghesia liberale si rivolsero a Carlo Alberto perché intervenisse, mettendosi alla testa del movimento antiaustriaco. Spinto da questa sollecitazioni, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria il 23 marzo 1848. Dopo i primi successi, la condotta militare del conflitto suscitò, per lentezza e incertezza, molte perplessità nei volontari e nel governo provvisorio: l’eccessiva fretta con cui Carlo Alberto puntava all’annessione della Lombardia al suo regno creò fratture e insospettì gli altri sovrani, che temevano il rafforzamento della monarchia piemontese. Uno dopo l’altro, a cominciare da Pio IX, ritirarono le truppe, indebolendo così le possibilità offensive dell’esercito. A Custoza, infatti, dopo tre giorni di lunghi e sanguinosi combattimenti, il 25 luglio le truppe di Carlo Alberto furono sconfitte, lasciando Milano nelle mani degli austriaci. A Vigevano, il 9 agosto, il generale Salasco firmò l’armistizio con l’Austria.
e) Il secondo impero in Francia.
Nella Francia scossa per gli scontri della rivoluzione del 1848 e per la dittatura nata dal governo di Luigi Bonaparte, trasformata l’anno successivo in una monarchia ereditaria, i primi atti del nuovo imperatore, che prese il nome di Napoleone III, furono dati da un duplice obbiettivo: da un lato, restaurare l’ordine e l’autorità del governo e dall’altro accelerare la crescita e l’espansione economica del paese. Fino agli inizi degli anni sessanta questa politica fu accettata dalla ricca borghesia cittadina, in quanto il governo imperiale profuse notevoli energie nel facilitare lo sviluppo industriale e l’accumulazione dei capitali. Ma una nuova borghesia di affaristi e speculatori si fece strada in questo sistema, scatenando l’opposizione repubblicana, che guadagnò notevoli consensi popolari. Le pessime condizioni di vita, i bassi salari e la continua crescita dei prezzi rendevano precaria l’adesione operaia alla politica di Napoleone III. In un regime che cercava di coniugare una politica autoritaria con il consenso popolare, la politica estera divenne uno dei mezzi per conquistare il sostegno di larghi strati della società francese: in questo ambito Napoleone III conseguì senza dubbio alcuni risultati di rilevo. Attraverso la costruzione del canale di Suez e la costituzione di domini francesi in Indocina, con l’obbiettivo di dare alla Francia un ruolo di grande potenza, Napoleone III intraprese un apolitica di potenza e di conquista del consenso, che da un lato diede buoni risultati, ma dall’altro fallì. Per non perdere l’appoggio della Chiesa, Napoleone III si lanciò in una difficile guerra col Messico, dove si propose di mostrarsi ai francesi come difesero degli interessi cattolici, nutrendo però anche il progetto di trasformare il Messico in un protettorato francese. L’intero progetto si rivelò però disastroso su tutti i piani e il 2 settembre, a Sedan le truppe francesi furono sbaragliate da quelle prussiane. L’impero venne dichiarato decaduto e fu proclamata la repubblica.
f) La formazione della Germania.
Ma cosa era avvenuto nel ventennio tra il 1850 e il 1870 all’interno della Confederazione tedesca? In questo ventennio gli stati tedeschi, e soprattutto la Prussia, conobbero una crescita industriale senza precedenti, fondata sulle enormi risorse minerarie dei bacini della Ruhr. E’ ovvio che più cresce la produzione di uno stato, più le industrie necessitano di ampi mercati. I principati tedeschi, eccessivamente frammentati, trovarono in ciò un limite allo sviluppo delle industrie. L’unificazione della Germania risultò un processo originale: dopo la sconfitta liberale ogni traccia di rinnovamento democratico e costituzionale si perse e, attorno a Guglielmo II di Prussia si rafforzò il nuovo ceto politico e un esercito che si era trasformato in una macchina da guerra potentissima. La prima occasione si presentò quando il re di Danimarca tentò di annettere al proprio regno due ducati. Con il pretesto, la Prussia dichiarò guerra e dopo una rapida vittoria, ottenne l’amministrazione di questi territori insieme all’Austria. Poco dopo invase un territorio sotto il controllo austriaco, creando una situazione molto tesa. Dopo diverse battaglie, fu stipulata a Vienna una pace che comportava l’espulsione dell’Austria dalla Confederazione tedesca e che annetteva gli stati a nord del Meno a una nuova confederazione, guidata dalla Prussia. Sconfitta l’Austria, restava ora solo l’opposizione della Francia sul cammino di un’unificazione nazionale tedesca. Anche questa volta la Prussia non mancò di creare l’occasione per uno scontro, quando sembrò aspirare la trono di Spagna reso vacante. Napoleone III avviò subito le trattative per allontanare questa eventualità e dichiarò guerra alla prussica. Il 2 settembre 1870, a Sedan, Napoleone III fu sconfitto e fatto prigioniero. Il 18 gennaio 1871 Versailles fu occupata dai prussiani e principi tedeschi acclamarono Guglielmo I imperatore di Germania. Era nato l’impero tedesco (Reich).
g) La Comune di Parigi.
Mentre ancora non erano stati spenti gli ultimi echi delle cannonate della guerra, Parigi, pur essendo sotto il controllo dell’esercito tedesco, non smentì la sua fama di capitale europea della rivoluzione. A solo poco più di vent’anni dall’ondata rivoluzionaria del 1848 i parigini scelsero la via dello scontro violento nei confronti delle istituzioni statali. Le cause immediate della protesta popolare nascevano dall’insoddisfazione profonda per come erano state condotte la difesa nazionale e le trattative per la pace da parte del nuovo governo repubblicano, costituito dopo la sconfitta di Sedan. Altre ragioni affondavano invece le radici nel malessere sociale delle classi lavoratrici che non avevano tratto alcun vantaggio dal precedente ventennio di prosperità. Il governo provvisorio comunardo, eletto il 26 marzo e guidato da elementi socialisti, varò immediatamente provvedimenti di grande rilievo politico e sociale. La Comune non pretendeva di rappresentare l’intera Francia, ma la città di Parigi; l’ideale dei comunardi contemplava la creazione di comuni anche nelle altre città francesi per costruire un libero stato federativo. Il primo autogoverno popolare della storia contemporanea ebbe però vita breve e non poté dare corso a nessuna delle iniziative programmate. Infatti, un esercito formato in gran fretta dal governo di Versailles assalì il 2 aprile Parigi, combattendo strada per strada contro la popolazione in armi. La lotta durò più di una settimana: alla fine di maggio ogni resistenza era vinta. Anche se la Comune si concluse con una tragica sconfitta, essa diede comunque un grande impulso alla crescita del movimento operaio internazionale: per la prima volta nella storia un programma politico operaio era stato messo in pratica. Il socialismo sembrava dunque possibile.
IL SECONDO OTTOCENTO- QUADRO LETTERARIO
Tutto il pensiero della seconda metà dell’Ottocento è dominato dagli straordinari progressi della ricerca scientifica. La scienza, che nella cultura romantica era stata emarginata, torna ora al centro della riflessione filosofica e del dibattito culturale. Tra le acquisizioni scientifiche dell’epoca, quella che ebbe maggiori conseguenze culturali è sicuramente la teoria dell’evoluzione formulata da Charles Darwin. Ipotesi evoluzionistiche erano già state fatte, ma Darwin forniva per la prima volta una spiegazione sistematica attraverso il concetto della selezione naturale che porta ad accumulare progressivamente nella discendenza di una specie quelle variazioni che si rivelano più utili per l’adattamento all’ambiente.
a) Il positivismo
Al modello della conoscenza scientifica si ispira la corrente filosofica del positivismo (il termine si riferisce alla supremazia dei dati di fatto “positivi” sulle speculazioni astratte). L’idea-chiave di questo movimento è che l’unica vera conoscenza è quella ottenuta col metodo scientifico, basato sull’osservazione sperimentale dei fenomeni e sulla scoperta delle leggi che li mettono in relazione. E’ invece esclusa la speculazione metafisica sulle cause ultime della realtà e sulle sostanze (Dio, spirito, materia). Il positivismo poneva dunque l’esigenza di estendere il metodo scientifico della conoscenza della natura a quella dell’uomo e della società: in questo clima le scienze umane, come la psicologia e la sociologia, ebbero un grande sviluppo.
b) Il materialismo storico
L’idea che i fatti spirituali come l’arte, le religioni, le ideologie abbiano un fondamento materiale veniva contemporaneamente sviluppata, in modo indipendente, dal fondatore del materialismo storico, Karl Marx. L’attività di Marx rientra fondamentalmente nella storia della politica e il suo concetto-chiave è che la base della società è la struttura economica: nella produzione di beni gli uomini entrano tra loro in determinati rapporti di classe, storicamente variabili a seconda dello sviluppo delle forze produttive. Su questa base si eleva poi la “sovrastruttura”, costituita dalle forme politiche e da tutti i prodotti spirituali (comprese le opere artistiche e letterarie).
c) La crisi della ragione
Diversi ed opposti per molti aspetti, positivismo e marxismo hanno in comune la fiducia in una spiegazione razionale complessiva della realtà, ottenuta con un metodo scientifico. Ma l’epoca del positivismo è anche un’epoca attraversata da dubbi e contrasti sui limiti della conoscenza scientifica. Radicali soprattutto le critiche provenienti dagli ambienti intellettuali estranei al positivismo: la scienza è accusata di essere bassamente materialista, insensibile alle esigenze più profonde dell’uomo, come i sentimenti, gli ideali, la morale, la fede. Su questa base c’è tutto un fiorire di ritorni alle filosofie spiritualistiche: si proclama la superiorità dell’azione sul pensiero, dell’intuizione sull’analisi razionale, e si denuncia il carattere inferiore della conoscenza scientifica. Queste correnti acquisteranno forza lungo i decenni, fino a configurare alla fine del secolo una generale rivolta antipositivista.
d) Il simbolismo
Di simbolismo si iniziò a parlare in Francia intorno al 1880, includendovi Baudelaire come precursore, e tre maggiori poeti dell’epoca, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé. Il termine designa oggi non solo una scuola, ma una tendenza fondamentale, su scala europea, fra il tardo Ottocento e il primo Novecento. I simbolisti operano un profondo rinnovamento del linguaggio poetico: con accostamenti inconsueti di parole e idee, con l’accumulo di metafore sorprendenti, con la sinestesia (intreccio di ordini diversi di sensazioni) la lingua della poesia volta le spalle alla comunicazione ordinaria e si fa allusiva. Ciò che la poesia simbolista vuole evocare è una realtà “altra” che sta al di là delle esperienze comuni. Per Baudelaire si tratta delle misteriose corrispondenze che legano tra loro tutti gli esseri in un’armonia superiore, alla quale le immagini sensibili rinviano simbolicamente.
La tensione verso un’oscura realtà superiore è propria solo dei momenti più impegnati dei simbolisti maggiori: ciò che si diffonde come gusto simbolista è soprattutto l’evocazione musicale, l’indefinito, il linguaggio raffinato e allusivo. Su un piano di gusto più superficiale, il simbolismo può sconfinare nell’estetismo decadente: una poesia fatta di immagini estenuate e voluttuose, in ambientazioni esotiche, carica di ornato e preziosa nel linguaggio.
Jean Moréas
“Manifesto del simbolismo”
in “Supplemént di lettéraire du Figaro”, 18 settembre 1886
“[…]Abbiamo già proposta la denominazione di Simbolismo come la sola capace di designare chiaramente l’attuale tendenza dello spirito creatore nell’arte. E questa denominazione può essere mantenuta.
E’ stato detto a principio di questo articolo che le evoluzioni dell’arte offrono un carattere ciclico estremamente complicato di divergenze: così, per seguire l’esatta filiazione della nuova scuola, occorre risalire fino a certi poemi di Alfred de Vigny, sino a Shakespeare, sino ai mistici, e più lontano ancora. Tali questioni richiederebbero un volume di commenti: diciamo che Charles Baudelaire deve essere considerato l’autentico precursore dell’attuale movimento; Stéphane Mallarmè come l’interprete del senso del mistero e dell’ineffabile; Paul Verlaine ha infranto in suo onore le pastoie del verso, che le dita prestigiose di Théodore de Banville avevano precedentemente ingiubellato. Il Supremo Incantesimo non è ancora consumato: un lavoro assiduo e tormentato sollecita le reclute.
Nemica “dell’insegnamento, della declamazione, della descrizione obiettiva”, la poesia simbolista cerca di rivestire l’Idea di una forma sensibile che, ciononostante, non deve essere fine a sé stessa, ma che, tutta protesa a servire l’Idea, ne costituirà il complemento.
[…] Per la realizzazione perfetta della sua sintesi, a Simbolismo occorre uno stile archetipo e complesso: incontaminati vocaboli, un periodo architravato alternatesi a un periodo tentennante e onduloso, pleonasmi significativi, misteriose ellissi, anacoluto sospensivo, il tutto con ardita multiformità. […]”
CHARLES BAUDELAIRE (1821-1867)
Charles Baudelaire nacque a Parigi il 9 aprile 1821 in una casa del Quartiere Latino, da un padre già vecchio che, vedovo con un figlio, si era risposato con una donna ancora giovane, Carolina Dufays. Morto il padre quando non aveva ancora sei anni, sua madre, dopo una breve vedovanza, si scelse un altro marito nella persona di una ufficiale di carriera, Jacques Aupick.
La famiglia sarà sia l’ossessione che la santificazione di questo “maledetto”, che finirà col guardarla come un Lucifero scruta il cielo da cui fu scacciato, nell’adolescenza turbolenta e malinconica al Collège di Lione e al Collège Louis-Le-Grand di Parigi. E’ utile ricordare che la famiglia Baudelaire-Dufays-Aupick rappresentò una curiosa associazione di orfani e vedovi: mai albero familiare risultò più disordinato e intrecciato, pieno di strappi e improvvise potature, falsi innesti e incroci tra gioventù e vecchiaia.
Espulso nel 1839 dal collegio parigino e imbarcato per decisione della famiglia su una nave che faceva rotta per Calcutta, Baudelaire interruppe improvvisamente il viaggio per tornare a Parigi. Finalmente maggiorenne, entrò in possesso dell’eredità del padre e, ormai libero, cominciò a vivere la sua giovinezza. Alloggiando in un ricco quartiere di Parigi e legandosi per amicizia alle persone più brillanti dell’epoca, egli tentò di realizzare il suo ideale di vita estetica. Affrontava insieme la poesia, la critica d’arte, la narrativa, il teatro, il pezzo giornalistico di costume. Alcuni di questi tentativi rimasero allo stato di progetto, ma altri si dimostrarono pienamente validi.
La su carriera di poeta inizia a 24 anni con la poesia “A une dame crèole”, seguita subito da un’altra. Contemporaneamente, partiva anche la sua attività di critico d’arte al Salon del 1845. La rivoluzione del 1848 troverà il giovane in prima linea. Un dandy tra le barricate: la scena, nel suo contrasto, è davvero baudelairiana. Ma le due esigenze contraddittorie, l’alto spirito aristocratico e i clamorosi slanci rivoluzionari, la controllata eleganza e la rivolta, sono alla base della sua personalità e anche della sua più autentica poesia.
Nel Salon de 1846 aveva definito interessante e appassionata ogni critica degna di tale nome. Rifiutò quindi il mondo esatto, concreto, primitivo della scultura dalle tante vedute cui, come davanti ad un feticcio, si potesse girare intorno, ed esaltò il misterioso e infinito regno della pittura, regno spirituale del colore, sede incorrotta dell’immaginazione. Sostenitore di Delacroix e nemico di ogni accademismo, egli scopriva la poetica verità di quei pittori che celebravano la vita moderna e la solennità naturale delle grandi città e la trasportava in uno dei filoni che rimarrà i più suggestivi della sua poesia: il mito di Parigi. L’opposizione al regime imperante era nutrita da una visione sempre più tragica della politica e della storia. Antiborghese, aristocratico, convinto della crudeltà della natura e dell’eterna e incorreggibile barbarie dell’uomo, fermo nel rifiuto di quelle che chiamava eresie contemporanee (dall’idea del progresso universale al perfezionamento umano attraverso l’industria), sempre più solo, sempre più povero, sempre più legato all’amore per la madre, dovendo in quella povertà provvedere alla donna con cui viveva (la mulatta Jeanne Duval), egli offre un esempio inimitabile di coerenza, di assoluta fedeltà ai suoi principi e al suo ideale d’intellettuale moderno, nonostante il pubblico disprezzo.
Intanto, il bagaglio della sua produzione poetica si arricchiva e correva per frammenti verso la destinazione del libro da fare. L’opera che stava nascendo raccoglieva insieme le testimonianze poetiche di tutta una vita di contraddizioni. Dopo essere passato per diversi titoli, il libro approda verso il 1855 a quello che gli resterà: “Les fleurs du mal” (“I fiori del male”), titolo moderno e quasi medievale, trasfigurazione simbolica di un’idea (il male) in un’immagine (il fiore). La prima edizione porterà la data del 1857. Sempre in quegli anni emergono anche altri interessi che fino allora avevano brillato con discrezione. Egli riprende infatti a meditare sul rapporto tra l’uomo, produttore di poesia che vanta il suo diritto al sogno e al piacere, e la droga. L’altra scoperta fu invece la musica, in particolare quella di Wagner, alla quale si avvicinò nel 1861. Questi messaggi poetici saranno poi contenuti nel sonetto “Corrispondenze”: tutto si esprime in un’analogia universale, e in questa foresta di simboli, che è la natura, il suono suggerisce il colore, il colore la melodia, e i suoni e i colori possono tradurre le idee.
I suoi ultimi anni sono dominati dall’ossessione verso un nuovo progetto: sull’esempio di Poe, egli pensava ad un libro di confessioni, di collere e di rancori. L’idea di questo scritto si trascina per molti anni nella mente dello scrittore, dal titolo “Mon coeur mis a nu”, fu un mezzo fallimento.
All’inizio del 1867, in Belgio, a Namur, Baudelaire è colpito dalla prima grave crisi dai sintomi della paralisi che il 31 agosto dello stesso anno, nella clinica parigina del Dottor Duval, lo condurrà alla morte.
Charles Baudelaire
“I fiori del male” (1857)
Edizioni BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), Milano 2001
CORRISPONDENZE
La Natura è un tempio ove colonne vive
lasciano a volte uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.
Come echi lunghi che da lontano si fondono
in una tenebrosa e profonda unità
vasta quanto la notte e quanto la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Ci sono profumi freschi come carni infantili,
dolci come oboi, verdi come praterie
- e altri corrotti, ricchi e trionfanti,
che hanno l’espansione1 delle cose infinite,
come l’ambra2, il muschio, il benzoino3 e l’incenso
che cantano gli abbandoni dello spirito e dei sensi.

ANALISI DEL TESTO POETICO
1) Comprensione letterale
Per il poeta la Natura è il luogo sacro (tempio) i cui elementi, come colonne fatte di materia viva (colonne vive) alludono a verità misteriose. L’uomo attraversa questa foresta captandone e comprendendone il linguaggio simbolico, poiché tra gli elementi della natura e l’uomo c’è una sintonia profonda, una familiarità segreta. Le diverse sensazioni provenienti dalla natura si compongono in una misteriosa unità, basata su analogie che l’uomo coglie intuitivamente. Profumi, suoni e odori si compenetrano uno all’altro, trasportando l’uomo verso l’estasi dell’anima e dei sensi.
Il “tempio” indica la materialità della natura, dove l’uomo entra però in comunicazione con il mondo spirituale; i suoi “pilastri vivi” parlano, e questa metafora apre la via all’immagine delle “foreste” di simboli.
2) Comprensione dei nuclei tematici
Le corrispondenze di cui parla Baudelaire sono le analogie profonde che si instaurano tra le diverse sensazioni date da profumi, suoni, colori e la natura: solo attraverso la percezione e la decodificazione di queste analogie l’uomo può accostarsi alla verità misteriosa a cui lo rimandano le cose che lo circondano. Non si tratta quindi di una verità che si possa comprendere con la ragione: va invece percepita con i sensi attraverso un percorso intuitivo e va espressa con un linguaggio allusivo e rievocativo.
Anche se Baudelaire non lo dice esplicitamente, è probabile che il soggetto privilegiato in questa particolare forma di conoscenza sia il poeta, che attraverso i suoi “nervi ultrasensibili” (l’espressione appartiene allo stesso Baudelaire) può decifrare i misteriosi segnali provenienti dalla natura e coglierne il significato segreto. Da questo ne deriva che il compito della poesia non è quello di dar voce a valori e ideali o di descrivere oggettivamente la realtà (come pensavano i naturalisti Flaubert e Capuana) ma nell’esprimere la soggettività del poeta attraverso simboli suggestivi, indefiniti e ambigui.
3) Contenuti e loro organizzazione
Nel complesso l’andamento tematico del sonetto è espressivo, anche se le singole immagini non riescono ad essere spiegate in termini univoci e universali, ma fanno appello all’intuizione e all’immaginazione del lettore. La struttura tematica è invece lineare, quasi geometrica: la prima quartina pone la tesi fondamentale (la Natura come foresta di simboli); la seconda approfondisce questa tesi, introducendo il tema dell’unità tra le sensazioni; nelle ultime due terzine, questa unità viene poi ulteriormente esemplificata. L’intonazione è uniforme.
4) Lingua e stile
Tutta la poesia è attraversata da un carattere indefinito, ambiguo e sfumato. Questo carattere è sottolineato ancor più dalla figura della sinestesia, ovvero l’associazione espressiva tra due parole pertinenti a due diverse sfere sensoriali, che si può trovare con facilità all’interno di tutta la poesia. Il lessico usato è evocativo, suggestivo e ricercato, ma allo stesso tempo di facile comprensione.
5) Metrica
Dal punto di vista della struttura metrica, il sonetto è costituito da due quartine e due terzine.
JORIS KARL HUYSMANS (1848-1907)
La vita
La sua famiglia era di origine olandese e contava tra i suoi antenati diversi pittori di buona fama. Nato il 5 febbraio del 1848, crebbe in un ambiente tipicamente piccolo borghese, e tenne per più di trent'anni un modesto impiego al Ministero degli Interni.
La sua carriera letteraria cominciò con una raccolta di poemetti in prosa che riflettono un certo satanismo derivato da Poe e Baudelaire. Ma si mise presto sulle orme del naturalismo diventando uno dei più fervidi seguaci di Zola. Tra le sue opere “Marthe, histoire d'une fille” (1876), “Les sœurs Vatard” (1879), “En ménage” (1881). In seguito si dedicò allo studio dell'occultismo e della magia e per questa via arrivò a uno spiritualismo religioso piuttosto marcato e infine alla conversione al cattolicesimo più rigoroso nel 1895. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1907 per un cancro alla gola, si ritirò a vivere in una abbazia.
Le opere
La produzione narrativa di Huysmans è veramente abbondante e può essere ricondotta sia ai modi del realismo sia a quelli del naturalismo; tuttavia l'opera di gran lunga più nota, quella che gli diede fama, fu “A ritroso” (o “Controcorrente”, a seconda delle traduzioni). Il romanzo, che si distacca dall’obbiettività minuziosa e ostinata propria dei naturalisti e che invece si avvicina al periodo simbolista, inaugurò un nuovo modello narrativo (il romanzo decadente) e un nuovo tipo umano (l'esteta decadente) che troveranno immediati imitatori e continuatori.
Des Esseintes, questo il nome del protagonista, è l'ultimo discendente di una illustre famiglia, dal sangue impoverito e dai nervi ultrasensibili. Votato fin dalla prima gioventù alle arti, o meglio, alle dilettazioni estetiche, questo eroe ha dapprima cercato invano soddisfazione all'inquietudine interiore nel vizio e nel disordine. Ora si vuole ritirare dalla volgarità della vita reale che non rappresenta più attrattive.
Si crea pertanto un rifugio in provincia rispondente ai suoi gusti, una casa dove ogni minimo particolare denuncia l'odio della banalità e il più raffinato estetismo decadente: pareti decorate con stoffe rare, finestre ornate di vetri gotici, mobili fastosi, quadri caratterizzati da un fantastico morboso, profumi esotici, artificiose bellezze, piante rarissime che imitano quelle finte. La biblioteca è piena di testi della decadenza latina, da Petronius a Apuleius, e di mistici di tutte le epoche, oltre che dei testi di Baudelaire, Mallarmé, Verlaine. In questo ambiente Des Esseintes dapprima rievoca come in sogno le sue esperienze della vita reale, ma poi è assalito da veri e propri incubi che lo portano ad una grave forma di nevrosi. Per vivere dovrebbe immergersi nuovamente nella volgarità della vita della maggior parte della gente; ci prova ma non ci riesce. Infine non gli rimane, per salvarsi, che scegliere tra il suicidio e la Fede.
Joris-Karl Huysmans
“A ritroso” (1884)
Edizioni BUR(Biblioteca Universale Rizzoli), Milano 1993
pag. 81-93.
“…Via via che diveniva più acuto il suo desiderio di sottrarsi a un’odiosa epoca di tangheri indegni, diveniva per lui dispotico il bisogno di non più vedere i quadri che rappresentassero l’umana effige almanaccante entro quattro mura del centro di Parigi o sguinzagliata per le strade in cerca di denaro.
Dopo essersi disinteressato all’esistenza contemporanea, aveva deciso di non introdurre nella sua cellula larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva dunque voluto una pittura sottile e squisita che attingesse in un unico antico sogno, in una corruzione vetusta, lungi dai nostri costumi e dai nostri giorni.
Aveva voluto, per il diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci.
Fra tutti, v’era un artista il cui talento lo rapiva in lunghe estasi: Gustavo Moreau.
Aveva acquistato i suoi due capolavori e, per notti intere, sognava davanti a uno di essi, il quadro di Salomè4, così concepito:
Sorgeva un trono simile all’altar maggiore di una cattedrale, sotto innumerevoli volte sprizzanti da colonne tarchiate come pilastri romanici, smaltate di mattonelle policrome, incrostate da mosaici, incastonate di lapislazzuli e di sardoniche, in un palazzo simile ad una basilica, di un’architettura a un tempo musulmana e bizantina.
Al centro del tabernacolo che sormontava l’altare preceduto da gradini a semicerchio, era seduto il tetrarca Erode, con una tiara in testa, le gambe riunite, le mani sulle ginocchia.
Il volto era giallo, incartapecorito, pieno di rughe devastato dall’età; la sua lunga barba fluttuava come una nuvola bianca sulle stelle di pietre preziose che costellavano la stoffa ricamata d’oro sul suo petto.
Intorno a questa statua, immobile, fissata in una posa ieratica di divinità indù, bruciavano profumi levando nubi di vapori, forati, come da occhi fosforescenti di felini, dal fuoco delle gemme incastonate nelle pareti del trono. Poi il vapore saliva e si estendeva sotto le arcate, dove il fumo bianco si frammischiava alla polvere d’oro dei grandi fasci di luce che cadevano dalle cupole.
Nell’odore perverso dei profumi, nell’atmosfera surriscaldata di quella chiesa, Salomè, col braccio sinistro teso in un gesto di comando, il braccio destro piegato, tenendo all’altezza del volto un grande loto, si avanza lentamente sulle punte, agli accordi di una chitarra di cui una donna rannicchiata pizzica le corde.
Col volto raccolto, solenne, quasi augusto, ella comincia la lubrica danza che deve risvegliare i sensi assopiti dal vecchio Erode; i seni le ondeggiano e, al contatto delle collane agitate, le loro punte si ergono; sul madore della pelle, i diamanti aderenti scintillano; i braccialetti, le cinture, gli anelli sprizzano faville; sulla veste trionfale, intessuta di perle, ricamata d’argento, laminata d’oro, la corazza delle oreficerie di cui ogni maglia è una gemma, entra in combustione, intreccia serpenti di fuoco, fa formicolare sulla carne opaca, sulla pelle rosa tea, quasi degli splendidi insetti dalle elitre sfolgoranti, venate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di azzurro acciaio, tigrate di verde pavone.
Concentrata, con gli occhi fissi, simile a una sonnambula, ella non vede né il tetrarca che freme, né sua madre, la feroce Erodiade, che la sorveglia, né l’ermafrodito o l’eunuco che sta, con la sciabola in pugno, ai piedi del trono, una terribile figura velata fino alle gote, la cui mammella di castrato pende come una fiasca sulla tunica variegata di arancione.
Il personaggio di Salomè, così ossessivo per gli artisti e per i poeti, tormentava da anni Des Esseintes. Quante volte aveva letto nella vecchia Bibbia di Pietro Variquet, tradotta dai dottori di teologia dell’università di Lovanio, il Vangelo di san Matteo che racconta in ingenue e brevi frasi la decollazione del precursore; quante volte aveva sognato su queste righe:
“Il giorno della festa della nascita di Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo della stanza e piacque a Erode.
“Per questo le promise, con giuramento, di darle tutto quello che le avrebbe domandato.
“Ella dunque, indotta da sua madre, disse: -Dammi su di un piatto la testa di Giovanni Battista.
“E il re fu turbato, ma a causa del giuramento e di quelli che erano seduti a tavola con lui, comandò che le fosse consegnata.
“E mandò a decapitate Giovanni nella prigione.
“E la testa di lui fu portata in un piatto e data alla figlia; ed ella la presentò a sua madre.”
Ma né San Matteo, né San Marco, né San Luca né gli altri evangelisti indugiavano sul delirante fascino, sulle attive depravazioni della danzatrice. Essa restava cancellata, si perdeva, in misterioso deliquio, nella lontana nebbia dei secoli, inafferrabile per gli spiriti precisi e terra terra, accessibile solo ai cervelli scossi, aguzzati, resi quasi visionari dalla nevrosi; ribelle ai pittori della carne, Rubens, che la trasformò in una macellaia fiamminga, incomprensibile per tutti gli scrittori che non hanno mai potuto rendere l’inquietante esaltazione della danzatrice, la raffinata grandezza dell’assassina.
Nell’opera di Gustavo Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata questa Salomè sovrumana e strana che aveva sognato. Non era più la ballerina che strappa a un vecchio, con una corrotta torsione delle reni, un grido di desiderio e di gioia; un agitar di seni, un guizzar del ventre, un brivido della coscia; diveniva in qualche modo la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta, scelta fra tutte dalla Catalessia che le irrigidiva le carni e le induriva i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelenava come Elena greca, tutto ciò che avvicinava, tutto ciò che vedeva, tutto ciò che toccava.
Così concepita, apparteneva alle teogonie dell’Estremo Oriente; non si ricollegava più alle tradizioni bibliche, non poteva più essere assimilata all’immagine vivente di babilonia, alla regale Prostituta dell’Apocalisse, avvolta, come lei, di gioielli e di porpore, come lei imbellettata. Il pittore sembrava d’altra parte aver voluto affermare la sua volontà di restare fuori dai secoli, di non precisare origini, paesi, epoche, mettendo la sua Salomè nel mezzo di quello straordinario palazzo, di uno stile confuso e grandioso.
[…] Comunque fosse, un irresistibile fascino si sprigionava da quella tela, ma l’acquarello intitolato L’apparizione era forse ancora più inquietante.
Là il palazzo di Erode si slanciava su leggere colonne iridate di piastrelle moresche che sembravano fissate da un cemento d’oro. L’assassinio era compiuto: adesso il carnefice stava impassibile, con le mani sul pomo della sua lunga spada macchiata di sangue.
La testa mozza del santo si era levata dal piatto deposto sul pavimento e guardava, livida, con la bocca scolorita, aperta, il collo gocciolante.
Con un gesto di spavento Salomè, quasi nuda, respinge la terribile visione che la inchioda immobile sulle punte: i suoi occhi si dilatano, la sua mano stringe la gola con un gesto convulso. L’orribile testa fiammeggia, sempre sanguinando. Visibile solo per Salomè, non afferra sotto il suo cupo sguardo l’Erodiade, che pensa ai suoi odi finalmente saziati, il tetrarca che, piegato un po’ in avanti, le mani sulle ginocchia, ansa, ancora, travolto da quella nudità di donna.
[…]Si sarebbe detto un disegno di un primitivo, un vago Alberto Durer, composto da un cervello annebbiato dall’oppio; ma, sebbene amasse la finezza dei particolari e l’imponente svolgimento di questa tavola, Des Esseintes si fermava particolarmente davanti agli altri quadri che ornavano la stanza.
Avevano la firma di Odilone Redon.
Racchiudevano nelle loro sottili cornici di per naturale, orlato d’oro, apparizioni inconcepibili: una testa di stile merovingio posta su una coppa; un uomo barbuto, che aveva del bronzo e dell’oratore di riunione pubblica, che toccava col dito una colossale palla di cannone; uno spaventoso ragno che aveva nel mezzo del corpo un volto umano. Poi dei disegni a carbone andavano più oltre ancora nel terrore del sogno tormentato dalla congestione. Qui era un enorme dado da giuoco, su cui si piegava una triste palpebra; là paesaggi secchi, aridi, pianure calcinate, terremoti, sollevamenti vulcanici che salivano dalle nubi in rivolta, cieli lividi e stagnanti. Talora alcuni soggetti sembravano tolti addirittura dagli incubi della scienza, risalendo ai tempi preistorici. Una mostruosa flora sbocciava sulle rocce; dappertutto blocchi erratici, fanghi di ghiacciai, personaggi il cui tipo scimmiesco, le forti mascelle, le arcate sopraciliari sporgenti, la fronte sfuggente, il sommo cranio appiattito ricordavano la testa ancestrale, la testa del primo periodo quaternario, dell’uomo ancora frugivoro e privo di parola, contemporaneo del mammut, del rinoceronte dalle narici divise e del grande orso.
Quei disegni erano al di fuori di tutto; per la maggior parte saltavano oltre i limiti della pittura, inauguravano una specialissima fantastica, una fantastica di malattia e di delirio.
E in realtà quei visi divorati da occhi immensi, da occhi di folle, quei corpi ingranditi oltre misura o deformi come se guardati attraverso un caraffa, evocavano nella memoria di Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi rimasti tuttavia dalle notti ardenti, dalle paurose visioni della sua infanzia.
Preso da un indefinibile malessere davanti a questi disegni, come davanti a certi Proverbi di Goya che ricordavano, come all’uscire di una lettura di Edgar Poe, di cui Odilone Redon sembrava avere trasposto in un’arte diversa i miraggi di allucinazioni e gli effetti di paura, si stropicciava gli occhi contemplava una figura raggiante che, dal centro di queste tavole agitate, si levava serena e calma, una figura di Malinconia, seduta sulle rocce davanti al disco di un sole, in un atteggiamento esausto e triste. Per incanto le tenebre si dissipavano; un’attraente tristezza, una desolazione in qualche modo illanguidita, colavano nei suoi pensieri, ed egli meditava a lungo davanti a quest’opera che, con le sue pennellate di acquarello disseminate nel lapis grasso, metteva una chiarezza di verde acqua e di oro pallido tra il nero continuo dei carboncini e delle stampe”.
SECONDO OTTOCENTO- QUADRO ARTISTICO
La seconda metà dell’Ottocento vede uno sviluppo economico e sociale senza precedenti, caratterizzato da un incremento demografico, un aumento della produzione agricola e del commercio, crescita industriale. L’impatto della rivoluzione industriale sui centri abitati, grandi e piccoli, pone, tra gli altri, il problema di dare alloggio alle nuove masse di lavoratori arrivati dalle campagne: si delinea quindi una ristrutturazione urbana. Si va così configurando dunque la grande città (i cui caratteri si accentueranno nella metropoli del XX secolo) e in relazione ad essa si definiscono nuovi modelli percettivi e di rappresentazione, legati a caratteri propri dell’esperienza urbana, condizionata dalla presenza di grande masse, da una nuova velocità nei ritmi nei rapporti tra le persone e tra le persone e le cose. Queste accelerazione è strettamente legata alle scoperte tecnico-scientifiche che in questi anni rivoluzionano sia la produzione sia la vita quotidiana degli individui, come l’elettricità e l’industria petrolchimica. In pochi anni queste condizioni, insieme all’applicazione sistematica della scienza dell’industria, aprirono la strada a invenzioni come il motore a combustione interna, il telegrafo senza fili, il telefono, i trasporti pubblici a motore, le lampadina elettrica. Grandi progressi furono fatti anche in medicina, con la scoperta degli antibiotici, delle vitamine, degli ormoni. Le trasformazioni economiche e sociali determinarono profondi mutamenti anche nella committenza artistica e nel rapporto tra artista e pubblico. Il diffondersi di una classe borghese mediamente colta porta allo sviluppo di un mercato artistico privato e di un sistema di produzione e di circolazione dell’opera d’arte indipendente a quello tradizionalmente garantiva i rapporti tra artista e pubblico, come le grandi esposizioni ufficiali ed accademiche. A sanzionare tale nuova identità dell’opera d’arte sarebbe presto intervenuta la figura del collezionista-critico-mercante, destinata a diventare il principale tramite fra artisti e loro pubblico. Contemporaneamente si assiste alle prima manifestazioni di autonoma gestione del proprio prodotto da parte degli stessi artisti, con l’organizzazione di esposizioni alternative a quelle ufficiali (per esempio il Padiglione del realismo e il Salon des refusés), dove l’eversione rispetto ai canoni estetici tradizionali diventa la norma. Alla libertà degli artisti di inventare per il proprio lavoro le forme ritenute più adatte, corrisponde d’altra parte la libertà del pubblico che frequenta le esposizioni di rifiutare o accettare il nuovo linguaggio proposto.
a) Il naturalismo e le sue tendenze in campo artistico: il realismo.
Il termine “naturalismo”, derivato dalla filosofia e dalle scienze naturali, viene impiegato nell'Ottocento con riferimento alla letteratura e all’arte in seguito alla tendenza tipicamente positivista a trasferire metodi e contenuti scientifici in ambito umanistico. Nella seconda metà del XIX secolo il termine indica un atteggiamento artistico oggettivo e distaccato nei confronti della realtà, al fine di poter rappresentare il dato naturale in modo quanto più possibile fedele, senza il filtro ingannevole dell’immaginazione. Nel campo delle arti figurative si può individuare il realismo come movimento di sviluppo dell’approccio naturalista alla realtà. Per i realisti il dato naturale è rappresentato in modo “oggettivo”, cercando di restituirne un’immagine otticamente corretta, senza la mediazione dello sguardo dell’artista. La pittura realista rifiuta la tradizione accademica e sostiene la necessità di rappresentare l’esistente anche nei suoi aspetti negativi. Il “brutto” diviene un elemento significativo e addirittura qualificante, per quanto vi è in esso di autentico e concreto.
b) Il naturalismo e le sue tendenze in campo artistico: l’impressionismo.
L’idea di un’arte che trae origine dall’osservazione diretta della realtà e le ricerche scientifiche contemporanee dedicate ai fenomeni ottici sono alla base dello sviluppo del naturalismo in senso impressionista: il riferimento non è più all’immagine esatta che la realtà esterna ci offre, ma all’impressione istantanea che essa esercita sulla retina dell’osservatore. L’esperienza della pittura all’aria aperta (en plein air) dimostra che le zone in ombra non sono ottenibili soltanto con l’aggiunta del nero, bensì anche utilizzando colori puri accostati con rapidi tocchi di pennello; l’abolizione della linea di contorno e del chiaroscuro restituisce un’immagine naturale in cui scompaiono i dettagli ma in cui è colta l’istantaneità del movimento.
c) Postimpressionismo e simbolismo.
Negli ultimi decenni del secolo si delinea, nella produzione di alcuni pittori (tra cui Gauguin, Van Gogh, Seurat) una tendenza ben diversa a quella che distingueva la produzione degli impressionisti, i quali sembravano limitarsi a una restituzione delle apparenze fenomeniche in termini puramente visivi. L’interesse della nuova generazione di artisti (chiamati genericamente postimpressionisti) si sposta infatti dall’ottico al concettuale: in modi diversi, ciascuno di essi guarda al di là dei fenomeni, alla ricerca di regole di costruzione dell’immagine indipendenti dalle conseguenze naturali. Tale progressivo allontanamento da un tipo di rappresentazione mimetica farà emergere verso la fine del secolo una pittura di tendenza simbolista, volta a ricercare sempre più l’aspetto evocativo della figurazione, colta nelle sue implicazioni spirituali e dunque ermeticamente individuali.
d) L’art nouveau.
La pittura simbolista ha dato un’interpretazione più ampia del termine “natura” tendente a mescolare i fenomeni naturali visibili con quelli invisibili, nascosti nella mente e nel cuore degli uomini. Tale complesso, e per molti aspetti ambivalente, riferimento alla natura ha portato a un nuovo stile decisamente antinaturalistico che ha chiuso il secolo, attribuendosi un chiaro significato di rinnovamento e di giovinezza: art nouveau nei paesi di lingua francese, jugendstil in quelli di lingua tedesca, liberty in Italia. I suoi interpreti sono pervenuti a un sempre più marcato allontanamento dall’oggettività attraverso una progressiva stilizzazione, semplificazione o riproduzione dell’immagine a elementi intensamente pregnanti.

GUSTAVE MOREAU (1826-1898)
Gustave Moureau, nato a Parigi nel 1826, è figlio di un architetto, allievo di Percier5 e sostenitore dell’architettura neoclassica. Questi mette a disposizione del figlio una ricca biblioteca con testi antichi e più recenti. Oltre alla lettura, fin da giovane Moreau ama anche il disegno e quando nel 1841 parte con la madre e gli zii per un viaggio nel nord d’Italia, esegue diversi schizzi.
Verso il 1844 comincia a frequentare l’atelier di François-Edouard Picot, un vecchio artista neoclassico che fino alla metà del secolo continua ad impartire un insegnamento tipicamente accademico; col suo aiuto Gustave si prepara all’ammissione all’Ecole des Beaux-Arts, dove fa il suo ingresso nel 1846. Qui, tuttavia, non riesce a vincere il tanto ambito Prix de Rome, malgrado due tentativi. Grazie alle relazioni della sua famiglia, l’artista riesce però ad ottenere qualche commissione dallo Stato e riesce a vendere alcune opere, ma deve anche tollerare diversi rifiuti.
In questi anni lo stile del giovane deve ancora deve ancora molto a Théodore Chassériau6, suo vocino e amico. Ma Gustave guarda anche a dipinti e incisioni di Géricault (che apprezza come pittore di cavalli) e di Delacroix (del quale riprende il lampeggiare dei colori). Ispirato da questi due grandi maestri, il pittore tenta di trovare una clientela privata, inviando diverse sue opere a esposizioni di provincia.
Ma il successo ancora non arriva. Così Moreau decide di intraprendere un viaggio di studio in Italia, nella tradizione dei Grand Tour: si reca a Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Milano. Ed è proprio in Italia che produce lavori di notevole qualità: acquerelli, schizzi di particolari, disegni, ma anche copie della stessa grandezza dell’originale (per esempio “Duello di San Giorgio e il drago” di Carpaccio). Al tempo del suo ultimo soggiorno a Roma, Moreau mostra pienamente il suo gusto classico copiando, nelle stesse dimensioni, la “Morte di Germanico” di Poussin.
Il ritorno a Parigi non mette fine a questa sete di conoscenza: l’arte assira, le miniature mogol, gli smalti medievali, le stampe, i bronzi e i costumi giapponesi attirano fortemente la sua attenzione. Moreau ha sempre più idee per le sue composizioni: partecipa al Salon del 1869 e per lungo tempo si dedica ad un polittico allegorico sul tema della “Francia sconfitta” (che poi abbandonerà per intraprendere la ricerca di una nuova via sulla strada del simbolismo).
Molto turbato dagli avvenimenti che hanno scosso la sua patria in questi anni, Moreau si sottopone ad un trattamento termale terapeutico, per rimettersi quasi subito al lavoro. E’ proprio adesso che compare per la prima volta il tema della Salomè. Questo tema, ripreso più volte dall’artista fin quasi a diventare ossessivo, verrà rappresentato da Moreau nei diversi momenti del suo svolgimento. Nell’episodio iniziale della storia, quella della danza di Salomè, il re Erode è rappresentato al centro del dipinto, sul trono, mentre la danzatrice arriva frontalmente nella sala del festino. L’artista offre allora lo spettacolo stesso che sedurrà Erode e farà ottenere alla bella Salomè (o meglio, a sua madre Erodiade che l’ha istigata per desiderio di vendetta) ciò che chiede: la testa del Battista. Quando invece Salomè è rappresentata di profilo, sulla sinistra della composizione, ed Erode è nascosto nell’ombra, Moreau lo rappresenta con i caratteri di un sovrano debole che possono ricordare Napoleone III (l’uomo che è responsabile della disfatta della Francia nella guerra franco-prussiana). E’ possibile interpretare queste infinite variazioni sul tema come una rappresentazione simbolica degli avvenimenti appena trascorsi e della decadenza che l’artista vede nel tempo presente. L’idea della decadenza ossessione Moreau ed è tanto nelle molte Salomè che in altre opere, come nella “Galatea”, presentata al Salon del 1880.
Nello stesso momento, a tenerlo occupato sono anche i diversi acquerelli che illustrano le Favole di La Fontaine, eseguiti sotto la richiesta del ricco collezionista marsigliese Roux.
La morte della madre nel 1884 lo getta in una profonda disperazione e sembra che per molti mesi l’artista resti inattivo. Dopo essersi ripreso da questo momento buio, la sua arte sembra orientarsi verso una dissociazione dei colori e del disegno. Questo si può notare nell’opera “I liocorni”, alla quale Moreau lavora assiduamente ma che alla fine non consegna al committente, sicuro che egli desideri qualcosa di più rifinito. Bisogna precisare che è la firma l’elemento che fa chiaramente capire se un’opera di Moreau è terminata o meno: essa sta a testimoniare la completezza del quadro agli occhi dell’autore.
Nel 1888 Moreau viene eletto membro dell’Accadémis des Beaux-Arts, riconoscimento che lo riempie di soddisfazione. Ma subito dopo nuove preoccupazioni i abbattono su di lui: nel 1890 la malattia e la morte di una sua fedele amica lo porta a pensare al significato della morte, meditazione che si riflette anche sulla sua arte (“Orfeo sulla tomba di Euridice” e “La Parca e l’angelo della morte”).
E’ nel corso del 1893 che nella mente di Moreau prende forma l’idea di un museo. Così, da questo momento in poi, quando consegna le opere ai suoi estimatori, ne conserva spesso una traccia nel suo atelier, come se avesse pensato di realizzarli per il suo progetto in un formato più grande. L’urgenza di condurre in porto questo grande lavoro portò il pittore a sacrificare volontariamente la sua vita sociale: era solo e sapeva di non aver molto tempo per schizzare i suoi sogni. Da una prima idea che prevedeva la trasformazione della sua casa in un museo, togliendone tutti gli oggetti d’uso quotidiano per sistemare nel miglior modo possibile i dipinti e i disegni, alla fine si orientò verso la nuova soluzione di trasformare la sua casa ingrandendola con grandi sale per lasciare invece intatta la parte già esistente.
Quasi un secolo dopo la sua apertura, il Musée Moreau, visibile nel suo aspetto originario, rimane il modo migliore per esplorare il percorso creativo di uno dei pittori più affascinanti della seconda metà dell’Ottocento.
“Salomè danza davanti a Erode” (1876); Los Angeles, Armand Hammer Museum of Art and Cultural Center.
“L’apparizione”
“I liocorni” (1885 circa); Parigi, Musée Gustave Moreau.
ODILLON REDON (1840-1916)
Odilon Redon nasce a Bordeaux e trascorre la sua infanzia a Peyrlebade.
Nel 1855 inizia i studi di disegno all’estero sotto la guida di Gorin che gli fa conoscere l’opera di Delacroix. Nel 1860 comincia ad esporre al Salon des Amis des Art di Bordeaux e nel 1864 diventa allievo di Bresdin che lo indirizza alle tematiche simboliste. Nel 1871, dopo la guerra, torna a Parigi per poi esporre, fino al ’89, litografie e disegni al Salon. Dopo il ’90 alla litografia ed alla incisione preferisce la pittura a olio, l’acquarello e il pastello. Partecipa alle mostre del gruppo “Les XX” a Bruxelles e a numerose esposizioni in Francia e all’estero, tra cui l’importante retrospettiva del 1904 al Salon d’Automne. Muore a Parigi il 6 Luglio 1916.
Artista eccentrico e sostanzialmente isolato, Redon è un importante esponente del Simbolismo. Nella prima fase della sua attività si dedica principalmente ai “Neri”, nome con cui l’artista stesso definisce il complesso di carboncini e litografie eseguiti fino al 1895. Al ’78 risale “Occhio di mongolfiera”, da cui è tratta una delle litografie dedicata ad Edgar Allan Poe. L’occhio simboleggia l’intelletto divino e questa tematica antichissima; ma la grande innovazione apportata da Redon è il modo con cui è rappresentato l’occhio. Infatti, non vi è la tradizionale rappresentazione frontale, bensì l’intero bulbo oculare. Bulbo che pare essere stato divelto dal cranio (che in questo caso è il pallone) per poi essere costretto a vagare in eterno. Molto amato negli ambienti piuttosto esclusivi del Simbolismo letterario, Redon si dedica in seguito alla pittura. Inutile dire che anche in questa tecnica Redon fa nascere un intero popolo di inquietanti creature del sogno. Il suo mondo “onirico – inquietante” nasce dalla vasta conoscenza dell’artista della letteratura, dall’osservazione scientifica che poi rielaborava con immaginazione fantastica. La sua arte non può lasciare l’osservatore privo di reazioni in quanto le sue raffigurazioni sembrano scatenare un muoversi di creature di sogni che prendono vita automaticamente.
“Ragno che piange”
“Testa di un martire” (1877)
HENRI LOUIS BERGSON (1859-1941)
La vita
Nasce a Parigi nel 1859, studia matematica e lettere. Insegna in licei ed università dal 1881 al 1921, quando dovrà ritirarsi per motivi di salute. Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel, il più prestigioso tra i numerosi riconoscimenti che lungo la sua vita ebbe. Negli anni Venti partecipò alla vita politica svolgendo una missione diplomatica negli Stati Uniti e fu presidente del Consiglio per le cooperazioni intellettuali della Società delle Nazioni. Morì nel 1941 a Parigi durante l'occupazione tedesca. Le persecuzioni antisemite (Bergson era di origine israelita) lo trattennero dall'abbracciare totalmente il cattolicesimo a cui si era avvicinato negli ultimi anni della sua vita.
Il pensiero e le opere
Uno dei temi centrali della filosofia di Bergson è il concetto di tempo.
Egli, analizzando i dati della coscienza, rileva come questi dati immediati non si presentino mai all'esperienza vissuta come singole "parti" isolate dove la coscienza avrebbe solo la funzione aggregatrice; al contrario la coscienza è unità complessa e profonda, ed è l'analisi che introduce rapporti di discontinuità.
La discontinuità può esserci solo tra entità spaziali, il cui rapporto può essere reversibile, nel tempo vissuto, invece, ogni attimo è qualificato dall'unità con tutti gli altri momenti vissuti. La durata effettiva ed interna della coscienza (tempo vissuto) deve essere distinta dal tempo spazializzato (dell'orologio) che serve solo per scopi pratici, ma che non ha nessuna consistenza reale perché il tempo spazializzato è frutto di una operazione intellettiva che riduce in rapporti quantitativi e misurabili ciò che in realtà, come durata, è incommensurabile e qualitativamente eterogeneo.
Bergson ridimensiona così le pretese della scienza nel voler ridurre la qualità delle cose in rapporti solo quantitativi e lo fa tramite un'analisi profonda sulla via della coscienza e delle sue fasi.
Nella memoria confluisce tutto il nostro passato scandito dal tempo spazializzato, che è colto in ogni istante della nostra vita interamente, ecco perché, secondo Bergson, la durata del tempo, come il tempo vissuto è irreversibile. La vita cosciente non presenta in nessuna delle sue fasi le caratteristiche di sostituibilità e reversibilità che sono proprie di successioni di termini solo quantitativamente e tra loro discontinui.
Tra il cervello e la memoria esiste un rapporto di stretta collaborazione ma non di "identità". Questa affermazione rientra nella concezione della materia che per Bergson non è autosufficiente ma è vista come un aspetto del divenire. Se la vita é "slancio vitale", creatività, essa è anche tendenza ad arrestarsi, cristallizzarsi: questa tendenza é ciò che chiamiamo materia.
La tensione che nasce tra vita e materia è la chiave di lettura della differenza tra istinto e intelligenza. Mentre l'istinto è la capacità innata di usare "strumenti naturali", l'intelligenza è la facoltà di applicare strumenti creati artificialmente.
Dunque istinto e intelligenza operano in modi opposti: l'istinto per soddisfare i suoi bisogni e scopi, spinge l'intelligenza alla ricerca di nuove soluzioni. L'intelligenza è uno strumento che scopre rapporti tra le cose attraverso la formulazione simbolica e linguistica di tali rapporti, ma non è capace di porsi degli scopi. La vita cosciente può assumere una funzione liberatrice attraverso l'intelligenza, la quale anche se nasce come strumento della vita e dell'istinto, va oltre questa specifica funzione, poiché ogni "prodotto" dell'intelligenza suscita tali e tanti problemi ed idee che vanno ben al di là dei motivi che l’hanno spinta ad operare. Per spiegare questo concetto, Bergson dice che è come se la coscienza, per liberarsi dopo aver scisso in due parti complementari l'organicità, abbia cercato una soluzione attraverso l'istinto e l'intelligenza. Poiché la soluzione non fu possibile trovarla nell'istinto l'ha ottenuta dall'intelligenza quando dalla forma animale è passata all'uomo. Tuttavia l'intelligenza rivolge la sua attenzione al contatto diretto e immediato dell'animo umano con l'assoluto, portando come vertice dell'attività umana l'intuizione.
Per lo stesso concetto, invece, altri hanno tacciato Bergson di misticismo. Ma se per mistica s'intende con Bergson quel "supplemento d'anima" capace di dominare le forze eccezionali scatenate dall'intelligenza dell'uomo, allora non possiamo che sottoscriverne la necessità per la nostra stessa sopravvivenza.
EMILY DICKINSON (1830-1886)
Life and works.
Emily Dickinson was born into a middle class family in Massachusetts in 1830. After attending at school and college, she began a life of seclusion. She only wore white clothes and never left her father’s house except for some walks in the garden. She concealed her mind, as well as a person, from all but a few friends to whom she wrote wonderful letters. Letter writing became her only form of contact with the world and also her poems seem to have been written to communicate, rather than for publication. Actually, during her lifetime, she allowed only seven out of more than 2000 poems to be printed. Four years after her death was make a selection from her works so that a book of her verse might be published. “Poems by Emily Dickinson” appeared in 1890 with some corrections and changes meant to suit the taste of a public accustomed to more traditional rhythms and images. A complete edition of her poems appeared in 1955, with the original and eccentric punctuation.
Her poetry
Emily Dickinson’s poetry was influenced by the reading of Shakespeare, Milton, the Metaphysical poets, and contemporary writers like Emily Bronte. She combined all these influence in a highly original way, detached from the current taste. Her themes are the eternal issues of life: death, love, time, despair, God, nature. She was deeply interested in spiritual experience and almost obsessed by death. Death elicited her curiosity.
Language and style
Her feelings are expressed in a elliptical language, in which prevalently monosyllabic word, syntax and punctuation are combined in a such way that the meaning of the poems remain ambiguous, highlighting the emotion. Dickinson makes frequent use of rhetorical devices such as imperfect rhymes, assonance, alliteration, paradox and metaphor. The tone can be witty, ironical, whimsical or melancholic.
Emily Dickinson broke away from the stereotypes of poetry even if, her poetry is concerned with question, intuition and moods, rather than statements and assertions.
The Crickets sang
7The Crickets sang
and set the Sun
and Workmen finished one by one
their Seam the Day upon.
The low Grass loaded with the Dew
the Twilight stood, as Strangers do
with Hat in Hand, polite and new
to stay as if, or go.
A Vastness, as a Neighbor, came,
a Wisdom, without Face, or Name,
a Peace, as hemispheres at Home
and so the Night became.
Voluntarily confined to her room, Emily Dickinson was an acute and lucid observer of the processes and cycles of nature.
In this poem she makes reference to common images of the small, rural world surrounding her to represent the advent of night (the songs of crickets, the cessation of work, the foreign guest, the neighbor…). However, the poem is far form simple: bold images, breaking from the usual meanings of words, elliptic expression and interruptions that load the text whit infinite allusions which call into question the subjectivity of the reader.
The ambiguity of her style also makes translation difficult: one could maintain, as closely as possible, the original text with the risk of falling into excessive obscurity, or “explain” the poet while translating, thus reducing its enigmatic quality.
Instead, what would be irredeemably lost is the original resonance.

GEORGE MINNE (1866-1941)
Scultore e disegnatore belga, studiò all’Accademia della sua città e poi a quella di Bruxelles. Ma essenziale per lui fu l’incontro e l’amicizia con il poeta M. Maeterlinck, che lo introdusse nell’ambiente dei simbolisti belgi e del gruppo Les XX, alle cui mostre prese parte.
I suoi primi lavori mostrano influenze Rodiniane, su cui, in seguito, si innestarono modi derivati dall’arte medievale.
La sua opera più nota è il gruppo in marmo “Pozzo con cinque adolescenti inginocchiati” o “Fontana degli inginocchiati” (1898, Essen) che, nell’esemplare ricerca di una ritmica e lineare purezza delle forme, è considerato una capolavoro della scultura simbolista tendente all’Art Nouveau.
Gli anni 1908-11 segnano il ritorno naturalista, con figure di popolani fiamminghi; dopo la guerra l’artista riprese il suo primo stile sviluppando, tra gli altri, il tema della maternità.
“Fontana degli inginocchiati” (1898).
BIBLIOGRAFIA
• A. De Bernardi, S. Guarracino, “La conoscenza storica vol. 2. Manuale”Bruno Mondadori, Paravia 2000.
• M. Bonfantini, E. De Ehrenstein-Rouvroy, “Anthologie et histoire de la littérature française”, G. B. Petrini, Torino 1964.
• G. Armellini, A. Colombo, “La letteratura italiana. Guida storica, manuale per lo studente”, Zanichelli, Bologna 1999.
• C. Baudelaire, “I fiori del male”, Edizioni BUR, Milano 2001.
• Joris-Karl Huysmans, “A ritroso”, Edizioni BUR, Milano 1993.
• Maria Teresa Benedetti, “Simbolismo, art dossier”, Giunti Edizioni.
• Geneviève Lacambre, “Moreau, art dossier”, Giunti Edizioni.
• Michael Gibson, “Odillon Redon” 140-1916”, il principe dei sogni”, Germania 1999, Taschen.
• M. Spiazzi, M. Tavella “Only Connect 2”, Zanichelli editore, Bologna 1997.
• “La nuova enciclopedia dell’arte Garzanti”, Garzanti Editore, 1986.

SCHEDA DEL LIBRO
Autore: Italo Svevo.
Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, fu, un po’ per necessità e un po’ per scelta, uno scrittore dilettante: se si escludono gli ultimi anni della sua vita, le sue opere furono totalmente ignorate sia dal pubblico che dalla critica. Eppure oggi appare come il più grande romanziere italiano del Novecento, l’unico, assieme a Pirandello, a poter competere con la cultura europea del suo tempo. Italo Svevo nasce nel 1861 a Trieste, sotto l’impero austro-ungarico, da un’agiata famiglia ebrea di origini tedesca: la compresenza nella sua formazione della cultura tedesca e di quella italiana influenzerà profondamente le sue opere. Delle radici ebraiche conserverà il senso di precarietà, l’inquietudine, l’ironia e l’auto-ironia che nascono da un’esperienza secolare di discriminazione; delle radici italiane conserverà invece l’ambiente di Trieste, città borghese e provinciale e luogo d’incontro di diverse culture e tradizioni. Dai dodici ai diciassette anni studia in un collegio in Germania, dove si entusiasma per i classici tedeschi e per Shakespeare. Una volta tornato a Trieste, è indirizzato da padre verso gli studi commerciali, ma il deteriorasi della situazione economica della famiglia lo costringe ad impiegarsi in banca, dove lavorerà per diciotto anni. Oppresso dal grigio ambiente di lavoro, Svevo dedica il suo tempo libero alla composizione di novelle, alla collaborazione con giornali locali e allo studio in biblioteca, dove legge Machiavelli, Boccaccio e i romanzieri francesi dell’Ottocento. Nel 1892 pubblica a sue spese il romanzo “Una vita”, che passa però indifferente al pubblico e alla critica. Nel 1896 sposa una lontana cugina. Due anni dopo pubblica, ancora a sue spese, il suo secondo romanzo, “Senilità”. Anche questa volta lo scritto è totalmente ignorato. La cocente delusione lo porta ad accantonare la letteratura e a concentrarsi nelle attività della ditta del suocero. Ma in realtà la decisione di abbandonare la scrittura non sarà così ferrea come può sembrare dai suoi propositi. Per più di vent’anni Svevo vivrà in questa altalena di odio-amore per la letteratura, scrivendo per se stesso senza più pubblicare niente. Un’inaspettata dose di fiducia nelle sue capacità letterarie gli viene data dall’incontro con James Joyce, allora residente a Trieste, da cui prende lezioni di inglese e col quale stringerà una forte amicizia. Un altro incontro importante è quello con la psicanalisi, avvenuto quando suo cognato malato di nevrosi era in cura da Freud. Svevo, prima scettico, si appassionerà poi ad alcun implicazioni teoriche del pensiero freudiano. Allo scoppio della prima guerra mondiale, tutta la famiglia della moglie è costretta a lasciare Trieste, mentre lui, essendo cittadino austriaco, rimane in città. A guerra conclusa, Svevo scrive un terzo romanzo, pubblicato sempre a sue spese nel 1923, “La coscienza di Zeno”. Inizialmente anche questo romanzo pare passare inosservato, ma poi la situazione si capovolge quando, su consiglio di Joyce, Svevo lo manda a due illustri critici francesi, che lo recensiscono in modo entusiasta. Il successo improvviso viene accolto con grande gioia dallo scrittore. Tuttavia questa euforia durerà ben poco: nel 1928 Svevo muore per le ferite riportate in un incidente automobilistico.
Titolo: “La coscienza di Zeno”
Edizione: Gruppo Editoriale L’Espresso, 2002
Data: 1923
1. SINTESI DELLA TRAMA
Zeno Corsini è un ricco commerciante di Trieste che, giunto all’età di cinquant’anni decide di affidarsi alla terapia psicanalitica per liberarsi della sua inettitudine, dei vari complessi che lo affliggono e del vizio del fumo. Lo psicanalista induce Zeno a fissare sulla carta i ricordi della sua vita, ricordi che egli non rievocherà in ordine cronologico, ma lascerà vagare in libertà nella sua memoria, in seguito ad episodi legati ad un suo vizio o ad un suo fallimento. Nascono così le varie storie, narrate in prima persona da Zeno stesso: il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del suo matrimonio, la moglie e l’amante.
La biografia di Zeno rappresenta una serie di sconfitte: egli vuole guarire dal vizio del fumo, ma tutti gli sforzi falliscono, prima resi importanti dall’affermazione “ultima sigaretta” e poi resi vani dal desiderio di trasgressione; per disintossicarsi si fa persino ricoverare in una casa di cura, ma da questa fugge dopo aver corrotto l’infermiera; si iscrive all’Università, ma non riesce a portare a termine gli studi; i rapporti col padre sono difficili ed equivoci; si innamora di Ada Melfenti, figlia di un furbo commerciante, ma finisce col sposare Augusta, la sorella strabica; intreccia una storia extraconiugale con Carla, ma questa lo abbandona per sposare il maestro di canto che lui stesso le aveva presentato.
Nelle pagine conclusive del suo diario di malato, Zeno dichiara di essere guarito non grazie alla psicanalisi, ma grazie alla felice ripresa della sua attività commerciale.
2. PERSONAGGI
Zeno Corsini è il protagonista del romanzo. E’ un ricco commerciante triestino, bizzarro ed intelligente, non troppo dotato di capacità pratiche e condannato a vivere coi proventi di un’azienda commerciale controllata, su disposizione del testamento paterno, dall’amministrazione dell’Olivi. Egli non si descrive mai fisicamente, ma mette decisamente in luce i suoi aspetti caratteriali.
Zeno è un malato, una persona che soffre di autentici mali fisici e che conduce un’esistenza se non sregolata, decisamente disordinata (come dimostra il problema del fumo). E’ inoltre una figura di inetto molto particolare, che accetta la sua malattia e ne fa un punto di forza per sopraffare gli altri. La sua disparità rispetto agli altri personaggi è innanzitutto una differenza di cultura e di intelligenza, che si concretizza nell’osservare le contraddizioni del comportamento proprio e altrui e nel guardare con occhio estraniato e privo di pregiudizi il mondo che lo circonda. Si tratta di un mondo che ha come regola la lotta per la vita: nel padre come nel signor Malfenti, nel piccolo mondo di agenti, commercianti e commercialisti tra cui dominano le figure di Olivi padre e figlio. Personaggi che Zeno finisce per strumentalizzare, deridendone la concreta e cinica logica borghese, la razionalità negli affari, le trasgressioni calcolate.
Socialmente Zeno è un conformista a cui è impedito di esprimere a fondo i propri gusti: da represso ha sposato Augusta, donna dolce e paziente ma non bella, e a questo reagisce con l’adulterio consumato con Carla, l’amante usata cinicamente senza il minimo affetto.
Alti personaggi che appaiono nel romanzo sono Guido, odiato in quanto rivale ma in fin dei conti oggetto di una sorta di invidia, dato che è bello, disinvolto e persino capace di suonare bene il violino, e Carmen, predisposta quasi dalla natura ad incontrarsi con Guido e, potenzialmente, anche con Tacich, corresponsabile dello spettacoloso dissesto commerciale del solfato di rame.
Infine gli ultimi personaggi sono i medici, nessuno dei quali è veramente umano e comprensivo, tutti pronti a farsi giudici di questioni di vita rivelando i propri meschini egoismi.
3. TEMPI E LUOGHI
Il tempo narrativo in cui si svolge la vicenda è compreso storicamente in un periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento al 1916. Durante la narrazione si assiste non solo a dei flash-back, ma ad uno sconvolgimento totale delle sequenze narrative, con anticipazioni e retrocessioni. Ad esempio, nel capitolo relativo al padre si trovano già annunciati elementi che riguardano il matrimonio, e anche il capitolo in cui Zeno è arrivato a sposarsi contiene riferimenti al suo adulterio, che a loro volta sono recuperati e interpretati come posteriori nel capitolo dedicato all’associazione commerciale con Guido. Il romanzo si svolge completamente a Trieste. Prevalgono gli interni.
4. SINTASSI E LESSICO
Nel romanzo appare in primo piano la figura del narratore onnisciente che sa spiegare tutto, che sa più degli altri personaggi e che interviene con riflessioni personali. Il discorso usato è sia diretto che indiretto, lo stile paratattico, il lessico formale.
L’opera si connota come un nevrotico agglomerato di monologo. Questo stile di scrittura si allontana e supera l’ambiguità pirandelliana del dualismo attore-personaggio: Svevo non ha più bisogno di ricorrere all’alternanza di piani narrativi, ma gli basta utilizzare un intreccio di verbi al passato, al presente e al condizionale. E’ questo il sistema che consente a Svevo di realizzare un procedimento idoneo a rendere sulla pagina il flusso delle libere associazioni che dominano la sua memoria. Decisamente Freud non è passato invano tra le vie di Trieste.
5. CONTESTO SOCIO-CULTURALE
Il contesto in cui si svolge la vicenda è decisamente medio-borghese. Sia la famiglia da qui proviene Zeno, sia la famiglia della moglie, sono piuttosto ricche, con un’attività commerciale avviata alle spalle.
6. RAPPORTO TRA REALTA’ E FANTASIA
Apparentemente il romanzo può sembrare del tutto reale. Ma la curiosa finzione narrativa di cui lo scrittore fa uso può essere un elemento ambiguo. È infatti il medico a pubblicare il diario del suo paziente, per fargli un dispetto, visto che quello ha interrotto la cura ritenendosi ormai guarito, con l’avvertenza che Zeno mescola verità e menzogna. Anche il modello linguistico, che non corrisponde ai canoni della lingua letteraria.
7. FUNZIONE COMPLESSIVA
Le tematiche più importanti che emergono dal romanzo di Svevo sono la scienza e la psicanalisi, ma quella che appare sicuramente come principale è la malattia. Se all’inizio questa malattia viene vista come un problema individuale di Zeno, essa finisce poi col diventare una comune condizione dell’uomo. Zeno quindi si pone come metafora della crisi dell’uomo contemporaneo.
I GIORNALI DELL’ARTE
IL GIORNALE DELL’ARTE
ANNO XVII, N° 117 del maggio 1999
Prima pagina
Saranno unificati i ministeri?
“Un sottoministero gambero”
Proposto l’accorpamento dei Ministeri dell’Istruzione, dell’Università e della Cultura, Sport e Spettacolo: il risultato sarebbe un nuovo megacarrozzone incontrollabile afflitto da un’incontenibile tendenza all’obesità
Di Ada Masoero.
Il 14 maggio ’99 il Ministro Bassanini presenta il nuovo progetto per la diminuzione degli attuali 18 Ministeri (già ridotti dai precedenti 22) al numero di 10: Istruzione, Università, Cultura, Sport e Spettacolo si unificherebbero. La fatica semplificatoria è sicuramente da tenere conto, ma questo non vuol dire che il progetto porti poi ad un effettivo vantaggio. L’attuale Ministero non subirà alcuna variazione, ma anzi, accanto ad esso verrà affiancato un “sottoministro” con tanto di superministro, al quale toccherebbero sia i problemi riguardanti i beni (il nostro passato) sia quelli riguardanti i cittadini (il nostro futuro). Insomma, una grande contraddizione che distruggerebbe il peso politico dato per la prima volta ai beni culturali da Veltroni. Inoltre il progetto non porterebbe ad un reale progresso, bensì ad un arretramento a gambero.
N.d.R.: la proposta di legge, infatti, non è mai passata in parlamento e quindi la legge non è mai andata in vigore.
Prima pagina
L’Aia
“L’Unesco più dura verso i crimini d’arte in guerra”
Aggiornata la Convenzione del 1954: responsabilità penale per chi danneggia i beni storico artistici”
Di Jean Marie Schmitt.
Nella conferenza diplomatica organizzata dall’Unesco dal 15 al 26 marzo ’99, è stato steso un nuovo Protocollo con alcuni aggiornamenti rispetto alla vecchia Convenzione del 1954. L’incontro, che ha visto riuniti più di 300 partecipanti tra i rappresentanti delle varie nazioni, ha riservato grande spazio alla protezione dei beni culturali di interesse storico artistico in caso di conflitto armato e, in particolare, alle responsabilità penali di chi attenta all’incolumità di questi beni. La riunione ha quindi portato alla creazione di un comitato che avrà il compito di inventariare i beni e verificare che il protocollo sia messo in pratica e rispettato. Oltre al carattere penale della violazione di un bene culturale, la nuova convenzione regola anche i principi di cooperazione internazionale per la salvaguardia dello stesso e approfondisce il concetto di responsabilità singola ed individuale. Questo secondo protocollo costituisce quindi il primo strumento internazionale relativo ai crimini contro i beni culturali.
Approfondimento:
Unesco→ dall’inglese: organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Fondato a Londra nel 1945, l’Italia ha preso parte solo nel ’47. Attualmente ha sede a Parigi.
Convenzione→ accordo da rispettare, stabilito a partire dalla seconda guerra mondiale, causa bombardamenti aerei del ’43-’44.
Pagina 12
Unidroit
“Al senato il testo unico per la restituzione delle opere trafugate”
Di Daniela Fonti.
Dopo quattro anni dalla conferenza diplomatica organizzata dall’Unidroit per la definitiva messa a punto della Convenzione internazionale che affronta il problema della restituzione delle opere d’arte rubate o illecitamente trafugate, l’Italia ha finalmente avviato l’introduzione del testo all’interno della propria legislazione. La Camera dei Deputati ha infatti approvato il disegno di legge che fissa le modalità pratiche attraverso le quali dare piena ed intera esecuzione ai 21 articoli firmati il 24 giugno del 1995 dalle varie nazioni. Con questo l’Italia si impegna, attraverso il proprio Ministero per i Beni e le attività culturali, a fornire agli stati interessati tutta la cooperazione necessaria all’ottenimento della restituzione del bene culturale rubato o illecitamente esportato, compiendo tutte le azioni utili alla localizzazione del bene sul suo territorio e all’identificazione del suo possessore. Si riportano quindi gli articoli più significativi: l’art. 4 approva il principio “dell’equo indennizzo” al proprietario che sia in grado di dimostrare realmente le sua buona fede; l’art. 5 stabilisce che il diritto di chiedere indietro un’opera trafugata spetti sia alla persona offesa sia al Ministero e che invece il diritto di chiedere un’opera illecitamente esportata spetti unicamente al Ministero; l’art. 6 dichiara poi che il proprietario, una volta tornato in possesso del bene, è tenuto a rimborsare lo Stato delle spese sostenute per la restituzione. La mancata richiesta del bene da parte del proprietario dopo cinque anni, fa scattare automaticamente il diritto di prelazione da parte dello Stato. Ora si aspetta solo che il testo passi al Senato.
N.d.R.: questa è una legge che tutela il patrimonio artistico culturale italiano, che da solo ricopre almeno il 75% dei beni culturali internazionali.
Approfondimento:
Unidroit→ Istituto per l’unificazione del diritto privato.
Diritto di prelazione→ questo concetto è indicato nell’art. 28 della legge 1089/39. Si basa sul principio di interesse pubblico e tratta del diritto di acquistare beni prima di terzi da parte dello Stato. Esso deve essere comunque esercitato entro due mesi dalla data della denuncia della vendita.
Pagina 16
Roma
“Da legge sul Centro Arti Contemporanee a omnibus elettorale”
In dirittura d’arrivo il decreto legge di Veltroni che per strada si è modificato.
Di Luigi Conte.
Il disegno di legge (n° 3167 al Senato, 5296 alla Camera) con cui Walter Veltroni istituiva il Centro per le Arti Contemporanee e dettava altre norme in materia di beni culturali, è finalmente arrivata in porto. La prima novità del ddl è sicuramente la costruzione del Centro per le Arti Contemporanee, che cambia titolo diventando “Centro per la documentazione e la valorizzazione delle Atri Contemporanee” e che ha il compito di raccogliere, conservare, valorizzare ed esporre le testimonianze materiali della cultura visiva internazionale. Questo Museo d’Arte ingloba anche il Museo dell’Architettura e altri due musei ancora da costruire: quello audiovisivo alla Discoteca di Stato e quello della Fotografia. Per la progettazione del Centro è stata autorizzata una spesa di 20 miliardi e inoltre: 110 miliardi per la ristrutturazione edilizia, 12 miliardi per il buon funzionamento, 15 miliardi per gli acquisti. Un’altra parte dei finanziamenti è stata invece destinata al Comune di Venezia per la copertura dei costi dell’inagibilità del teatro La Fenice e per il restauro della Basilica di Noto. Altro traguardo importante è poi il “piano di prevenzione e sicurezza del patrimonio culturale” e le modifiche proposte e approvate alla legge 352/1997 delle “disposizioni sui beni culturali”. Anche la legge di tutela 1089 del 1939, per quanto riguarda l’esportazione temporanea, è stata modificata e perfezionata, con l’aggiunta di normative più precise. Il disegno di legge di Veltroni risulta comunque complesso e articolato nelle sue parti, a tal punto che il Parlamento ha chiesto una proroga di sei mesi per esaminarlo.
Pagina 60
“L’Avvocato dell’Arte di Fabrizio Lemme”
“Il Rubens ex Corsini: per i periti è in ex Rubens”
Il dipinto pagato nel 1992 dal Getty sette milioni di dollari sarebbe opera di un anonimo del XVII secolo: meno grave dunque il reato di illecita esportazione. I Corsini assolti dall’accusa di smembramento di collezione: nulla la notifica del 1948, non comprendeva gli elenchi delle opere.
La vicenda ha inizio nel 1991, quando la contessa Anna Lucrezia Corsini affida all’antiquario Giorgio Baratti un dipinto (fra l’altro già compreso già compreso nella collezione Corsini ma con un’antica attribuzione a Rubens) perché ne curi la vendita. Titolo dell’opera, “Sansone abbatte il tempio dei Filistei”. Baratti chiede il parere di un importante specialista, Jaffe, che ne dichiara l’appartenenza Rubensiana. La sua opinione non è però condivisa dal critico Bodart, che lo ritiene opera di un pittore italiano dell’Italia settentrionale del XVII secolo. Nel novembre del 1991 l’opera viene venduta agli antiquari romani Peretti e Modestini per la cifra di 440 milioni di lire. Nel ’92 il dipinto viene spostato a New York e viene venduto al Getty Museum di Malibù per oltre 12 miliardi e mezzo. La notizia viene ampliamente segnalata alla Procura della Repubblica, che apre così due processi distinti: uno, avviato contro Peretti e Modestini, accusati di esportazione illecita, e l’altro contro Anna Lucrezia Corsini, accusata di smembramento di collezione. Quella Corsini è infatti una delle più importanti collezioni private e nel passato era già stata oggetto di diverse notifiche. Nel 1880 era stata inventariata dallo scultore Medici con un catalogo a stampa. Nel 1948 era poi stata notificata per la prima volta nella sua globalità. Nel 1979 subirà poi una nuova notifica, integrata da elenchi che però non comprendono l’opera in questione. Il processo ruota quindi intorno ad un solo quesito: può ritenersi valida una notifica di collezione non integrata dagli elenchi dei vari pezzi che la compongono? Se la risposta fosse affermativa, la notifica del ’48 risulterebbe nulla e con lei anche l’accusa. Parallelamente al processo, si compie poi un’ulteriore battaglia: l’attribuzione dell’opera. Dopo una serie di incontri tra periti famosi, la paternità rubeniana è stata totalmente esclusa. Al termine del processo, invece, il Giudice ha deciso che la notifica del ’48, non comprendendo gli elenchi dei singoli, era da considerarsi nulla e ha assolto gli imputati dalle accuse di smembramento. Viceversa, ha accolto la tesi di illecita esportazione, condannando i due antiquari romani.
Approfondimento:
Smembramento di collezione → questo concetto è indicato nell’art. 5 della legge 1089/39. L’articolo dichiara che le collezioni e le serie notificate non possono essere smembrate senza l’autorizzazione del ministro.
Notifica→ azione amministrativa che il Ministero attua attraverso i suoi uffici periferici per rendere noto l’interesse storico, artistico e pubblico di un oggetto al suo proprietario.
IL GIORNALE DELL’ARTE
ANNO XVII, N° 176 dell’aprile 1999
Pagina 22
Una giornata di studio
“Tempi biblici per il restauro del Colosseo”
Più di mille esperti per una ricerca sul più noto (e il meno conosciuto) monumento romano.
Di Daniela Fonti.
Punto di discordia fra il sindaco Rutelli e il Soprintendente statale ai Beni Archeologici A. La Regina nell’estate del ’98, il restauro del Colosseo è fermo da tempo. Così la Terza Università di Roma ha indetto una giornata di studio per fare il punto della situazione e tracciare le tappe di un futuro recupero. Sorprendentemente, si è scoperto che il Colosseo è sicuramente il più noto monumento dell’antichità romana, ma anche il meno conosciuto da parte degli studiosi. La prima parte dei finanziamenti messi a disposizione dalla Banca di Roma nel 1992 (ovvero 10 dei 40 miliardi complessivi) sarà perciò spesa per attuare un piano di ricerca diretto dai tre Atenei romani che coinvolgerà più di 1000 esperti. Il resto dei finanziamenti verrà invece utilizzato per rinforzare la struttura del monumento, che soffre di gravi problemi ed è continuamente esposto a pericolo di crolli.
N.d.R.: una parte delle proposte è poi stata realmente effettuata.
Pagina 27
“Il pozzo di San Patrizio di Walter Santagata”
“Scateniamo la concorrenza tra i musei””
Per i tedeschi il prezzo d’ingresso è un deterrente, per gli irlandesi sarebbe ininfluente, invece la qualità conta di più. Ma la vera domanda è: il museo è un servizio pubblico o una merce?.
L’efficienza economica e l’equità sociale della libertà d’accesso ai musei sembrano finalmente messe in discussione anche in Italia: un obiettivo che qualifica profondamente il museo come Servizio Pubblico prima ancora che come impresa e come macchina burocratica, e che va strettamente associato alla contribuzione volontaria dei cittadini. In Germania, ad esempio, è emerso, in un questionario, mandato tramite posta ad un campione rappresentativo della popolazione, che il prezzo del biglietto è uno dei reali ostacoli all’accesso di un museo. Questo significa che i poveri sono quelli che maggiormente reagiscono alla presenza di un prezzo come barriera uaall’ingresso. Il risultato è che, aumentando il prezzo, si modifica anche la struttura sociale dei visitatori, escludendo le categorie marginali. Per la popolazione irlandese, invece, il biglietto d’ingresso non è la variabile decisiva: qualità e quantità contano molto di più. Dopo tutti questi dibattiti, sorge ovvia una domanda: il museo è un Servizio Pubblico o una merce? Risponde ad una logica “repubblicana” o alle regole del mercato? La concezione di Servizio Pubblico risale all’ideologia repubblicana francese ed è un servizio che mira ad offrire diversi beni (al di fuori della logica di mercato) per integrare gli individui nella società in quanto cittadini con pari dignità e aspettative. La forma di tale integrazione, per quanto riguarda i musei, è il diritto alla cultura. L’esperienza europea per la regolazione dei Servizi Pubblici coniuga insieme sia le regole pubbliche sia quelle di mercato, introducendo anche il concetto di concorrenza tra le varie strutture.
Pagina IX
Le nuove acquisizioni pubbliche del 1998
“Come sono cresciute le Collezioni Statali”
Da quest’anno sarà pubblicato periodicamente un catalogo scientifico che riunisce tutti gli acquisti.
Di Mario Serio.
Rendere noto l’incremento del patrimonio artistico dello Stato attraverso nuove acquisizioni è sia un atto amministrativo sia un’occasione per riflettere. E, proprio da questa riflessione, presso l’Ufficio Centrale per i Beni architettonici, archeologici, artistici e storici, nasce un nuovissimo progetto di grande utilità. Verrà difatti pubblicato periodicamente un catalogo scientifico che riunisce, divisi per categorie, le schede delle opere d’arte e dei beni archeologici e architettonici acquisiti nelle diverse forme: per trattativa, per esercizio del diritto di prelazione, per donazioni e cessioni ecc.. I primi due cataloghi (uno che riunirà le opere d’arte mobili e gli edifici monumentali e l’altro che raccoglie i beni archeologici e le opere d’arte orientale) saranno presentati in occasione della Prima Settimana della Cultura (12-19 aprile). Nell’impegno di incrementare in modo mirato le collezioni pubbliche con acquisti per quanto possibili programmati, nel settore della pittura viene assegnata alla Pinacoteca di Brera un “Cristo portacroce” di Romanino; alle collezioni di Capodimonte, la “Negazione di Pietro” di Cavallino e il “Buon Samaritano” di Giordano; alla Galleria Nazionale di Spinola, le collezioni tessili antiche, molte delle quali di manifattura genovese. Per quanto riguarda poi l’attività di tutela esercitata dalle Soprintendenze attraverso il vincolo di singole opere e di collezioni, l’impegno e la costanza, anche se meno conosciuti, portano a risultati rilevanti.
IL GIORNALE DELL’ARTE
ANNO XVIII, N° 198 dell’aprile 2001
Pagina 2
Londra
“La Gran Bretagna dice di si all’Unesco”
Entro l’estate firmerà la Convenzione del 1970 contro il commercio illecito.
Di Martin Bailey.
La Gran Bretagna ha deciso di firmare la Convenzione Unesco del ’70 sulla proprietà culturale. Il ministro per le Arti inglesi, Alan Howarth, ha dichiarato che “aderire equivale a mandare un messaggio, sia all’interno che all’esterno del Paese, che la Gran Bretagna si impegna a livello internazionale per ostacolare il traffico illecito”. La Convenzione Unesco, infatti, impone agli Stati aderenti di restituire ai Paesi d’origine i beni culturali, appartenenti a determinate categorie, che siano stati illecitamente sottratti. Essa obbliga anche a contrastare l’acquisizione e l’importazione di beni ottenuti illegalmente, nonché di mantenere le risorse culturali in sito. Fino a oggi sono 91 gli stati che hanno partecipato alla Convenzione, esclusa Svizzera e Gran Bretagna. Si pensa che quest’ultima firmerà entro l’estate, e con lei forse anche la Svizzera.
Pagina 10
Cambogia
“L’Unesco contro i Tomb Raider”
dal saccheggio di Angkor Vat ai marmi di Elgin, dalla stele di Axum al patrimonio dell’Azerbaigian: i temi caldi dell’XI sessione del Comitato sul ritorno dei beni culturali nei Paesi d’origine svoltasi a Phonom Penh.
Di Alessandro Bianchi.
E’ in Cambogia, bellissima capitale famosa nel mondo per aver ospitato virtualmente le avventure di uno dei videogiochi più diffusi, Tomb Raider (il “predatore di tombe”), che ha avuto luogo l’undicesima sessione del Comitato intergovernativo per la promozione del ritorno dei beni culturali nei Paesi d’origine o la restituzione degli stessi in caso di appropriazione illecita. Quest’organo consultivo, creato dall’Unesco nel 1978, è composto da 22 stati eletti con un mandato quadriennale dalla Conferenza generale tra quelli aderenti alla Convenzione del ’70 sul traffico illecito di opere d’arte. Il tema che ha tenuto banco, soprattutto per volontà del primo ministro cambogiano, è stato quello dell’unidirezionalità del traffico illecito dai Paesi poveri o da quelli coinvolti in conflitti armati a quelli ricchi. L’occasione è servita anche per ricordare casi felicemente conclusi (come quello dei bassorilievi di Angkor o quello del ritorno in Madagascar di centinaia di fossili) e di casi ancora aperti (come quello dei marmi Elgin ad Atene, che la Grecia ha chiesto alla Gran Bretagna fin dal 1983). A tutto ciò l’Italia ha partecipato con una delegazione composta dal Ministero per i Beni e le attività culturali e dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico.
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Inchiesta esclusiva: chi sono, che cosa promettono i 26 nuovi manager di Stato?
“La nuova nomenklatura”
A fine legislatura, la Melandri ha quasi portato a compimento il “restauro più complesso e delicato”, quello del Ministero. Sennonché le nomine dei 9 Direttori Generali e dei 17 Sovrintendenti regionali hanno provocato la rivolta degli storici d’arte.
Le tanto attese nomine sono arrivate il 27 febbraio, e con loro una marea di polemiche. Attuando quanto previsto nel Decreto presidenziale 441/2000, Giovanna Melandri ha proceduto alla nomina degli 8 Direttori Generali del Ministero, dei 17 Sovrintendenti regionali e del Direttore dell’Archivio Centrale dello Stato. “Di tutti i restauri avviati e ultimati quest’anno” dichiara la Melandri “questo è stato sicuramente il più complesso e delicato”. La scelta del riconoscimento delle competenze tecniche, che tradotto risulta in ben 10 architetti e 2 ingegneri su un totale di 17, ha suscitato la reazione degli storici dell’arte, insorti contro il provvedimento che colloca in posizione subalterna la loro professionalità. Per quanto riguarda poi la presenza femminile, questo provvedimento si limita a 4 su 17, numero piuttosto basso. Per quanto riguarda i nominati, i pronostici sono stati sostanzialmente rispettati, soprattutto per la parte riguardante i Soprintendenti regionali. In Lombardia, la scelta è caduta su Carla di Francesco; nelle Marche, Francesco Scoppola; in Umbria, Luciano Marchetti; in Campania, De Carlo; in Emilia-Romagna, Elio Garzillo.
N.d.R.: attualmente Elio Garzillo è ancora in carica nella nostra regione.
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“L’opinione dall’Onorevole”
“I Beni Culturali secondo Sgarbi”
Alcune considerazioni sulla passata e futura gestione dei Beni culturali.
All’avvicinarsi delle elezioni legislative del prossimo 13 maggio, e in vista del cambiamento al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, l’onorevole Vittorio Sgarbi traccia il ritratto ideale del ministro del futuro governo. L’Onorevole Sgarbi dichiara che la prima caratteristica del nuovo ministro deve essere la notorietà in campo politico. “In Italia, essere un pezzo grosso conta molto di più di essere un bravo specialista” afferma il critico “basti prendere i casi di Veronesi e De Mauro, entrambi perfetti tecnici che si son visti sbatter la porta in faccia dai propri partiti”. Il nuovo ministro dovrebbe quindi essere affiancato da ottimi consiglieri tecnici. Oppure, come sosteneva già Bassanini, potrebbe esserci più di un ministro dei beni Culturali, accorpato dentro ad altre funzioni governative. Per quanto riguarda la ristrutturazione del Ministero effettuato della Melandri, Sgarbi fatica a distinguere le considerazioni pratiche da quelle politiche, e sospende quindi provvisoriamente ogni giudizio, in attesa delle prime verifiche di efficienza. In ultimo, Sgarbi dichiara che nella prossima legislatura spera in una politica più incisiva e decisa, che risponda davvero agli interessi nazionali. “La burocrazia” aggiunge “rimane sempre il peggior avversario dei nostri beni culturali”.
N.d.R.: L’attuale ministro è Urbani. Sgarbi è invece il vice-ministro.
1 Espansione: la parola viene quasi sicuramente da De Quincey: “L’oppio produce l’espansione del cuore”
2 Profumo simile al muschio.
3 Resina intensamente profumata, meglio conosciuta come “incenso di Giava”.
4 “Salomè danza davanti a Erode” (1876).
5 Architetto e decoratore francese, fu l’iniziatore del cosiddetto “stile impero”.
6 Pittore francese e artista eclettico, fu allievo di Ingres. In seguito si volse a un esotismo di stampo romantico e creò opere che lo avvicinano alla sensualità coloristica di Delacriox.
7I grilli cantarono
e tramontò il sole
e gli operai finirono uno a uno
la loro cucitura sul giorno.
L’erba bassa si caricò di rugiada
il crepuscolo indugiò, come fanno gli stranieri
col cappello in mano, cortesi e nuovi;
come per restare, o andare.
Venne una vastità, come un vicino,
una saggezza, senza volto, o nome,
una pace, come emisferi a casa
e così la notte avvenne.
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