Elettronica e telecomunicazioni

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Testo

ERMETISMO
L’Ermetismo appare l’esperienza poetica più importante del nostro primo ‘900; essa ha apportato modifiche e innovazioni sostanziali sia sul piano del linguaggio e dello stile che su quello dei contenuti. Fondatori della poesia ermetica sono considerati Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. La definizione “ermetismo” fu coniata in senso dispregiativo dalla critica tradizionale che intendeva condannare l'oscurità e l'indecifrabilità della nuova poesia, ritenuta difficile in confronto alle chiare strutture della poesia classica. Il nome deriva da Ermete o Mercurio, il dio delle scienze occulte, e fu adoperato in senso dispregiativo appunto da Francesco Flora nel suo saggio "la poesia Ermetica".
Di tutte le poetiche sorte nell'ambito del decadentismo la poesia ermetica fa sua e sviluppa quella dei simbolisti francesi. Perciò è detta anche poesia neosimbolista. Sulla poetica ermetica influì inoltre la concezione di Croce della poesia come intuizione pura. Nonostante i suoi limiti la poesia ermetica è storicamente importante, perché ha messo la letteratura italiana a contatto con la letteratura europea risultando anch’essa una testimonianza della crisi spirituale dell’Italia e dell’Europa tra le due guerre. Inoltre ha contribuito ha liberare la poesia italiana dai residui della retorica e dell’oratoria tradizionale, ancora tenaci in Carducci, Pascoli e D’Annunzio.
Contenuti e forme della poesia ermetica
La poesia ermetica rifiuta la concezione della poesia intesa come celebratrice di ideali esemplari (la patria, l’eroismo, la virtù…), segue l’ideale della “poesia pura”, libera da forme metriche e retoriche tradizionali, ma anche da ogni finalità pratica, celebrativa, descrittiva… Essa esprime nel modo più autentico e integrale, il nostro essere più profondo e segreto. Si tratta di una poesia nuova, diversa da quella ottocentesca, da quella crepuscolare, che aveva reso la poesia umile, discorsiva, da quella futuristica, che aveva reso la poesia rumorosa, tutta esteriore ed aggressiva.
Il motivo centrale della nuova poesia è il senso della solitudine disperata dell’uomo moderno: perduta la fede negli antichi valori, nei miti della civiltà romantica e positivistica (la religione, la patria, la scienza, il progresso) egli non ha più certezze a cui ancorarsi saldamente, sconvolto dalle guerre, offeso dalle dittature e dalle ideologie totalizzanti e oppressive. Nasce perciò una visione della vita sfiduciata e desolata, priva di illusioni: da Ungaretti “uomo di pena”, che si sente in esilio in mezzo agli uomini, a Montale, che vede negli aspetti quotidiani della realtà “il male di vivere”, a Quasimodo che ricorda che il destino di ogni uomo è che “sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole”.
Ad aggravare il senso di solitudine e di mistero concorrono altri elementi: l’incomunicabilità, cioè l’incapacità e l’impossibilità di un colloquio fiducioso ed aperto con gli altri; l’alienazione, ossia la coscienza di essere ridotti ad un ingranaggio nella moderna civiltà di massa, strumentalizzati per fini più o meno celati; la frustrazione, la coscienza del contrasto tra una realtà quotidiana sempre banale e deludente e l’ideale di una vita diversa ma irrealizzabile.
Per esprime temi così desolati e intimistici i poeti ermetici vanno alla ricerca di nuove forme che meglio rispecchiano il loro stato d’animo, e le trovano nella parole essenziali, scarne, che esprimono la condizione di chi, perdute le antiche certezze e privo di illusioni e di fede, si ripiega su se stesso e scopre la propria miseria e la propria angoscia esistenziale. Caratteristica della poesia ermetica è pertanto l’uso frequente dell’analogia e della sinestesia. L’analogia è l’accostamento immediato di due immagini, situazioni, oggetti tra loro lontani, fondato su un rapporto di somiglianza (Sono pioggia di nube – Ungaretti; tornano in alto ad ardere le favole – Ungaretti). Nei momenti di felice ispirazione l’analogia è efficace, ma a volte è troppo ardita e risulta eccentrica, bizzarra, oscura. La sinestesia, che letteralmente significa “percezione simultanea”, è l’accostamento di sensazioni diverse avvertite appunto simultaneamente (E come potevamo noi cantare /… all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? – Quasimodo; si percepisce simultaneamente una sensazione uditiva, l’urlo, e una visiva il nero, cioè il cupo, il tragico).
I temi ricorrenti si possono riassumere in
a) ricerca del significato della vita attraverso l'indagine interiore della propria esistenza; infatti molte opere ermetiche sono autobiografiche
b) visione non ottimista della vita stessa attraversata dal "male di vivere", sempre presente nelle opere.
Poesia ermetica e il Fascismo
Molti ritengono che la poesia ermetica sia stata una forma di resistenza, blanda (delicata) ma ferma al Fascismo. I poeti ermetici opposero il disimpegno sul piano politico e, sul piano letterario, l’ideale di una poesia aristocratica, spoglia, essenziale, priva di contatti con la realtà, centrata esclusivamente sulla tematica dell’angoscia esistenziale e sul recupero memoriale. Questo le conferiva un tono malinconico, opposto all’entusiasmo celebrativo, a cui il regime condannava gli intellettuali al suo servizio. Su questo vanno fatte due opposizioni. Innanzitutto molti considerarono il loro comportamento come un alibi rassicurante, il chiudersi nella torre d’avorio della letteratura per non dannarsi l’anima scendendo a compromessi col regime. In secondo luogo poi non tutti gli ermetici furono antifascisti. Ad esempio Ungaretti nel 1923 pubblica “Il porto sepolto” con presentazione di Benito Mussolini, e nel 1931, ristampando “L’Allegria”, la fa precedere da una premessa ricca di aperte professioni di fedeltà a Mussolini. Questa polemica addolorò nel dopoguerra Ungaretti, che si difese sostenendo che la sua amicizia con Mussolini risaliva prima delle fortune politiche dello stesso, del resto Ungaretti era emigrato per ragioni di lavoro, e perciò fu estraneo ai profitti del regime.
Per tutto ciò è più giusto legare la poesia ermetica alla crisi della civiltà romantica e positivistica, vista anche l’analogia delle loro tematiche con quelle di Svevo e Pirandello.
La poesia ermetica e il pubblico
La poesia ermetica restò e resta tuttora difficilmente comprensibile per il grosso pubblico e, a parte qualche eccezione, presenta una sostanziale aridità spirituale, perché è estranea agli interessi umani, civili e sociali delle grandi masse. Ecco perché con la fine della guerra e con l’irrompere sulla scena delle grandi masse popolari è andata gradatamente a scomparire.
Giuseppe Ungaretti
Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto da genitori italiani. Nel 1912 si trasferisce a Parigi, dove si laurea alla Sorbona e frequenta gli ambienti dell'avanguardia artistica. Allo scoppio della guerra il poeta, fervido interventista, si arruola e va a combattere sul Carso e poi sul fronte francese. Rientrato in Italia nel 1921, si impiega al Ministero degli Esteri e aderisce al fascismo (Mussolini firma la presentazione di una sua raccolta). Nel 1936 va a San Paolo del Brasile, dove insegna all'università. Durante il soggiorno brasiliano, nel '39, muore il figlio Antonietto di nove anni. Nel '42 è di nuovo in Italia, a Roma, e si dedica sempre all'insegnamento universitario. La sua fama di poeta, che si era consolidata già a partire dagli anni Venti, cresce col passare del tempo, e sempre nuovi poeti si rifanno alla sua lezione. Muore a Milano nel 1970; l'anno prima era uscita l'edizione completa della sue poesie. Poesia e biografia per Ungaretti sono strettamente legate, tanto che sono proprio le esperienze di vita a determinare alcune precise scelte di stile e contenuto assolutamente innovative per la poesia italiana. La prima, e fondamentale, è l'esperienza di soldato. Sepolto in trincea tra fango, pioggia, topi e i compagni moribondi, il giovane poeta scopre una nuova dimensione della vita e della sofferenza che gli sembra imporre, per poter essere descritta, la ricerca di nuovi mezzi espressivi. Nasce così la raccolta “Allegria di naufragi”. Dall'analisi delle proprie emozioni Ungaretti trae enunciazioni essenziali e fulminee che comportano la distruzione della metrica tradizionale: i versi vengono spezzati e ridotti talvolta a singole parole; queste ultime si stagliano isolate, o accostate tra loro con lo strumento dell'analogia, senza punteggiatura, intervallate da spazi bianchi che assumono a loro volta un preciso significato. Una poesia, dunque, che per dare il meglio di se deve essere recitata. La successiva raccolta "Sentimento del tempo", del 1933, presenta un'evoluzione nella poetica di Ungaretti. Gli spunti autobiografici, così numerosi nell'Allegria di naufragi, diminuiscono lasciando posto a una riflessione più esistenziale. Ungaretti cerca nelle proprie emozioni e paure il riflesso di quelle che sono comuni a tutti. Inizia qui il tormentato recupero della fede, la quale può forse rappresentare per l'uomo smarrito un'ancora di certezze. Il cammino, tuttavia, non è lineare e non mancano situazioni di conflitto tra il sentimento religioso e le esperienze dolorose nella storia del singolo o della comunità. Parallelamente a questi cambiamenti tematici ne avvengono altri a livello stilistico: in particolare il recupero di una metrica più tradizionale, rinnovata però dal precedente lavoro di scoperta della parola. Nel “Il dolore”, raccolta del 1947, la biografia irrompe nuovamente nella poesia in seguito alla tragica morte del figlio Antonietto, cui sono dedicate le liriche della prima parte; nella seconda parte, invece, Ungaretti si sofferma sulle vicende drammatiche della guerra. C'è dunque un rapporto tra le due sezioni: il dolore individuale e quello collettivo danno la misura di un cammino umano segnato dalla sofferenza e dalla difficile riconquista della fede negli imperscrutabili disegni divini.
LA POETICA
Ungaretti fu il maggiore esponente di quella “poesia pura” da cui si svilupperà la corrente vera e propria dell’Ermetismo.
La formazione sociale e culturale di Ungaretti fu vasta e dalle componenti svariate ed eterogenee, destinate poi ad elaborare un modo nuovo ed intenso di fare poesia.
La gioventù in Africa gli permise di conoscere il dramma umano di esuli anarchici e socialisti provenienti da ogni parte di Europa.
Gli anni di Parigi (1913-14) e l’incontro col poeta francese Apollinaire gli permisero invece di approfondire l’importanza della parola in poesia, ma in una direzione del tutto opposta rispetto a quella presa dai Futuristi del primo ‘900, Ungaretti e l’Ermetismo si servirono della parola isolata e ripiegata su se stessa per dar voce al proprio dolore personale, dunque proiettandola verso l’interno del proprio animo.
Ora analizziamo alcune delle poesie di Ungaretti:
Fratelli
Di che reggimento siete,
fratelli?

Parola tremante
nella notte

5 Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

10 Fratelli
È nella condizione dell’uomo in guerra che tutti i sentimenti vengono potenziati. Qui il poeta ha sentito più fortemente il tema della fratellanza, dell’amore, come reazione alla dura realtà della morte, al senso della precarietà del vivere umano.
Si presenta divisa in cinque strofe costituite di: due versi – due versi – un verso – quattro versi – un verso. Varia, ma sempre breve, la lunghezza dei versi.
Due gruppi di soldati si incontrano nella notte e si interrogano: “Di che reggimento siete/fratelli?”. Ma la domanda rimane senza risposta.
“La parola tremante/nella notte” genera l’immagine concreta della “foglia appena nata”, germoglio di vita che si affaccia al mondo indifeso; la lirica si chiude con la ripresa della parola “Fratelli” che è isolata dal contesto e costituisce la raccolta dei significati di cui si è caricata nel corso del componimento.
Soldati
Si sta come
d’autunno
su gli alberi
le foglie
Senza il titolo non si rivelerebbe appieno il significato di questa lirica e addirittura il titolo “Soldati” è il primo termine di paragone. La lirica, scritta durante una pausa dei combattimenti nel Bosco di Courton, esprime la sospensione tra la vita e la morte nella quale si vengono a ritrovare i soldati, come le foglie sugli alberi in autunno, quando cadono con un soffio di vento.
La similitudine delle foglie rappresenta qualsiasi condizione: così come le foglie nascono e muoiono, allo stesso modo si susseguono le generazioni degli uomini. La lirica è costituita da un unico periodo composto da quattro versi brevissimi. Dopo il “come” vi è un enjambement che coinvolge l’idea di stabilità del verbo “stare”.
Sono una creatura
Come questa pietra
del san Michele
così fredda
così dura
5 così prosciugata
così refrattaria
così totalmente disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
10 che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Il poeta vede, nelle immagini del paesaggio che è teatro dei combattimenti della prima guerra mondiale, una corrispondenza con il suo sentimento. Così, la pietra del monte San Michele, nella sua totale e assoluta aridità, diventa per Ungaretti un punto di riferimento, un simbolo della sua condizione di uomo, agghiacciato dal dolore.
Lo scrittore accumula aggettivi e participi aggettivali, a dire, con quell’accumulo e con quel crescendo, tutta l’aridità di quella pietra, e tutta l’aridità dell’animo suo, quale, almeno, appare all’esterno, perché dentro, invece, vi è un pianto che “non si vede”, ma che pure esiste. La lirica si apre con un paragone nel quale viene messo in primo piano il secondo termine (“come questa pietra”), mentre il primo compare alla fine del periodo.
L’uso dell’anafora (“così … così …”) mette in risalto la serie di aggettivi e participi. La ripresa retorica dell’anafora “come questa pietra” insiste sul paragone e, quindi, sulla somiglianza fra l’uomo e quella roccia montana.
Gli ultimi tre versetti sono fra le espressioni più dolorose dell’angoscia moderna: la morte è tale un bene, che bisogna pagarlo con la sofferenza della vita.
Si osservi qui quale forza derivi dalla scansione in tre brevi versetti di eguale misura: le parole sono isolate e sillabate, sicché acquistano peso e rilievo.
San martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
50 Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
10 nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato
L’immagine di un paese distrutto dalla guerra, San Martino del Carso, è per il poeta l’equivalente delle distruzioni che sono celate nel suo cuore, causate dalla dolorosa perdita di tanti amici cari. Ancora una volta il poeta trova nelle immagini esterne una corrispondenza con quanto egli prova nei confronti dell’uomo, annullato dalla guerra. La lirica, di un’estrema essenzialità è tutta costruita su un gioco di rispondenze e di contrapposizioni sentimentali, ma anche verbali: di San Martino resta qualche brandello di muro, dei morti cari allo scrittore non resta nulla; San Martino è un paese straziato, più straziato è il cuore del poeta. Così, eliminando ogni descrizione e ogni effusione sentimentale, l’Ungaretti riesce a rendere con il minimo di parole la sua pena e quella di tutto un paese, e dà vita a una lirica tutta nuova.
La lirica è costituita da quattro strofe. Le prime due strofe sono legate da un’anafora (“di queste case … di tanti”) e dalle iterazioni (“non è rimasto … non è rimasto; tanti … tanto”). La metafora “brandello di muro” riconduce all’immagine di corpi mutilati, straziati, ridotti a brandelli. La terza strofa si apre con un ma che ribalta l’affermazione precedente. Come le prime due, le ultime due strofe sono legate da un parallelismo (“ma nel cuore … è il mio cuore”) e dall’analogia (cuore = paese). Anche se nulla è rimasto dei compagni morti, “nessuna croce manca”: non è svanito il ricorso di nessuno di quei morti. Le croci suggeriscono l’immagine di un cimitero, ma richiamano, naturalmente, anche al sacrificio e alla morte del Cristo.
L’immagine finale del cuore straziato richiama quella iniziale del brandello di muro, racchiudendo il componimento in un cerchio di dolore.
La madre
E il quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore
come una volta mi darai la mano

5 In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’Eterno
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia
10 come quando spirasti
dicendo : - Mio Dio eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
15 e avrai negli occhi un rapido sospiro.
La poesia "La madre" di Ungaretti ha per soggetto la madre deceduta che attende il proprio figlio e lo protegge anche di fronte al giudizio di Dio: "sarai una statua davanti all'Eterno". L'amore materno è qui presentato con una forza senza eguali, in grado di sfidare la volontà superiore dell'Eterno. Questa poesia è riconducibile al secondo periodo di Ungaretti quando da uomo di pena diventa uomo di fede, inoltre è anche visibile un cambiamento nella forma, infatti la poesia diventa più facile da interpretare.

Mussolini fino all’entrata nella
seconda guerra mondiale
Nel corso del 1911, fra le tante manifestazioni (e scioperi) anche violenti in molte città d'Italia contro la guerra turca a Tripoli e Bengasi, una di queste manifestazioni in particolare assume rilevanza storica, quella di Forlì dove a guidarla fu Mussolini a 27 anni
Il Padre, Alessandro Mussolini ammirato dalle gesta di Benito Juarez, impose questo nome al suo primo figlio quando nacque il 29-7-1883. La moglie, insegnante oltre che madre di questo bambino (in mezzo a molta miseria - dove metà della popolazione di Dovia nell'arco di pochi anni era già emigrata in Brasile), fu anche la maestra di suo figlio. E lui stesso poi prese il diploma di maestro, frequentando la Scuola dei preti Salesiani. In questa scuola fu descritto come: "Giovane irruente, impulsivo, ribelle, ma molto intelligente" anche se una nota del direttore inviata ai genitori puntualizzava che "...la sua natura non é acconcia a un sistema di educazione di un Collegio Salesiano". Di lui come ragazzo, gli amici coetanei dicevano "non discute, picchia". Ma era anche intelligente ed estroso, visto che a scuola in un tema "Il tempo è danaro" fece lo svolgimento in una sola riga; "Il tempo é moneta, perciò vado a casa a studiare geometria, perché sono vicini gli esami, non le pare signor professore la cosa più logica?"
E non studiava solo quella, ma Storia, Politica, Musica, Poesia. Divenne infine Maestro, ma il fascino di arringare la folla era il suo debole, tenne discorsi celebrativi su Verdi, Garibaldi e altri, che entusiasmavano i presenti con le arringhe, dove poi, quasi sempre, lui sconfinava nella politica più accesa, coinvolgendo le masse con i suoi caratteristici atteggiamenti e una passionale oratoria.
Insegnava a Gualtieri (che era il primo comune conquistato in Italia dai Socialisti), ma presto, pur avendolo nominato i socialisti Capo Sezione, gli venne a noia e emigrò in Svizzera. Due anni e mezzo in giro a fare lo sfaccendato, il disoccupato, il poveraccio, l'insegnante di italiano agli immigrati; ma intanto frequentava le lezioni di economia-politica; e nel frattempo leggeva molto.
Sue letture preferite: Nietzsche, Marx, Schopenhauer. E scrive anche qualcosa, Ma nei suoi primi scritti non esordisce rivoluzionario; usa il gergo socialista che ha assorbito a casa, ma in questo primo periodo svizzero (1902-1904) il suo inizia a essere originale soprattutto quando i dibattiti fra riformisti e rivoluzionari si fecero roventi. Non ha ancora un pensiero politico autonomo, ma è già un dialettico rivoltoso (del resto era a contatto anche con l'ambiente anarchico) e in questi primi interventi (su L'Avvenire del Lavoratore, Il Proletario, Avanguardia Socialista) si permette già di scrivere che "il socialismo è un vasto movimento pietista, non l'avanguardia vigile del proletariato, ma una accolta di malcontenti, con alcuni vanitosi già compromessi con la borghesia che li usano proprio per far naufragare il socialismo". Sono dunque già frasi in libertà, fuori da certi rigidi schemi.
Infatti con le varie scuole, le varie dottrine, le frequentazioni e le letture più diverse nel 1909 lo ritroveremo già autonomo, con la sua ideologia già in embrione.
Dopo 2 anni in Svizzera, fece una breve visita in Italia alla madre malata, ma aveva 21 anni e a casa trovò la cartolina di leva. Per evitare il servizio militare, contraffece la data sul passaporto e riespatriò in Svizzera, ma il documento falsificato fu scoperto alla frontiera.
Fu quindi espulso, mentre nel frattempo in Italia lo condannavano per diserzione. I giornali socialisti enfatizzarono, uno scrisse: "E' stato cacciato dalla Svizzera il socialista Mussolini, il grande duce della "Prima" sezione socialista d'Italia". Era la prima volta che veniva usato il titolo di duce, che ricordavano gli antichi condottieri romani, ed era anche la prima volta che veniva indicato come grande. Mussolini aveva poco più di vent'anni ed entrambi i due titoli non gli dispiacquero proprio per nulla.
In Italia, ci fu proprio quell'anno l'amnistia per i reati anche di diserzione. Provvidenziale perchè gli evitò una condanna, ma il soldato dovette farlo, a Verona nel 10° reggimento bersaglieri. Ci stava apparentemente bene, tanto che si prese perfino le lodi e i gradi di caporale, ma era di idee antimilitariste e predicava la diserzione quando scriveva agli amici. Congedato, fece il maestro a Tolmezzo, poi anche lì divenne insofferente all'ambiente.
Andò a fare il maestro a Oneglia, in Liguria, dove si mise a dirigere con impegno anche un piccolo foglio socialista "La Lima". Qui scopre la sua "strada", il giornalismo, quello "rovente" e anticlericale, infatti, negli articoli si firma "il vero eretico", con accuse ai preti di essere "gendarmi neri al servizio del capitalismo". Fra le tante manifestazioni e scioperi anche violenti in molte città d'Italia contro la guerra turca a Tripoli e Bengasi, una di queste manifestazioni in particolare assume rilevanza storica, quella di Forlì dove a guidarla fu Mussolini, che entrò subito in diverbio con gli interventisti.
A un capo crumiro, con una mazza in mano minaccia di spaccarlo in due, l'altro non sta al gioco, va a denunciarlo, la sera stessa è arrestato, processato per direttissima e condannato a 3 mesi. Conosce il carcere per 15 giorni; uscito, si ributta in politica, ma alla fine emigra nuovamente all'estero, a Trento (allora austriaca) dove passa intere giornate nella biblioteca comunale a leggere storia e saggi politici, e nello stesso tempo a studiare il violino, Mussolini diceva sempre: "se diventerò bravo ho un mestiere di riserva", infine trova la tanto sospirata occasione di poter dirigere un foglio.
É "L'Avvenire del lavoratore", gli da' impulso, dinamismo, fa raddoppiare le copie del giornale. Cesare Battisti il più attivo del socialismo trentino che dirige il "Popolo" lo scopre e lo vuole con sé; lo nomina Redattore Capo. Proprio Battisti nel presentarlo per la prima volta sul giornale, così lo descrive, "é uno scrittore agile, incisivo, polemista, vigoroso, con una buona cultura, multiforme e moderna", ma subito dopo gli diventa scomodo, incontrollabile e perfino pericoloso, perché Mussolini é impulsivo, interviene con rudezza con tutto il peso delle sua presa di posizione estrema e rigida che inaspriscono le polemiche con gli austriaci per l'autonomia del trentino, mentre Battisti sta operando in un modo più diplomatico, pur dicendo velatamente le stesse cose. Inoltre Battisti non voleva inimicarsi il clero locale, molto legato all'Austria. Non rompe del tutto i rapporti, ma dopo un mese Mussolini già non scrive più sul suo giornale.
A Mussolini il Trento gli sembrò troppo clericale, e aveva anche una profonda avversione per un giovane leader dei cattolici. Era Alcide De Gasperi che dirigeva “Il Trentino” e dalle sue colonne rimproverava gli insulti che lanciava il suo collega; ma Mussolini con i suoi articoli a sua volta lo attaccava, lo definiva "pennivendolo" "uomo senza coraggio" "un tedesco che parla italiano, protetto dal forcaiolo, cattolico, feudale impero austriaco e quindi un servo di Francesco Giuseppe". L'attacco ai preti intanto continuava. Gli avversari politici lo chiamavano "il cannibale dei preti", e quando in un paesino di Trento si scoprì una storia boccaccesca fra una contadina (in vena di santità) e il parroco locale, che l'aveva messa incinta più volte, Mussolini con la sua vena di scrittore irriguardoso e fantasioso scatenò un putiferio nel raccontarne i retroscena, con il preciso intento di ridicolizzare tutto il clero locale.
In questo clima rovente, come agitatore più che polemista, che metteva a rumore la città, Mussolini non poteva durare, infatti, la gendarmeria austriaca su segnalazione di anonimi, l'accuso' assieme ad altri suoi amici irredentisti del furto in una banca, gli perquisirono l'abitazione, forse trovarono manifestini anti-austriaci, alcune copie del suo giornale che andava spesso sotto sequestro, trovarono insomma la "giusta causa" e una vaga motivazione per l'arresto e per sbatterlo in prigione. Dopo aver odiato gli svizzeri, Mussolini in galera iniziò a odiare i trentini austriaci, quando, pur non provata né trovata nessuna accusa, seguitarono a tenerlo in carcere senza un preciso motivo. Tanto che per protesta, e informando i socialisti con chissà quali mezzo, iniziò a fare un plateale sciopero della fame per attirare l'attenzione.
Per non farlo diventare un pericoloso martire dei socialisti o creare incidenti diplomatici, i gendarmi lo accompagnarono con i soli vestiti sdruciti addosso al confine di Ala, e lo diffidarono a non mettere più piede nella terra del Kaiser. Mussolini raggiunta Verona a piedi, racimolato qualche soldo alla stazione per il viaggio in treno, rientrò a Forlì, dove visibilmente umiliato passò l'inverno ad aiutare il padre vedovo a servire clienti in un osteria gestita assieme a una certa Annina Guidi, una sua vecchia amante, che morta la moglie si era deciso a viverci insieme, gestendo con lei appunto la trattoria. Un antico rapporto questo che alcuni mormoravano che da lei aveva avuto quella bimba cui avevano dato il nome di Rachele, che la donna allevò. Benito aveva conosciuto Rachele bambina prima di andare in Svizzera, ora al suo rientro l'aveva ritrovata donna e piuttosto attraente; le sue attenzioni furono pari a quelle della fanciulla che a sua volta si invaghì presto del fratellastro.
Forlì' gli stava stretta e lo divenne ancora di più quando anche in questa città lo arrestarono e lo misero di nuovo in carcere per quindici giorni per aver fatto un comizio non autorizzato.
Nel comizio, teorizzava la rivolta, e incitava a dare alle fiamme il Codice, ne auspicava un altro con nuove leggi. Il suo attivismo lo portava a porsi al di sopra delle comuni norme, e quindi auspicava la "necessita' della rivolta". Leggendo Nietzsche lo aveva colpito una frase "vivere pericolosamente", e ne fece il proprio motto, tanto che pubblicò un saggio in tre puntate sul giornale "Pensiero Romagnolo", La filosofia della forza, dove troviamo il pensiero del filosofo tedesco (il superuomo nicciano) che indubbiamente lo aveva affascinato e conquistato (altrettanto quello di G. Sorel - La funzione della violenza nell'agire storico).
In carcere in quei pochi giorni dove era stato ospite utilizzò il tempo a scrivere. Dopo l'esperienza fatta a Trento, dove si era documentato storicamente di un certo periodo della vita politica di quel paese, scrisse un breve satirico romanzo proprio sul Trentino. Cesare Battisti lo pubblicò a puntate sul "Popolo", a 15 lire a puntata, e il pubblico lo lesse avidamente. Era un racconto fantapolitico "Claudia Particella, l'Amante del Cardinale", un modo per far la sua feroce propaganda politica anticlericale.
Ma Forlì dopo le vicende del carcere gli divenne antipatica, anche perchè inutilmente bussò a tutti i giornali; infine pensò di emigrare anche lui in Brasile, come avevano fatto tanti abitanti del suo paese Dovia; infatti aveva tanti vecchi amici di infanzia che appunto in Sud America erano emigrati.
Valutò pure di accettare un posto come messo comunale ad Argenta; "sono stanco di stare in Romagna e sono stanco di stare in Italia", scrive a tutti; ma il 9-1-1910 la federazione socialista di Forlì lo nomina segretario della federazione e gli fa dirigere i quattro fogli di "Lotta di Classe". Mussolini e' entusiasta, vede già il suo successo, ne e' convinto, e' sicuro di sè, si sbilancia anche troppo "alla prossima ventata spazzero' via Giolitti", ed economicamente non teme più il futuro perchè prende 120 lire al mese; infatti dopo 8 giorni torna a casa e presa Rachele sotto braccio, comunicò al padre e alla matrigna che sposava la sorellastra "senza vincoli ufficiali, ne' civili, ne' religiosi", e con una pistola in mano minacciò in caso di diniego il duplice suicidio. La notte stessa prese due lenzuola, quattro piatti con le posate, la rete di un letto e con Rachele si trasferì in una stanza in affitto con cucinino a 15 lire il mese, e "mise su casa". Era il 17 gennaio del 1910.
Mussolini aveva 27 anni e Rachele 17. Dopo 9 mesi, il 1° settembre 1910 nasceva Edda. 27 giorni dopo si svolse lo sciopero di Forli! Con Mussolini attivista in prima fila che gli valse questa volta la condanna a cinque mesi di carcere. Comunque utile per trasformarsi in vittima, martire e quindi diventare ancora più popolare.
Infatti nel 1912 Mussolini lo troviamo a dirigere l'organo del partito socialista L'Avanti. Si fa portavoce del proletariato ed inizia il 7 gennaio 1913 una feroce campagna contro "gli assassini di Stato". Con indignazione si era scatenato per gli incidenti mortali verificatisi durante gli scioperi dei lavoratori che chiedevano miglioramenti salariali, riduzioni d'orari, previdenze, pane e lavoro. Conflitti dove scopriamo all'interno di queste manifestazioni non solo una forte tensione sociale fra padronato e operai, ma anche la prima forte spaccatura dentro i sindacati socialisti, tra i riformisti e i rivoluzionari. Due correnti di pensiero che divideranno in eterno le sinistre; e non solo quelle italiane.
Poi venne la ferale notizia da Sarajevo. L'inizio di quella che doveva essere per tutti una breve guerra, si trasformò ben presto -dopo le prime battute- in una guerra mondiale che andrà a cambiare il mondo. Crolleranno tre imperi, il Reich tedesco verrà sbriciolato, muterà l'intera politica del vecchio continente, nasceranno due grandi influenze ideologiche, e l'intera economia mondiale inizia a prendere due sole direzioni; che non viaggiano in parallelo, ma inizieranno a correre una contro l'altra fino al grande scontro ideologico. Ognuna durante questo lungo viaggio cercando -con tutti i mezzi- di allargare il proprio regno; che questa volta non è uno Stato, nè un Continente, ma è in gioco l'egemonia sull'intero Pianeta. Una lotta quindi tra due giganti.
MUSSOLINI dallo stesso giornale, il 20 settembre 1914 lo troviamo prima contro l'intervento in guerra dell'Italia, promuovendo perfino un plebiscito pacifista, poi subito dopo il 18 ottobre 1914 lo troviamo improvvisamente schierarsi a favore; titola "da una neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante" che gli costa la radiazione dal giornale e dal partito. Un socialismo neutralista ad oltranza, che già in crisi con la disgregazione dell'Internazionale socialista, messo di fronte alle scelte sull'intervento in guerra, che tutti ormai consideravano imminente, e nelle alte sfere necessaria per biechi motivi, lo troviamo -il partito socialista- schierarsi contro la guerra e a promuoverne il disfattismo e fin dall'inizio il suo fallimento. Mussolini non é disposto ad accettare questo fallimento né le limitate vedute di molti dirigenti del suo partito.
L'idea che si é fatta Mussolini é che la rivoluzione socialista é fallita prima ancora di iniziare, e mai il socialismo potrà uscire dalla guerra, vinta o persa, con nuove prospettive.
Le masse - andava dicendo Mussolini- i milioni di individui, dopo aver combattuto potranno imporre domani, a vittoria ottenuta, la propria pace alla borghesia con tutte le carte in regola, perché avranno una propria forza autonoma per farlo, e non avranno bisogno dei socialisti. A guerra persa invece le colpe ricadrebbero solo sui socialisti, che il conflitto non lo volevano e hanno sempre disprezzato chi era stato chiamato a parteciparvi. Insomma i socialisti erano dentro un vicolo cieco. Questo in sostanza aveva sostenuto Mussolini alla vigilia del conflitto, e il ragionamento era impeccabile; ma il guaio grosso fu che la guerra che doveva essere "lampo" fu invece lunga e quando finì terminò in un modo anomalo, non accontentò proprio nessuno; infatti i vincitori (per come furono trattati a Versailles) si ritrovarono in mano quella che fu poi definita una "vittoria mutilata"; in altre parole, una frustrazione per entrambi, per chi l'aveva sostenuta la guerra e anche combattuta (Mussolini e i 4,5 milioni di Italiani) e chi aveva remato contro e profetizzato il totale fallimento (i socialisti - questi erano convinti di poter fare dopo la guerra la rivoluzione del proletariato).5
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Il 15 novembre del 1914, dopo l'articolo che gli costò l’espulsione dal partito e dopo la radiazione all'Avanti, MUSSOLINI fonda a Milano il “Popolo d'Italia” (finanziato e non del tutto disinteressatamente dalla Edison, dalla Fiat di Agnelli, dall'Ansaldo dei fratelli Perrone ecc…) con un indirizzo antisocialista, e con iniziali palesi appoggi all'irredentismo che va predicando D'Annunzio e De Ambreis (Ma poi con la "Vicenda Fiume "Mussolini prenderà le distanze dai due "rossi).
Infine il 6 maggio del 1915: Mussolini esce con l'articolo "E' l'ora". Poi abbandona non del tutto il giornale (terrà un diario di guerra fino al febbraio 1917) e molto coerentemente con quello che ha scritto, si offre volontario.
Non è il solo, parte D'Annunzio, parte Marinetti, e parte Cesare Battisti che incita "tutti al fronte con la spada e col cuore", poi in agosto parte finalmente anche Mussolini.
C'è in questo slancio forse anche un motivo umano, odia gli Austriaci; il suo é anche un conto personale da regolare! I giorni di carcere a Trento, le accuse infamanti, e le umiliazioni ricevute hanno lasciato il segno!
Al fronte Mussolini non ha la vita molto facile, sia con i soldati che lo ritengono un interventista e sia con lo Stato Maggiore che diffidano di questo ambiguo soggetto fino a ieri a sinistra come oppositore all'intervento. Era nota la sua renitenza, il suo antimilitarismo in piazza del 1911-12, e il suo passato di socialista.
Al Distretto non si fidano proprio. Senza tanti riguardi al suo diploma e al suo mestiere di giornalista lo mandano al fronte, come soldato semplice col grado di caporale. Dopo 16 mesi di guerra, per quaranta giorni Mussolini va anche in trincea, sul Carso, in prima linea sotto le granate austriache; si guadagna perfino il nastrino. Nel febbraio 1917 una sventagliata di schegge, non proprio del nemico, lo colpisce. Resta gravemente ferito. Trascorre in stampelle quattro mesi all'ospedale di Ronchi. Qui nel portare conforto ai feriti troviamo una visita di Re Vittorio Emanuele III. Di certo non immagina nemmeno lontanamente, nel preoccuparsi della salute e nello stringere la mano di questo semplice caporale, di trovarsi di fronte all'uomo che fra soli 5 anni legherà il suo destino a quello di Casa Savoia e a tutta la sua dinastia.
Dopo la convalescenza, MUSSOLINI rientra al giornale nel luglio 1917. Le cose in Italia sono molto cambiate nel frattempo, l'interventismo, dopo tre anni di guerra, quasi inutili sul piano militare e politico, é in crisi, e sembra - dopo Caporetto- che il disfattismo socialista fra le masse trovi un buon appoggio. Così andava dicendo Cadorna per giustificare i suoi tragici rovesci.
Ma non é così, Mussolini è molto attento, si accorge che le masse hanno avuto uno scollamento dal socialismo e che questo (dopo la disfatta di Caporetto del 24 ottobre) non può certo aspirare alla vittoria di una rivoluzione dopo una guerra persa. Infatti le cose cambiarono, per tanti motivi, interni ed esterni. E anche per tante coincidenze a favore. L'entrata in guerra degli Usa, la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, le Germania in difficoltà (più politicamente che militarmente), l'Austria in sfacelo.
Alla fine, la guerra non fu persa, ma nemmeno vinta, passerà alla storia come la "vittoria mutilata" dopo le liti a Versailles con Wilson. Questo finale andò ancora di più a complicare le cose. Non c'erano politicamente né vinti né potevano rallegrarsi quelli che la guerra l'avevano boicottata con il disfattismo. Con troppo accanimento, questo esito negativo dai socialisti fu fatto pesare molto ai reduci; "che cosa vi dicevamo, ecco il risultato!". Non era certo il modo per farne seguaci nel chiamarli stupidi. E chi era ritornato dal fronte non voleva certo sentirselo dire, dagli "imboscati" poi.
Quello che temeva Mussolini accadde, come aveva previsto e profetizzato. I socialisti riformisti sono in difficoltà più di prima della guerra, e nemmeno parlarne di poter avviare un dialogo con i padroni; invece di concertare hanno preferito la linea dura con il risultato che gli industriali si sono uniti e hanno adottato la strategia delle serrate.
Mentre i massimalisti dichiaratamente rivoluzionari, hanno guardato con molta attenzione i fatti russi che avrebbero potuto far aprire delle nuove prospettive; la prossima fine del capitalismo con la tanto attesa rivoluzione. Ma non hanno i seguaci, hanno solo i pochi che ancora lavorano e che sono poi quelli che non hanno fatto la guerra. Non hanno nemmeno le masse contadine (che per la maggior parte non sono salariati ma sono milioni di piccoli proprietari di "fazzoletti" di terra) timorosi di perdere con l'avvento del bolscevismo il loro podere, quindi sordi a tutte le sirene comuniste.
Insomma nelle due correnti, e tra queste e le masse si è creata una barriera di totale incomunicabilità. Non esiste più spazio per i socialisti. Mussolini è conciso, provocante ma anche realista "Vogliono fare la rivoluzione, ma se li contiamo i conti proprio non tornano"
Mussolini se ne convince ancora di più quando inizia a vedere i pessimi risultati della Rivoluzione Russa. "Bello i soldati uniti al popolo! Bello il collettivismo! Bello la distribuzione delle terre! Male invece i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne". Non era questo il socialismo che Mussolini sognava da giovane. In Russia il "padrone" autoritario e il grasso borghese zarista, usciva dalla porta e rientrava dalla finestra con la nascente "borghesia" statale di partito, ancora più autoritaria e peggio di prima perchè non possedeva capacità tecniche e organizzative. Gli esaltati operai credevano di poter mettere in riga i cervelli del vecchio management o impunemente insultare i vecchi padroni. Lenin dimostrando subito i propri limiti e le incapacità a organizzare uno stato così vasto e burocraticamente così complesso, ha dovuto richiamare in fretta e furia ai loro posti nei vari apparati gli stessi funzionari zaristi, e nelle grandi aziende i vecchi padroni, per riuscire a sopravvivere ed evitare il totale fallimento della rivoluzione che si stava avviando nell'anarchia. Gli altri non si fecero pregare; soltanto che borghesi erano e borghesi rimasero. Non al soldo del padrone ma del Partito, che in quanto a zarismo poteva competere.
Finita la guerra nel 1919 al termine della prima guerra mondiale, l'Italia era molto mal ridotta c’era caro viveri, disoccupazione miseria e quindi malcontento. In molte città italiane si ripetevano scioperi, agitazioni, tumulti con morti e feriti; e lo stato non aveva l'autorità per intervenire. La guerra aveva, infatti, favorito solo alcuni ceti: gli industriali, che avevano realizzato enormi guadagni producendo materiale bellico (cannoni, aerei, munizioni); e i grandi proprietari terrieri, i cui possedimenti avevano conservato il loro valore anche durante la guerra. Le categorie più danneggiate furono quelle dei braccianti e degli operai che vedevano i loro salari corrosi giorno per giorno dall'inflazione. Infatti i prezzi aumentavano rapidamente, mentre i salari restavano fermi e non erano sufficienti a garantire una vita decorosa ai braccianti e agli operai. Questo stato di cose naturalmente portò alla reazione della borghesia. Vi furono rappresaglie, controdimostrazioni: e fu in questo clima turbolento che nacque il fascismo. Il suo fondatore fu Benito Mussolini che nel marzo del 1919 fondò a Milano i fasci di combattimento, che derivavano il nome da un antico simbolo romano. Il movimento ottenne l'appoggio di importanti gruppi finanziari. In un primo momento il partito fascista aveva aperture con i socialisti ma nel 1921, quando ci fu la svolta decisamente tutta a destra, Mussolini così affrontò il proletariato: "La parola socialista nel 1914 aveva un senso, ma ora è superata..... bisogna esaltare i produttori perché da loro dipende la ricostruzione.... e ci sono proletari che comprendono benissimo l’inevitabilità di questo processo capitalistico....produrre per essere forti e liberi...." - "le dottrine socialiste sono crollate, i miti internazionalistici caduti, la lotta di classe è una favola". Voi non siete tutto, siete soltanto una parte, nelle società moderne. Voi rappresentate il lavoro, ma non tutto il lavoro e il vostro lavoro é soltanto un elemento, nel gioco economico. Finché gli uomini nasceranno diversamente "dotati", ci sarà sempre una gerarchia delle capacità. - "Non basta essere in tanti, ma si deve essere preparati".
Poi Mussolini rincarò la dose "Se per gli interessi nazionali bisogna lottare contro il socialismo e se occorre sostenere i proprietari terrieri e i produttori per non causare lo sfascio della società in una rivoluzione o in una guerra civile, allora il fascismo si schiererà con la borghesia".
Il 1° agosto dell'anno precedente al suo giornale –“Il Popolo d'Italia” aveva già cambiato il sottotitolo. Da “Quotidiano Socialista” ,dopo aver ricevuto ulteriori finanziamenti dagli industriali, lo aveva abilmente sottotitolato: “Quotidiano dei combattenti e dei produttori”. Poi il 1° gennaio del 1921, sarà ancora più esplicito (arrivano i finanziamenti dei siderurgici) e da quel momento il patto con gli industriali era ormai senza più sottintesi. Nel 1921 Mussolini si presentò alle elezioni per formare un nuovo governo insomma si pensava che i fascisti potessero contrastare efficacemente i comunisti ed i sindacati. Che la loro violenza potesse frenare gli scioperi di operai e dei contadini. Tuttavia, nonostante la crisi del partito socialista non riuscì ad ottenere la guida del Paese. Nell’ottobre 1922 Mussolini radunò a Napoli migliaia di camice nere, formò un esercito e decise di prendere il potere marciando su Roma. Il capo del governo, Luigi Facta, chiese al re Vittorio Emanuele III di firmare il decreto che avrebbe fatto intervenire l'esercito. Ma il re dopo qualche esitazione si rifiutò e decise di affidare a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo (30 ottobre 1922). Il primo governo di Mussolini (1922-24) fu sostenuto dai fascisti, dai liberali e, fino al 1923, dai popolari. In questi due anni, almeno nell'attività di governo, Mussolini rispettò la legge. Perciò questa fase del fascismo è detta legalitaria. Ma le squadre fasciste continuarono nelle loro spedizioni contro i socialisti. Anzi, nel 1923 le squadracce furono organizzate nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), una vera e propria forza armata alle dipendenze di Mussolini. Anche le elezioni (6 aprile 1924) si svolsero in un clima di violenze e di irregolarità: un candidato socialista fu ucciso; a molti antifascisti fu impedito di votare. Ciononostante le opposizioni ottennero un risultato significativo: il 35, 1 % dei voti. Ma la maggioranza andò ovviamente alla lista fascista, nella quale si erano presentati anche importanti personalità liberali. Il 30 maggio 1924 il socialista Giacomo Matteotti pronunciò un coraggioso discorso alla Camera. Egli denunciò le gravissime irregolarità avvenute nel corso delle elezioni. Dieci giorni dopo Matteotti venne rapito e assassinato dagli squadristi. Il suo cadavere venne ritrovato in un bosco nelle vicinanze di Roma il 16 agosto 1924. Apparve subito chiara la responsabilità di Mussolini e dei suoi collaboratori. rappresentanti dei partiti antifascisti per protesta abbandonarono i l’aula del parlamento. Si riunirono in un'altra aula, nell'Aventino. I deputati dell'Aventino speravano di convincere il re ad intervenire contro Mussolini per ristabilire la legalità. Il re non fece nulla. Mussolini capì che poteva continuare la sua strada. E in un famoso discorso del 3 gennaio 1925 assunse l'intera responsabilità politica e morale di quanto era accaduto. A partire da questo momento il fascismo si trasformò definitivamente in una dittatura. IL 1925 è l'anno che segna la definitiva trasformazione del fascismo una dittatura e in uno Stato totalitario, questo perché Mussolini (il duce) aveva pieni poteri sullo Stato. Infatti nel 1926 vennero sciolti tutti i partiti dell'opposizione, vennero chiusi tutti i giornali antifascisti. La trasformazione dello Stato liberale in Stato totalitario fu completata con una nuova legge elettorale nel 1928. Tale legge affidò al Gran Consiglio del Fascismo, il compito di presentare un lista unica di candidati: i cittadini non potevano più scegliere i loro rappresentanti, potevano solo approvare o meno la lista proposta. Le libere elezioni erano così sostituite dai plebisciti.
Per quanto riguarda la politica interna Mussolini soppresse le libere associazioni sindacali e istituì la carta di lavoro per far si che ci fosse una collaborazione forzata tra le classi in nome dei superiori interessi della produzione; nel campo economico ci fu l’autarchia cioè l’autosufficienza della produzione nazionale;si istaurò un regime protezionista e si puntò alla rivalutazione della lira, ma questo provocò un ristagno economico, per fronteggiare la crisi Mussolini puntò sulle partecipazioni statali nelle imprese pubbliche, intraprendendo lavori di pubblica utilità e bonifiche; nel 1929 (11 febbraio) Mussolini per consolidare il regime fece degli accordi con la chiesa e così dopo lunghe trattative si arrivò ai “patti lateranensi”. La politica estera del regime fascista fu nazionalista e colonialista: nazionalista perché fu aggressiva nei confronti delle altre potenze europee; il fascismo, infatti, voleva imporre la supremazia sulle altre nazioni; colonialista perché impegnò il paese nella conquista di nuove colonie. Per Mussolini l'espansione coloniale era necessaria per due motivi: innanzi tutto avrebbe dato prestigio all'Italia; in secondo luogo avrebbe risolto il grave problema della disoccupazione, offrendo agli Italiani nuove terre da lavorare. Il primo obiettivo del progetto fascista fu l'Etiopia. Dopo la vittoria in Etiopía, sì avvicinò a Hitler. La Germania infatti non aveva disapprovato la conquista e aveva appoggiato l'Italia con rifornimenti di armi e di materie prime. Nell'ottobre 1936 si giunse alla firma dì un patto amicizia: l'Asse Roma-Berlino. L'alleanza fu rafforzata l'anno successivo, quando anche l'Italia aderì, ad un patto tedesco-giapponese contro il comunismo internazionale: il Patto anticomintern. La conseguenza più grave dell'alleanza tra Mussolini e Hitler fu l'introduzione in Italia di leggi razziali contro gli Ebrei nel 1938. Queste leggi suscitarono molte perplessità nell'opinione pubblica e la dura condanna della Chiesa cattolica e prepararono la crisi del regime che sarebbe terminata nella seconda guerra mondiale. Tra i due dittatori, comunque, l'alleanza fu rafforzata nel 1939 con il Patto d'Acciaio. Con esso le due nazioni si impegnarono reciprocamente nel caso di una guerra. Poco dopo il 1° settembre dello stesso anno Hitler invade la Polonia, Mussolini in un primo momento è riluttante ad entrare in guerra, ma poi vedendo i rapidi successi della Germania nazista ,in Francia, e credendo in una guerra lampo entra in guerra nel 10 giugno del 1940 credendo che con un esiguo numero di morti si sarebbe seduto al tavolo dei vincitori.
Modulazione FM e AM
Sia la modulazione di frequenza (FM) sia la modulazione di ampiezza (AM) sono utilizzate per il trasferimento di informazioni da un luogo, detto sorgente, ad un altro, detto destinatario.
Appunto per questo utilizzo ebbero un grande sviluppo durante l’arco della seconda guerra mondiale, perché era indispensabile la trasmissione delle varie informazioni in tempi brevi.
Prima di tutto c’è bisogni di dire che se si desidera trasmettere un segnale fonico, che ha una frequenza compresa tra 300 e 3400 Hz, si potrebbero trasmettere pochissime informazioni, dato che abbiamo una banda di frequenza molto ridotta, per questo si è utilizzata la modulazione, che permette di allocare la nostra informazione a bassa frequenza(segnale modulante) su un’altra onda ad alta frequenza (segnale portante); ora analiziamo dal punto di vista tecnico come avviene una modulazione di segnale.
Modulazione FM (frequency modulation)
La modulazione di frequenza può essere studiata in due modi estrapolati dalla formula generale di un segnale che è:
V(t)= V cos ά
Dove:
ά= Ωt+φ
La modulazione consiste nell’imprimere a ά delle variazioni proporzionali ai valori istantanei del segnale modulante. In base a questo si hanno due possibilità: far variare Ω, e in tal modo si ha la modulazione di frequenza (FM), oppure far variare φ , in questo caso si ha la modulazione di fase (PM, Phase Modulation).
Ora vediamo tramite passaggi logici matematici si arriva alla formula finale della modulazione di frequenza
Vp(t)= Vp*cos Ω0t
Vm(t)= Vm*cos ώt
Sapendo che:
ώ= 2 π f t
abbiamo:
Vp(t)= Vp*cos 2 π F0 t
Vm(t)= Vm*cos 2 π f t
Sono le espressioni rispettivamente dell’onda portante e del segnale modulante (ssupposto sinusoidale); la modulazione istantanea del segnale modulato risulta:
Ω(t)= Ω0+Kf* Vm(t)
Che possiamo screivere come:
Ω(t)= Ω0+Kf* Vm*cos ώt
Dove nella formula Kf è la costante di modulazione; ora si può fare un ulteriore semplificazione prendendo in considerazione quanto detto prima riguardo ad ώ:
2 π F (t) = 2 π F0 +Kf *Vm*cos ώt
ra dividendo tutto per 2 π abbiamo:

Ora ponendo uguale a ΔF (deviazione di frequenza) che rappresenta la massima differenza fra la frequenza della portante della portante modulata e la frequenza della portante non modulata; addesso abbiamo:
Essendo il nostro segnare modulato ugale a:
V(t)= Vp * cos θ(t)
Possiamo scrivere:
θ(t)= Ω(t)*t
per avere le variazioni istantanee:
dalla formula inversa per trovatre θ(t) si ha:
θ(t)= ∫ Ω(t)*dt
sostituendo a Ω(t) quello ricavato precedentemente si ha:
Utilizzando le proprietà degli integrali possiamo scrivere:
Infine svolgendo:
Ora tornando alla nostra formula possiamo scrivere:
sontituendo ώ abbiamo:
Che è uguale a:
che si pone uguale a:
mf
Per questo la formula risulta, dopo gli svolgimenti:
In cui mf (indice di modulazione di frequenza) rappresenta il rapporto tra la deviazione di frequenza (ΔF) e la frequenza del segnale modulante.
Applicando la formule trigonometriche di addizione alla formula ricavato si ha:
V(t)= Vp[cosΩ0t*cos(mf*senώt)-senΩ0t*sen(mf*senώt)]
Questa formula esprime un insieme di onde sinusoidali di estensione teoricamente infinita. Infatti cos(mf*senώt) e sen(mf*senώt) si possono sviluppare in somme di funzioni sinusoidali con le formule di bessel:
Cos(mf*senώt)=J0(mf)+2J2(mf)*cos2ώt+2J4(mf)*cos4ώt+…
sen(mf*senώt)=2J1(mf)*senώt+2J3(mf)*sen3ώt+…
Si vede quindi che lo spettro di un segnale modulato in frequenza con un segnale modulante sinusoidale contiene un onda a frequenza della portante, ma con infinite onde laterali. Le ampiezza di queste onde laterali e anche l’ampiezza della portante , sono funzioni dell’indice di modulazione mf secondo i coeficienti delle funzioni di bessel fornti dal grafico
In pratica la larghezza di banda ha valore finito, perché le onde laterali più lontane dalla portante assumono ampiezza trascurabile. Infatti dall’esame delle curve di bessel si vede che il numero delle righe spettrali da prendere in considerazione è pari a mf+1, per tanto la larghezza di banda ha la seguente formula:
B= 2(mf+1)*f
Ricordando che:
possiamo scrivere:
Che dopo gli opportuni svolgimenti matematici è uguale:
B= 2(ΔF+f)
Modulazine AM (Amplidute Modulation)
Per modulazione di ampiezza si intende l’operazione con cui si fa variare l’ampiezza di un segnale, detto portante, proporzionatamente ai valori di un altro segnale, detto modulante, contenente l’informazione da trasmettere.
Prendendo in considerazione che i segnali che si utilizzano sono sinusoidali abbiamo le seguenti espressioni:
Vp(t)= Vp cos Ωt
Vm(t)= Vm cos ώt
Ci sono però alcune condizioni da considerare per il segnale portante che sono :
Vp≥Vm; Ω=2πF>ώ=2πf
Il segnale modulato avrà un’espressione del tipo:
V(t)= [Vp+ Ka*Vm(t)]*cosΩt
Dove andando a sostituire abbiamo :
V(t)= (Vp+ Ka*Vm*cos ώt)*cosΩt
Dove Ka è la costante di modulazione, andado a svolgere le operazioni matematiche la formula risulta:
V(t)= Vp*cosΩt+ Ka*Vm*cos ώt*cosΩt
Mettendo in evidenza Vp si ha:
dove è uguale a m che deve essere minore o uguale ad uno (m≤1), in questo caso la formula diventa, dopo avere svolto i passaggi matematici:
V(t)= Vp*cosΩt+m*Vp*cos ώt*cosΩt
Applicando le formule trigonometriche di addizione e sottrazione del coseno si ha, ponendo ώ= β Ω= α:
cos (α-β)=cos α*cos β +sen α*sen β
cos (α-β)=cos α*cos β-sen α*sen β
sommando le due formule si ottiene:
cos (α-β) + cos (α-β)=2 cos α*cos β
che si può screvere pure come:
andando a sostituire nella formula si ha:
che svolgendo la moltipicazione si può scrivere:
Si può dedurre dalla formula che il segnale modulato è composto dall’onda portante più due onde laterali simmetriche rispetto alla portante, come in figura:
Per questo la banda è uguale a:
B=2f
Si può notare che ciascuna delle due onde laterali contiene i parametri caratteristici del segnale modulante. Ne deriva che si può anche trasmettere una sola onda laterale come nella configurazione SSB, ma questo comporta dei svantaggi per quanto riguarda la demodulazione del segnale che sarà più complessa e costosa dal punto di vista circuitale.
Per quanto riguarda la potenza Pt del segnale modulato deriva dalla somma della potenza Pp relativa alla portante e di quella Pm associata alle due onde laterali
dalle due formule possiamo ricavare che:
ora procedendo:
Pt=Pm+Pp
mettendo in evidenza Pp abbiamo:
Da questa espressione si vede che il grosso della potenza modulata è associato all’onda portante.
Differenze
Ora analiziamo delle differenze che si contrappongono tra le due diverse modulazioni:
Il segnale AM ha una minore resistenza ai diturbi e alle variazioni dell’attenuazione introdotta dal mezzo trasmissivo, mentre il segnale FM ha una maggiore resistenza ai disturbi e alle variazioni dell’attenuazione introdotta dal mezzo trasmissivo.
La banda occupata da segnali modulati AM con modulante sinusoidale di frequenza f1 è 2 f1, la banda occupata dai segnali FM è infinita.
La componente di frequenza fp del segnale AM ha ampiezza costante al variare di ka, mentre l'ampiezza della componente di frequenza fp del segnale FM varia al variare di kf come la funzione di Bessel di ordine zero.
I circuiti di demodulazione FM sono più complessi dei circuiti in uso per la demodulazione AM.
Gli integrali
Gli integrali sono fondamentali per lo studio delle funzioni che molto spesso si affrontano in altre materie quali le telecomunicazioni e l’elettronica. Gli integrali per definizione si dico che sono l’inverso della derivata e si divido in definiti e indefiniti.
Integrali indefiniti
Si definisce integrale indefinito di una funzione f(x), e si indica con il simbolo ∫f(x)dx, ogni espressione F(x)+C con F(x)primitiva di f(x); la C (numero) è una costante, visto che quando si procede ad una derivazione le costanti sono uguali a zero non si può sapere che numero sia C o se non ci sia proprio. In oltre nella funzione definiamo f(x) funzione integranda, mentre f(x) dx è detta espressione integranda. Ora esponiamo le proprietà degli integrali indefiniti nella seguente schema:
• L’integrale del prodotto di una funzione per una costante è uguale al prodotto della costante per l’integrale della funzione.
∫ K * f(x) dx = K * ∫ f(x) dx
• L’integrale della somma algebrica di duo o più funzioni è uguale alla somma algebrica degli integrali delle singole funzioni
∫[f1(x)+f2(x)+…………+fn(x)] dx = ∫ f1(x)+ ∫ f2(x)+………+∫ fn(x)
• Per tanto possiamo scrivere anche:
∫[K1*f1(x)+K2*f2(x)+……+Kn*fn(x)]dx=K1*∫f1(x)+K2*∫f2(x)+……+Kn*∫fn(x)
Ci sono vari metodi di calcolo di un integrale, iniziamo con esporre il metodo di sostituzione; Questo metodo viene applicato quando ci sono funzioni f(x) integrabili il cui calcolo della primitiva è semplificato se si sostituisce nell’espressione integranda la variabile x , ponendo X = t dove t è una funzione continua che ha derivata continua ed ammette funzione inversa; esempio:

se sostituiamo √x = t avremo che x = t2 e che dx = 2t dt, andando a sostituire nella funzione avremo :
apportando le varie semplificazioni avremo:
Ora applicando la seconda proprietà prima esposta otteniamo:
ora svolgendo abbiamo :
e sostituendo avremo:
Metodo d’integrazioni per parti
Questo metodo è usato per l’integrazione delle espressioni che si possono esprimere in forma di prodotto di due fattori u e v ; ora partiamo da due funzioni generiche f(x) e g(x) e procediamo alla derivazione di un prodotto, d[f(x)* g(x)] = f’(x) * g(x) + f(x) * g’(x) che possiamo scrivere come
f’(x) * g(x) = d[f(x)* g(x)] - f(x) * g’(x) se ora integriamo entrambi i membri di questa relazione otteniamo: ∫ f’(x) * g(x) = f(x)* g(x) - ∫ f(x) * g’(x) ; esempio:
∫ x * ex dx
in questo caso ex sarà f’ e x sarà g perciò atteniamo:
x * ex - ∫ 1 * ex dx
che sarà uguale a:
x * ex – ex + C
Prima di passare all’integrazione definita metto di seguito vari tipi di integrali:
INTEGRALI ELEMENTARI
se r 1

ALCUNI CASI PARTICOLARI
INTEGRALI TRIGONOMETRICI
INTEGRALI CONTENENTI EXP(X) O LN(X)
INTEGRALI DI FUNZIONI TRIGONOMETRICHE INVERSE
INTEGRALI CONTENENTI e
Integrali definiti
Innanzitutto è importante definire una funzione f(x) continua e limitata nell’intervallo [a,b] , partendo dalla definizione geometrica dell’integrale cioè l’aera di un trapezoide costruito sotto la curva della funzione studiata:

Per dare però una definizione rigorosa dell’area di un trapezoide che come si può notare è delimitata dalla linea curva che rappresenta l’andamento della funzione, bisogna fare un piccolo artificio. A tale scopo dividiamo l’intervallo [a,b] in un certo numero n di parti uguali e, detta ∆x = (b-a)/n l’ampiezza comune di ciascuna di queste parti, consideriamo le seguenti somme:
sn = m1h+m2h+…+mnh
Sn = M1h+M2h+…+Mnh
Ove mi indica il minimo della f(x) nell’intervallo, mentre Mi indica il massimo della f(x) nello stesso intervallino.
Quindi è evidente che per un qualunque n risulterà sempre:
sn ≤ Sn

In pratica il numero sn rappresenta la somma delle aree degli n rettangoli aventi per base, rispettivamente, gli intervallino in cui è stato diviso l’intervallo [a,b] e per altezze le ordinate minime mi dei punti della curva in tali intervallino. Mentre il numero Sn rappresenta la somma delle aree degli n rettangoli aventi le stesse basi e per altezze le ordinate massime Mi.
L’insieme dei primi rettangoli costituisce una figura che si chiama plurirettangolo inscritto nel trapezoide; quello dei secondi si chiama plurirettangolo circoscritto. Perciò sommando le aree di queste figure si può approssimativamente risalire a quella del trapezoide, infatti con il punto di minimo ci sarà un approssimazione per difetto, mentre con quello di massimo per eccesso. Per ottenere l’area reale del trapezoide dovremmo aumentare all’infinito il numero degli intervalli, infatti:
lim sn = lim Sn
nn n

si ottiene in questo modo il vero valore dell’integrale definito della f(x) nell’intervallo [a,b] (b>a):

La stabilità
La stabilità è una delle caratteristiche indispensabili in molti sistemi, tranne in quelli che la sfruttano. Per far si che un sistema sia stabile c’è bisogno di alcune condizioni quali:
1) Rimanere a riposo se non sollecitato da un segnale esterno
2) Se soggetto ad un segnale perturbatore, quando questo cessa il sistema deve tornare nel suo stato di riposo.
Se queste condizioni sono soddisfatte il nostro sistema si può definire stabile. Per studiare la stabilità di un sistema il modo più adatto è quello di calcolare la funzione di trasferimento e applicare al sistema un impulso unitario, la cui durata è nulla, S(t) e osservare la risposta V(s):
V(s) = G(s)* E(s) ma essendo E(s) = L [S(t)] = 1 di conseguenza
Ora supponendo inizialmente il sistema in condizione di riposo, con l’uscita uguale a zero; il sistema sarà stabile se la risposta all’impulso unitario tenderà a zero per t→∞; mentre sarà instabile se l’uscita non tenderà a zero per t→∞; c’è inoltre una terza possibilità che però è solo teorica, cioè che la risposta del sistema sia tendente ad un valore costante o che oscilli entro valori stabiliti. Di seguito riporto uno schema:
lim vu(t)=0 Sistema stabile
t→∞
lim vu(t)=∞ Sistema instabile
t→∞
lim vu(t)=K o K1 L’errore di linearità: si verifica se ad ogni incremento del segnale digitale non corrisponde lo stesso incremento della tensione.
==> Transitori spuri: quando due o più bit devono commutare insieme si possono creare picchi di tensione. Come mostra la figura 5, prima che la Vu si assesti al valore 6 V è presente anche un picco di tensione.
Figura 5
==> Settling time: è il tempo necessario al DAC per stabilizzarsi al valore finale dell’uscita.
Tipi di convertitori D/A (DAC).
Convertitori a resistenze pesate.
In figura 6 è riportato lo schema del DAC a resistenze pesate a 4 bit.
Figura 6
Il circuito è composto da una rete di resistenze, da un convertitore cor-rente/tensione realizzato con un amplificatore operazionale e da alcuni deviatori. I deviatori sono utili nel nostro caso per descrivere il compo-rtamento del circuito. Nella realtà al posto dei deviatori c’è una rete digitale che fornisce in uscita i livelli di tensione alti e bassi (corrispon-denti ai valori logici 1 e 0).
Il numero di resistenze e di deviatori è pari al numero di bit del DAC. Il deviatore consente di collegare la resistenza a massa se il bit vale 0 o al potenziale di riferimento Vfs se il bit vale 1. Di conseguenza in ogni resi-stenza c’è un passaggio di corrente soltanto se il bit associato vale 1 in modo da avere una differenza di potenziale pari a Vfs ai capi della stessa resistenza. In caso di bit 0 i due morsetti della resistenza sono a massa e quindi non ci può essere passaggio di corrente.
La corrente che circola in ogni resistenza deve essere tale da dare ad ogni bit il proprio peso in funzione della sua posizione, secondo il principio della conversione. Il valore della corrente deve essere maggiore per il bit più significativo (MSB) per poi diminuire per i bit meno significativi. Si procede dunque collegando al MSB la resistenza minore e raddoppiandone il valore per il bit successivo fino al LSB per il quale la resistenza è 2n-1 volte maggiore rispetto alla prima.
Ad esempio nel caso si DAC a 4 bit: (a3a2a1a0) al bit a3 associamo una resistenza 2R (R è il valore presente nel convertitore corrente/tensione), al bit a2 colleghiamo una resistenza doppia della prima 4R, ad a1 la resistenza 8R ed infine ad a0 la resistenza 16R.
Il convertitore corrente - tensione effettua la somma delle correnti. Verifichiamo che la tensione in uscita del convertitore è proporzionale al codice d’ingresso.
I = I0 + I1 + … + In-1
Vu = -RI =-R (I0 + I1 + … + In-1)
dove
Tralasciando il segno, che rappresenta l’inversione di fase possiamo
scrivere:
L’impiego di questi tipo di convertitori D/A è limitato perché presentano alcuni inconvenienti:
==> Il valore delle resistenze cresce secondo le potenze del due, fino a raggiungere valori notevoli se il numero di bit del DAC è elevato (RLSB=2nR), non è possibile ovviare a questo problema prendendo un valore di R troppo basso se si vuole garantire un corretto funziona-mento dei deviatori elettronici.
==> Difficoltà di avere resistenze con valori così diversi e stessa preci-sione.
==> La corrente erogata da Vr dipende dalla combinazione dei bit in ingresso.
Convertitori D/A con rete di tipo R-2R.
Questo tipo di convertitore D/A sfrutta, per la conversione, lo stesso principio di quello a resistenze pesate ma presenta il vantaggio di utilizza-re resistenze di due soli possibili valori R e 2R. Esistono due tipi di DAC di questo genere:
==> a rete R-2R;
==> a rete R-2R invertita;
Convertitore R-2R.
Nelle figure 7 e 8 sono riportati gli schemi del convertitore D/A R-2R a n bit e 4 bit.
Figura 7
Figura 8
La rete di resistenze è tale che da ogni nodo Ai la resistenza vista verso destra e verso sinistra vale sempre 2R. In figura 9 è riportato l’esempio del nodo A2 (i generatori sono cortocircuitati).
Figura 9
R8 è a terra per il cortocircuito virtuale (V- = V+ = 0).
Verso sinistra: R12= R1//R2 =R; R’ = R12 + R3 = 2R; si ottiene allora Rsin= R’//R4 + R5 = 2R.
Verso destra: R78= R7//R8 =R; Rdes= R78 + R6 = 2R.
Di conseguenza la resistenza che è vista da ciascun deviatore è
2R + Rsin//Rdes = 3R (fig.10).
Figura 10
Così in tutte le resistenze collegate ai deviatori circola lo stesso valore di
corrente
Questa corrente in ogni nodo che incontra si divide in due parti uguali perché Rdes = Rsin.
Come nel caso di DAC a resistenze pesate occorre fare in modo che ad ogni bit sia dato il proprio peso in funzione della sua posizione, così il con-vertitore corrente – tensione effettua la giusta combinazione lineare fornendo in uscita una tensione proporzionale al codice. Al bit più significativo an-1 viene associata la corrente massima che vale:
perché subisce una sola divisione nel nodo An-1. Le correnti che corrispondono ai bit meno significativi subiscono un numero di partizioni che aumenta spostandosi verso sinistra nella figura 7. Infatti la corrente
associata al bit meno generico subisce n –k divisioni (n nodi) e vale:
Di conseguenza la corrente corrispondente al LSB a0 vale:
La tensione Vu = -3RIu nella quale la corrente Iu è la somma delle correnti
provenienti dai deviatori con il bit 1, risulta, trascurando il segno meno,
La tensione in uscita dal DAC è veramente proporzionale al codice in ingresso.
Convertitore a rete R-2R invertita.
Lo schema del convertitore D/A a rete R-2R invertita è riportato in figura 11.
Figura 11
Il deviatore permette di collegare la resistenza a terra, nel caso di bit 0, o al morsetto invertente dell’amplificatore operazionale, se il bit vale 1.
Essendo il potenziale del morsetto invertente comunque pari a zero (V-= V+=0 V), il valore della corrente che circola nella resistenza collegata al deviatore rimane lo stesso indipendentemente dalla posizione del devia-tore stesso. Quando il bit vale 1 questa corrente passa nel convertitore dando il proprio contribuito alla tensione d’uscita.
La resistenza vista da ogni nodo Ai verso terra vale R; in figura 12 è mo-strato l’esempio del nodo A2.
Figura 12
Per calcolare la resistenza vista da A2 si produce nel seguente modo:

Di conseguenza anche la resistenza vista dal generatore (nodo A3) vale R e la corrente erogata (I) rimane costante
indipendentemente dalla parola binaria da convertire. Questa corrente si divide, in ogni nodo che incontra, in due parti uguali.
La conversione avviene come nel DAC a rete R-2R: il valore della corrente che circola nella resistenza associata al deviatore deve essere maggiore per il bit più significativo (MSB), per poi diminuire per i bit meno signifi-cativi. Illustriamo il caso del DAC a 4 bit (fig. 9).
Le correnti valgono:
e quindi la tensione di uscita sarà Vu = -R•Itot.
Sostituendo i valori delle correnti e trascurando il segno meno si ha:
La tensione in uscita dal convertitore è proporzionale al codice.
Il convertitore D/A a rete R-2R invertita rappresenta la soluzione più diffusa tra i componenti commerciali. Infatti con questa soluzione
==> le resistenze hanno soltanto due valori possibili R e 2R;
==> la corrente erogata da Vfs è costante;
==> la corrente circolante nelle resistenze è indipendente dalla parola in
ingresso così si evitano i disturbi dovuti alle commutazioni.
Il PLC
(Programmable Logic Controller)
Con lo sviluppo delle nuove reti e dei nuovi standard nei linguaggi di programmazione, i PLC di oggi hanno raggiunto una maturità ed una struttura tale che stanno insidiando le basi dei vecchi sistemi DCS.
L’avvento dei sistemi di supervisione su Personal Computer ha inoltre completato il sistema di controllo di macchina e di fabbrica basato su PLC, che alla sua nascita mancava di uno strumento per registrare l’andamento della produzione e delle anomalie agli impianti.
Nonostante i fautori dei sistemi DCS siano ancora convinti che non esistano alternative ad esso, l’evoluzione dei PLC li smentisce nei fatti.
Con l’installazione di PLC connessi in reti altamente veloci, oggi si possono costituire dei sistemi di controllo distribuiti in modo molto economico ed altamente efficiente, facendo diventare ormai completamente superato il concetto di DCS
I vantaggi del PLC
Utilizzare un PLC per realizzare un impianto di automazione comporta una serie di vantaggi sia per chi lo installa che per chi lo utilizza.
In particolare si evidenzia che :
•••il cablaggio di un quadro di automazione diventa elementare in quanto basta portare ciascun segnale individualmente sulla morsettiera del PLC;
•••è semplice controllare eventuali anomalie o scoprire guasti;
•••è possibile programmare centinaia di relè ausiliari, temporizzatori e contatori senza aumentare lo spazio occupato nel quadro;
•••è possibile, tramite il software di programmazione, modificare il funzionamento dell’automatismo anche mentre questo è in funzione o con pause di pochi istanti;
•••è possibile adattare il funzionamento alle esigenze di produzione (ad es. per un cambio formato), sostituendo il programma;
•••alta affidabilità del prodotto : i casi di guasto sono rarissimi se non sconosciuti.
Tipologie di PLC:
Per impianti o macchine complesse sono invece convenienti i modelli modulari che possono superare i 1024 imput/output, hanno grande flessibilità, ed un’ampia gamma di moduli.
Normalmente per comporre un PLC modulare è necessario partire da un telaio vuoto, denominato rack, dotato di opportune sedi, detti slot, nel quale inserire un alimentatore, la CPU, e quindi tutti i moduli necessari per soddisfare le necessità.
Controllori a logica programmata:
Al fine di semplificare la costruzione di circuiti per il controllo di macchine ed impianti, l’elettronica industriale ha ideato i “controllori a logica programmabile” (comunemente chiamati PLC), dispositivi nei quali la vecchia logica cablata viene invece programmata all’interno di un microprocessore.
La loro caratteristica fondamentale sta nel fatto che pur essendo dispositivi elettronici, e quindi funzionanti a bassissima tensione, si adattano a funzionare negli ambienti industriali con notevoli disturbi ed elevate correnti elettriche.
Al loro interno, infatti, si trova un microprocessore di tipo semplice ma di elevata affidabilità e dotato di particolari interfacce di ingresso/uscita che lo possono connettere direttamente a segnali elettrici di impianti e macchinari.
Il funzionamento di un PLC è abbastanza semplice :
•••In primo luogo le interfacce di “ingresso” acquisiscono lo stato dei segnali provenienti da pulsanti, sensori e contatti;
•••In una seconda fase il microprocessore, elaborando il programma sulla base degli ingressi e dei dati interni, produce dei segnali che vengono inviati alle interfacce di uscita;
•••Nella terza fase i segnali di uscita sono trasmessi agli attuatori (motori, elettrovalvole, consensi, ecc.) che mettono in moto la macchina.
Questa elaborazione, o meglio ciclo, dura tipicamente 10 ms ed è continuamente ripetuta (circa 100 volte al secondo) cosicchè da dare l’impressione che tutte le operazioni vengono eseguite istantaneamente senza alcuna interruzione. Il programma caricato nel PLC deve essere realizzato dall’utente a seconda del funzionamento che deve ottenere nella propria macchina o nel proprio impianto.
Oggi tipicamente per programmare un PLC si utilizzano software su Personal Computer con sistema operativo che varia a seconda della marca del PLC, per il cui utilizzo non sono necessarie particolari conoscenze di informatica.
La CPU
L'unità centrale di un PLC è costituita da un microprocessore dedicato specificatamente allo scopo e nel quale l'utilizzatore è libero di inserire qualsiasi tipo di programma.
Il programma normalmente opera in modo da attivare le uscite a seconda dei segnali acquisiti dagli ingressi, e si possono creare infinite tipologie di programmi.
All'atto dell'acquisto sarà necessario scegliere il tipo di CPU (più o meno veloce, potente, ecc..) e la quantità di memoria di cui dotarla : tutto ciò dipende dalla complessità del programma che si dovrà realizzare e dai modelli disponibili sul mercato.
La CPU normalmente è dotata di una porta seriale con la quale :
- In fase di installazione si collega il PC con il software di programmazione
- In fase di funzionamento si può collegare un display o una tastiera per i setpoint che deve inserire l'operatore.
Una seconda porta seriale può essere utilizzata per costituire una rete di PLC (come si usa fare con i personal computer) utile in impianti dove un PLC principale debba controllare altri PLC di macchine o impianti secondari.
Negli impianti particolarmente estesi o complessi i PLC sono collegati in rete assieme ad uno o più Personal Computer, nei quali viene installato un apposito software di supervisione.
L’affidabilità dei PLC è oggi universalmente riconosciuta, soprattutto perché si hanno ben poche notizie di guasti durante il funzionamento, anche se vengono usati costantemente 24 ore al giorno e spesso anche 365 giorni all’anno.
Alimentazione del PLC
Al momento dell’acquisto, sia per i compatti, che per i modulari, occorre scegliere il tipo di alimentazione per la CPU, che normalmente può essere in corrente continua 24Vcc, oppure in alternata 50/60 Hz 230V :
I modelli a 24 Vcc occupano solitamente meno spazio e sono meno costosi, ma hanno bisogno di un alimentatore stabilizzato; sono comunque necessari in tutti quei casi in cui il PLC è tenuto in tampone con un gruppo di batterie.
I modelli a 230 Vac (spesso con un range da 100 fino a 240V) sono solitamente poco più grandi, ma permettono all'utente di prelevare anche una a 24Vcc di circa 200-300 mA da utilizzare per gli ingressi.
Gli ingressi digitali
Per ingressi digitali si intendono quei morsetti del PLC ai quali può essere collegato un contatto on/off (digitale), quale un termostato, pressostato, finecorsa, pulsante ecc.
Normalmente per gli ingressi digitali si utilizza la tensione 24Vcc, quindi nel quadro con il PLC si rende necessario l'installazione di un alimentatore a loro dedicato.
Per separare i circuiti interni della CPU con la tensione proveniente dall’impianto, ogni scheda di ingresso è dotata di appositi optoisolatori (detti anche fotoaccoppiatori), che resistono a differenze di potenziale anche di 1500 V (tensione di isolamento).
Dato che all'interno del PLC, ogni ingresso è dotato di un diodo LED, si deve considerare, per ciascuno di essi, un assorbimento di circa 10 mA.
All’esterno del PLC, ogni ingresso ha una lampadina rossa che segnala il suo stato di on/off : è questa che permette già un rapido riscontro sulla presenza di guasti tra le apparecchiature collegate al PLC.
Normalmente il positivo è sul campo, mentre il negativo è il comune degli ingressi, quindi “la corrente entra nel PLC”.
E’ necessario tenere presente che gli ingressi digitali non possono acquisire segnali che variano troppo velocemente nel tempo : generalmente un ingresso perché venga letto dal programma deve permanere almeno 0.5 secondi.
Le uscite digitali:
Possono essere costituite da transistor (per circuiti in corrente continua), triac (per circuiti in corrente alternata fino a 250V) ma normalmente si usano relè elettromeccanici con portata variabile tra 1 e 2A .
Per correnti superiori è necessario appoggiarsi a relè o contattori, ma per azionare grossi contattori è necessario un relè intermedio.
Sul manuale del PLC si deve verificare l'esatta portata del contatto del relè che si deve confrontare con la corrente di spunto del contattore o della bobina (il carico non è mai collegato direttamente all'uscita).
I segnali analogici:
Ingressi analogici:
Per acquisire un segnale analogico è necessario un apposito modulo di ingressi
analogici, che possono essere in tensione (a0010 V) o in corrente (0120 mA). Per segnali analogici provenienti da termocoppie o da termoresistenze è necessario usare moduli speciali, ma non tutti i costruttori li hanno a catalogo.
In questo caso si deve provvedere ad acquistare la termocoppia o la termoresistenza completa di un convertitore con in uscita un segnale
normalizzato 0-10V o 4-20 mA.
Uscite analogiche:
Per comandare dispositivi che necessitano di regolazione analogica è invece
necessario installare un modulo di uscite analogiche.
In certi casi è utile verificare la praticità di acquistare un modulo misto, ossia
dotato di 2 ingressi e 2 uscite analogiche.
Schede di ingresso:
Tutte le informazioni che arrivano dall’esterno posso essere definiti come segnali di ingresso, tali segnali sono da intendersi sempre come segnali digitali, quindi con i due stati sempre ben precisi:
- Stato logico 1 ( tensione presente )
- Stato logico 0 ( tensione non presente )
Le schede di ingresso quindi fungono in un certo senso, da interfaccia tra la logica del PLC ed il mondo esterno.
Uno dei compiti svolti dalle schede di ingresso, è quello di adattabilità del livello e delle caratteristiche del segnale. Infatti, mentre la tensione di funzionamento interna al PLC è di 5V, i segnali provenienti dall’esterno possono essere di diversi livelli di tensione come: 24V, ma anche 48V, 110V, 220V.
Uno dei motivi di base della scelta di questi livelli di tensione per gli ingressi, è quello di poter offrire le necessarie garanzie in ambienti industriali particolarmente disturbati.
In genere le schede di ingresso presentano, dal punto di vista quantitativo, un numero di ingressi multiplo di due. I valori più usati sono 8, 16, 32 ingressi per scheda.
Ci sono altre funzioni molto importanti delle schede di ingresso, che possiamo riassumerle brevemente in questo specchietto:
• Riconoscimento sicuro e affidabile del livello 0 oppure 1 dei segnali,
• Trasferimento di questa informazione alla logica interna del PLC,
• Protezione della logica interna da eventuali sovratensioni tramite isolamento galvanico,
• Soppressione dei segnali di disturbo,
• Adattamento del segnale di ingresso ai livelli di tensione della logica interna della Cpu.
Schede di uscita:
Le schede di uscita rappresentano sostanzialmente l’interfaccia tra il programma, elaborato dalla Cpu del controllore e gli attuatori che agiscono sull’impianto da controllare.
L’adattamento dei segnali di uscita sarà effettuato prelevando le eventuali tensioni interne di comando a 5 V provenienti dal PLC e trasformandole in tensioni predefinite, per il pilotaggio degli attuatori.
Metodi di programmazione con il programma Step 5:
Ora analizziamo il metodo di programmazione del PLC con il programma step 5.Il linguaggi dello Step 5 è utilizzato dei controllori a logica programmabile della serie Siemens S5. Con lo Step 5 si può tradurre una serie di comandi in tre diversi modi di rappresentazione:
• Rappresentazione tramite schema a contatti (KOP)
• Rappresentazione tramite schema a simboli logici (FUP)
• Rappresentazione tramite lista istruzioni (AWL)
Andiamo a vedere nello specifico i tre linguaggi di programmazione:
Rappresentazione tramite schema a contatti (KOP)
La rappresentazione KOP è una rappresentazione grafica dei compiti del PLC con i simboli usati negli USA. Sono disponibili simboli per le interrogazioni dello stato del segnale “1” oppure “0” che vengono ordinati in segmenti orizzontali sul video del dispositivo di programmazione. Esiste per tanto un’affinità con lo schema elettrico di una logica cablata.
Rappresentazione schema a simboli logici (FUP)
La rappresentazione FUP è una rappresentazione grafica dei compiti del PLC con i simboli delle porte logiche. Le singole funzioni vengono quindi rappresentate con un simbolo. Nella parte sinistra del simbolo vengono ordinati gli ingressi, nella parte destra invece le uscite.
Rappresentazione lista istruzioni (AWL)
La lista istruzioni AWL rappresenta i compiti del PLC sotto forma di codici mnemonici. Tutte le funzioni possono venir programmate ed anche trasferite al dispositivo di programmazione. I singoli modi di rappresentazione possono essere commutati tra di loro tramite il PG. Il dispositivo di programmazione è in grado di tradurre qualsiasi schema a simbolo logici o a schema contatti nel corrispondente schema in lista istruzioni. Ciò non significa che tutti i programmi in AWL possono essere tradotti in FUP o KOP. Il programma elaborato viene registrato nella memoria del PLC come codice macchina MC5.
L’imprenditore e l’impresa
L’imprenditore
Il C.C. non ci da la definizione di impresa ma quella di imprenditore:
l'imprenditore è colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata allo scopo della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Gli elementi, dal punto di vista giuridico, occorrenti per essere un imprenditore sono:
- la professionalità;
- l'economicità;
- l'organizzazione;
- lo scopo della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Per essere professionale l'attività imprenditoriale deve essere svolta in modo abituale e deve avere una certa sistematicità o regolarità nel tempo.
Quindi sono attività imprenditoriali anche i lavori stagionali come quelli degli impianti sciistici; invece un singolo atto produttivo o più atti ma isolati non danno luogo all'esercizio di un impresa.
Per essere definito imprenditore, il soggetto, può svolgere più attività o ricavare prevalentemente il suo reddito da un'altra.
L'attività esercitata dall'imprenditore deve essere economica, cioè deve essere idonea a coprire i costi con i ricavi e quindi non essere destinata già dall'inizio ad operare in perdita anche se in concreto subirà delle perdite.
Giuridicamente quindi non sono attività economiche i soggetti o gli enti che offrono beni o servizi gratuiti o ad un prezzo inferiore alloro costo di produzione.
Per far si che l'attività sia organizzata, l'imprenditore deve avere a sua disposizione degli elementi personali (dipendenti) e reali (capitali) da organizzare, come enuncia la definizione economica di imprenditore; ma secondo la dottrina prevalente l'organizzazione degli elementi personali può mancare invece sono indispensabili quelli reali.
Infine l'attività dell'imprenditore deve avere come scopo la produzione o lo scambio di beni o servizi per soddisfare i bisogni dei consumatori e degli utenti dando luogo sempre ad uno scambio; quindi non è un'impresa la produzione di beni o servizi destinati all'autoconsumo (ad esempio chi costruisce una casa per andare ad abitarci).
Le imprese sono dirette:
- alla produzione e scambio di beni (ad esempio le imprese industriali);
- alla produzione e scambio di servizi (ad es. imprese bancarie);
- allo scambio di beni (ad esempio imprese mercantili).
L’impresa
Come detto prima il C.C. non da una definizione di impresa, per questo noi la definiremo come un attività svolta dall’imprenditore.
L'impresa ha inizio con il compimento del primo atto di gestione, cioè con il primo atto relativo alla produzione o lo scambio di beni o servizi (ad es. l'apertura di un locale).Invece l'impresa cessa, dal punto di vista giuridico, con la liquidazione di tutti i rapporti giuridici relativi all'esercizio dell'imprese, (ad esempio il pagamento dei debiti) anche se la produzione o lo scambio è terminata precedentemente.
L’impresa inoltre si distingue per:
1. Dal punto di vista dell’ATTIVITA’:
IMPRESA AGRICOLA
IMPRESA COMMERCIALE
Perché bisogna operare questa distinzione?
Perché all’imprenditore agricolo non si applica lo statuto dell’imprenditore commerciale, cioè non si applicano una serie di disposizioni che invece trovano applicazione nei confronti dell’imprenditore commerciale come le procedure concorsuali(fallimento, concordato preventivo e amministrazione controllata).
IMPRENDITORE AGRICOLO: ART. 2135 – E’ imprenditore agricolo colui che esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura.
In sostanza, questa nozione di impresa agricola si fondava sull’individuazione di attività agricole principali (o attività essenzialmente agricole) e attività agricole per connessione. ATTIVITA’ AGRICOLE PRINCIPALI = Silvicoltura (coltivazione del bosco).
Allevamento del bestiame.
Coltivazione del fondo.
Qualsiasi forma di coltivazione o qualsiasi forma di allevamento, anche intensivo, da luogo ad impresa agricola o dobbiamo qualificare questa attività come commerciale?
L’interpretazione che viene data dall’articolo 2135, nel punto in cui individua le attività essenzialmente agricole, è che queste attività devono essere attività che sfruttano le radici genetiche della terra: se non c’è il fattore produttivo terra, allora non c’è impresa agricola. Le coltivazioni artificiali non sfruttano il fattore produttivo terra. L’allevamento del pollo in batteria non sfrutta il fattore produttivo terra. Quindi, questi non sono imprenditori agricoli, pur svolgendo un’attività di coltivazione, pur svolgendo un’attività di allevamento.
Quando possiamo dire che un allevamento sfrutta il fattore produttivo terra?
Quando utilizza per l’alimentazione prodotti che provengono dalla terra, o quando è svolto in forma fortemente intensiva. Applicando un criterio di questo genere, dato che da noi degli allevamenti intensivi ce ne sono pochissimi, tutte le volte che si doveva andare a stabilire se un imprenditore era da considerare agricolo o meno, bisognava andare a verificare se comunque c’era un collegamento con lo sfruttamento della terra tale da poter ritenere che l’allevamento si svolgesse quanto meno in collegamento con l’attività di coltivatore del fondo.
A volte poi bastava che l’allevatore possedesse un terreno la cui entità fosse tale da essere paragonabile con il numero di capi che si trovava ad allevare.
Problemi agricoli non meno seri erano posti dalle attività agricole per connessione.
Cosa sono le attività agricole per connessione?
Il secondo comma dell’articolo 2135 ne individuava due fondamentalmente: attività di trasformazione e vendita del prodotto agricolo.
ESEMPIO: trasformazione dell’uva in vino.
L’attività agricola per connessione presuppone che si tratti di attività svolta dallo stesso soggetto che svolge l’attività principale e utilizzando quantomeno prevalentemente il prodotto dell’attività principale.
Quando queste attività si possono considerare connesse allora, diceva l’articolo l’ART. 2135, si considerano attività agricole e non attività commerciali quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura.
In sostanza, quello che il legislatore voleva dire è che l’attività connessa con l’attività agricola rimane attività agricola quando risponde, nelle modalità con cui viene effettuata, ad un criterio di normalità, rispetto ad un momento storico e al luogo con cui l’attività viene svolta.
Il fatto che si vendano direttamente prodotti agricoli è considerato normale se la modalità non è quella di aprire catene di negozi alimentari.
Quindi, il criterio di normalità è un modo per dire che l’attività connessa è attività agricola, ma solo se rientra in modalità che siano modalità, rispetto a quanto avviene in quel momento storico e in quella zona, possano ritenersi normali.
Quindi, nella precedente versione dell’articolo 2135, se la connessione rispondeva ai criteri di connessione ed al criterio di normalità, allora il suo compimento non trasformava l’imprenditore agricolo in un imprenditore commerciale.
IMPRESA COMMERCIALE:
Nel codice civile non c’è nessun articolo che definisca l’impresa commerciale. C’è, però, un articolo che individua le imprese che sono soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese: allora, dato che nella logica del nostro codice nel registro delle imprese si iscrivono le imprese commerciali, questo articolo dovrebbe essere quello che identifica l’impresa commerciale.
ART. 2195 c.c. – Sono soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, gli imprenditori che esercitano:
• Un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi(imprese industriali). Secondo la l’interpretazione preferibile, il prefetto non ha voluto indicare niente di preciso, ma solo escludere le attività agricole
• Un’attività intermediaria nella circolazione dei beni
• Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria(imprese di trasporto)
• Attività bancaria(imprese bancarie) o assicurativa(imprese assicurative)
• Altre attività ausiliarie delle precedenti
2. Dal profilo dimensionale: piccolo imprenditore e imprenditore non piccolo
La valenza applicativa di questa distinzione si ricollega, anche in questo caso, al fatto che al piccolo imprenditore, anche se è un imprenditore commerciale, non si applicano talune disposizioni previste in generale per l’imprenditore commerciale: in particolare, il piccolo imprenditore non è soggetto a procedure concorsuali, a fallimento, all’obbligo della tenuta delle scritture contabili previste dal codice civile, né all’iscrizione nel registro delle imprese.
Perché nel nostro codice il piccolo imprenditore viene esentato dalle procedure concorsuali?
Perché si ritiene che al di sotto di certe soglie dimensionali l’apertura di una procedura concorsuale non abbia effetti positivi, cioè finisca per essere troppo costosa rispetto alla tutela che può offrire ai creditori.
Ecco allora che il nostro legislatore ha preferito esentare il piccolo imprenditore dalle procedure concorsuali e dagli altri oneri e ha tentato di darne una definizione:
ART. 2083 – Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti, e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e con i componenti della famiglia.
Molto importante è CRITERIO DI PREVALENZA DEL LAVORO DEL TITOLARE E DEI SUOI FAMILIARI.
Prevalenza rispetto a che cosa?
Con il termine “prevalenza” si introduce una valutazione di tipo comparativo e bisogna trovare l’altro termine di comparazione. L’altro termine di comparazione non può che essere, in primo luogo, il lavoro altrui, cioè il lavoro prestato da dipendenti che non siano familiari o il titolare. Quindi, primo concetto che enucleiamo è che “il lavoro del titolare dell’impresa e dei suoi familiari deve comunque prevalere sull’attività lavorativa prestata eventualmente da terzi”.
Però, il criterio di prevalenza induce a considerare anche un secondo aspetto, che è quello del capitale investito nell’impresa. Quando si dice che il lavoro del titolare e dei suoi familiari deve essere prevalente, si intende anche dire che nel risultato dell’attività, cioè il prodotto che si realizza, l’impronta deve venire fondamentalmente da un’attività lavorativa prestata dal titolare e dai suoi familiari.
ESEMPIO: chi ha un negozio di oreficeria, in cui l’attività è svolta prevalentemente dal titolare o dai suoi familiari, ha comunque un negozio in cui l’aspetto strumentale rappresentato dall’investimento che deve essere effettuato in relazione al tipo di bene che viene commercializzato è tale da prevalere sull’attività lavorativa.
Ecco allora che la nozione di prevalenza, di cui all’articolo 2083, va intesa non solo nel senso di prevalenza del lavoro del titolare e dei familiari sul lavoro altrui, ma anche come prevalenza sul capitale investito: non c’è piccola impresa laddove il capitale investito è prevalente rispetto all’apporto di lavoro.
Bisogna ora prendere in considerazione un altro aspetto, che è il problema dell’ARTIGIANO.
Chi è l’artigiano?
(nel nostro codice non si parla di artigiano o di artigianato al di fuori della previsione contenuta nell’articolo 2083).
L’artigiano è un soggetto che svolge un’attività di produzione di beni o di servizi, di dimensioni contenute. Nel linguaggio comune l’artigiano viene contrapposto, in qualche modo, all’industriale.
Come è definito attualmente l’artigiano nel nostro ordinamento giuridico?
C’è una legge speciale che si occupa dell’artigiano: LEGGE 8 AGOSTO 1985 N. 443 – legge quadro per l’artigianato.
Questa legge ha sostituito integralmente una precedente legge sull’impresa artigiana, del 1956, introducendo una nozione di imprenditore artigiano che si basa su questi elementi di identificazione:
• l’artigiano deve essere un soggetto che produce beni o servizi (non è artigiano chi svolge un’attività di commercio);
• l’artigiano deve essere un soggetto che deve dedicare all’attività di direzione e di gestione dell’impresa il proprio lavoro, prevalente: l’artigiano, per essere tale, deve dedicare prevalentemente il proprio lavoro all’attività artigiana (ma questo lavoro non deve essere prevalente rispetto agli altri fattori di produzione);
• l’utilizzo di beni strumentali non è ostativo all’acquisizione della qualifica di artigiano;
• la dimensione massima dell’impresa artigiana è individuata prendendo a riferimento i dipendenti: ART. 4 – stabilisce una regola secondo cui per le imprese che non lavorano in serie, il massimo dei dipendenti non può superare i 18, a cui si possono aggiungere anche apprendisti, fino ad arrivare a 22; se invece si tratta di un’impresa che lavora in serie, allora i dipendenti non possono essere più di 9; se si tratta di attività di trasporto, non possono essere più di 8; se si tratta di imprese di costruzione, non possono essere più di 10; ecc…
Allora ci si chiede: l’artigiano di cui parla la legge quadro per l’artigianato, è l’artigiano di cui all’articolo 2083 del codice civile?
La legge quadro per l’artigianato, del 1985, detta una nozione di artigiano che è funzionale a tante cose, in particolare all’identificazione dei soggetti che possono essere iscritti ad un albo particolare che si chiama “albo delle imprese artigiane” e come tali godono di una serie di benefici sul piano fiscale, sul piano previdenziale e sul piano finanziario.
Allora il dubbio che viene è se la nozione di artigiano data da questa legge è anche la nozione di artigiano che noi dobbiamo assumere ai fini dell’applicazione della disciplina del piccolo imprenditore.
L’articolo 2083 dice che è piccolo imprenditore colui che esercita un’attività prevalentemente con il lavoro proprio o dei suoi familiari, ove la prevalenza del lavoro proprio e dei familiari deve essere sia sul lavoro altrui che sul capitale investito.
La nozione di artigiano che è contenuta nella legge quadro per l’artigianato del 1985, estende i limiti dimensionali della figura dell’artigiano in modo tale da renderli difficilmente compatibili con la previsione del codice civile.
Quindi, per l’artigiano si è posto il problema se si debba, ai fini della sua qualifica come piccolo imprenditore, prendere per buono la nozione contenuta nella legge speciale, oppure applicare sempre e comunque il criterio dell’articolo 2083.
CONSEGUENZA: nel primo caso, qualsiasi impresa che, rispettando i requisiti della legge quadro, sia iscritta all’albo delle imprese artigiane, va considerata piccolo imprenditore ed esentata dal fallimento e dalle procedure concorsuali; se, invece, si adotta il secondo criterio, il giudice caso per caso dovrà stabilire se quell’imprenditore, che pure viene considerato artigiano ai fini della legge speciale, sia da considerare piccolo imprenditore ai fini del codice civile.
Nonostante l’articolo 2083 identifichi tra i piccoli imprenditori, gli artigiani, per stabilire se un artigiano, che sia tale secondo la legge speciale, sia anche piccolo imprenditore, bisogna fare applicazione del criterio di prevalenza: se non c’è la prevalenza del lavoro del titolare e dei suoi familiari, rispetto agli altri fattori produttivi, allora l’imprenditore, che pure è qualificato artigiano, non va considerato piccolo imprenditore e va assoggettato a procedure concorsuali.
Questo sta a significare che vi sono, tra gli artigiani considerati tali ai sensi della legge del 1985, alcuni che sono piccoli imprenditori, quindi non falliscono in caso di insolvenza, altri che invece non sono piccoli imprenditori e in caso di insolvenza sono assoggettati a procedure concorsuali
L’impresa famigliare
Il C.C. definisce l’impresa famigliare come:
L’impresa famigliare è un’impresa individuale nella quale collaborano, accanto al titolare, il coniuge o i suoi parenti entro il terzo grado o i sui affini entro il secondo grado.
GRADO DI PARENTELA E AFFINITÀ
PARENTELA ENTRO IL 3° GRADO
PARENTI
GRADI
In linea retta
In linea collaterale

I genitori ed il figlio
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Il nonno o la nonna ed il nipote
I fratelli e le sorelle

Il bisavolo o la bisavola (bisnonni) e il pronipote
Lo zio o la zia ed il nipote da fratello o sorella
AFFINITA' ENTRO IL 2° GRADO
GRADI
Affini

I suoceri, con i generi e le nuore. Il patrigno e la matrigna, con i figliastri.

I cognati (va notato che il coniuge del cognato non è affine. Cioè non sono miei affini i cognati e le cognate di mia moglie; nè sono affini tra loro i mariti di due sorelle).
Prima della riforma del diritto di famiglia l’attività di lavoro del famigliare non riceveva alcuna tutela giuridica e dava all’uomo, soprattutto nei confronti dei membri più deboli della famiglia forme ingiustificate di sfruttamento.
Il titolare dell’impresa faceva proprio il lavoro dei famigliari senza corrispondere loro null’altro che il mantenimento sul presupposto che la prestazione lavorativa fosse de essi dovuta in conseguenza della loro soggezione alla potestà materiale ed alle patria potestà.
La riforma del diritto famigliare ha scelto una forma di partecipazione societaria con diritto agli utili dei famigliari; il diritto di partecipazione comprende:
1) Il diritto di mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia.
2) Il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto.
3) Il diritto di una quota sempre proporzionale sui beni acquistati con gli utili non distribuiti.
L’impresa famigliare non si trasforma per questi motivi in società, ma conserva il carattere di impresa individuale. Nel caso di insolvenza solo il titolare dell’impresa risponde con tutto il proprio patrimonio nei confronti dei titolari, potendo anche fallire. I famigliari invece perdono solo la propria quota di partecipazione.
3. Dalla natura del soggetto titolare dell’impresa
Quando parliamo di imprenditore, cioè del soggetto titolare dell’impresa, possiamo distinguere situazioni diverse.
L’impresa può essere:
L’impresa pubblica è quando viene esercitata da un ente pubblico per la realizzazione di un interesse collettivo.
L’impresa privata è quando l’imprenditore titolare è una persona fisica, in questo caso abbiamo l’impresa individuale, o una pluralità di persone fisiche, in questo caso abbiamo un impresa collettiva.C’è da fare un ulteriore specifica per quanto riguarda l’impresa collettiva, questa può essere esercitata da una società se persegue un fine di lucro soggettivo o da un’associazione purché persegua uno scopo ideale rispettando il criterio di economicità.
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Esempio



  


  1. stefano

    tesina di elettronica e telecomunicazioni multidisciplinare

  2. Luca

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