Tema sulla vita di Giacomo Leopardi

Materie:Tema
Categoria:Letteratura

Voto:

2 (2)
Download:995
Data:16.04.2007
Numero di pagine:26
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
tema-vita-giacomo-leopardi_1.zip (Dimensione: 22.01 Kb)
trucheck.it_tema-sulla-vita-di-giacomo-leopardi.doc     66.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

NOTIZIA INTORNO ALLA VITA
ED AGLI SCRITTI DI GIACOMO LEOPARDI

Poiché l’universo è una viva rappresentazione d’una intelligenza e d’una forza infinita, e l’uomo, che vive in esso, è una viva rappresentazione dell’universo, egli è deputato a rappresentarlo prima col pensiero propriamente detto, ch’è la parola, poi col pensiero incarnato, ch’è l’azione. La maggiore o minore imperfezione e delle due parti onde consta quella rappresentazione e della corrispondenza reciproca fra loro, constituisce il volgo o il grande uomo. Sventuratamente l’uomo sortisce talvolta il nascere in contrade o in tempi cosí esiziali alla sua specie, che il pensiero non trova o cagione o possibilità d’incarnarsi e di manifestarsi sotto la forma dell’azione. Allora tutto l’essere umano si concentra nel pensiero propriamente detto, cioè nella parola; e dove quell’essere sia potente, apparisce quella dimezzata maniera di grande uomo che si domanda grande scrittore. Dunque, come la vita di un grande uomo in generale si compone della storia de’ suoi pensieri e delle sue azioni, quella di un grande scrittore in particolare si compone della storia solamente de’ suoi pensieri. E però la breve notizia che ora si dà del grande scrittore Giacomo Leopardi, non potrà versarsi in viaggi, battaglie ed altri casi strani e romorosi, ma nel modo onde e l’universo successivamente gli apparve ed egli il venne successivamente manifestando.
Giacomo Leopardi nacque in Recanati, città della Marca di Ancona, a di 29 di giugno 1798, da Monaldo Leopardi, conte, e da Adelaide dei marchesi Antici. Ebbe a maestri, nei primi studi di umanità, Giuseppe Torres, poi, in quelli di umanità e di filosofia insieme, Sebastiano Sanchini, l’uno e l’altro ecclesiastico. Col primo studiò fino a’ nove anni, col secondo fino ai quattordici; e dato un pubblico saggio di filosofia, non ebbe piú altro maestro al mondo che la vasta biblioteca de’ suoi maggiori. Quivi (già provetto nella propria lingua e nella latina) imparò miracolosamente da se stesso, non solo la francese, la spagnuola e l’inglese, ma ancora, quel ch’è assai piú, la greca e l’ebraica, nella quale giunse insino a disputare con alcuni dotti ebrei anconitani.
Il grande ingegno consta di due elementi quasi incompatibili, una gran fantasia e un gran raziocinio. La rarità della congiunzione di questi due elementi, e la frequenza della loro separazione, forma la rarità dei grandi ingegni, e la frequenza dei mediocri. E poiché lo scibile altro non è che l’applicazione dell’ingegno umano, cioè della congiunzione di que’ due elementi, all’universo, Leopardi, in cui quella congiunzione fu maravigliosa, conquistate nelle lingue le chiavi dello scibile ovvero dell’universo, studiò prima l’applicazione che vi fecero del loro ingegno i grandi uomini o antichi o moderni che lo avevano preceduto, e poi vi applicò il suo proprio. Ma con que’ due elementi era congiunto un terzo, la malattia, il dolore, la parte piú inesplicabile dell’inesplicabile mistero dell’universo. Laonde, sferzato da un tanto flagello, egli ne domandò la spiegazione, prima a quello studio e poi a quell’applicazione, prima agli altri e poi a se stesso; e questa perpetua ed insaziabile interrogazione è il pensiero a un tempo dominante ed occulto de’ suoi scritti. In nessun uomo non fu mai scorto più sensibilmente l’innesto terribile di que’ due principii che diedero agli uomini il primo concetto d’Oromaze e d’Arimane; il maggior bene, l’intelletto, commisto col maggior male, il dolore. Egli si valse del primo a manifestare il secondo; e cantò, per cosí dire, l’inferno colle melodie del paradiso.
Lo studio dell’applicazione all’universo dei grandi ingegni passati e del modo ond’ella seguí e ond’essi la manifestarono, constituisce la filologia. L’applicazione all’universo del primo elemento del proprio ingegno (cioè della fantasia) e la manifestazione del modo ond’ella segue, constituisce la poesia. L’applicazione all’universo stesso del secondo elemento del proprio ingegno (cioè del raziocinio) e la manifestazione del modo ond’ella segue, constituisce la filosofia. Dunque il Leopardi fu prima gran filologo, poi gran poeta, poi gran filosofo. E per intendere la vera natura del suo ingegno, è mestieri di studiarlo ordinatamente sotto ciascuna delle tre grandi forme che assunse.
La condizione della contrada ov’egli nacque e studiò, e i travagli della rivoluzione, non consentirono al Leopardi di conoscere il mondo orientale, com’è stato possibile di conoscerlo poi, che trent’anni di pace e lo sforzo onnipotente dell’occidente e della civiltà, hanno cosí mirabilmente lacerato il mistico velo che lo nascondeva. Dunque egli cominciò il suo grande studio dal mondo greco; e si scontrò felicemente nei piú grandi ingegni che, a memoria d’uomini, si sieno applicati alla considerazione dell’universo. E cosa incredibile (e bisogna esserne stato molti anni testimone, e quasi parte, per intenderla appieno) la dimestichezza ch’egli aveva presa con quella lingua e con quegli scrittori sovrumani. Basta che nei momenti in cui degnava di non nascondere i prodigii dell’ingegno suo, egli confessava di aver più limpido e vivo nella sua mente il concetto greco che il latino o eziandio l’italiano. Da questa dimestichezza egli attinse una sorte di divinazione critica sopra tutti gli autori greci e della migliore e delle piú basse età, riscontrata infallibilmente per vera o nei testi più perfetti o negli scolii e nei comenti dei più grandi espositori. Dal mondo greco passò a studiare il mondo latino; e dai dodici ai ventisei anni versò un cosí fatto tesoro di sapienza filologica in un sí sterminato numero di carte, che, senz’altre prove, s’avrebbe quasi paura di narrarlo solo. Mirabile di profonda e vasta erudizione è il suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Mirabilissima la copia senza fine delle note, delle interpretazioni, delle chiose, dei comenti d’ogni genere sopra un gran numero d’autori antichi, fra i quali Platone, Dionigi d’Alicarnasso, Frontone, Demetrio Faleréo, Teone Sofista ed altri assai. Piú che mirabilissimi i Frammenti ch’egli raccolse di parecchi Padri della chiesa. Questi ed altri molti non meno importanti manoscritti filologici egli fidò nel Trenta, in Firenze, al chiarissimo filologo tedesco Luigi de Sinner, ora professore in Parigi il quale ha già lasciato pregustarne un piccolo, ma coscienzioso ed accuratissimo sunto: e gli egregi editori parigini del Tesoro di Enrico Stefano usarono volonterosamente di quelle squisite, profonde e peregrine illustrazioni. Gli altri manoscritti di minore importanza sono conservati nella biblioteca paterna.
A quattordici anni fu preconizzato per un gran portento di sapere dal grande e credibile divinatore degl’ingegni patrii, Pietro Giordani, dal Cancellieri, dal celebre filologo svedese Akerblad; e poscia, di mano in mano, dal Niebuhr, dal Walz, dal Thilo, dal Bothe, dal Creuzer, dal Boissonade e da altri innumerabili. E chi volesse arrecare tutte le testimonianze che rendettero del suo sterminato sapere i più celebri filologhi tedeschi, inglesi e francesi, farebbe opera incredibilmente voluminosa.
Studiato i greci e i latini, e domandata la misteriosa causa del dolore a tutto l’Occidente antico, corse, senza troppo indugiarsi nel medio (dove il dolore non era più mistero), a domandarla all’odierno. Dante e il suo figliuolo Shakespeare risposero finalmente alla sua domanda, e gli dimostrarono l’universo sotto tutte le forme onde interpretava se stesso. Ed allora il Leopardi applicò all’universo il primo elemento del suo proprio ingegno, la sua fantasia; e si rivelò gran poeta.
Egli ritrasse le forme di quel mistero, prima dal mondo intellettuale estrinseco, poi dal mondo intellettuale intrinseco, e poi dal mondo materiale; e cantò onnipotentemente prima la caduta d’Italia e dell’antica civiltà, poi quella delle illusioni pubbliche e delle individuali, e poi finalmente il fato, la necessità e la morte. Alla prima specie appartengono, più particolarmente, i primi sei canti della edizione data da chi scrive, alla seconda i successivi venti, alla terza gli altri; e tutti appartengono al luttuoso genere di tutte.
Il Mezzodí, ricercato, nella profondità de’ suoi sonni, dall’ineffabile dolcezza del nuovo lamento, lodò a cielo l’armonia che gli accompagnava, e si sdegnò dell’alto dolore che glieli rompeva. Ma il Settentrione, svegliato e destro a seguitare il secolo in tutte le sue vie, sentí più la grandezza dell’uno che la squisitezza dell’altra; ed un gran poeta tedesco pronunziò che quella gran poesia italiana ch’era nata sulle labbra di Dante era morta alla fine sopra quelle del Leopardi.
Poscia che il Leopardi ebbe applicata la sua fantasia all’universo, e ritrattone tutte le forme del gran mistero del dolore, si spinse, finalmente, ad applicarvi il secondo elemento del suo ingegno, l’intelletto, ed a penetrare la sostanza di quelle forme: e si rivelò gran filosofo.
Ma il trovare quel che è, era ben altro che il dipingere quel che pare! La causa di quel mistero oltrepassa i confini fatali dell’intelletto umano. Più l’intelletto del Leopardi si travagliava d’indovinarla, più quella sembrava allontanarsegli ed alla fine dileguare. Allora quel gran pensiero che si era creduto onnipotente, prima s’adirò ferocemente col limite, ch’egli chiamò fato; poi si diffidò d’oltrepassarlo; poi, scambiato l’effetto con la causa, sentenziò che il dolore solo era il vero. E come aveva letto il dolore in tutti; e cantato il dolore da per tutto; spiegò il tutto col dolore.
Applicando il suo prodigioso intelletto all’universo, egli seguí l’ordine stesso che aveva seguito quando v’applicò la fantasia; e, nelle sue Operette morali e nella sua Comparazione di Bruto minore e di Teofrasto, egli spiegò col dolore, prima il mondo intellettuale estrinseco, poi, il mondo intellettuale intrinseco, e poi, il mondo materiale.
Stanco alla fine da un cosí affannoso e sterminato viaggio, fatto già quasi insensibile alle loro punture, s’adagiò sulle spine stesse del suo dolore; e risolute le tre scienze, onde aveva tentato l’universo, come in una vasta pozione sonnolenta, vi bevette a larghi tratti l’obblío di tutto l’ente e di se stesso. Ultimamente, smaltita la fiera bevanda, si ridestò: e della potente assimilazione di quella si valse a sorridere, ora sdegnosamente, ora mestamente, ora amaramente, del tutto. I Pensieri e i Paralipomeni sono la manifestazione di questo triplice e spaventevole sorriso.
Tale fu l’ingegno del Leopardi, e tale la sua storia, considerata nella sua sostanza, o se eziandio si voglia, nella sua forma intrinseca. La forma estrinseca, nella quale esso si manifestò agli altri uomini, fu la più bella che fosse mai assunta dalla più bella lingua parlata. Egli scriveva greco, latino e italiano antico da mentire un antico: e come nel Diciassette i filologhi tedeschi avevano tolte per antiche e vere due Odi greche (l’una ad Amore e l’altra alla Luna) e un Inno a Nettuno, medesimamente greco, del quale fu finta darsi la sola versione e le note; cosí nel Ventisei il Cesari tolse per antico e vero testo di lingua il Volgarizzamento del Martirio de’ santi padri. Ma la forma vera e spontanea in cui quel prodigioso ingegno si manifestò, e nella quale noi dobbiamo veramente studiarlo, fu la lingua italiana odierna. In questa egli sciolse l’antico problema di dire tutto puramente e potentemente; e mostrò che il grande scrittore dee e può essere giusto sovrano e non oppresso suddito della lingua. Mai nessun linguaggio umano non ubbidí piú spontaneamente a nessun uomo di quel che la nostra lingua ubbidisse a questo inimitabile scrittore. Forte ed avventato nei primi sdegni concitati in lui da quel dolore ch’egli sentiva palpitare non meno nella sua propria vita che nell’universale, fiero e terribile nella disperazione che gliene segui, grave ed ineffabilmente semplicissimo nel sopore della stanca rassegnazione ch’ultimamente lo invase, il suo stile rappresentò a un tempo la varietà, l’unità e la perfezione dell’universo, disse tutto in tutti i modi in cui poteva essere detto, e fu grande e vivo esempio che la parola umana è, se può arrischiarsi il vocabolo, la sintesi del mondo, e si arresta solo nel confine che separa il mondo dall’infinito.
Oltre a cosí potenti cagioni, l’incanto che il suo stile operava o in versi o in prosa, consisteva nella perfezione della proprietà e dell’ordinamento delle parole. Egli ritrasse l’artifizio dal Cinquecento, la semplicità dal Trecento, e l’essere proprio e particolare del suo stile, prima dai greci, sommo esempio di perfetto, e poi dal suo secolo e da se stesso, onde l’uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che v’è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.
Estimava assai piú difficile l’eccellente prosa che gli eccellenti versi, perché diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l’altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di potere tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi con le difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità, che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Manuzzi fece sí prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell’Interpretazione del Petrarca, come s’abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d’Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell’impresa di Senofonte, che cosí come a nessun greco era ancora seguito di rivivere nella lingua italiana, cosí a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l’intempestiva morte e, forse, la mistica diversità onde questi due divini ingegni contemplarono l’universo, non è dubbio ch’egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova éra delle lettere italiane.
Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua propria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar l’uomo tutto insieme nelle sue attenente, o accidentali o naturali, sia con gli altri uomini sia con se medesimo; e, in somma, ne’ suoi successi e ne’ suoi costumi.
Nato sulla cima d’un monte (dove l’antico Piceno si piacque di porre le sue città), d’una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall’acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell’Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della natura che parevano cosí carezzevolmente accompagnarlo. Ma, poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta piú necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l’estinse, gli ebbe penetrato talmente l’ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono piú sopportabili, nell’acerbezza de’ suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli uni e maledisse l’altra, e, benché insino alle lacrime dolentissimo de’ suoi cari congiunti, costante desiderio della sua vita fu d’andarne a vivere altrove.
Spinto da cosí fieri stimoli, nel novembre del Ventidue venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella piú che umana antichità ch’egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s’involse non meno avidamente fra i codici, massime della Barberiniana, v’imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero cosí iniquamente mancato, l’immortale Mai, ch’egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stato piú olo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi oltramontani che dimoravano allora in quella città, il sommo Niebuhr faceva pubblica fede al mondo della presente e futura grandezza del giovane recanatese, ed in nome della dottissima Germania, che egli cosí nobilmente rappresentava, gli offerí indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerí l’infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dí, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del Ventitré si ritrasse, mesto e taciturno, alla solitudine natia.
Quivi, mentre l’inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute; e nel luglio del Venticinque gli parve trarsi dagli artigli della morte quando viaggiò, per Bologna, a Milano, dove il tipografo Stella l’invocava come prezioso ed inesausto tesoro di erudizione. Quindi gl’inizi e la fama anticipata d’un gran freddo futuro lo risospinsero a Bologna, ch’era stanza allora d’ospitalità, d’onesta letizia, e di sapere. In Bologna, com’è variata Italia nella sua divina bellezza, s’innebriò di cordialità, non altrimenti che in Roma s’era innebriato di grandezza; v’attese con diletto alla correzione delle sue poesie, che si stampavano quivi stesso, e delle sue prose, che si stampavano in Milano; e (salva una breve corsa a Ravenna, ove si compiacque di contemplare gli ultimi aneliti dell’antichità) vi dimorò insino al novembre del Ventisei, che si rimise in Recanati.
Ma quell’incomprensibile, e quasi più che umano, dolore, che fu principio e fine di tutto l’essere del Leopardi, non lo lasciava mai riposare fra le dolcezze familiari, che sono pur sempre o il maggior bene o il minor male che gli uomini s’abbiano sulla terra. Dall’abisso medesimo del suo dolore egli aspirava, per l’insanabile instinto della specie umana, a quella felicità onde aveva letto, cantato e discorso il vano e il nulla. E sempre dietro al suo fuggitivo fantasma, ripartiva novamente di colà dove pur dianzi, disperato di raggiungerlo, s’era tornato. Nell’aprile del Ventisette si ricondusse a Bologna, donde, dopo due mesi, si recò a Firenze.
Ivi gli si scoperse una nuova scena: non la romana: non la lombarda: ma una piú bella ed incantevole; e pure sempre italiana. L’olezzo de’ fiori, l’armonia della lingua, la grazia inenarrabile delle donne, l’innocenza del reggimento, le curve svelte e, per cosí dire, aeree dell’architettura, un non so che di carezzevole e di casalingo che gli parve arcanamente scusare le pareti domestiche, un non so che d’attico e di leggiadro, che egli aveva creduto insino allora un’idea ed ora la trovava una cosa sensibile ed esistente, gli rappresentarono un sogno leggerissimo ond’egli sorvolò più mesi il suo dolore ed osò novamente credere alla felicità. E recatosi nel novembre in Pisa, la pace, la quiete, il dilettoso silenzio, l’allegra solitudine e i soli tepidi e quasi orientali dell’inverno e della primavera sopravvegnente, gl’infusero un nuovo raggio di vita; e la speranza rinasceva nel suo cuore impietrito, come l’erba e i fiori fra le lastre di quelle vie. Nel giugno seguente ritornò in Firenze, e, sospirato assai più angosciosamente di Vittorio, che il mondo non fosse tutto Toscana, si ridusse, fra le malinconie del novembre, a Recanati.’’
Quivi, nell’orribile inverno trascorso fra il Ventinove e il Trenta, gli s’agghiacciarono l’ultima volta i sospiri sulle labbra e le lacrime sugli occhi. Si cantò da se stesso il canto della morte nelle Ricordanze, e poi, risorto nella primavera, si ricantò da se stesso il Risorgimento. E stretti l’ultima volta al suo cuore i suoi cari genitori, i suoi fratelli, Carlo (il suo, più che fratello, amico), e la sua celeste sorella Paolina, se ne svelse dolorosamente, per non doverli mai più rivedere sulla terra.
Riviaggiò, fra l’aprile e il maggio, per Bologna a Firenze, con animo di fermarsi quivi indefinitamente. Si riparavano allora in quella ospitale città, per elezione o per destino, quanto viveva d’uomini più virtuosi e sapienti in tutta la sventurata Italia. Si stringeva la nobilissima e peregrina colonia intorno a Giovan Batista Niccolini, Gino Capponi e Giuliano Frullano, nobilissimo ed innocente triumvirato paesano, deputato a mostrare quel che fosse ultimo nella scienza e nella virtù, come i due antichi triumvirati quel che fosse ultimo nella malvagità e nella tirannia. Il Leopardi svisceratamente amò i peregrini e i paesani, e svisceratamente ne fu riamato: ed agli uni ed agli altri sotto il dolcissimo nome di suoi amici di Toscana, dedicò tutti i suoi più preziosi tesori, le sue poesie, nella bella edizione che ne diede, e il suo alto dolore, nell’affettuosa lettera che vi prepose.
Ma né gli amici, né la primavera o la state, né la Toscana stessa e i suoi incanti, valsero a fermare o a pur mitigare l’improba mano della matrigna natura, che veniva da se stessa spietatamente distruggendo il più delicato de’ suoi lavori. Il male del Leopardi era indefinibile, perché, consistendo nelle più riposte fonti della vita, era, come la vita stessa, inesplicabile. Le ossa si rammollivano e disfacevano ogni dí più, e negavano il loro, ancorché debole, sostegno alle misere carni che le ricoprivano. Le carni stesse dimagrivano e isterilivano ogni dí, perché i visceri del nutrimento ne rifiutavano loro l’assimilazione. I polmoni, stretti in troppo angusto spazio, e parte non sani, si dilatavano a fatica. A fatica il cuore si sprigionava dalla linfa, onde uno stanco riassorbimento lo gravava. Il sangue, che mal si rinnovava nello stentato ed affannoso respiro, si rivolgeva freddo, bianco e lentissimo per le vene affievolite. E, in somma, tutto il misterioso circolo della vita, che a cosí grande stento si moveva, sembrava ad ora ad ora di dover fermare per sempre. Forse che la grande spugna cerebrale, principio e fine di quel misterioso circolo, aveva succhiato prepotentemente tutte le forze vitali e consumato, ella sola, ed in poco d’ora, quel ch’era destinato a bastare, e per gran tempo, al tutto. Ma, che che si sia, la vita del Leopardi non era più un correre, come in tutti gli uomini, ma più veramente un precipitare verso la morte.
Valicato, per un gran mare di dolore, materiale ed intellettuale, tutto l’inverno fra il Trenta e il Trentuno, afferrò l’invocata primavera, e parve ancora qualche momento risorgere. Ma la sopravvegnente state l’aggravò sí fattamente, che l’approssimare dell’autunno e, più ancora, dell’altro inverno, empí gli amici di spavento. I quali consigliatolo di ridursi a passare in Roma le due temute stagioni, vi si ridusse docilmente ai primi dí dell’ottobre. E sospirata alcun di la grazia e la leggiadria toscana, dopo che si fu riavuto e rifatto di quell’aria e di quella luce, ricominciò l’antico vagare per quelle eterne bellezze, e, un dí, pronunziò sorridendo, che s’era riconciliato con Roma. Non gli accadde, a questa volta, di fremere o di piangere, perché l’età del fremito e del pianto era fuggita: ma sorride-va amaramente del tristo fine a cui riesce ogni cosa più grande, e dei fastidiosi e lugubri vermi che si generano dalla putrefazione dei più nobili cadaveri. E nondimeno non conobbe mai una primavera toscana chi non intende che ai primi fiori ch’egli vide spuntare fra quelle ruine, desiderò irresistibilmente di ricondursi in Firenze, dove giunse in effetto sul primo appropinquare dell’aprile.
Quivi, finché i germi di vita e di sanità che gli si erano innestati nel mezzodì, prosperarono, traversò recipientemente la primavera e la state. E fu talora che nell’ebbra stupefazione di quell’aure odorose ed incantatrici, sospirò l’ultima volta a una felicità sovrumana alla quale non giunse mai nessun uomo, e dalle cui ombre (quando l’autunno e il verno ebbero mortificate quell’aure e consumati e uccisi quei germi) precipitò nelle più atroci realtà dell’inesorabile morbo che lo distruggeva.
Se Roma ha potuto tanto, che cosa non potrà Napoli?...
Questo fu il pensiero che soccorse alla mente de’ suoi medici e de’ suoi più affezionati amici, in tanta disperazione d’ogni altro umano rimedio. Né egli fu già duro o indocile al loro affetto; e scampato, come per miracolo, dai rigori dell’inverno, e veduto nella primavera e nella state seguente, che né quei fiori né quelle grazie erano più bastanti a mitigare la fierezza de’ suoi mali, in su i primi di di settembre del Trentatré si parti, che sentiva tuttavia di febbre, di Firenze, e venuto, a piccolissime giornate, per la via di Perugia, lasciò la febbre agli alberghi, e pervenne, mediocremente sollevato, in Roma. Quivi dimorò il rimanente del settembre; ed, abbracciato, per l’ultima volta, il suo amorosissimo cugino Melchiorri, giunse in Napoli il secondo dí dell’ottobre.
Quivi è incredibile a dire quanto si confortasse e si ricreasse di quella stagione dell’acre, e di quel vivere rigoglioso ed allegro. Abitò comunemente il poggio suburbano di Capodimonte; se non se il maggio e l’ottobre, che si riduceva a un casinuccio in su le falde del Vesuvio. Minacciato, per istrana vicenda, ora di tisico, ora d’idropisia; schermiva alternatamente l’una con la sottigliezza dell’aria del Vesuvio, l’altro con la dolcezza dell’aria di Capodimonte. Passeggiava ora per Toledo, ora lungo il curvo e spazioso lido del mare. Visitava assai frequentemente ora Margellina e Posilippo, ora Pozzuoli e Cuma. Scendeva da Capodimonte alle Catacombe, e dal Vesuvio a Pompei o ad Ercolano: e come in Roma aveva apostrofato agli antichi o in mezzo al foro o sotto gli archi trionfali, quivi ragionava dimesticamente con loro nelle loro più secrete stanze e nei loro ricetti più occulti.
La novità e la salubrità squisitissima dell’aria, l’affettuosa compagnia di alcuni paesani, la visitazione continua e diversa di tutti i più dotti stranieri ch’ivi abbondantemente capitavano, e quel suo nuovo vivere aperto e sciolto e al tutto fuori dell’uso della sua abituale disposizione, parvero allentare, e forse allentarono effettivamente, per quattro lunghi anni, l’operosa e instancabile attività del malore. Egli riebbe miracolosamente l’ordinato esercizio di molte operazioni vitali che insino dalla prima infanzia aveva provate disordinatissime; e cominciò a pronosticarsi una vita delle più lunghe. L’efficienza malefica della natura cominciò a parergli, se non al tutto placata, almeno in parte assopita: e questo concetto, o vero o falso, l’avrebbe forse sostenuto ancora qualche tempo in vita, s’egli non si fosse presupposto, in un modo al tutto inopinato ed insanabile, che la pestilenza cholerica (ampliatasi allora in tutto l’occidente) era fatalmente deputata o a rinnasprirla di nuovo o a ridestarla.
Era l’agosto del Trentasei, quando, al primo ed ancora lontano annunzio del morbo, desiderò di ridursi nel suo casinuccio all’aperto della campagna, donde non consentí di tornare a Capodimonte se non nel febbraio del Trentasette. Quivi moltiplicarono i sintomi dell’idropisia, come alla più aperta campagna erano moltiplicati i sintomi dell’etica. E parte la pestilenza, che nel verno parve dileguata del tutto, risorta assai più fiera e spaventevole nella primavera, rinnovò nell’egra fantasia i terrori d’un modo di morte incognito ed abbominoso, già sventuratamente innestatigli dal celebre poeta tedesco, Platen, che i medesimi terrori avevano ucciso (assai prima che il morbo vi giungesse) in Siracusa. Tutti i consigli dei più gravi ed esperimentati medici della città, fra i quali l’aureo Mannella e il Postiglione, tutti i più vigorosi ed estremi partiti della scienza, furono indarno. E il mercoledí, quattordici di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodí, mentre una carrozza l’attendeva, per ricondurlo (ultima e disperata prova) al suo casino, ed egli divisava future gite e future veglie campestri, le acque, che già da gran tempo tenevano le vie del cuore, abbondarono micidialmente nel sacco che lo ravvolge, ed oppressa la vita alla sua prima origine, quel grande uomo rendette sorridendo il nobilissimo spirito fra le braccia di un suo amico che lo amò e lo pianse senza fine.
Così contemplò l’universo, cosí visse e cosí morí Giacomo Leopardi, uno dei più grandi scrittori e (se avesse sortito il nascere altrove) uno dei più grandi uomini che sieno sorti in questi ultimi tempi, non solo in Italia, ma in Europa. Grande per maraviglioso e quasi sovrumano ingegno, grande per isterminati e quasi incredibili studi, e per prose e poesie altissime ed inimitabili, fu grandissimo, e facilmente unico, per la modestia e l’innocenza de’ suoi costumi. Quest’uomo, degno per tutte le parti di un secolo migliore, si portò intatto nel sepolcro il fiore della sua verginità; e, per questo medesimo, amò due volte (benché senza speranza) come mai nessun uomo aveva amato sulla terra. Giusto, umano, liberale, magnanimo e lealissimo, s’immaginò da principio che gli uomini fossero in tutto buoni. Tradito e disingannato del soverchio che n’aveva sperato, concluse da ultimo ch’erano in tutto cattivi. E solo la prematura morte l’impedì di giungere a quella terza e riposata disposizione d’animo per la quale avrebbe estimati gli uomini, quel che veramente sono, né in tutto buoni né in tutto cattivi. Gli estremi stessi, nell’apparenza inesplicabili, ai quali trasandava nel suo vivere pratico e cotidiano, come l’usar troppo, o troppo poco, il cibo, la luce, l’aria, il moto, la conversazione degli uomini, e somiglianti, erano, nell’esistenza, il più vivo e vero testimonio dell’innata ed angelica bontà dell’animo suo: perché tentava, per le più opposte vie, la nemica natura, se mai avesse potuto impetrarne l’adito nella grande armonia e nell’universale amore di tutto il creato, onde il tremendo prestigio del suo immenso dolore gli aveva dato a credere d’essere stato fatalmente escluso. Che se né quel dolore né quel prestigio fu sanabile, né maraviglino solo coloro che, nel giudicare i grandi uomini, non guardano né ai tempi, né ai luoghi, né alle complessioni, e non sanno presupporre quel che sarebbero stati o Alessandro o Cesare o Napoleone, se fossero nati nelle condizioni del Leopardi.
Questi fu di statura mediocre, chinata ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso proffilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un sorriso ineffabile e quasi celeste.
Il suo cadavere, salvato, come per miracolo, dalla pubblica e indistinta sepoltura dove la dura legge della stagione condannava, o appestati o non, i grandissimi e i piccolissimi, fu seppellito nella chiesetta suburbana di San Vitale su la via di Pozzuoli, nel cui vestibolo una pietra, ritratta nella seconda tavola posta dinanzi all’edizione precitata, ne fa modesto e pietoso ricordo al passeggiero.
MDCCCXLV.
SUPPLEMENTO ALLA NOTIZIA INTORNO ALLA VITA
ED AGLI SCRITTI DI GIACOMO LEOPARDI
Avvertimento dell’Autore
Io giudicai che dovesse procacciarmi una qualche lode di modestia l’essere al tutto scomparso dalla vita che condussi del Leopardi. Ma non fu cosí!...
Sbucarono da tutte le catacombe di Europa amici sviscerati dell’immortale solitario! Chi n’era stato indivisibile: chi ne aveva raccolto il supremo fiato: e chi altro; e chi altro. Poeti e poetesse cantarono il fato che li aveva tenuti lontani da lui nell’ora sua suprema; cagione agli uni, che gli spietati macigni d’un camposanto cholerico si fossero inesorabilmente voltati sulle sue ossa confuse: cagione alle altre, che l’umil erba venisse tuttavia crescendo su quel sacro capo. Ed insino i gesuiti rumoreggiarono, al solito, dell’infallibile conversione seguita nelle braccia d’uno di loro, anzi dell’essersi il Leopardi fatto gesuita a dirittura.
Allora scrissi il Supplemento che segue.
MDCCCLXVII.
(Questo Supplemento non potette essere stampato per intero se non se dopo il Sessanta).
Letta la breve Notizia intorno a Giacomo Leopardi, ch’io preposi ai due volumi delle sue opere non ha guari stampate, per mia cura, in Firenze dal tipografo Lemonnier, gl’implacabili nemici di chiunque, non essendo dei loro, fa o scrive qualunque cosa o grande o piccola, trovarono immediate, ch’io mi fossi passato troppo leggermente della sua morte. Costoro, vestendo, com’è loro usanza, d’abiti e di forme filosofiche la loro antica e mortale inimicizia d’ogni filosofia, andarono sottilmente considerando, che, se degli uomini grandi è notabile ogni cosa, notabilissima debba poter esser l’ora suprema: la quale può dirsi come una grave e concludente ricapitolazione di tutta la vita.
Quanto è a me, io giudico veramente ragionevolissima questa loro opinione universale. Se non che, come sempre avviene delle sentenze de’ calunniatori, non ne giudico già né ragionevole né onesta l’applicazione al Leopardi. Perché questi morí di morte repentina, come segue ordinariamente nelle idropisie, massime di cuore: genere di morbo, nel quale tutti, salvo l’infermo, sanno che si tratta di una morte inevitabile: ma nessuno sa quanto questa morte sia per essere vicina o lontana, né nessuno ha mai sognato d’aver obbligo di disingannare il morituro.
Ora, io non so che si sia mai preteso di trovar nulla di notabile in una morte repentina. Salvo, se, con le altre cose che si vanno mettendo in dubbio in questo maraviglioso passaggio che il genere umano sta operando dalla follia delle passioni alla sapienza dei computi, dalle guerre del Sepolcro a quelle dell’oppio e, in somma, dal credere in molte cose al credere solo nelle eredità, non si volesse eziandio mettere in dubbio se il morire di morte repentina dia, o non, agio al morente di far qualche notabile dissertazione intorno al modo onde considerò o non considerò, ai giorni suoi, quest’universo. E che il Leopardi fosse morto di morte repentina, mi pareva di averlo bastantemente significato in uno degli ultimi paragrafi di quella mia breve scrittura; il quale mi permetterò di riportare.
Era l’agosto del Trentasei, quando, al primo ed ancora lontano annunzio del morbo (il cholera), desiderò di ridursi nel suo casinuccio all’aperto della campagna, d’onde non consentí di tornare a Capodimonte se non nel febbraio del Trentasette. Quivi moltiplicarono i sintomi dell’idropisia, come alla piú aperta campagna erano moltiplicati i sintomi dell’etica. E parte la pestilenza, che nel verno parve dileguata del tutto, risorta assai piú fiera e spaventevole nella primavera, rinnovò nell’egra fantasia i terrori d’un modo di morte incognito ed abbominoso, già sventuratamente innestatigli dal celebre poeta tedesco, Platen, che i medesimi terrori avevano ucciso (assai prima che il morbo vi giungesse) in Siracusa. Tutti i consigli dei pio gravi ed esperimentati medici della città, fra i quali l’aureo Mannella e il Postiglione, tutti i pio vigorosi ed estremi partiti della scienza, furono indarno. E il mercoledí, quattordici di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodí, mentre una carrozza l’attendeva per ricondurlo (ultima e disperata prova) al suo casino, ed egli divisava future gite e future veglie campestri, le acque, che già da gran tempo tenevano le vie del cuore, abbondarono micidialmente nel sacco che lo ravvolge, ed oppressa la vita alla sua prima origine, quel grande uomo rendette sorridendo il nobilissimo spirito fra le braccia di un suo amico che lo amò e lo pianse senza fine.
D’altra parte, essendomi apparsa sempre cosa sazievole e schifosissima se altra mai, lo studiarsi di venire in fama, non per propria entità e per proprio valore, ma innestando per ritto e per rovescio il suo nome e la sua vita nel nome e nella vita di un qualche grande uomo; mi era anco sembrata una necessaria modestia lo studiarmi assegnatamente del contrario: massime scrivendo la vita del Leopardi, nella cui intrinsichezza io mi trovava, per una mia singolare ventura, d’esser vivuto dí e notte molti anni. E tenni con tanta costanza la religione di questo mio proposito, che le posposi ogni altra considerazione quantunque gravissima; e che, se non fosse già stata la necessità di non lasciar presupporre ai posteri che, nella mia città natia, egli fosse morto abbandonato d’ogni umano soccorso, io non mi sarei nominato né anche col titolo universalissimo di un amico nell’ultimo periodo del paragrafo riportato.
Nondimeno, il lacrimevolissimo secolo che viviamo, nel quale, insieme co’ telai, con le vie di ferro e con la peste, massima fra le pesti, rialza una fronte orgogliosa l’impudente e calunniatrice ipocrisia, rende al tutto impossibile insino la dignità del silenzio. Ed insieme con le ossa e con le ceneri, oramai fredde, di chi si addormentò opportunamente sopra una tanta viltà, si è strascinati pe’ capelli nel fango d’ignobili ed oscure dispute, e di triviali ed invereconde commedie. E poiché l’uomo non può sottrarsi alle necessità, benché dure ed insopportabili, del secolo nel quale fu condannato a compiere questo breve e doloroso pellegrinaggio, veggiamo s’egli è vero, che, intorno all’ultim’ora del Leopardi, io abbia saputamente taciuto quel che non potevo ignorare.
Giacomo Leopardi, questo grande ed imperdonabile peccato non so se più dell’Italia o della fortuna, sostenne, nella sua brevissima vita, una buona parte, si può quasi dire, delle più gravi malattie che si conoscono sotto il sole. Le quali si congiungevano talvolta e s’inserivano si stranamente insieme, che quel rimedio ch’era medicina all’una, era veleno all’altra. Per tacere di troppe più che non parrebbe credibile, sfidato di tisico dai dottori di Roma nel Trentuno, e da quelli di Firenze nel Trentadue, nel Trentasette morí poscia a Napoli d’idropisia. Né mai credette nell’uno o nell’altra: ma in non so quale suo misterioso mal di nervi, mediante il quale spiegò, fino all’ultimo, tutte le più variate, e spesso più manifeste, maniere di morbi che combatterono implacabilmente la sua misera giornata. E insino dopo che gravissimi medici napoletani gli ebbero parlato assai più chiaro ch’io non avrei voluto; mi riparlava della incertezza della medicina, del suo mal di nervi non voluto intendere e degli altri quarant’anni di vita che gli bisognava durare pazientemente, se già la pestilenza non venisse inopinatamente a troncarli.
Questa singolare credenza lo aveva renduto costantemente indocilissimo a tutte le prescrizioni dell’arte; massimamente a quelle della dieta, che, nelle idropisie, sogliono essere, come ognuno sa, rigorosissime. Per questa sola parte, le mie preghiere, e insino le mie lacrime, erano riuscite sempre indarno. E, fatto inesorabilmente beffe del latte d’asina, quel dí stesso, giusta l’usato, dopo un’abbondante colezione di cioccolatte, desiderò che gli si recasse da desinare mentre ci attendeva già la carrozza che doveva menarci in villa, dove si proponeva di cenare verso le quattro o le cinque della mattina seguente; prima della qual ora non era stato mai possibile di ridurlo nel letto.
Era già scodellata la minestra. Ed egli, postosi a sedere a mensa più gaio del solito, n’aveva già tolte due o tre cucchiaiate, quando rivoltosi a me, che me gli era seduto allato:
Mi sento un pochino crescere l’asma, mi disse (che cosí perseverava di chiamare i naturali sintomi della sua infermità): si potrebbe riavere il Dottore?
Questi era il professor Niccolò Mannella; ch’era stato il più assiduo e il più affettuoso de’ suoi curanti: uomo d’aurea scienza e di più che aurei costumi, medico ordinario del principe reale di Salerno.
E perché no? gli risposi. Anzi andrò di persona per esso. Era uno dei più memorabili giorni della mortalità cholerica: e non mi parve stagione da mandar messi.
Io credo che, a malgrado di tutti i miei sforzi, dovette trasparire dal mio viso una qualche piccola parte del mio fiero turbamento. Perché, levandosi, egli ne motteggiò e ne sorrise; e, stringendomi la mano, mi ritoccò della lunga vita degli asmatichi. Andai con la carrozza medesima che ci attendeva; affidandolo a’ miei, massime alla mia sorella Paolina, sua consueta astante ed infermiera; la quale egli troppo largamente rimeritò quando usò dirle che solo la sua Paolina di Napoli gli rendeva possibile la lunga lontananza dalla sua Paolina di Recanati.
Trovo in casa il Mannella, che si veste e viene. Ma tutto era mutato. Avvezzo, per un lungo e penoso abito di mortalissime malattie, a sentir troppo frequentemente i messi di morte, il nostro adorato infermo non seppe più riconoscerne i veri dai falsi. E parte imperturbabile nella sua fede che tutto il male suo fosse nervoso, si confidava ciecamente di poterlo placare col cibo. Laonde, a magrado delle caldissime preghiere dei circostanti, tre volte s’era voluto levare dal letto, dove l’avevano adagiato cosí vestito com’era, e tre volte s’era voluto rimettere a mensa per desinare. Ma sempre, ai primi sorsi, era stato sforzato, a suo malgrado, di rimanersene e di riappressarsi al letto: dove, quando io sopraggiunsi col Mannella, lo trovammo né anche a giacere, ma solamente sulla sponda, con alcuni guanciali di traverso che lo sostenevano.
Si rallegrò del nostro arrivo, ci sorrise; e, benché con voce alquanto più fioca e interrotta dell’usato, disputò dolcemente col Mannella del suo mal di nervi, della certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d’asina, de’ miracoli delle gite e del voler di presente levarsi per andarne in villa. Ma il Mannella, tiratomi destramente da parte, mi ammoní di mandare incontanente per un prete; che di altro non v’era tempo. Ed io incontanente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani scalzi.
In questo mezzo, il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli da quell’ampissima fronte, ed io, veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa; aperti più dell’usato gli occhi, mi guardò più fiso che mai. Poscia:
Io non ti veggo più, - mi disse come sospirando.
E cessò di respirare; e il polso né il cuore non battevano più: ed entrava in quel momento stesso nella camera frate Felice da Sant’Agostino, agostiniano scalzo; mentre io, come fuori di me, chiamavo ad alta voce il mio amico e fratello e padre, che più non mi rispondeva, benché ancora pareva che mi guardasse.
Ora qui bisogna (quel che non è facile) aver amato qualcuno al mondo com’io ho amato il Leopardi: bisogna aver menata la miglior parte della vita nel seno della sua più sviscerata intimità, e ragionato con lui tutte le ventiquattr’ore del dí per lunghi anni e lunghe avventure, e uditone fino a pochi momenti prima quegli altissimi e quasi più che umani concetti ch’io n’aveva uditi; per intendere come non è maraviglia se per un pezzo la sua morte non mi fu cosa comprensibile, e come, attoniti e muti tutti i circostanti, si messe tra il santo frate e me la più crudele e luttuosa disputa. Io, quasi ridotto io stesso come fra l’essere e il non essere, in un certo modo non meno incredibile che ineffabile, mi facevo stupidamente a contendere che il mio amico viveva ancora, e supplicavo il frate, piangendo, ad accompagnare religiosamente il passaggio di quella grand’anima. Egli, tocco e ritocco il polso e il cuore, replicava costantemente, che quella grand’anima era già passata. Alla fine, fattosi nella stanza uno spontaneo e solenne silenzio, il pio frate, inginocchiatosi appresso al morto o al moribondo, fu esempio a noi tutti di fare altrettanto. Poscia, in un profondo raccoglimento, orò, orammo tutti un gran pezzo. E levatosi, e fattosi a una tavola; scrisse le parole qui appresso; e ne porse il foglio a me, che, levatomi anch’io e impresso l’ultimo bacio sulla fronte di quel cadavere, ero già trascorso da uno spietato dubbio in una spietatissima certezza.
Si certifica al signor parroco, qualmente istantaneamente è passato a miglior vita il conte Giacomo Leopardi di Recanati, al quale ho prestato l’ultime preci de’ morti. ciò dovevo, e non altro. Padre Felice da Sant’Agostino, agostiniano scalzo.
Con questa fede, con quelle de’ medici e, più, col miracoloso aiuto della Provvidenza, il cadavere fu salvato dalla confusione del camposanto cholerico. Ed assettato in una cassa di noce impiombata, e raccolto pietosamente in una sepoltura di ecclesiastiche sotto l’altare a destra della chiesetta suburbana di San Vitale; fu quindi, non meno pietosamente, trasferito a suo tempo nel vestibolo della medesima, dove gli fu posta la pietra ch’ora si vede.
MDCCCXLVII.

Esempio