Romanzo di formazione

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Testo

INDICE
Capitolo primo. Anne Brontë: la donna e l’autore
Quale professione per le donne ?, 5; Anne Brontë e il germe della scrittura, 12; Esperienze di vita, 20; La scrittura come trasgressione, 36; “The language of My Inmost Heart”: scrittura femminile e travestimento, 46.
Capitolo secondo. Romanzo di formazione: Teoria del genere e scrittura femminile
Nascita e sviluppo del Romanzo di formazione o Bildungsroman, 59; Romanzo o Fiaba ?, 65; Il Romanzo al Femminile, 78.
Capitolo terzo. Agnes Grey: il Bildungsroman
“All true histories contain instruction”, 90; “An Alien among Strangers”: alienazione, introspezione e crescita di una governante, 96; L’importanza della famiglia nel processo formativo di Agnes, 110; A Selfhood Sufficient: il matrimonio in Agnes Grey, 126.
Capitolo quarto. The Tenant of Wildfell Hall: l’identità nascosta.
‘Wholesome truths’ versus ‘soft nonsense’, 135; “The Fair Unknown”: Helen Huntingdon e la sua battaglia contro il vizio, 141; The ‘Angel in the House’: ideologia domestica, fra adesione e distanza, 147; Reputazione e Interpretazione in The Tenant of Wildfell Hall, 155.
CAPITOLO 1
Alas ! A woman that attempts the pen,
Such an intruder on the rights of men,
Such a presumptuous Creature, is esteem’d
The fault can by no vertue be redeem’d
Anne Finch
1 - Quale professione per le donne ?
La formazione di Anne, la più piccola delle sorelle Brontë, come scrittrice avvenne in un periodo coincidente con la nascita di una profonda problematica sociale sorta in epoca vittoriana, sul ruolo femminile nella famiglia.
Nell’ottocento infatti la donna poteva godere di una sua importante collocazione soltanto nell’ambito familiare: al suo interno veniva considerata come una regina, l’angelo del focolare (Angel in the House)1.
Questa concezione della donna era talmente ben inserita nel pensiero comune, da diventare spesso oggetto, trama, nei romanzi del tempo.
Gli scrittori proponevano appunto donne che incarnavano valori materni tipicamente femminili, in netto contrasto con le ormai consolidate caratteristiche maschili: quali l’aggressività e la competitività.
Da sempre, e quindi anche nel diciannovesimo secolo, nella narrativa e nella vita sociale era radicata la tendenza ad esaltare il ruolo fondamentale della donna nell’ambito familiare, (di fatto però segregata in casa), riuscendo spesso a farle apparire positiva una realtà che invece le imponeva molte rinunce e limitazioni.
La società non aveva nessun riguardo nei suoi confronti: non era protetta, e in modo particolare tutelata da eventuali soprusi o difficoltà.
La scrittrice Elisabeth Langland, in un suo lavoro: Anne Brontë. The Other One, ha messo in evidenza proprio questa situazione:
“Women had no legal status; they were non-persons under law. A woman stood in relationship to her husband as did her children, entirely dependent on his will, responsability, and generosity.
She could be abused physically and emotionally yet she was powerless to walk away.
She had no rights over her children . . .” 2.
Questa era purtroppo la cruda e dura realtà alla quale una donna coniugata aveva l’obbligo di sottostare: non aveva altre alternative.
Per le donne nubili, invece, soprattutto quelle educate secondo i canoni tradizionali, si presentavano delle possibilità, seppur strette e limitate, che offrivano alle giovani alcune chances per realizzare ed affermare la loro personalità, di diventare insomma “indipendenti” socialmente ed economicamente.
La prima attività lavorativa che permetteva loro di conquistare una autonomia finanziaria e di potersi mantenere da sole, era quella di insegnante in una scuola, o quella di governante presso qualche famiglia agiata.
Questa professione era la più comune e anche la più adeguata ai canoni vittoriani: le donne non trasgredivano il loro ruolo subalterno passando da una soggezione al proprio genitore ad un’altra soggezione nei confronti del capofamiglia che le ospitava.
La seconda attività lavorativa era meno accettata dalla società contemporanea, ed era quella di scrittrice.
Molto spesso le donne che volevano intraprendere questa professione, venivano messe in guardia dai critici, o da amici, delle difficoltà cui andavano incontro. Come il poeta Robert Southey consigliò a Charlotte Brontë nel 1837:
“Literature cannot be the business of a woman’s life, and it ought not to be.” 3
Tuttavia molte scrittrici iniziarono la loro difficile attività, adottando semmai pseudonimi maschili.
Le sorelle Brontë pubblicarono il loro primo volume di poesie rispettivamente sotto i nomi di Currer, Ellis e Acton Bell. E’ da notare come ciascuna di loro preservò le proprie vere iniziali negli pseudonimi.
Lo pseudonimo aveva due importanti funzioni: in primo luogo aiutava le autrici a proteggere la propria privacy, quindi a non svelare la loro vera identità, in questo permettendo loro di affrontare temi generalmente trattati da scrittori uomini, ma proibiti a scrittrici di sesso femminile; inoltre garantiva una valutazione oggettiva del loro lavoro impedendo che fosse compromessa da pregiudizi.
Occorre poi notare che nonostante le scrittrici cercassero di rappresentare la società contemporanea mantenendo un atteggiamento equilibrato nei loro romanzi a carattere sociale, esse erano comunque ancora vincolate, limitate (anche inconsapevolmente), nel descrivere le esperienze sentimentali delle loro protagoniste.
Infatti l’ideologia patriarcale vittoriana era basata sul modello della donna pura, casta sostanzialmente priva di quelle forti emozioni come la rabbia, l’ambizione, la passione, convenzionalmente esclusive della personalità maschile. Tutto quello che investiva la sfera passionale e sessuale era un argomento tabù, da non trattare e da non dover rappresentare nei romanzi.
In “Professions for Women”, Virginia Woolf affermava che la donna scrittrice doveva affrontare due sfide:
“ first, killing the Angel in the House, and second, telling the truth about her own experiences as a being of flesh and blood.” 4

Ma la critica contemporanea continuava a discriminare i romanzi al femminile privi d’interesse e scadenti collegando il romanzo al corpo della donna autrice, inferiore fisicamente a quello maschile.
Il puritanesimo vittoriano giustificava questo atteggiamento basandolo su una considerazione antica: il presupposto della procreazione come atto esclusivamente femminile contrapponendolo alla creatività artistica (ma anche umanistica o scientifica), prerogative essenzialmente maschili.
Nella donna il primo presupposto impediva necessariamente la coesistenza dell’altro: non poteva assolutamente verificarsi una loro sovrapposizione.
In tutti i campi dello scibile la donna veniva considerata e studiata come inferiore rispetto all’uomo, ma la sua inferiorità risultava più accentuata nel campo medico, dove non solo fisicamente ma intellettivamente era riconosciuta al di sotto del genere maschile.
Si riteneva che il cervello della donna fosse meno sviluppato e più soggetto a malattie rispetto a quello di un uomo. Sforzandolo troppo la donna rischiava di causare seri disturbi e malattie agli apparati riproduttivi rischiando perfino di arrivare alla completa sterilità.
Nel 1869 lo scienziato James Macgrigan Allan affermava che:
“in intellectual labour, man has surpassed, does now and always will surpass woman, for the obvious reason that nature does not periodically interrupt his thought and application.” 5
Nonostante queste credenze avessero messo radici profonde nel pensiero comune dell’epoca, alla base esisteva nascosto anche il timore di una possibile realizzazione e affermazione della donna in competizione (considerata innaturale), con le attività tipicamente maschili; tale modifica della sua femminilità costituiva una trasgressione alle leggi della natura.
Infatti mentre il lavoro rappresentava per l’uomo la realizzazione, lo scopo nella vita sociale, alla donna non poteva essere permessa questa realizzazione. La società organizzata su base maschile non poteva consentire che la donna guadagnando un’indipendenza economica grazie al proprio lavoro, sfuggisse al ruolo subordinato che le assegnava la tradizione all’interno della propria famiglia.
Accadeva spesso che erano proprio le donne recluse, prigioniere della propria casa a cercare conforto nella scrittura; erano donne sole, infelici che inconsapevolmente scrivevano racconti a carattere autobiografico.
2 - Anne Brontë e il germe della scrittura.
While on my lonely couch I lie
I seldom feel myself alone,
For fancy fills my dreaming eye
With scenes and pleasure of its own.6
Anne Brontë
Non si può non tenere conto o sottovalutare l’importanza del background familiare e sociale di una scrittrice quando si affronta l’analisi della sua produzione letteraria.
Il lettore di romanzi o di altro genere narrativo è spesso interessato a scoprire chi realmente si celi dietro il testo e, attraverso un lavoro di ricerca e di analisi, egli riesce spesso a risalire e a conquistare particolari biografici delle autrici.
Il bisogno di analizzare la biografia della scrittrice per comprendere il suo modo di scrivere è senz’altro importante soprattutto nei confronti della giovane Anne Brontë, per capire perché anche lei come le sue sorelle ha sentito la necessità di scrivere, di proiettare la sua immagine, i suoi sentimenti nel mondo della scrittura.
I see, far back, a helpless child,
Feeble, and full of causeless fears,
Simple and easily beguiled
To credit all it hears … 7
Un primo passo per capire come sia nato il talento letterario di Anne Brontë divenuta scrittrice famosa al pari con le sue sorelle, si realizza proprio ripercorrendo la sua infanzia e quella delle sue sorelle.
Dai libri che la famiglia Brontë possedeva, venuti a nostra conoscenza, possiamo dedurre qualcosa sull’educazione che il padre, il reverendo Patrick Brontë, impartì ai suoi figli.
La biblioteca era formata da tipici testi di educazione e formazione culturale del periodo, che includevano Thomas Salmon’s New Geographical and Historical Grammar, Oliver Goldsmith’s quattro volumi History of England condensati in un solo volume, Rollin’s History e J. Goldsmith’s A Grammar of General Geography.8
Il reverendo Brontë, uomo di notevole cultura, s’interessò al loro sviluppo psicologico e intellettuale.
Nonostante essi vivessero un po’ isolati dalla città, nella brughiera, ebbero ugualmente un’infanzia perfettamente normale: la loro vita entro le mura domestiche era felice e stabile avendo un padre sempre disponibile a passare del tempo in loro compagnia, leggendo e commentando la stampa settimanale e le riviste mensili che giungevano a Haworth Parsonage.
Come in tutte le grandi famiglie, e particolarmente in quelle in cui i bambini sono quasi coetanei fra loro, i Brontës erano autosufficienti nelle loro attività infantili e nei loro divertimenti.
Non avevano bisogno di cercare amici della loro età quando in casa c’erano persone che condividevano i loro stessi giochi, non sentivano la necessità di far entrare estranei nel loro mondo. I loro giochi si fondavano sulle letture fatte sui giornali che venivano letti ad alta voce da un membro della famiglia.
Oltre la lettura quotidiana di giornali e riviste, il padre aveva insegnato loro l’importanza della conoscenza della Bibbia: ogni membro della famiglia ne possedeva una copia, insieme ad un Libro di Preghiere.
Anne aveva, inoltre, un Libro di Preghiere datole dalla sua madrina Fanny Outwaite e un libro della Bibbia regalatole dall’altra madrina Elisabeth Firth .
Questi libri influenzeranno tutta la produzione letteraria di Anne a cominciare con i suoi primi lavori di poesie :
If I believe that Jesus died
And waking rose to reign above,
Then surely sorrow, sin and pride
Must yield to peace and hope and love.
(Poem n° 92) .
My God ! O let me call Thee mine !
Weak wretched sinner though I be,
My trembling soul would fain be Thine,
My feeble faith still clings to Thee.
(Poem n° 105).9
Nella biblioteca paterna, di cui i figli potevano usufruire senza alcuna proibizione, si trovavano anche i libri comuni di favole come le Fiabe di Esopo, e The Arabian Nights Entertainment.
Entrambi i testi furono molto importanti per la produzione letteraria a carattere fantastico e romanzesco dei loro primi lavori.
Di tutti i libri e periodici che leggevano, uno solo veramente incise in modo decisivo sulla loro crescita: il “Blackwood Magazine”, un giornale mensile pubblicato dal 1817 da William Blackwood a Edimburgo. Da questo mensile i giovani Brontë assorbirono le idee politiche dei Tory, trasformarono i personaggi illustri nominati nel giornale (dal Duca di Wellington a Lord Byron), in loro eroi e copiarono lo stile semiserio adottato dai giornalisti.
Con il passare degli anni i Brontës cominciarono a raccontare e registrare per iscritto i giochi che facevano da bambini ripercorrendo con la memoria il periodo più bello della loro vita quando si trovavano tutti a casa uniti come mai.
Nel 1829 Charlotte ricordava i giochi più importanti che avevano inventato da piccoli:
“Our plays were established Young Men June 1826. Our fellows July 1827 islanders December 1827. Those are our three great plays are not kept secret. Emily and my Bed play’s where Established the 1st December 1827 and the other March 1828. Bed plays mean secret plays they are very nice ones all our plays are very strange ones there nature I need not write on paper for I think I shall always remember them. The young man play took its rise from some wooden soldier’s Branwell had Our fellows from Esops fable and the islanders … from several events which happened” .10
I “Young Men” avrebbero trovato un loro sviluppo nel mondo immaginario di Glasstown, e di Angria. I “Bed plays” erano segreti solo perché escludevano Branwell e Anne, poiché Charlotte e Emily dividevano lo stesso letto, quindi nelle ore buie della notte inevitabilmente inventavano dei giochi.
Per quanto riguarda il “play of the Islanders”, Charlotte ne raccontò le origini:
“The play of the Islanders was formed in December 1827 in the following maner. One night about the time when the cold sleet and \dreary \ fogs of November are succeeded by the snow storms & high peircing nightwinds of confirmed winter we where all sitting round the warm blazing kitchen fire having just concluded a quarel with Taby concerning the propriety \of \ lighting a candle from which she came of victorious no candles having been produced a long pause suceeded which was at last broken by B saying in a lazy maner I dont know what to do this was reechoed by E & A
T wha ya may go t’bed
B Id rather do anything (than) that
& C Your so glum tonight T supose we had each an Island.
B if we had I would choose the Island of Man
C & I would choose Isle of Wight
E the Isle of Arran for me
A & mine should be Guernsey
C the D(uke) of Wellington should be my chief man
B Herries should be mine
E Walter \ Scott\ should be mine
A I should have Bentinck” 11
I ragazzi Brontë erano talmente coinvolti nelle storie del loro mondo immaginario da non riuscire molte volte a distinguerlo dal mondo reale.
Il mondo fantastico e i giochi non si arrestarono nella fase dell’adolescenza ma continuarono ad avere un posto importante anche nel processo creativo dei Brontës nell’età adulta. Come avvenne nel 1845 quando Emily e Anne, allora ventenni, durante un viaggio in treno fecero finta di essere delle prigioniere monarchiche scappate da Gondal.12
L’origine dei giochi era dovuta agli spunti che gli offrivano i libri, quindi un intrecciarsi di fatti reali con l’immaginazione. Il miglior risultato di questo originale metodo creativo fu la storia dei “Young Men”, meglio conosciuti sotto il nome di “Twelves”.
Sia Branwell che Charlotte ne documentarono per iscritto la nascita:
“On June 1826, papa bought Branwell some soldiers at Leeds when papa came home it was night and we where in Bed so next morning Branwell came to our door with a box of soldiers Emily and I jumped out of Bed and I snathed up one and exclaimed this is the Duke of Wellington it shall be mine !! \Auther\ when I said this \Athur\ Emily likewise took one and said it should be hers when Anne came down she took one also. Mine was the prettiest of the whole and perfect in every part Emily was a Grave Looking ferllow we called him Gravery Anne’s was a queer litle thing very much like herself. He was called waiting Boy Branwell chose Bonaparte.” 13
3 - Esperienze di vita
“ Our thoughts in younger life, are frequently very different from those in more advanced periods, arising partly from a want of knowledge and experience of men and things.”
G.B. Wright
Le storie immaginarie ambientate nel mondo di Gondal create dalla fantasia di Anne e Emily, insieme a quelle del mondo irreale più guerriero, più al maschile di Charlotte e Branwell percorsero due strade diverse.
Le prime continuarono seppur in modo saltuario anche durante gli anni di scuola e quindi di distacco delle due sorelle. Le seconde invece terminarono interrompendosi nel momento in cui Charlotte dovette iniziare a lavorare a causa delle precarie condizioni economiche in cui versava la sua famiglia.
Anche Anne provvide al sostentamento della casa decidendo lei stessa di trovarsi un posto come governante o nutrice presso famiglie benestanti.
Così scriveva Charlotte Brontë, all’amica Ellen Nussey:
“. . . we were very busy in preparing for Anne’s departure - poor child !
She left us last Monday no one went with her - it was her own wish that she might be allowed to go alone - as she thought she could manage better and summon more courage if thrown entirely upon her own resources . . . “ 14
Nonostante il suo carattere timido, gentile, il suo corpo fisicamente gracile e debole, Anne dimostrò una determinazione e un coraggio morale che contrastava con la sua natura; di tutte le sorelle lei fu l’unica a lavorare lontano da casa per un periodo molto lungo, senza realizzare però le sue aspirazioni.
Gli unici momenti di tranquillità e conforto Anne li trovava nella scrittura. Sola nella sua camera dava sfogo alle emozioni represse durante le dure giornate di lavoro; pensando ai suoi cari ritornava la pace e la serenità.
Il diario era il suo unico amico, custodiva con gelosia ogni suo più piccolo pensiero e stato d’animo: il 30 Luglio 1841 (periodo durante il quale lavorava nella famiglia Murray), Anne volge il suo pensiero ai suoi fratelli:
“ I wonder what will be our condition and how or where shall all be on this day four years hence; at which time , if all be well, I shall be 25 years and 6 months old, Emily will be 27 years old, Branwell 28 and 1 month, and Charlotte 29 years and a quarter.”
e al suo lavoro:
“ I dislike the situation and wish to change it for another.” 15
Anne riuscì sempre a controllare le sue vere emozioni che non trovarono altro sfogo se non nelle pagine del suo diario. Doveva nascondere l’alterazione del volto, doveva “indossare” una maschera di compostezza, di pazienza, di gentilezza: a una donna non era consentito provare forti emozioni.
Sfogliando alcune pagine del diario di Anne emergono preoccupazioni ed ansietà che mostrano le difficoltà che dovette superare per raggiungere la sua crescita, il suo sviluppo come individuo:
“What will the next four years bring forth ? Providence only knows. But we ourselves have sustained very little alteration since that time. I have the same faults that I had then, only I have more wisdom and experience, and a little more self-possession than I then enjoyed (. . .) For some time I have looked upon 25 as a sort of era in my existence. It may prove a true presentiment, or it may be only a superstitious fancy; the latter seems most likely, but time will show.” 16
Ad accentuare le sue paure, il suo carattere già di per sè timoroso, chiuso, si manifestò, negli anni della sua formazione, una forte crisi religiosa: totalmente soggiogata dalle concezioni del Metodismo impartitele dalla zia, Anne si ritrovò ad aver paura di quel Dio che aveva tanto amato, un Dio capace di perdonare, di infinita grazia, che attraverso le preghiere e le opere buone le avrebbe concesso il suo posto in Paradiso.
La zia invece le fece conoscere un Dio diverso, temibile, un Dio che puniva con il fuoco e le fiamme dell’inferno e che apriva le porte della salvezza soltanto a pochi eletti e a prezzo di grandi sacrifici e rinunzie.
Da tutto questo derivò un profondo turbamento emotivo, un grave stato di insicurezza che portarono Anne ad ammalarsi seriamente. Fu soltanto grazie alle continue visite del Reverendo James la Trobe, ministro e insegnante nella cappella e nella scuola della Moravia, che Anne riuscì a superare la sua crisi:
“I found her well acquainted with the main truths of the Bible respeching our salvation, but seeing them more through the law than the gospel, more as a requirement from God than His gift in His Son, buther heart opened to the sweet views of salvation, and peace in the blood of Christ, and she accepted His welcome to the weary and heavy laden sinner, conscious more of her not loving the Lord her God than of acts of enmity to Him, and had she died then, I should have counted her His redeemed and ransomed child.” 17
Anche quando aveva ormai superato la crisi religiosa, nelle sue poesie si poteva percepire, a tratti anche toccare in modo evidente, il senso di malinconia e soprattutto di inutilità che Anne aveva ancora dentro di sé:
O God ! If this indeed be all
That life can show to me:
If on my aching brow may fall
No freshening dew from thee:
If with no brighter sun than this
The lamp of hope may glow,
And I may only dream of bliss,
And wake, to weary woe:
If friendship’s solace must decay
When other joys are gone;
And love must keep so far away
While I go wandering on. (ll. 1-12 ) 18
Caratteristica tipica dello scrivere di Anne è il suo bisogno di essere se stessa, di descrivere i propri sentimenti con assoluta sincerità, senza camuffamenti. Il fine del suo lavoro è l’acquisizione dell’identità, la ricerca nella poesia, della rappresentazione del suo Io.
Nonostante ciò la scrittura di Anne crea una “axiology of the self”, cioè dona al personaggio di cui si occupa, la capacità di poter distinguere tra quello che è privato e che non deve essere mostrato agli altri, come le inquietudini, i timori, da quello che di se stessi si può invece far vedere all’esterno.19
I riferimenti autobiografici emergono continuamente attraverso tutte le fasi dello sviluppo di Anne come scrittrice; questi impulsi non possono essere riferiti a precisi e ben definiti momenti della sua vita, ma costituiscono la conseguenza, il risultato di tutte le tensioni, le prove che ha dovuto sostenere per essere considerata un individuo autonomo.
Considerare l’aspetto autobiografico di Anne cercando di rintracciare, di far coincidere gli episodi della sua vita con quelli della sua narrativa, rischia però di farci dare maggior importanza al valore del suo cammino verso il raggiungimento di una maturazione psicologica, piuttosto che alle difficoltà d’interpretazione del suo lavoro.
Nelle parole di Angela Leighton possiamo ritrovare questa considerazione:
“The self who lives is not the same as the self who writes, but that is not to say that the first is simply irrelevant and ‘dead’.”
Recenti teorie sulla scrittura autobiografica hanno messo in dubbio l’ipotesi che esista
“nothing problematical about the autos, no agonizing questions of identity, self-definition, self-existence, or self-deception.”20
Quindi tutto ciò che riguarda la scrittura narrativa e poetica di Anne deve essere studiato non solo come autobiografia di una giovane scrittrice ma riuscendo a rispondere alle domande che lei implicitamente ci pone, come il problema dell’individuo e della sua definizione nella società.
Anne affronta le stesse tematiche che un secolo dopo il movimento femminista porrà alla base delle proprie rivendicazioni, soprattutto nel campo letterario.
Le eroine di Anne compiendo uno sforzo che va oltre le loro possibilità - costruirsi una propria personalità all’interno del ristretto ambito domestico - riflettono chiaramente il contesto sociale e culturale del tempo.
Le nozioni essenziali del pensiero comune nel XIX° secolo - quindi del mondo di Anne - erano basate sulla tradizione di considerare la donna, la sua figura, come una rete che rendeva naturale la separazione del campo della sfera familiare, privata da quello delle attività pubbliche:
“Separate sphere has come to denote the gendered bifurcation of activity and behaviour that many middle-class victorians seemed to endorse, one that defined women as naturally belonging to and existing within the confines of the private household and home, and that correlatively associated men with the public, cultured domain of the workplace. According to the ideology of separate spheres, women inhabited a distinct world of their own, one that revolved around their nurturing role within the nuclear family. The idea of separate spheres emanated out of cultural understanding of woman’s psychological identity but extended beyond the psychological to advocate a corollary social behaviour, one premised on the ideals of piety, purity, and submissiveness.” 21
La reazione di Anne a questa ideologia delle due sfere si manifestò nell’uso che ne fece nella propria scrittura: concentrò su questo tema tutta la sua attenzione; lo usò per parlare delle realtà sociali e psicologiche della vita domestica, facendo aumentare di credibilità la sua analisi sulle conseguenze che questo tipo di rapporto aveva nella vita privata di una coppia.
Degna di nota è l’analisi di Elisabeth Hardwich sulla posizione delle ragazze appartenenti alla classe media:
“The worries that afflicted genteel, impoverished women in the nineteeth century can scarcely be exaggerated. They were cut off from the natural community of the peasant classes. The world of Tess of the d’Ubervilles, for all its sorrows and injustice, is more open and warm and fresh than the cramped, anxious, fireside-sewing days of the respectable. Chaperones, fatuos rules of department and occupation drained the energy of intelligent needy woman.” 22
Specchio di questa situazione sono le esperienze vissute da Anne come governante che costituiranno la base per la costruzione del suo primo romanzo, Agnes Grey.
Se si considera l’opera come semplice autobiografia di una donna che racconta la sua degradante esperienza, le difficoltà incontrate nel cercare di far rispettare il suo ruolo di governante e nutrice, ci si limita quindi ad un’analisi superficiale, non si verrà mai a comprendere il metodo narrativo applicato dalla scrittrice: attraverso la gracile figura della governante, lei analizza la sottile linea che divide il pubblico da ciò che è privato, studia il concetto di “invisibilità sociale” applicandolo nello specifico alla posizione sociale della sua eroina.
Anne è inoltre cosciente del fatto che il problema non coinvolge solo il ruolo della governante ma di tutte le donne, qualunque sia il loro ruolo nella società.
Critiche e giudizi sulle tecniche di narrazione utilizzate da Anne possono essere fatte solo dopo che si sia considerato un fattore molto importante: la prima lettrice e critico dei suoi lavori fu sua sorella Charlotte, ritenuta responsabile almeno in parte della limitata considerazione che hanno avuto per molto tempo tutti gli scritti di Anne.
Nel “Biographical Notice”, Charlotte parla in termini riduttivi del lavoro della sorella e del risultato letterario da lei raggiunto definendolo solo come semplice scritto autobiografico:
“She had, in the course of her life, been called on to contemplate, near at hand, and for a long time, the terrible effects of talents misused and faculties abused: hers was naturally a sensitive, reserved, and dejected nature; what she saw sank, very deeply into her mind; it did her harm. She broaded over it till she believed it to be a duty to reproduce every detail (of course with fictitious characters, incidents, and situations) as a warnings to others.” 23
A smentita di Charlotte, le donne semplici e talvolta insignificanti che ricoprono un ruolo subordinato nella società patriarcale dell’epoca, che fanno da sfondo, da riempitivo nella attiva vita quotidiana dei loro padri o mariti, diventano le colonne portanti della narrativa di Anne Brontë.
Ci si è domandato perché, la donna da sempre considerata la più timida, gentile, chiusa delle tre sorelle, sia proprio quella che abbia affrontato delle tematiche così scottanti, trasgredendo ai tradizionali canoni letterari del tempo: le donne maltrattate, rese schiave dalla società e dalla loro stessa cultura ?
Tutte loro sono rappresentate con sfaccettature diverse nella figura della governante, della donna sposata, della madre, dell’artista, dell’invalida, e della peccatrice.
Certamente quella che meglio di ogni altra rivela l’impegno assunto nel far emergere la delicata situazione in cui si trovavano le donne, era la Governante.
Questa occupava una complessa e ambigua posizione nella società vittoriana.
Il termine “governante” non indicava esclusivamente colei che accudiva i bambini e li educava secondo gli ordini ricevuti dai genitori nonché suoi datori di lavoro. Da lei si pretendeva collaborazione per un buon funzionamento della casa: eseguire lavori di sartoria (taglio e cucito), vigilare sul comportamento dei bambini, accompagnarli alla Santa Messa e nelle loro passeggiate quotidiane ecc. . . .
Quindi non avendo un ruolo preciso all’interno della casa, veniva sfruttata in tutti i modi.
Malgrado le attenzioni che rivolgeva ai bambini, al rispetto per i padroni e l’umiltà con cui adempieva a tutti i lavori per la famiglia; la governante non ne faceva mai realmente parte, non riceveva alcuna manifestazione di gratitudine o di affetto.24
L’eroina del primo romanzo di Anne, Agnes Grey, illustra perfettamente questa situazione di ambiguità, mettendo in evidenza il modo in cui problemi di ceto sociale e d’identità convergano nella figura della governante. Inoltre l’uso di questa figura chiave permette di esplorare la relazione che si crea nel corso del romanzo e di conseguenza nella vita reale tra comportamento sociale e sviluppo psicologico visti come fine del processo formativo della protagonista.
Le difficoltà che s’incontrano nell’interpretazione delle opere di Anne Brontë stanno nel riconoscere e analizzare il significato dei contesti e la polifonia delle voci che si alternano all’interno di ogni singola pagina in cui si sviluppa l’azione.
Esistono comunque delle difficoltà e delle limitazioni a cui la stessa Anne deve sottostare, come scrive Joan Wallach Scott:
“To ignore politics in the recovery of the female subject is to accept the reality of public \ privat distinctions and the separate or distinctive qualities of women’s character and experience. It misses the chance not only to challenge the accuracy of binary distinctions (. . . ) but to expose the very political nature of a history written in those terms.” 25
L’aspetto fondamentale sul quale si concentrarono tutti gli scritti e l’interesse di Anne riguardava la costruzione sia sociale che psicologica dell’identità, in particolare di quella femminile quale poteva essere la sua o delle sue protagoniste della poesia e della narrativa.
La rivelazione del talento letterario di Anne fu dovuta al ritorno a casa, dopo un lungo periodo di assenza, di sua sorella Charlotte.
Anche Charlotte, come Anne, lavorò come governante ma a differenza della sorella rimase talmente segnata da tale esperienza da subire un blocco emotivo, mentale, che le impediva di creare, di continuare qualsiasi lavoro scritto comprese le avventure della saga di Angria.
Tornata a casa, Charlotte scoprì involontariamente degli scritti di Anne e di Emily che provocarono in lei una profonda invidia nei confronti delle sorelle che anche in sua assenza avevano continuato indipendentemente una loro attività e soprattutto avevano scritto qualcosa di talmente valido da farle venire in mente l’idea di pubblicarlo, naturalmente aggiungendovi anche una sua introduzione, e un suo giudizio sul lavoro di Anne:
“ In looking over my sister Anne’s papers, I find mournful evidence that religious feeling had been to her but too much like what I was to Cowper; I mean, of course, in a far milder form. Without rendering her a prey to those horrors that defy concealment, it subdued her mood and bearing to a perpetual pensiveness; the pillar of a cloud glided constantly before her eyes; she ever waited at the foot of a secret Sinai, listening in her heart to the voice of a trumpet sounding long and waxing louder. Some, perhaps, would rejoice over these tokens of sincere though sorrowing piety in a deceased relative: I own, to me passed under the martyrdom of an unconfessed physical pain.” 26
“ Meantime, my younger sister quietly produced some of her own compositions, intimating that since Emily’s had given me pleasure I might like to look at hers. I could not but be a partial judge, yet I thought that these verses too had a sweet, sincere pathos of their own. We had very early cherished the dream of one day being authors. (. . .) We agreed to arrange a small selection of our poems, and, if possible, get them printed.” 27
Questo è il modo in cui Charlotte delinea i tratti fondamentali del carattere e dell’operato di sua sorella Anne, idealizzata nell’immagine del “sofferente silenzioso”, contemporaneamente sia vittima che santo.
I biografi successivi riprenderanno nei loro studi il modello tracciato da Charlotte per sottolineare con maggiore evidenza l’isolamento e il riserbo che caratterizzarono la vita e gli scritti di Anne; proprio perché racchiudevano in sè l’esempio perfetto di quella che era la donna vittoriana, una donna rassegnata che imparò dalla sua cultura, dalla sua società “ to suffer and be still”.28
4 - La scrittura come trasgressione
La caparbietà e la volontà di Charlotte nel pubblicare il volume di poesie, resero noti i lavori di Anne che altrimenti sarebbero rimasti chiusi in un cassetto non conoscendo altro giudizio critico all’infuori di quello non certamente oggettivo di sua sorella Emily.
Nel XIX° sec. la maggior parte dei lavori, da quello fisico, manuale a quello intellettuale, letterario era dominio prevalente del sesso maschile. La donna, secondo i ruoli che esistevano allora, era destinata alla sfera privata: casa e doveri familiari; le era assolutamente proibito prendere parte a qualsiasi attività che non concernesse l’ambito domestico.
Occorre precisare a questo punto che il termine “uomo privato” aveva nel XV° - XVI° sec. un significato del tutto differente da quello attuale: nella accezione originaria stava ad indicare un uomo senza qualità, senza incarichi sociali, in altre parole una persona che occupava gli ultimi gradini (ancorché dignitosi) della reputazione sociale.
Nel corso degli anni il significato del termine si è modificato, evoluto, fino ad arrivare al nostro secolo dove il privato, l’uomo privato, indica semplicemente un uomo rispettabile, che può raggiungere lavorando anche un elevato tenore di vita pur non avendo pubbliche funzioni.
Riprendendo la definizione dell’Oxford English Dictionary il privato era: “one who does not hold any public office or position.” Quindi il “private man” era soltanto un semplice cittadino situato al livello più basso della scala sociale.
Se ne deduce che per gli uomini essere considerati invece dei “public men” era un onore, significava dunque avere conquistato una posizione di rilievo non indifferente nella società.
Per le donne, invece, la situazione era capovolta: essere giudicata una “public woman” costituiva essere un elemento di profonda vergogna per la società puritana del tempo, in quanto “public woman” era il termine con il quale generalmente s’indicava una prostituta.
Quindi lo spazio pubblico era proprietà esclusiva della vita sociale maschile, dove tramite scambi, attività commerciali, discussioni, gli uomini acquistavano potere e autorità.29
Per questo motivo la donna scrittrice, in quanto letta, criticata da un pubblico di lettori (e perciò in qualche modo donna pubblicamente nota), era considerata come un’intrusa nel territorio fino ad allora dominato dalla legge maschile. Ricordando le parole che il Poeta Laureato Robert Southey disse in una sua lettera a Charlotte: “Literature cannot be the business of woman’s life and it ought not to be”30, si capisce come, non solo nella vita delle persone prive di cultura, dei semplici cittadini, ma anche in quella della gente borghese e benpensante, l’opinione comune tendeva a respingere, recludere la donna in casa, nella sfera domestica dove risiedevano i suoi “doveri reali”, consigliandole di tener lontane le proprie emozioni dalla scrittura in quanto emozioni troppo violente potevano risultare nocive alla salute di una donna.
L’atto creativo della scrittura esaltava, stimolava a tal punto le cellule emotive femminili da creare un’alterazione in quella maschera di compostezza che si pretendeva essere il volto della donna.
Non poteva esternare i suoi pensieri, non poteva avere desideri, curiosità; doveva nascondere ogni sensazione, vestire il ruolo della banalità, della sottomissione, delineare sul proprio viso i tratti tristi, pacati che l’uomo le imponeva e che lo facevano sentire il suo padrone.
L’immagine autoritaria, dura viene negli scritti di Anne, ricalcata dalla figura paterna del reverendo Brontë. Il padre si dichiarò sin dall’inizio contrario alla pubblicazione dei suoi lavori insieme a quelli delle altre sorelle, si oppose anche allo “strano” modo in cui volevano scrivere: adottando una scrittura in carattere minuscolo corsivo, al posto della “normale” calligrafia. Non voleva che le figlie andassero contro i canoni tradizionali dell’epoca.
Sotto questo aspetto Anne considerava il padre come l’incarnazione del modello negativo di comportamento maschilista nei confronti della scrittura femminile.
La scrittura, il testo, da parte delle donne - figlie, si configura come violazione dei principi appartenuti da sempre all’uomo – padre.
Nella teoria psicoanalitica di scuola lacaniana il Padre, quindi, rappresenta la Legge.
Egli fonda, costituisce sia l’ordinamento sociale che il linguaggio verbale e scritto; appropriarsi di tale meccanismo (Linguaggio – Fallo - Luogo del desiderio ) significa trasgredire la Legge del Padre o Nome del Padre:
“ Il Nome del Padre non si riferisce quindi al padre reale bensì alla funzione paterna, quella che la religione insegna ad invocare, e che è la condizione dell’ordine della civiltà, sorta di a priori categoriale della specie, di fronte al quale il padre reale non rappresenta che un’incarnazione contingente, tanto che essa può essere realizzata da una persona diversa dal padre naturale.” 31

Significativo è il fatto che le Brontë cerchino di tenere all’oscuro le loro creazioni letterarie adoperando però uno pseudonimo il quale non “coinvolge il Nome del Padre”32 costituendo così una trasgressione che non viola la legge, cioè l’autorità maschile.
Anne, al contrario delle sue sorelle, non venne mai meno ai desideri paterni: come lui desiderava, scrisse le sue poesie con una normale calligrafia, le sue sorelle, come da loro deciso, adottarono invece il corsivo contro il volere del padre.
La scelta di Anne combacia perfettamente con quelli che erano i suoi ideali più nobili: il rispetto e l’obbedienza verso il padre. Ma nello stesso tempo emerge la rivendicazione della sua libertà di espressione rispetto al modello in comune usato da Charlotte ed Emily.
Quindi non lasciandosi influenzare dalla caratteristica anche estetica scelta dalle sue due sorelle, non imitando la loro scrittura, il desiderio, tanto diffuso nelle sue poesie della costruzione della propria identità, trova già una prima notevole affermazione nella decisione di scrivere in modo del tutto personale.
Gli scritti di Anne rappresentano il suo Io, la sua immagine interiore che pagina dopo pagina prende forma, si materializza fino a divenire specchio della sua vita, della sua realtà.
Adempiendo alla funzione di poetessa vittoriana, oltre al gran numero di poesie con temi prettamente privati (obbedienza, ricerca dell’identità, del suo posto nel mondo, solitudine, emarginazione . . .),
Anne s’interroga come fanno molti altri poeti del periodo sui “terms of both self and other” mettendo in primo piano la precarietà della loro relazione nel processo “making the act of representation itself a focus of anxiety”.33
La poetica di Anne, i soggetti da lei trattati, le tecniche narrative adoperate, rispecchiano non solo la tradizionale poesia vittoriana in generale, ma l’accomunano naturalmente a quella femminile dell’epoca.
La giovane Brontë entra a far parte di quel mondo fatto in versi, ricoprendo anche lei “a subtly determing myth of what being a woman poet means”.34
Il mito in questione è quello della sensibilità femminile idealizzato nella figura della poetessa: la donna – poeta viene fatta uscire dalla sua “prigione”, dal mondo materiale, per essere collocata e ammirata in tutta la sua lucentezza in una sfera celeste superiore, eterea; da dove posa il suo occhio attento e benevolo sulla terra come rappresentazione simbolica della purità morale.
Le poetesse vittoriane, compresa la stessa Anne Brontë, con sottili arguzie e giochi di parole descrivevano all’ipotetico lettore le ingiustizie sociali a cui erano sottoposte le donne e il “duty to reveal women’s deepest emotional reality.”35
L’analisi compiuta da Anne sulla sensibilità femminile e sul ruolo della donna nell’ambito domestico è reso ancor più complesso dai concetti contenuti nel discorso retorico associato all’Evangelicanesimo, “the religion of the heart”36.
L’influenza di questa religione negli scritti della giovane Brontë si nota soprattutto nella frequente metafora cuore – barometro: come il barometro segna le variazioni, gli alti e bassi della temperatura così il cuore funziona da rivelatore degli sbalzi delle sue emozioni, dei suoi desideri sessuali talmente proibiti da doversi sforzare per controllarli, per nasconderli davanti ad altre persone, ma non davanti a Dio.
Nella poesia Self – Congratulation Anne si rivolge appunto ad una donna che è incapace di nascondere i suoi sentimenti interiori:
Maiden, thou wert thoughtless once
Of beauty or of grace,
Simple and homely in attire
Careless of form and face.
Then whence this change, and why so oft
Dost smooth thy hazel hair?
And wherefore deck thy youthful form
With such unwearied care?
I answered and it was enough;
They turned them to depart;
They could not read my secret thoughts,
Nor see my throbbing heart.
I’ve noticed many a youthful form
Upon whose changeful face
The inmost workings of the soul
The gazer’s eye might trace.
The speaking eye, the changing lip,
The ready blushing cheek,
The smiling or beclouded brow
Their different feelings speak.
But thank God! You might gaze on mine
For hours and never know
The secret change of my soul
From joy to bitter woe.
Last night as we set round the fire
Conversing merrily,
We heard without approaching steps
Of one well know to me.
There was no trembling in my voice,
No blush upon my cheek,
No lustrous sparkle in my eyes
Of hope or joy to speak.
But O my spirit burned within,
My heart beat thick and fast.
He came not nigh – he went away
And then my joy was past.
And yet my comrades marked it not,
My voice was still the same;
They saw me smile, and o’er my face-
No signs of sadness came;
They little knew my hidden thoughts
And they will never know
The anguish of my drooping heart,
The bitter aching woe !37
Gli stati d’animo, i pensieri a cui Anne dava vita nella sua poesia, erano sentimenti troppo trasgressivi per poter essere accettati dalla società d’allora, e soprattutto dal padre.
Nonostante le figlie si ritenessero spesso influenzate dai giudizi del padre, il reverendo Brontë sosteneva al contrario di non intervenire mai per esprimere giudizi o consigli sui contenuti dei loro scritti:
“ When my daughters were at home they read their MSS to each other and gave their candid opinions of what was written. I never interfered with them of such times, I judged it best to throw upon them their own responsability.” 38
Anne pur dimostrando obbedienza al padre, su cose per lui importanti, ma per lei solo superficiali (il tipo di scrittura da usare), nei forti contenuti delle sue poesie non si cura affatto di seguire i tradizionali canoni di scrittura, li trasgredisce e trasgredisce anche, come le sorelle, la Legge del Padre.
5 – “The language of My Inmost Heart”: scrittura femminile e travestimento.
La voce silenziosa e sottomessa, la “silent invalid stranger”39, diventa nella Brontë una condizione che può essere imposta, ma che può anche essere adottata volontariamente a difesa dell’Io.
Seguendo la critica femminista più autorevole si può affermare che non esiste geneticamente una sessualità della lingua; esiste però la sessualità storicamente indotta, e una scrittura alla quale è consentito di esistere solo se ‘al femminile’ nel senso deteriore del termine.
Anne è fra quelle scrittrici che incarnano il silenzio della donna, la voce a cui è impedito parlare, ma che usa il silenzio come forma di difesa dell’Io:
And yet I might not speak one single word;
I might not even tell him that I lived
And that it might be possible if search were made,
To find out where I was and set me free,
O how I longed to clasp him to my heart,
Or but to hold his trembling hand in mine,
And speak one word of comfort to his mind.
I struggled wildly but it was in vain,
I could not rise from my dark dungeon floor,
And the dear name I vainly strove to speak,
Died in a voiceless whisper on my tongue.40
A causa delle patriarcali strutture sociali che storicamente hanno ristretto il simbolico e il letterale accesso alle donne nelle arene pubbliche impedendole di affermare la loro identità, molte donne scrittrici hanno adottato nella letteratura ottocentesca una “strategy of reticence” per sfidare proprio quelle strutture che obbligano al silenzio.41
Anne sottolinea l’acuta, tragica consapevolezza dell’incapacità della sua voce di reagire e di esprimere se stessa.
Quindi se la poesia vittoriana può essere caratterizzata da ciò che esprime “the representational anxiety”, la poesia della Brontë si può dire che descriva “the anxiety of self-representation”.42
Anne aspira a dar suono a quella voce, un suono che sia specchio della propria identità, che vada oltre il suo sesso.
Era stata questa la ragione per cui sua sorella Charlotte (come altre scrittrici contemporanee) all’inizio decise di pubblicare i suoi romanzi, e quelli delle sorelle sotto pseudonimi:
“We did not like to declare ourselves women, because we had a vague impression that authoresses are liable to be looked on with prejudice.” 43
Il ricorso a uno pseudonimo per fare accettare i propri lavori e ottenere un giudizio imparziale, è sintomo di un disagio ancora presente nelle scrittrici del XIX° sec.
Queste, pur essendosi imposte in maniera massiccia nel mercato editoriale, non riescono ancora ad eliminare i pregiudizi esistenti nei loro confronti.
Alle scrittrici è dunque negata la consapevolezza delle proprie capacità, e proprio in The Captive’s Dream, Anne dimostra perfettamente come con l’esclusione, con l’allontanamento dagli altri, dal mondo circostante diventi impossibile comunicare, farsi sentire.
Nelle lettere al suo editore Charlotte Brontë fa riferimento all’acceso dibattito sulla condizione delle donne:
“I often wish to say something about the ‘condition of women’ question, but it is one respecting which so much ‘cant’ has been talked, that one feels a sort of repugnance to approach it.” 44
Una testimonianza dell’immagine ottocentesca della scrittrice come persona debole mentalmente e moralmente, è riportata da Virginia Woolf in A Room of One’s Own: Margaret Cavendish, duchessa di Newcastle, sembra sia stata resa realmente folle dalle contraddizioni tra l’attitudine del mondo esterno verso il proprio sesso e la sua vocazione alla scrittura; ella veniva mostrata alle ragazze come esempio da non seguire:
“the people crowed her couch when she issued out. Evidently the crazy Duchess became a bogey to frighten clever girls with.” 45
Aphra Behn, la prima scrittrice professionista inglese, venne invece considerata dall’opinione pubblica, equivoca, viziosa, indecente; l’autrice, da parte sua, non si curava di smentire tali voci e ammetteva apertamente quelli che erano considerati i suoi ‘errori’.
Per questa ragione ella veniva esclusa, quasi esorcizzata, dalla letteratura ‘seria’ e dai salotti ‘rispettabili’.
Le storie di Margaret Cadenvish e di Aphra Behn appartengono al secolo diciottesimo, ma in quello successivo, nell’epoca vittoriana, sia il denaro che la rispettabilità erano diventati così importanti che nessuno, tanto meno una scrittrice, poteva permettersi di affrontare, sia economicamente che psicologicamente, il rischio di essere accusato di immoralità.
La vita e le scelte di molte scrittrici ci parlano spesso di situazioni degradanti che hanno dovuto affrontare per cercare di giustificare la loro presenza pubblica.
Così Anne scrive all’inizio del primo capitolo del suo primo romanzo Agnes Grey:
“All true histories contain instruction; though, in some, the treasure may be hard to find, and, when found, so trivial in quantity, that the dry, shrivelled kernel scarcely compensates for the trouble of cracking the nut. Whether this be the case with my history or not , I am hardly competent to judge. I sometimes think it might prove useful to some, and entertaining to others; but the world may judge for itself. Shielded by my own obscurity, and by the lapse of the years, and a few fictitious names, I do not fear to venture; and will candidly lay before the public what I would not disclose to the most intimate friend.” 46
In queste affermazioni così forti e decise, emerge comunque fra le righe la paura di essere mal giudicata dai lettori, la consapevolezza alla fine di appartenere, di confermarsi ad un determinato ruolo che le è stato imposto da tempo, senza nessuna possibilità di cambiamento.
Dalla necessità che ha spinto Anne a fare tali dichiarazioni, notiamo la profonda ansia rispetto alla scrittura, esistente non solo in lei, ma in ogni altra autrice.
Nella condizione delineata, quali ‘strategie’ hanno elaborato le scrittrici per realizzare la propria ansia creativa, che sopravviveva nonostante le forti pressioni della società patriarcale ?
Le donne che volevano dedicarsi alla scrittura, avevano una scelta limitata, perché era negato loro il diritto di raccontare liberamente le proprie storie e di possedere uno status economico e sociale.
La scrittrice poteva scegliere tra l’ammettere di essere “only a woman” o protestare di essere “as good as a man”.47 Nel primo caso poteva dedicarsi alla letteratura cosiddetta minore (per ragazzi, o quella didattica, morale ecc.) dichiarando quindi limitate le proprie possibilità in quanto donna; nell’altro caso le scrittrici potevano pubblicare sotto pseudonimo o anonimamente, dichiarandosi cioè uomini mancati.
Le sorelle Brontë si nascosero sotto ‘nom de plume’, che Charlotte affermò di aver preferito perché neutrali, ma in realtà appena la loro produzione venne pubblicata essi vennero considerati maschili.
Protetta dal manto della mascolinità la donna poteva affrontare temi che non erano permessi alle proprie progenitrici (in senso letterale e metaforico).48
Ma anche questo travestimento poteva risultare conflittuale, perché negare la natura del proprio sesso significava andare incontro a forti crisi di identità, sentirsi continuamente estranee e mancanti. Infatti il travestimento è l’uso da parte della donna di trame, generi e convenzioni maschili.
Travestimento significava anche celare il proprio corpo sotto un’apparenza innocua; l’esperienza come modello di Christina Rossetti è esemplare in questo senso. Rossetti, cosciente dello sguardo che la osservava attentamente, imparò presto ad assumere un viso composto:
“Any one may be the observer; and equally any one may be observed. Liable to such casualities, I advice myself to assume a modest and unobtrusive demeanour.” 49
Ma la sua espressione impassibile poteva essere un’efficace difesa e un’arma per aggredire: “Yea, therefore, as a flint I set my face.”50
La maschera nasconde istanze impellenti espresse nella sua poesia:
“Il camouflage può anche farsi strategia dunque. Dietro un volto condannato all’innocuità può maturare un’ostinata tenacia, la forza aggressiva di un angelo-medusa.” 51
La scrittura di Anne prende vita sia da esperienze reali vissute, ma anche da proprie visioni interne, da istanze dell’inconscio, dalle sue pulsioni. Era come se tutto dipendesse dalle sue emozioni interiori e come se del risultato Anne ne fosse solo in parte conscia.
La scrittura, per Anne Brontë, rappresentava in tal modo una opportunità datale per affermare la propria identità di scrittrice, di donna.
La sfida di Anne contro la società che l’obbligava a nascondere il proprio sesso in quanto scrittrice trova la sua massima espressione nelle parole di protesta conclusive della prefazione della seconda edizione di The Tenant of Wildfell Hall:
“I am satisfied that if a book is a good one, it is so whatever the sex of the author may be. All novels are or should be written for both men and women to read, and I am at loss to conceive how a man should permit himself to write anything that would be really disgraceful to a woman, or why a woman should be censured for writing anything that would be proper and becoming for a man.” 52
Il tipo di scrittura elaborato da Anne e da altre scrittrici contemporanee, continua ad essere segnato, nonostante le censure, dalla ricerca dell’identità, da un’esperienza al femminile.
Le loro opere sono come palinsesti, che sotto la facciata convenzionale nascondono dei significati non accettabili socialmente:
“Such women have created submerged meanings, meanings hidden within or behind the more accessible, ‘public’ content of their works, so that their literature could be read and appreciated even when its vital concern with female dispossession and disease was ignored.” 53
Le scrittrici, seguendo percorsi già segnati, hanno espresso obliquamente i messaggi che volevano comunicare. Era questo il senso del consiglio di Emily Dickinson: “Tell all the Truth but tell it slant.”54
Alla luce di queste affermazioni, la rilettura dei romanzi dell’epoca ci permette di “. . . see meaning in what has previously been empty space. The orthodox plot recedes, and another plot, hitherto submerged in the anonimity of the background, stands out in bold relief like the thumbrint.”55
Significativa è l’obliqua identificazione con la figura della donna-mostro e le profonde connessioni che questa ha con l’immagine della scrittrice.
Il mostro, dai tratti alterati, ricorda la tradizionale associazione maschile di questa figura con quella della donna scrittrice. Quest’ultima assume un’immagine il cui significato è già stabilito: la rivisita, si identifica obliquamente con essa.
Ma, mentre dal punto di vista maschile il mostro è la donna che rifiuta di accettare il ruolo impostole, dal punto di vista femminile esso è la parola ritrovata per comunicare la propria storia.
Il mostro si ritrova spesso nei testi femminili del periodo, è come se il processo della scrittura liberasse una figura folle, rabbiosa, dal silenzio a cui la donna era stata fino allora costretta; un personaggio che distrugge quelle strutture che l’eroina e la sua creatrice sembrano accettare passivamente (in Agnes Grey è la figlia maggiore della famiglia Murray, Rosalie; in The Tenant of Wildfell Hall il mostro è rappresentato dai pettegolezzi della gente sull’eroina Helen Huntingdon).
È proprio in questa figura che la scrittrice obliquamente si pone a confronto, il mostro sarà debitamente punito nel corso del romanzo, ma proprio per questo si drammatizza la divisione, il desiderio di accettare e allo stesso tempo di rifiutare la versione di sé codificata nel sociale.
Il mostro è una specie di doppio, l’immagine della rabbia e dell’ansietà dell’autrice.
Come ha osservato Joice Carol Oates:
“The creatives artist shares to varying degrees the personalities of all his characters, even those whom he appears to detest – perhaps, at time, it is these characters he is really closest to.” 56
CAPITOLO 2
Lo spirito geometrico dell’uomo non ammetterà mai
i risucchi segreti, inesplicabili formidabili
dell’oceanico femminile.
Essi hanno continuamente bisogno di chiedersi il perché.
È mai possibile porre questa esigenza alle onde del mare ?
Lucie Delarue - Mardrus
1 - Nascita e sviluppo del Romanzo di formazione o Bildungsroman.
Analizzando il genere del romanzo dal punto di vista dei contenuti ideologici, si può certamente dire che nel Settecento esso fece da cassa di risonanza delle rivendicazioni borghesi, della contestazione dell’egemonia aristocratica e delle tensioni verso un nuovo ordine sociale.
Il romanzo dell’Ottocento si presenta con caratteri diversi da quello del secolo precedente perché profondamente mutato è il quadro sociale e culturale dopo la Rivoluzione Francese.
La borghesia sta imponendo la sua cultura, il suo modo di concepire il mondo con una tale irruenza che neppure la Restaurazione potrà frenare questo processo.
“Solo la Rivoluzione Francese, le guerre della Rivoluzione, l’ascesa e la caduta di Napoleone hanno fatto della storia un’esperienza vissuta dalle masse, e su scala europea. Negli anni trascorsi tra il 1789 e il 1814 ogni popolo d’Europa visse più trasformazioni di quante ne avesse avute nei secoli precedenti. E il rapido avvicendarsi conferisce a queste trasformazioni un particolare carattere qualitativo: viene meno per le masse l’impressione che si tratti di ‘eventi naturali’.” 57
Non solo è cambiato il mondo, ma è cresciuta la consapevolezza dei meccanismi che presiedono ai mutamenti storici.
L’adeguamento della cultura e della letteratura a questo nuovo quadro è inevitabile; ed anche il romanzo, attraverso le sue trasformazioni, testimonia la necessità da parte degli intellettuali e del pubblico di avere adeguati strumenti di rappresentazione della realtà.
Il romanzo si presenta quindi come la moderna epopea borghese, in quanto, attraverso di esso, si tenta di riaffermare, di ricomporre una visione del mondo in cui i valori autentici trionfino. L’epicità del romanzo consiste proprio nello scontro inevitabile tra la “poesia del cuore” e la “prosa del mondo”.
La cultura romantica può essere interpretata nel suo complesso come uno sforzo per costruire un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’individuo e la società.
Il romanzo accentua questo carattere di “studio del reale”: il racconto di una vita, delle imprese di un “eroe”, dei tormenti di un’anima assume i contorni di una “storia esemplare”58, di un “romanzo di formazione”.
Il romanzo di formazione o bildungsroman si colloca nella stagione della grande cultura romantica in Germania tra gli ultimi anni del Settecento e il 1820, quindi in netto anticipo rispetto al resto dell’Europa.
In particolare la letteratura tedesca si affermò come grande incubatrice di idee, atteggiamenti, stati d’animo che costituirono la base del romanticismo.
All’origine del romanzo di formazione o bildungsroman si collocano le opere di Johann Wolfgang von Goethe (1749 - 1832), modelli tenuti presenti da moltissimi scrittori, non solo tedeschi.
Basta ricordare Die Leiden des jungen Werther (I dolori del giovane Werther, 1774) per avere un romanzo che costituì un punto di riferimento per la costruzione della figura, dell’identità di un giovane alle prese con la vita, con la sua formazione individuale.
I temi che Goethe affronta nella sua opera sono assai complessi, ma quello che la rese così nota e imitata fu la lettura tutta incentrata sulla bildung del protagonista dall’inizio fino al suo raggiungimento che in Europa fu fatta di essa.
Considerando il romanzo come storia dell’evoluzione di un’anima e di una personalità (bildungsroman), come un tipo di narrazione che dal Settecento si proietta con grande vigore nel secolo successivo, ci si rende conto che Goethe ne fu ancora uno dei maestri con il Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di noviziato di Wilhelm Meisters, 1795-96) e col successivo Wilhelm Meisters Wanderjahre (Gli anni di pellegrinaggio di W.M., 1829).
Il Wilhelm è il più bell’esempio di “romanzo di formazione” o di sviluppo spirituale. Attraverso una serie di esperienze artistiche, Wilhelm trova, alla fine, se stesso, realizzandosi mediante un’attività pratica, ossia inserendosi nella società in maniera attiva.
Le esperienze d’arte non sono state, per Wilhelm, soltanto un arricchimento culturale e personale, ma hanno fornito un potenziamento delle sue energie nella attività dell’ultima fase del romanzo:
“La presenza delle antiche opere d’arte a lui note lo attirava e lo respingeva a pari tempo. Egli non poteva far suo né abbandonare nulla di quanto lo circondava: tutto gli destava dei ricordi; vedeva l’anello intero della sua vita, ma esso ora gli stava davanti spezzato e sembrava non volersi più saldare in eterno. (Wilhelm Meisters, VIII, 7).” 59
Schlegel giudicò il romanzo come “qualcosa di paragonabile alla Rivoluzione Francese, ossia come l’espressione di una tendenza del secolo”60. L. Mittner, invece, così lo definisce:
“Il romanzo va inteso come un tentativo di realizzare sul piano artistico ciò che era irrealizzabile sul reale piano economico-politico; esso è infatti, come il Faust, un vero e proprio Uno-Tutto, un Uno diverso in sé, poiché abbraccia vari mondi sociali ed etici che sono ben chiusi in sé e che pure sono idealmente ed anche realmente collegati fra loro, almeno nel senso che dal più piccolo di tali mondi si svolgono mondi sempre più grandi, che alla fine dovrebbero abbracciare tutta la realtà culturale e sociale dell’età goethiana, rappresentata dal giovane in cerca della propria identità.” 61
Questo è il modello classico del bildungsroman, l’uomo in aperto conflitto con il mondo e la sua conseguente vittoria su di esso.
Finora si è sempre parlato di “uomo”, di “eroe”, in quanto il romanzo di formazione narra esclusivamente di un destino al maschile, di un mondo al maschile dove la cultura predominante è dominio di un solo sesso.
Il viaggio che il protagonista-uomo deve affrontare ha il compito di educarlo a vivere nella società, a crearsi il suo spazio, la sua indipendenza; al ritorno avrà acquisito i requisiti necessari per essere considerato “uomo pubblico”, “cittadino del mondo”.
Se il protagonista non è un uomo comune, ma un artista, come nel caso di Wilhelm, il viaggio è lo strumento tramite il quale la sua vocazione artistica prende forma, si trasforma in qualcosa di concreto che farà dell’eroe un ‘profeta’.
Quindi il bildungsroman pone la sua attenzione sul protagonista, sulla formazione pedagogica che avviene attraverso varie esperienze e incontri in cui il substrato magico dell’evento straordinario, del fantastico è sempre presente assumendo molte volte i caratteri della fiaba.
Come nota giustamente Franco Moretti “non sarà che la superficie ‘romanzesca’ di queste opere sia sorretta punto per punto da un’ossatura più antica, più ‘adatta’ all’infanzia, e da essa facilmente riconoscibile ? Non sarà, insomma, che questi romanzi siano, sotto sotto, delle fiabe ?”62
2 - Romanzo o Fiaba ?
L’interrogativo posto da Moretti trova riscontro nelle tesi, seppur discordanti, di due scrittori: Jacob Burckhardt e Bruno Bettelheim.
Nell'opera del primo scrittore il pensiero centrale consiste nella possibilità dell’individuo di acquistare attraverso l’esperienza la saggezza, la maturità.
Nella vita dell’uomo la maturità prende il posto della giovinezza, dei sogni, del mondo delle favole e si identifica con la conoscenza:
“I concetti di felicità o fortuna e infelicità o sventura perderanno sempre di più il loro significato. Esser maturi è tutto. La meta delle persone di qualche capacità, volentes nolentes, non sarà più la felicità, ma la conoscenza. E non per indifferenza verso il dolore che ci può ben coinvolgere, ma perché comprendiamo la cecità dei nostri desideri vedendo il variare dei desideri degli individui e il loro contraddirsi ed eliminarsi a vicenda.
(. . .)
Solo la favola prende per felicità una situazione che rimane sempre uguale a se stessa . . . dobbiamo dirci che il permanere in una data situazione diventerebbe paralisi e morte: solo nel movimento è vita, per quanto doloroso può essere questo movimento.” 63
Quindi secondo l’opinione espressa da Burckhardt la favola non ha niente in comune con il processo formativo attuato nel romanzo dove con la maturità l’eroe erige un muro fra sé e la felicità, lasciandosi alle spalle la gioventù.
Di tutt’altra opinione è lo scrittore Bruno Bettelheim ritenendo che la fiaba rappresenti una prima rudimentale forma del bildungsroman:
“La fiaba comincia con l’eroe alla mercè di coloro che disprezzano lui e le sue capacità, che lo maltrattano e arrivano addirittura a minacciare la sua vita.” 64
Questo inizio è il medesimo in cui si trovano i protagonisti del romanzo di formazione, ed è la causa scatenante della fuga, del viaggio.
Intrapreso il viaggio, il giovane protagonista del romanzo-fiaba si trova da solo ad affrontare le situazioni più incredibili, fatti imprevisti, incontri importanti o ambigui:
“Nelle fiabe il male è onnipresente come la virtù. Praticamente in ogni fiaba il bene e il male s’incarnano in certi personaggi e nelle loro azioni, così come il bene e il male sono onnipresenti nella vita e le inclinazioni verso l’uno o l’altro sono presenti in ogni uomo.” 65
Nella fiaba come nel romanzo il processo formativo termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, ha compiuto la sua bildung raggiungendo l’indipendenza psicologica e la maturità morale, ma soprattutto quando si ha la netta e definitiva separazione dell’eroe dal suo alter ego con l’happy end finale, classica conclusione di tutte le fiabe: “egli la condusse al suo regno dove ebbe un’accoglienza festosa, e dove essi vissero a lungo felici e contenti.”66
Nell’analisi condotta da Bettelheim un ruolo fondamentale nell’interpretazione psicologica delle fiabe è dato in particolare a Freud, il quale afferma che “soltanto lottando coraggiosamente contro quelle che sembrano difficoltà insuperabili l’uomo può riuscire a trovare un significato alla sua esistenza.”67
È proprio questo il messaggio che le fiabe cercano di comunicare al bambino: soltanto dopo aver lottato contro le avversità della vita, superato gli ostacoli ne uscirà vincitore.
La psicoanalisi, infatti, dà conferma dell’importante ruolo acquistato dalle fiabe e dai miti popolari nella vita psichica dei bambini; per esempio, il mito del Complesso d’Edipo ha una parte importante nel processo dell’ “identificazione”, cioè la prima manifestazione di un attaccamento affettivo ad un’altra persona.
Il bambino manifesta un grande interesse per suo padre: egli vorrebbe divenire ed essere ciò che egli è, sostituirlo sotto tutti gli aspetti.
Questo atteggiamento nei confronti del padre non ha niente di passivo o di femminile, anzi è essenzialmente maschile, si accorda molto bene col complesso di Edipo spiegato da Freud:
“Dopo aver fatto del padre il proprio ideale, il bambino comincia a rivolgere i propri desideri libidici verso sua madre. Allora manifesta due tipi di attaccamenti, psicologicamente differenti: un attaccamento per la madre, come un oggetto puramente sessuale, ed un’identificazione con il padre, considerato come un modello da imitare.
( . . . )
Ma via via che la vita psichica tende all’unificazione, questi sentimenti si avvicinano l’uno all’altro, finiscono con l’incontrarsi, ed è da questo incontro che deriva il normale complesso d’Edipo. Il piccolo si accorge che il padre gli sbarra il cammino verso la madre; la sua identificazione col padre riceve da questo fatto una tinta ostile e finisce col fondersi con il desiderio di sostituire il padre anche presso la madre.
( . . . )
Si comporta come un prodotto della prima fase, della fase orale dell’organizzazione della libido, nella quale si incorporava l’oggetto desiderato mangiandolo, cioè sopprimendolo.” 68
Tutto ciò che si può osservare è che l’Io cerca di rendersi simile a ciò che si è proposto come modello. L’identificazione rappresenta quindi la forma più primitiva dell’attaccamento affettivo; l’Io del bambino si divide in due parti una delle quali si scontra con l’altra:
“la formazione di quest’altro Io, lo abbiamo chiamato ideale dell’Io e gli abbiamo attribuito come funzioni l’autoosservazione, la coscienza morale, la censura dei sogni e la parte decisiva nella rimozione.
( . . . )
L’Io infantile comincia a sentire, sotto l’influsso dell’ambiente, tutte le esigenze che questo pone all’Io, che non è sempre capace di soddisfarle, di modo che nei casi in cui l’uomo crede di avere delle ragioni per essere scontento di se stesso, possa tuttavia provare la propria soddisfazione nell’ideale dell’Io che si è differenziato dall’Io.” 69
Il mito del re Edipo, dunque, che uccide suo padre e prende in moglie sua madre, ben rappresenta il desiderio infantile successivamente respinto dallo scontro con la barriera dell’incesto.
È inevitabile e normale che il bambino faccia dei genitori la sua prima scelta oggettuale: la sua libido non deve rimanere però fissata a questi oggetti primari, ma deve soltanto assumerli come prototipi, che successivamente dovranno essere trasferiti su altre persone, all’epoca della scelta oggettuale definitiva.
Il distacco del bambino dai genitori è così un problema inevitabile se non si vuole compromettere lo sviluppo delle capacità sociali del giovane.
La psicoanalisi può essere considerata come un valido aiuto per superare i residui infantili celati nella nostra mente, partendo ad esempio dall’esame del metodo di lavoro che adopera l’apparato psichico nel gioco dei bambini.
Freud analizza il primo gioco di un bambino di un anno e mezzo, gioco inoltre di sua invenzione, descrivendone la tipica dinamica del distacco dalla madre e il suo significato:
“Questo bravo ragazzino aveva la fastidiosa abitudine di afferrare qualsiasi piccolo oggetto che gli capitava a tiro e di scaraventarlo in qualche angolo.
( . . . )
Nel far questo egli emetteva a voce spiegata, con espressione di interesse e soddisfazione un lungo “o-o-o-o”. D’accordo con la madre, ero del parere che non si trattasse di una semplice interiezione, ma stesse a significare la parola fort ! (‘via !’).
(. . . )
Il bambino usava i suoi giocattoli per farli scomparire.
Il bambino aveva un rocchetto di legno con un pezzo di spago arrotolato: ebbene, mai gli venne in mente di trascinarselo dietro per il pavimento, di usarlo come un carrettino. Quel che invece gli piaceva fare era tenere in mano lo spago e scagliare con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse; contemporaneamente egli emetteva il suo caratteristico “o-o-o-o”.
Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso da ! (‘eccolo !’).
( . . . )
L’interpretazione del gioco scaturì allora naturale. Esso era in relazione con l’elevato grado culturale raggiunto dal bambino nel consentire alla madre di allontanarsi senza protestare.
Il bambino si compensava dell’assenza materna, riproducendo, con gli oggetti che gli capitavano a tiro, la scena della scomparsa e della riapparizione.” 70
È normale quindi che nei loro giochi i bambini riproducano fedelmente tutto ciò che nella loro vita quotidiana li ha maggiormente colpiti, non stancandosi mai di giocare sempre allo stesso gioco poiché ne prendono il comando divenendo padroni della situazione.
Lo sviluppo del bambino e la conseguente “liberazione” dall’autorità dei genitori, è una delle fasi più dolorose, ma anche più necessarie provocate proprio dallo sviluppo.
È assolutamente essenziale che questa “liberazione” abbia luogo, infatti l’intero progresso della società si basa sull’opposizione tra successive generazioni.
Nei rapporti sociali tra gli uomini ritroviamo i fatti che la ricerca psicoanalitica ci ha permesso di osservare nello sviluppo della libido individuale:
“La libido (‘energia delle tendenze che si collegano a ciò che noi riassumiamo nel termine amore’) è collegata alla soddisfazione dei grandi bisogni vitali e sceglie come suoi primi oggetti le persone la cui azione contribuisce a questa soddisfazione.
Difatti nell’evoluzione dell’umanità, come dell’individuo, l’amore si è rivelato il principale, se non l’unico, fattore di civilizzazione, determinando il passaggio dall’egoismo all’altruismo.” 71
La psicoanalisi ha seguito fin dall’inizio i processi di sviluppo, ha scelto di far derivare la vita psichica dell’adulto da quella del bambino, prendendo sul serio il detto: il bambino è il padre dell’uomo.72
Nonostante ogni sviluppo successivo, niente delle formazioni psichiche infantili va perduto nell’adulto. Tutti i desideri, gli impulsi istintivi, i modi di reazione, le impostazioni del bambino sussistono ancora in modo visibile nell’uomo giunto alla maturità.
Il fine principale del meccanismo psichico è quello di liberare l’uomo dalle tensioni in esso provocate dai bisogni. Una parte di questa funzione può essere adempiuta mediante l’appagamento che si trae dal mondo esterno; avere il dominio del mondo reale diviene in questo senso una necessità.
L’educazione e l'esempio accostano il giovane alle esigenze della società. Quando il giovane, superato lo stadio infantile, raggiunge la crescita e lo sviluppo intellettivo, si stacca dai genitori e deve percorrere da solo le strade tortuose della vita.
Il rapporto che sussiste tra il giovane e la società fu messo in evidenza nel corso di una conferenza tenuta da Freud nel 1910 al Congresso di Norimberga:
“E’ d’uopo ricordarsi che noi uomini, di fronte alle pesanti esigenze della civiltà e sotto la pressione delle nostre rimozioni, troviamo di solito la realtà del tutto insoddisfacente e nutriamo perciò una vita di fantasia in cui ci piace compensare quel che ci manca del mondo reale, abbandonandoci a creazioni che appagano i nostri desideri.
( . . . )
L’uomo energico, l’uomo di successo, è colui che riesce, a forza di lavoro, a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio. Laddove ciò non riesca, a causa della opposizione del mondo esterno e della debolezza dell’individuo, ecco che comincia la deviazione dalla realtà; ecco l’individuo cercare rifugio nel mondo della fantasia, dove trova l’appagamento.
( . . . )
Se l’individuo scontento della realtà possiede quel talento artistico, che psicologicamente è ancora un enigma egli può convertire le sue fantasie in opere d’arte. In tal modo egli sfugge al destino della nevrosi e recupera, il contatto con la realtà. Laddove sussista il contrasto col mondo reale, ma manchi o si riveli insufficiente questo prezioso talento, è inevitabile che la libido, seguendo l’origine delle fantasie, riesca, tramite la regressione, a riattivare i desideri infantili e a produrre così la nevrosi. La nevrosi è oggi dunque quel che era in altri tempi il convento, in cui solevano trovare rifugio tutti i delusi della vita e tutti coloro che si sentivano troppo deboli per affrontarla.” 73
Quindi come Freud ha ben sottolineato, le esigenze della nostra civiltà rendono la vita estremamente dura per un giovane alle prime esperienze, propiziando così l’avversione alla realtà e l’origine della nevrosi.
Nella vita del giovane, dell’individuo, il contatto con la società, con “l’altro” rappresenta sempre una sfida dalla quale si deve uscire sempre vincitori.
L’atteggiamento dell’individuo nei confronti dei genitori, dei fratelli rappresenta la prima relazione sociale nell’ambito della famiglia, ed è in contrapposizione con altre relazioni definite narcisistiche poiché caratterizzate dal fatto che la soddisfazione di bisogni e desideri viene parzialmente o totalmente ricercata al di fuori e indipendentemente dalle persone appartenenti alla sua sfera familiare.
Freud interpreta questa relazione in termini psicoanalitici ipotizzando che la nostra vita mentale sia governata nel suo complesso da quelle che lui chiama le tre polarità, le antitesi:
• Soggetto (Io) - Oggetto (mondo esterno)
• Piacere - Dispiacere
• Attivo - Passivo.
“La polarità Piacere - Dispiacere è collegata a una scala di sensazioni determinante nella maggior parte delle nostre azioni (la nostra volontà).
L’antitesi Attivo - Passivo non va confusa con quella Io - soggetto – Mondo esterno - oggetto.
Il rapporto tra l’Io e il mondo esterno è passivo in quanto il primo riceve stimoli dal secondo, e attivo quando quello reagisce a questi.
L’Io è spinto dalle pulsioni a svolgere una speciale attività verso il mondo esterno, sicchè potremmo indicare il punto essenziale dicendo che l’Io - soggetto è passivo rispetto agli stimoli esterni, ma attivo attraverso le proprie pulsioni.
L’antitesi Attivo - Passivo si fonde in seguito con quella maschile - femminile, la quale non ha nessun significato psicologico prima di tale fusione.
L’accoppiamento dell’attività con la mascolinità e della passività con la femminilità è, in verità, un fatto biologico, ma ciò non significa che sia sempre completo ed esclusivo . . . ” 74
Quindi tutto ciò che nella vita definiamo maschile o femminile, secondo l’indagine psicologica si restringe ai caratteri dell’attività e della passività.
Il rapporto che sussiste tra questi caratteri antitetici viene interpretato da Freud ricorrendo alla nota fiaba dei tre scrigni, e viene appunto definito da lui stesso: “Il motivo della scelta degli scrigni”75.
Gli scrigni sono tre e simboleggiano metaforicamente le donne.
Si tratta ancora una volta della scelta fra tre donne, di cui la terza, la più giovane è la migliore. Ma perché la scelta deve cadere sempre sul terzo scrigno, quindi sulla terza donna ?
La terza donna si rende irriconoscibile, irrilevante come il piombo (il terzo scrigno), resta muta, “ama ed è silenziosa”76.
Gli altri due scrigni invece, fatti d’oro e d’argento sono frivoli, vistosi; il piombo invece è muto. Così si esprime Freud:
“Se decidiamo di considerare le caratteristiche della ‘terza’ concentrate nel suo ‘mutismo’, allora la psicoanalisi ci dirà che nei sogni il mutismo rappresenta generalmente la morte.
( . . . )
Allora dovremo concludere che la terza delle sorelle tra cui viene fatta la scelta è una donna morta. Ma può anche essere qualche altra cosa, cioè la Morte in sé, la Dea della Morte.
( . . . )
La Morte stessa non è altro che un uomo morto.
( . . .)
L’uomo, come sappiamo, si serve dell’attività della sua fantasia per soddisfare i desideri che la realtà non soddisfa. Così la sua immaginazione si ribellò contro il riconoscimento della verità racchiusa nel mito delle Moire e costruì al suo posto un mito in cui la Dea della Morte veniva sostituita dalla Dea dell’Amore e da ciò che ad essa è equivalente in forza umana.
La terza sorella non era più la Morte: era la più bella, la migliore, la più desiderabile e amabile delle donne.
( . . . )
La scelta prende il posto della necessità, del destino. In questo modo l’uomo supera la morte, che ha riconosciuto intellettualmente." 77
Dopo l’analisi condotta brillantemente da Freud, viene spontaneo per noi, seppur profani lettori, dare un’interpretazione allegorica superficiale di queste tre figure femminili del tema.
Qui infatti, vengono riprodotti i tre ciclici rapporti che l’uomo ha, sin da bambino fino alla maturità, con la donna: la donna - madre che lo concepisce, la donna - amante che è la sua compagna scelta secondo i suoi bisogni, ed infine la donna che lo distrugge, che diventa padrona di se stessa impadronendosi della sua (di lui) “parola”.
Questa ribellione della donna la porta ad avere finalmente una “voce” decisa, sicura con la quale potersi esprimere, per poter lasciar parlare il femminile in prima persona:
“State pur certi che sono state una continua sopportazione, delle tristezze tenute gelosamente nascoste, a improntare, temprare e irrigidire questa donna di cui si va gridando: ‘E’ fatta d’acciaio !’.
È semplicemente fatta “come una donna”, e questo basti.” 78
3 - Il Romanzo al Femminile
L’inizio del romanzo femminile si ha quando le donne resesi conto che fino a quel momento la loro dignità di persone era esclusivo dominio maschile, cominciarono a scrivere affermando prima di tutto la loro dignità di donne in quanto donne.
Non furono poche le critiche, le condanne che ricevettero da coloro i quali avevano da sempre considerato la donna ‘custode’ della casa e della famiglia; una possibile conquista di una indipendenza economica era per loro inaccettabile poiché significava togliere la donna dal suo ‘normale’ stato di soggezione.
Ma proprio la conquista dell’indipendenza economica, ottenuta grazie al potere connesso alla penna di una scrittrice, permette ad essa la possibilità di una promozione sociale, e una irrinunciabile prospettiva di ‘liberazione’.
Il romanzo inglese femminile nasce nel XVIII° secolo, i temi che affronta generalmente riguardano il sacrificio celebrato per propiziare la nascita di una donna nuova, in cui Io si scrive I/o perché risulti chiara la denuncia contro una parola assoggettata all’ordine maschile.
Emerge in questo principalmente il bisogno, l’esigenza delle donne di essere considerate con maggior rispetto:
“Mi sta a cuore la felicità del mio sesso e il suo progredire considerato nella globalità di tutta un’esistenza e sviluppantesi sul piano della ragione e su quello sociale. Mi rendo benissimo conto, con un misto d’inquietudine e di indignazione, delle pazzie e dei vizi in cui il mio sesso si lascia affondare.
Se, per prudenza politica, si rende necessario rinunciare ad affermare l’eguaglianza intellettuale tra i sessi, rifiutate, tuttavia, mie care concittadine, di vilmente accontentarvi di un destino degno delle schiave di un harem orientale, gente per la quale tutto l’arco della vita si esaurisce nel breve spazio della gioventù !
Una donna che aggiunga, alle grazie e alle dolcezze tipiche del suo sesso, il sapere e la forza d’animo dell’altro, è in grado di offrire la più straordinaria combinazione di qualità che un essere umano possa esprimere.” 79
Da ciò possiamo dedurre che lo sviluppo del romanzo femminile è direttamente proporzionato al progresso sociale della donna: la donna deve essere conosciuta appieno e fatta conoscere nella sua originalità che fa di lei un essere diverso dall’uomo, ma di pari dignità.
Il romanzo femminile più mira a descrivere e a difendere gli ambienti e le professioni attraverso cui la donna si è affermata conquistando quell’indipendenza economica che così crudelmente era mancata e più prende le sembianze di un romanzo di costume.
La dura battaglia che la donna ha dovuto combattere per la sua emancipazione la porta ad essere la testimone ideale del suo tempo: si assiste da una parte ad una liberazione linguistica ed espressiva, scompare il linguaggio inarticolato che l’aveva sempre differenziata dall’uomo, dall’altra parte si ha inoltre una più lucida presa di coscienza dei problemi della vita quotidiana in una società da sempre dominata dagli uomini.
Atteggiamenti maschili di rimprovero e di condanna sono quelli assunti da Henri Corneille Agrippa nel suo Traité de l’excellence de la femme in cui sostiene che quella della donna altro non è se non un’inferiorità imputabile all’educazione e alla società:
“Non è ammissibile alcuna discriminazione nei rapporti tra esseri che hanno la medesima capacità intellettiva: e quindi gli stessi diritti e gli stessi doveri. Dio infatti ha immesso lo stesso principio intellettivo, indifferenziato, sia nel maschio che nella donna . . . ” 80
Nell’uomo così come nella donna esistono le stesse capacità intellettive, di logica, di sentimento e di amore; ma purtroppo gli uomini non sono ancora pronti a considerare la donna come individuo capace di avere un cervello e dei sentimenti:
“L’amore nelle varie fasi del suo sviluppo e nelle sue conseguenze non è mai entrato a far parte, e questo è valido per ogni tempo, della più intima sostanza reale di una donna.
Come fanno gli uomini-scrittori, poi, o che si spacciano per tali, a meravigliarsi ancora che una donna possa con la massima tranquillità dare in pasto al pubblico confidenze amorose, bugie o mezze bugie d’amore ?
Ma è proprio rendendo di pubblico dominio queste cose che essa salvaguarda dalla curiosità del pubblico reali segreti di tutto rilievo, magari non molto chiari e in parte sfuggenti a lei stessa.
Il vistoso riflettore, l’impertinente occhio da lei manovrato senza vergogna, insiste sempre sugli stessi modi di essere donna mostrando un campo sconvolto ora dalla felicità ora dalle discordie: ma tutt’attorno cresce l’ombra.
Non è certo nello spazio frugato dal riflettore che si complotta il peggio . . . Uomo, amico mio, tu ti burli volentieri delle opere, fatalmente autobiografiche, prodotte dalla donna. Ma da chi dunque ti attendevi di essere informato a menadito su di lei per permetterti di farla dipendere interamente da te e magari liberartene quando te ne sei stancato ?
Pensavi di riuscirci da solo ?
Da troppo poco tempo sei amico mio per pretendere che ti dica la mia, anche in termini sommari, sull’argomento.” 81
Nel panorama dell ‘800 l’indipendenza resta più che mai un valore femminile, che va conquistato, ma per raggiungerlo si deve lottare contro ciò che si oppone, che ne costituisce l’opposto: quel mondo, cioè, fatto di uomini ostili, contro i quali si deve far valere la propria personalità.
È il Bildungsroman femminile, il romanzo educativo, che permette di assistere a tutto questo fitto intreccio di rapporti umani narrando il difficile passaggio dall’infanzia e dall’adolescenza alla maturità.
Molti romanzi inglesi sono completamente dedicati a raccontare le varie fasi di questo passaggio dall’ambiente familiare (o dalla sua assenza) al matrimonio.
Di solito il personaggio principale è rappresentato da una bambina o una adolescente priva del necessario affetto, essa deve affrontare delle prove esemplari prima che il racconto faccia approdare il lettore ad un epilogo necessariamente felice: il matrimonio.
I primi approcci con la vita sono dunque sfortunati, l’eroina viene calunniata e perseguitata. Quando entra in scena l’uomo del suo destino, lei è immersa a guadagnarsi la vita: come insegnante o come governante, e vi rinuncia soltanto dopo aver sostenuto le sue prove e aver vinto la sua sfida.
Assicuratasi la propria indipendenza, allora può accettare la dipendenza con lo sposare colui che ama, riamata, dal primo momento che l’ha visto.
Dapprima vittima, adesso è vittoriosa sia sul piano sociale (ha saputo conquistare l’indipendenza economica) che su quello affettivo (ha saputo conquistare l’essere amato e la sua considerazione).
Un romanzo formativo femminile di questo tipo rispecchia completamente le stesse finalità della fiaba: l’eroina, nata in un mondo costruito senza di lei e contro di lei, raggiunge una sua posizione sociale attraverso il lavoro e l’amore.
Ci troviamo di fronte ad un duplice realismo: prima, una panoramica oggettiva sul mondo sociale così come si manifesta, poi, il riconoscimento dell’amore, della stima e del rispetto reciproci.
La sola cosa che manca nel romanzo femminile sono le gesta memorabili che la protagonista non compie, per il resto tutto rimane nell’ordine sociale e familiare, non si pretende niente al di fuori di un riconoscimento da accordare ad una persona che si realizza e che attraverso un matrimonio rispettabile comincia una nuova esistenza.
Lo stereotipo che la vicenda formativa femminile pare dover rispettare, è il raggiungimento di una quotidianità rischiarata dall’amore, dalla serenità matrimoniale; che poi sia sempre l’uomo a suggerire alla donna questa sua forma di dipendenza da lei accettata, non significa che non si possa ugualmente raggiungere quella reciprocità di comportamento per cui il rispetto di se stessi e della persona con cui si vive è basata sull’amore che si ha per l’altro.
Si consideri ad esempio l’atteggiamento assunto da Susan Warner in The Wide Wide World : la scrittrice denuncia la condizione della donna vittima sia dell’uomo che della società, chiede con forza che il carico delle ingiustizie maschili e sociali non continui più a gravare sulla donna, ma non mette mai in discussione l’istituzione del matrimonio da lei considerato come presupposto della felicità.
Susan Warner è una di quelle scrittrici che alzano la voce contro ogni limitazione imposta alla donna nella libera espressione della sua personalità, senza però arrivare a disprezzare la semplice felicità che può offrire una vita trascorsa in casa:
“Per una donna la più grande felicità è rappresentata dal fatto di avere sposato un uomo che lei rispetta allo stesso modo di quanto lo ama, che le è superiore per qualità di mente e di carattere, che decide totalmente per lei e ciò non tanto perché voglia schiacciare la volontà della moglie, bensì perché egli solo è in grado di illuminare la sua ragione e di sostenere la sua debolezza.
(. . .)
Perché il matrimonio assolva i compiti postigli dalla natura, è necessario che l’uomo abbia per i suoi meriti effettivi un reale vantaggio sulla donna, un vantaggio che lei riconosca e di cui si debba compiacere: sventura alle donne poste nella condizione di portare avanti da sole la loro esistenza, obbligate a coprire i difetti e le piccinerie del loro marito o costrette a toglierselo di dosso con la conseguenza di sobbarcarsi in solitudine il peso del vivere !” 82
A quello che è il supremo diritto di ogni donna (la possibilità, cioè, di dare libero corso alla propria vocazione artistica o spirituale), si aggiunge semplicemente la volontà di vivere al di fuori delle istituzioni sociali, ma è difficile soprattutto perché la società la sottopone a critiche, a giudizi ed allora una simile donna non può far altro che condurre la sua singolare infima esistenza, in mezzo a tutte le classi dove non può trovare posto perché ogni categoria di persone quasi le impone di esistere per suo conto, di fare parte a sé.
Così lei diventa oggetto di curiosità, forse anche di invidia, mentre è in realtà solo oggetto di pietà.
In un’altra sua opera dal titolo Queechy, Susan Warner pone l’accento sull’intimo e femminile pudore che rivendica la felice discrezione di una esistenza al riparo da qualsiasi pericolo:
“Le donne avvertono come sia connaturato in loro qualcosa di puro e di delicato che ben presto basta il semplice sguardo del pubblico a fare appassire: sì, l’intelligenza, le doti personali, un animo appassionato, possono farle emergere dalla nube che costantemente dovrebbe avvolgerle, ma quando ciò succede non si stancano di rimpiangerla come il loro più vero riparo.” 83
Il romanzo femminile costituisce un’opera che oscilla sempre tra l’autobiografia e la fantasia, poiché quando si deve rivelare una verità si ricorre spesso all’immaginazione:
“Ciò che risulta un po’ bizzarro quando costruisco i miei libri è magari quel processo di trasformazione che il fatto subisce, forse, quel suono che, passando attraverso me, ne esce: ma, in fondo, questo è tutto. Un suono che risulta quando il fatto avviene attraverso una data persona.
Per dirla con la massima semplicità, io, forse, sono una camera di risonanza.” 84
All’opera basata sulla testimonianza i limiti sono posti dall’onestà, ed è entro questi limiti che il romanzo femminile porge una lettura critica della situazione della donna, obbligata a stare in casa, rimanendo confinata nell’ambito familiare.
Questa situazione trasferisce e allarga l’area d’azione del romanzo femminile che deve sostenere l’impatto di un mondo maschile fattosi più brutale.
Una volta conquistata la propria indipendenza la donna deve costruire un dialogo cercando di individuare un proprio ruolo con pari dignità rispetto a quello maschile, in una società che non cessa di essere funzionale all’uomo, fatta a sua misura.
Questa società apre sì spazi alle donne, ma si tratta di spazi tipicamente maschili, mentre le donne che vogliono usufruire della loro indipendenza, sentono risuonare in loro quello che Caroline Hentz definisce feminine verb85 (verbo femminile) il quale esprime altri valori e reclama un diverso rapporto con il mondo.
CAPITOLO 3

Learn hence ye kind and love- inspiring fair,
Your minds alone, deserve your gratest care;
Let Virtue prove your never-fading bloom;
For mental beauties will survive the tomb.
G. B. Wright
1 – “All true histories contain instruction”
Il primo romanzo di Anne Brontë, Agnes Grey, non deve essere considerato superficialmente solo nel suo aspetto autobiografico poichè nasce da un preciso bisogno dell’autrice di informare i suoi contemporanei sulla disperata condizione delle donne nubili, istruite, obbligate dalla società a intraprendere l’unico “rispettabile” mestiere loro concesso: quello della governante.
Durante il suo primo servizio in casa della famiglia Bloomfield, presso la quale rimase sei mesi come governante - istitutrice, Agnes
dovette difendersi dagli attacchi dei loro terribili, mostruosi bambini; in seguito dovette subire il disprezzo e la affettata superiorità delle figlie della famiglia Murray, dove rimase per due anni.
Quindi Agnes non racconta apertamente solo la sua storia ma, indossando una maschera garantita dalla sua invisibilità sociale, racconta anche una storia che offre una irresistibile visione interna di quello che è lo sciovinismo vittoriano e il crudele materialismo, ed inoltre secondo lo scrittore George Moore:
“ . . . the most perfect prose narrative in English literature
(. . .)
It is the one story in English literature in which style, characters and subject are in perfect keeping.” 86
L’opera è perfetta proprio perché riesce a integrare, a tenere in equilibrio, tramite la stessa ed unica voce narrante, il teatro delle passioni ed emozioni personali e la commedia sociale.
Passages in the Life of an Individual era il titolo originario del romanzo: passaggi, dunque, stati importanti di vita, di crescita, di crisi.
In seguito il romanzo nella sua forma finale fu pubblicato con il titolo di Agnes Grey.
Il romanzo rispecchia con assoluta precisione e onestà le reali esperienze di vita vissute da Anne, infatti le innumerevoli descrizioni dei paesaggi, personaggi e fatti trovano riscontro nella vita dell’autrice.
La stessa Anne Brontë affermava di aver scritto un romanzo autobiograficamente vero:
“All true histories contain instruction; though, in some, the treasure may be hard to find, and when found, so trivial in quantity, that the dry, shrivelled kernel scarcely compensates for the trouble of cracking the nut.
Whether this be the case with my history or not, I am hardly competent to judge. I sometimes think it my prove useful to some, and entertaining to others; but the world may judge for itself.
Shielded by my own obscurity, and by the lapse of years, and a few fictitious names, I do not fear the venture; and I will candidly lay before the public what I would not disclose to the most intimate friend.” 87
Come molte altre autrici di romanzi che narrano di giovani governanti, Anne usa la figura della governante per sottolineare ed analizzare i confini del legame che si crea tra la donna come “domestica” e la donna come “lavoratrice”.
In Agnes Grey questo rapporto viene infine dominato dall’interesse dell’autrice nel drammatizzare il mondo interiore della sua eroina.
Questo mondo interiore, reso turbolento dall’alternarsi delle sensazioni di successo e di sconfitta vissute da Agnes nel mondo esterno, è inoltre caratterizzato da un’opprimente senso d’isolamento che si manifesta nei suoi momenti di silenzio e di solitudine.
Enfatizzando la mancanza di “voce” e di “presenza” di Agnes, Anne rappresenta la condizione della governante come essere sociale e psicologico invisibile.
Tuttavia, ciò che distingue il romanzo di Anne Brontë dagli altri romanzi è la determinazione con la quale l’eroina Agnes Grey sceglie il suo impiego come governante, non viene obbligata da nessuno a lavorare, sebbene il fallimento paterno giochi una parte fondamentale nel suo desiderio di aiutare economicamente la famiglia:
“How delightful it would be to be a governess! To go out into the world; to enter upon a new life; to act for myself; to exercise my unused faculties; to try my unknown powers; to earn my own maintenance, and something to comfort and help my father, mother, and sister, beside exonerating them from the provision of my food and clothing; to show papa what his little Agnes could do; to convince mamma and Mary that I was not quite the helpless, thoughtless being they supposed.” 88

L’ottimismo fanciullesco che caratterizza lo stato di euforia di Agnes viene messo in risalto dalla scrittrice nell’ingenua e idealista anticipazione dell’eroina dei suoi effettivi doveri come governante:
“And then, how charming to be entrusted with the care and education of children! Whatever others said, I felt I was fully competent to the task: The clear remembrance of my thoughts in early childhood would be a surer guide than the instructions of the most mature adviser.
I had but to turn from my little pupils to myself at their age, and I should know, at once, how to win their confidence and affections: how to waken the contrition of the erring: how to embolden the timid, and console the afflicted; how to make Virtue practicable, Instruction desiderable, and Religion lovely and comprehensible.” 89
La giovane donna che lascia la casa paterna per iniziare il suo nuovo lavoro come governante non deve essere semplicemente considerata come una persona che non è stata capace di costruire una propria autonoma identità.
La Brontë rappresenta la condizione di Agnes in termini quasi patologici: nonostante la reticenza dei suoi familiari, lei dimostra una forte determinazione nel perseverare con il suo progetto di lavoro, ma porta avanti questo desiderio solo indirettamente: fa pressione sulla madre affinchè approvi i suoi piani e tenti di convincere il padre a dare il suo consenso.
È significativo notare come nel momento in cui il desiderio di Agnes si realizza, la Brontë lo sottolinea usando una voce passiva:
“At last, to my great joy, it was decreed that I should take charge of the young family of a certain Mrs. Bloomfield.” 90
Molto spesso la scrittrice per mettere in evidenza la passività di Agnes dà molta importanza alla sua voce, o per meglio dire, alla sua mancanza di voce.
Dopo aver subito le numerose critiche dei suoi familiari (in particolare della sorella: “Only think what would you do in a house full of strangers, without me or mamma to speak and act for you ... with a parcel of children, besides yourself, to attend to; and no one to look to for advice ? You would not even know what clothes to put to.”91) contro il suo progetto di lavoro, Agnes scrive: “I was silenced for that day, and for many succeeding ones.”92
A questo punto il distacco da casa è inevitabile, sarà il suo primo movimento per definire la propria identità e per dimostrare alla sua famiglia di possedere quelle capacità che non le erano mai state riconosciute.
2 - “An Alien among Strangers”: alienazione, introspe-zione e crescita di una governante.
Agnes Grey racconta la storia di uno sviluppo al femminile, dove l’eroina segue lo stesso cammino percorso normalmente da un personaggio maschile.
Le aspirazioni di Agnes ci fanno tornare alla mente le parole di un’altra grande eroina, Jane Eyre, nella sua famosa dichiarazione sull’uguaglianza tra l’uomo e la donna:
“Women are supposed to be very calm generally: but women feel just as men feel; they need exercise for their faculties and a field for their efforts as much as their brothers do.” 93
Ma mentre Jane Eyre con il repentino arrivo di Rochester trova la serenità e la fine della sua inquietudine, Agnes deve lottare e fare molte esperienze prima di trovare la vera felicità.
I Bloomfield di Wellwood sono i primi “outsiders” con i quali Agnes viene in contatto, la sua prima scioccante esperienza che manderà in frantumi la sua rosea visione sul genere umano.
Tutti i componenti della famiglia, in particolar modo i due terribili bambini, Tom e Mary Anne, ai quali Agnes dovrebbe impartire lezioni, non dimostrano alcuna considerazione nei riguardi di Agnes trattandola come se fosse una serva, certamente come un essere inferiore, non lasciandosi sfuggire nessuna occasione per denigrarla o per prendersi gioco di lei.
Molte volte la situazione per la povera Agnes sembra insostenibile, ma la sua determinazione a portare avanti il suo incarico supera qualsiasi umiliazione:
“I flattered myself I was benefiting my parents and sister by continuance here; for, small as the salary was, I still was earning something, and with strict economy I could easily manage to have something to spare for them, if they would favour me by taking it.
Then, it was by my own will that I had got the place: I had brought all this tribulation on myself, and I was determined to bear it; nay, more than that, I did not even regret the step I had taken, and I longed to show my friends that, even now I was competent to undertake the charge, and able to acquit myself honourably till the end; and if I felt it degrading to submit so quietly, or intolerable to toil so constantly, I would turn towards my home, and say within myself – ‘They may crush, but they shall not subdue me; Tis of thee that I think, not of them’.” 94
Risulta chiaro come il ruolo della governante - istitutrice in quanto rapporto di tipo privato, sottratto ad ogni forma di controllo pubblico, assoggetta l’educatrice in modo totale alle regole della famiglia in cui vive, riducendo continuamente le sue possibilità di intervento educativo presso i ragazzi, vanificandone i compiti e diminuendone l’autorità.
La denuncia dell’avidità, dell’ignoranza, della maleducazione di allievi e genitori, risulta tanto più dura quanto più moralmente fermo ed equilibrato è lo sguardo che la contempla.
Paradossalmente Agnes viene licenziata dalla signora Bloomfield dopo appena sei mesi di servizio per non aver usato quelle regole ferree nell’educazione dei bambini che le erano state proibite proprio da lei al loro primo incontro.
La seconda ed ultima famiglia presso la quale prende servizio sono i Murray di Horton Lodge.
Come nella prima famiglia, anche qui ad Agnes viene severamente imposto un limite alla sua autorità di educatrice, sin dall’inizio Mrs Murray informa Agnes che
“on all occasions, when any of the joung people do anything improper, if persuasion and gentle remonstrance will not do, let one of the others come and tell me; for I can speak to them more plainly than it would be proper for you to do.” 95
Mrs Murray sembra decisamente una eco, una copia di Mrs Bloomfield: in entrambe l’unica cosa che le interessa è la perseverante attenzione, il garbato riguardo con cui Agnes deve portare avanti l’educazione dei bambini:
“I have no desire to part with you, as I am sure you would do very well if you will only think of these things and try to exert yourself a little more: then, I am convinced, you would soon acquire that delicate tact which alone is wanting to give you a proper influence over the mind of your pupil.” 96
Si può analizzare questa situazione su due diversi livelli: da un lato, nulla è cambiato, il compito di Agnes come governante - istitutrice è il medesimo, ci si aspetta da lei che compensi le mancanze dei genitori nei confronti dei loro figli; dall’altro, invece, c’è una sostanziale differenza, il progredire di Agnes dai Bloomfield ai Murray, quindi dalla cura di bambini tra i quattro e i sette anni, a quelli tra i quattordici e i diciassette, segna inoltre il suo stesso sviluppo e la sua crescente maturità.
Se con la famiglia Bloomfield inizia il suo percorso formativo, la conoscenza della famiglia Murray la condurrà all’agognato traguardo.
È questo passaggio, questo terribile senso di esilio geografico, di alienazione emotiva e psicologica da un posto ad un altro che tormenta lo spirito e la mente di Agnes, sebbene lei si sforzi di sopravvivere in un mondo radicalmente estraneo, opposto al suo:
“I an alien among strangers; and I did not yet know of the world, not to be considerably surprised at this anomaly.” 97
Degno di considerazione è il rapporto che si crea tra poesia e romanzo: proprio come accadeva nelle poesie, Anne dava vita a personaggi esiliati dalla loro sfera familiare per analizzare il processo di introspezione che inevitabilmente ne seguiva, così anche in Agnes Grey lei utilizza il senso di alienazione di Agnes come trampolino per l’analisi dell’Io.
A conferma di ciò è opportuno considerare la descrizione di Agnes del “ strange feeling of desolation” con il quale lei viene a contatto sin dal primo giorno in casa Murray:
“It was with a strange feeling of desolation, mingled with a strong sense of the novelity of my situation . . . that I awoke the next morning feeling like one whirled away by enchantement, and suddenly dropped from the clouds into a remote and unknown land, widely and completely isolated from all he had ever seen or known before; or like a thistle-seed borne on the wind to some strange nook of uncongenial soil, where it must lie long enough before it can take root and germinate, extracting nourishment from what appears so alien to its nature, if indeed it ever can.” 98
Questo senso costante di alienazione è dovuto soprattutto al differente stato sociale a cui Agnes in quanto governante appartiene.
Agnes scopre che la sua pur marginale presenza come governante in qualsiasi luogo pubblico è necessaria soltanto per far notare lo stato di agiatezza economica in cui vive la famiglia presso la quale è in servizio.
La drammatica situazione che descrive la Brontë in Agnes Grey è molto realistica, ma non è la sola che cerca di evidenziare la condizione delle governanti e del loro stato sociale, infatti, Kathryn Hughes nel suo libro The Victorian Governess denuncia questo stato scrivendo:
“So excruciating was the problem to all concerned that many employers and their friends adopted the cowardly, though effective, tactic of simply pretending not to ‘notice’ the governess on those occasions when she was obliged to be in their company.” 99
La Brontë presenta simili situazioni per evidenziare sia lo stato esterno di totale sottomissione, di invisibilità sociale, di Agnes ai voleri della famiglia Murray, sia lo stato interno di una voce che vorrebbe gridare la sua ribellione contro una falsa uguaglianza, ma che rimane a echeggiare solo nei pensieri di Agnes:
“Whether I walked with the joung ladies or rode with their parents, depended entirely upon their own capricious will: if they chose to ‘take’ me, I went; if, for reasons best known to themselves, they chose to go alone, I took my seat in the carriage: I liked walking better, but a sense of reluctance to obtrude my presence on any one who did not desire it, always kept me passive on these and similar occasions; and I never inquired into the causes of their varying whims and indeed, this was the best policy- for to submit and oblige was the governess’s part , to consult their own pleasure was that of the pupils. . . .
. . . It was disagreeable to walk beside them, while they talked over me or across, and if their eyes, in speaking, chanced to fall on me, it seemed as if they looked on vacancy- as if they either did not seeme, or were very desirous to make it appear so.
It was disagreeable, too, to walk behind, and thus appear to acknowledge my own inferiority; for, in truth, I considered myself pretty nearly as good as the best of them, and wished them to know that I did so, and not imagine that I looked upon myself as a mere domestic, who knew her own place too well to walk beside such fine ladies and gentlemen as they were.” 100
Per tutto il corso del romanzo l’autrice evidenzia il disperato tentativo dell’eroina di far percepire alle persone che la circondano la sua “reale” presenza.
La mancanza di considerazione, l’indifferenza a cui è sottoposta, è strettamente legata alla condizione di silenzio impostale dal suo lavoro.
Infatti, sin dal principio si è sempre enfatizzata la “voicelessness”, la mancanza di voce, come noto tratto distintivo della governante.
La consapevolezza di Agnes della sua invisibilità sociale e della sua mancanza di una voce effettiva diventano il soggetto principale del romanzo e permettono in definitiva alla Brontë di esplorare attraverso gli occhi di Agnes la posizione, in epoca vittoriana, tenuta dalle donne appartenenti al ceto medio.
Agnes ricordando alcuni avvertimenti della madre sul corportamento più idoneo da seguire
(“my mother had warned me before to mention them as little as possible to her, for people did not like to be told of their children’s faults, and so I concluded I was to keep silence on them altogether”) 101
sia in casa Bloomfield che presso i Murray saggiamente decide di sopprimere, seppur con fatica, i suoi naturali impulsi.
Ciò che rende difficile il lavoro della governante, come denota Agnes, non sono tanto le sofferenze fisiche o le umiliazioni che si subiscono a causa del differente stato sociale, quanto lo sforzo, l’obbligo di dover continuamente reprimere, annullare se stessa:
“I was accustomed, now, to keeping silence when things distasteful to my ear were uttered; and, now, too, I was used to wearing a placid smiling countenance when my heart was bitter within me . . .
Other things I heard, which I felt or feared were indeed too true: but I must still conceal my anxiety respecting him, in indignation against them, beneth a careless aspect; others, again, mere hints of something said or done, which I longed to hear more of, but could not venture to inquire. So passed the weary time.” 102
Nell’analisi che Anne conduce sulle caratteristiche tipiche di passività e di silenzio personificate dalla sua eroina, non nasconde tuttavia che sebbene queste vengano ingiustamente imposte, Agnes le adopera come “armi” di autodifesa, per erigere un muro fra sé e il mondo esterno.
L’arte di tacere diventa nel corso del romanzo non solo prerogativa di Agnes, ma, ad esempio, al termine della relazione amorosa tra la primogenita della famiglia Murray, Rosalie, e il Rettore Hatfield, dove quest’ultimo impone a Rosalie una condizione:
“Let me entreat that you will not mention this affair to anyone whatever. If you will keep silence about it, there need be no unpleasantness on either side . . .
If you add to it by giving publicity to this unfortunate affair, or naming it at all, you will find that I too can speak.” 103
La forza, la possibilità di dominio che detiene Rosalie attraverso l’uso della sua parola, non può, naturalmente, essere paragonata con il linguaggio insignificante, la parola senza voce, inarticolata di Agnes.
Infatti, quando la famiglia Bloomfield la congeda dal suo servizio di governante - istitutrice, non riuscendo a parlare, rimane in silenzio:
“I wished to say something in my own justification: but in attempting to speak, I felt my voice falter; and rather than testify any emotion, or suffer the tears to overflow that were already gathering in my eyes, I chose to keep silence, and bear all like a self-convicted culprit.” 104
Il silenzio assume connotazioni sociali e psicologiche nella vita di Agnes; molte volte è la stessa Agnes ad ammettere che le persone che la circondano non sono interamente responsabili della sua propensione al silenzio; quando Mrs Bloomfield non le concede più di due settimane di vacanza per stare con i suoi familiari, Agnes scrive:
“Yet she was not to blame in this; I had never told her my feelings, and she could not be expected to divine them; I had not been with her a full term, and she was justified in not allowing me a full vacation.” 105
Una simile situazione si ripete in casa Murray: il desiderio delle fanciulle di fare lezione in giardino, sedute sull’erba umida, causa frequenti raffreddori ad Agnes, ed a questo proposito lei scrive:
“Often they would do their lesson in the open air, which I had nothing to say against, except that I frequently caught cold by sitting on the damp grass.
(. . .)
But I must not blame them for what was, perhaps, my own fault; for I never made any particular objections to sitting where they pleased, foolishly choosing to risk the consequences, rather than trouble them for my convenience.”106
La tolleranza, la generosità, la sensibilità sempre presenti in ogni situazione nella vita di Agnes, le permettono di far diventare le sorelle Murray meno insolenti e altezzose, conquistandosi poco alla volta la loro stima e il loro seppur limitato rispetto:
“Miss Grey was a queer creature; she never flattered, and did not praise them half enough, but whenever she did speak favourably of them, or anything belonging to them, they could be quite sure her approbation was sincere.
She was very obliging, quiet, and peaceable in the main, but there were some things that put her out of temper; they did not much care for that, to be sure, but still, it was better to keep her in tune, as when she was in a good humour, she would talk to them, and be very agreeable and amusing sometimes, in her way, which was quite different from mamma’s, but still very well for a change.
She had her own opinions on every subject and kept steadily to them, very tiresome opinions they often were, as she was always thinking of what was right and what was wrong, and had a strange reverence for matters connected with religion, and an unaccountable linking to good people.” 107
Le limitazioni spesso severamente imposte ad Agnes nell’educazione e nell’insegnamento, non piegano il suo carattere, non la portano all’autocommiserazione o ad assumere un atteggiamento da martire, poiché lei può sempre scegliere di ritornare a casa; ma accetta la sua situazione per conquistare quell’autonomia da sempre desiderata nonostante le difficoltà, gli ostacoli da superare.
Agnes, come molte altre eroine della letteratura inglese del XIX° secolo, compie le sue esperienze formative, ma differisce da queste eroine nel momento conclusivo, quando il suo cammino la condurrà ad avere una globale e attendibile conoscenza delle classi sociali.
Infatti dopo essere stata licenziata dal suo primo impiego, sceglie di lasciare anche il secondo per aprire una scuola con la madre (in una città diversa da quella natìa), e questo le darà l’opportunità di stare a contatto con gente sempre diversa.
Il risultato di ciò è un Bildungsroman al femminile dove, revisionando il modello maschile, Agnes vive una vita spirituale condotta dominando le passioni, sacrificando se stessa, riuscendo a concludere il suo viaggio con la conquista di un’autonomia e di un’autorità sociale.
In un Bildungroman tradizionale l’eroe intreccia in genere due tipi di relazioni amorose, una sessuale e l’altra spirituale, riuscendo con abilità a gestirle entrambe; per l’eroina, invece, ciò culminerebbe in una espulsione sociale.
Ma Anne Brontë con un brillante e abile procedimento psicologico supera questo ostacolo: usa la tensione fisica sofferta nella famiglia Bloomfield e quella spirituale nella famiglia Murray come equivalente a quelle esperienze evolutive nel cammino di Agnes verso la maturità.
Attraverso l’insegnamento, Agnes ha sondato la resistenza delle proprie forze, raffinato le sue capacità e alimentato il suo intelletto: ha completato la propria educazione.
A tal proposito è interessante notare come durante la narrazione Agnes non si soffermi mai molto sui periodi di vacanza trascorsi a casa, anche se la nostalgia del focolare domestico è presenza fissa nei suoi pensieri:
“I spare my readers the account of my delight on coming home, my happiness while there – enjoying a brief space of rest and liberty in that dear, familiar place, among the loving and the loved, and my sorrow on being obliged to bid them, once more, a long adieu.” 108
Questo processo informativo così sintetico è dovuto alla volontà della Brontë di accentuare due punti principali del romanzo: il necessario distacco da casa che Agnes deve compiere per avere successo nel mondo, e l’effettiva dimostrazione che una donna non ha bisogno del matrimonio come unico mezzo per affermarsi come persona.
Si ricordino le parole della madre di Agnes in un suo colloquio con il marito:
“But it’s no matter whether [our daughters] get married or not: we can devise a thousand honest ways of making a livelihood.” 109
3 - L’importanza della famiglia nel processo formativo di Agnes.
L’ideale domestico al quale Anne Brontë fa riferimento nel suo romanzo, rappresenta il nucleo familiare come panacea per tutti i mali sociali.
La donna sposa e madre è il fulcro di questa famiglia ideale, lei è sia la “padrona”, il “guardiano” della casa, che il disinteressato osservatore delle virtù morali associate alla vita della famiglia.
In Agnes Grey la descrizione iniziale della vita familiare della protagonista consolida lo stretto legame fra le esperienze come governante dell’eroina, e quelle all’interno del suo nucleo familiare.
Agnes pone sempre se stessa in relazione con le persone che la circondano, anche con i propri parenti; cominciando dal padre lega sagacemente il suo carattere con la sua posizione sociale:
“My father was a clergyman of the north England, who was deservedly respected by all who knew him; and, in his younger days, lived pretty comfortably on the joint income of a small incumbency and a snug little property of his own.” 110
Di sua madre, Agnes scrive:
“My mother, who married him against the wishes of her friend, was a squire’s daughter, and a woman of spirit.
In vain it was represented to her that, if she became the poor parson’s wife, she must relinquish her carriage and her lady’s-maid, and all the luxuries and elegancies of affluence, which to her were little less than the necessaries of life.
An elegant house and spacious grounds were not to be despised, but she would rather live in a cottage with Richard Grey than in a palace with any other man in the world.” 111
Mentre Agnes definisce suo padre in base al suo grado di moralità e alla sua posizione economica, il ceto sociale della madre viene modellato in base alla rappresentazione della sua personalità.
Agnes, invece, appare come una creatura dolce e remissiva. La Brontë collega questa remissività con il suo senso profondo di dovere filiale.
Accuratamente Agnes documenta l’inferiore tenore di vita e i sacrifici sopportati dalla famiglia a causa degli errori “amministrativi” del padre:
“The useful pony phaeton was sold, together with the syout well-fed pony – the old favourite that we had fully determined should end its days in peace, and never pass from our hands;
(. . .)
Our clothes were mended, turned, and darned to the utmost verge of decency; our food, always plain, was now simplified to an unprecedented degree – except my father’s favourite dishes; our coals and candles were painfully economized – the pair of candles reduced to one, and that most sparingly used; the coals carefully husbanded in the half-empty grate: especially when my father was out on his parish duties, or confined to bed through illness.
( . . . )
As for our carpets, they in time were worn threadbare, and patched and darned even to a greater extent than our garments.” 112
L’autrice prepara la strada al racconto della vita di Agnes come governante attraverso la descrizione iniziale dei suoi genitori e della vita a casa durante gli anni formativi.
Proprio come la madre sopravvive al suo viaggio verso il gradino più basso della scala sociale, attraverso una combinazione di intraprendenza borghese e evangelica moralità, così anche Agnes dimostra la propria abilità a sopportare l’isolamento sociale, i disagi economici e sociali confermando proprio quelle virtù che la madre stessa rappresenta.
La Brontë sostiene che Agnes è in grado di accettare l’isolamento sociale che implica il mestiere di governante proprio perché fa parte del suo patrimonio ereditario.
Infatti uno degli aspetti tipici della vita familiare di Agnes è proprio la sua eredità campestre, messa in risalto da Anne attraverso la retorica familiare della solitudine e dell’isolamento.
Agnes presenta la sua eredità rustica sia come una diretta conseguenza della posizione sociale occupata dal padre, sia come una parte essenziale della sua identità.
Significativo è il fatto che la Brontë stabilisca le origini dell’isolamento sociale di Agnes a partire dalla sua infanzia: la mentalità psicologicamente turbata da una solitaria infanzia la porta sin da bambina a desiderare il suo metonimico equivalente nella natura come nei “woody dales or green hill-sides”113; inoltre attribuisce obliquamente l’isolamento sociale alla rigida educazione impartita a lei e alla sorella (Mary):
“Mary and I were brought up in the strictest seclusion. My mother took the whole charge of our education on herself, with the exception of Latin – which my father undertook to teach us – so that we never even went to school; and, as there was no society in the neighbourhood, our only intercourse with the world consisted in a stately tea-party, now and then, with the principal farmers and tradespeople of the vicinity (just to avoid being stigmatized as too proud to consort with our neighbours), and an annual visit to our paternal grandfather’s; where himself, our kind grandmamma, a maiden aunt, and two or three elderly ladies and gentlemen, were the only persons we ever saw.” 114
Agnes è consapevole del misero bagaglio di esperienza con il quale si trova ad affrontare il mondo, infatti dopo il suo arrivo nella famiglia Bloomfield scrive:
“True, I was near nineteen, but, thanks to my retired life, and the protecting care of my mother and sister, I well knew that many a girl of fifteen, or under, was gifted with a more womanly address, and greater ease and self-possession, than I was.” 115
La famiglia Bloomfield composta da due genitori e quattro bambini non esita a dimostrarsi particolarmente crudele nei riguardi di Agnes e questo atteggiamento può essere in qualche modo “giustificato” dal periodo nel quale il libro è stato scritto: il 1830-40 è il periodo nel quale Anne Brontë scrive e ambienta la narrazione del romanzo, ma è inoltre il momento in cui l’Inghilterra va incontro all Rivoluzione Industriale (R.I.).
Per un centinaio d’anni fino alla fine del XVIII° secolo, la maggior parte della ricchezza del Regno Unito era in possesso dei “gentry”, cioè della nobiltà minore.
Nel XIX° secolo si assiste alla nascita di una nuova prosperosa classe sociale formata per lo più da persone che all’inizio non avevano molto denaro ma che con la R.I. fecero molta fortuna.
Con questa ricchezza di recente acquisto queste persone desideravano vivere ed essere considerati pari alla piccola nobiltà.
Non si rendevano conto che non era sufficiente il possesso di un patrimonio per essere considerati nobili e Lords ma, per usare una frase estratta dall’Hamlet di Shakespeare, “you have also to be to the manner born.”
“To the manner born” implica che sin dalla nascita si deve essere stati educati ad avere delle responsabilità non solo verso i membri della propria famiglia, ma anche per i propri domestici: a partire dalla governante fino al garzone.
Per questo motivo la nuova, ricca classe sociale non è in grado di gestire la direzione delle loro grandi case e proprietà.
I Bloomfield sembrano proprio appartenere a questa nuova “nobiltà” di gente con umili origini arricchitasi con la R.I.
Infatti Anne Brontë così descrive Mr Bloomfield:
“He was a retired tradesman, who had realized a very comfortable fortune, but could not prevailed upon to give a greater salary than twenty - five pounds to the instructress of his children.” 116
Con un simile background caratterizzato da una completa assenza di educazione morale e psicologica, la dissoluta condotta dei loro figli ne è una conseguenza naturale.
Dal momento in cui Agnes comincia il suo lavoro di istitutrice si rende subito conto che i suoi allievi, Tom e Mary Anne, non sono solo scolasticamente impreparati, oziosi e viziati, ma ignorano per giunta i principi base del comportamento sociale.
L’ipocrisia e le bugie sono i loro consueti mezzi per sfuggire alle punizioni e per far ricadere la colpa delle loro malefatte sulla governante.
Mary Anne è una bambina di quattro anni, sciocca e indolente, un pò civettuola e falsa. Il maschietto di sette anni, Tom, è ancor più disgustoso: non venendo rimproverato dai suoi genitori, che considerano virile l’essere crudeli, lui posiziona trappole per talpe, donnole e uccelli, provando un perverso divertimento nel torturare le povere bestiole.
Inoltre bestemmia e beve, incoraggiato dallo zio Robson, un stolto vacuo damerino che sciupa la sua vita nell’alcool e nei vizi, che disprezza le donne considerandole esseri inferiori, e cerca di plasmare il nipote a sua immagine e somiglianza.
Il quadro familiare è completato dalla presenza della nonna, la madre di Mr Bloomfield.
In principio Agnes, ingannata dai teneri sorrisi e dalle premurose attenzioni nei suoi riguardi, considera la signora come una dolce innocua cara nonnina; ma ben presto scopre a sue spese che l’apparente gentilezza e cordialità non è altro che una ipocrita maschera per celare la sua vera natura:
“The senior Mrs Bloomfield had been very attentive and civil to me; and, till now, I had thought her a nice, kind-hearted, chatty old body.
She would even symphatise with me for the trouble I had with the children, and express at times, her sense of the injudicious conduct of their mamma in so restricting my power, and neglecting to support me with her authority.
But now, the few words, luckily, or unluckily, heard in passing had wholly revolutionized my ideas respecting her; now I looked upon her as hypocritical and insincere, a flatterer, and a spy upon my words and deeds.” 117
È importante rilevare come furono proprio le osservazioni e le critiche maligne rivolte ad Agnes dall’anziana signora a convincere i Bloomfield a licenziarla.
La seconda famiglia, i Murray di Horton Lodge, presso la quale Agnes rimarrà per più di due anni, è molto diversa dalla precedente.
La presenza di Mr Murray è sporadica (le uniche volte che Agnes lo vede è la domenica a messa), anche i suoi contatti con la propria famiglia sono rari: infatti lascia tutta la direzione della casa in mano alla moglie.
A differenza di Mr Bloomfield, Mr Murray non critica l’operato di Agnes, anzi incontrandola non manca mai di rivolgerle addirittura un cordiale “Morning, Miss Grey”.
Anche Mrs Murray è fisicamente e mentalmente differente da Mrs Bloomfield:
“Mrs Murray was a handsome, dashing lady of forty, who certainly required neither rouge nor padding to add to her charms, and whose chief enjoyments were, or seemed to be, in giving or frequenting parties, and in dressing at the very top of the fashion.” 118
Tuttavia sotto la sua vivace e attraente esteriorità, Agnes scopre una indifferenza e una freddezza paragonabile a quella di Mrs Bloomfield, ed altrettante delusioni riguardo la vera natura e le capacità dei suoi figli.
La precisa descrizione di Agnes sulle sue nuove allieve, Rosalie e Matilda, evidenzia le loro diverse inclinazioni:
“Miss Murray, otherwise Rosalie, was about sixteen when I came, and decidedly a very pretty girl; she was tall and slender, but not thin, perfectly formed, exquisetely fair, but not without a brilliant, healthy bloom . . .
Her mind had never been cultivated: her intellect at best was somewhat shallow; she possessed considerable vivacity, some quickness of perception , but till fifteen she had troubled herself to acquire nothing.
At sixteen, she was something of a romp . . . at seventeen, that propensity was swallowed up in the all-absorbing ambition to attract and dazzle the other sex.
Miss Matilda Murray was about two years and a half younger than her sister; her features were larger, her complexion much darker. As an animal, Matilda was all right, full of life, vigour, and activity; as an intelligent being, she was barbarously ignorant, indocile, careless, and irrational, and consequently very distressing to one who had the task of cultivating her understanding, reforming her manners, and aiding her to acquire those ornamental attainments which, unlike her sister, she despised as much as the rest.” 119
Estranei alla famiglia Murray sono due figure maschili essenziali per l’intreccio del romanzo, i due ecclesiastici: Mr Hatfield il rettore, ed Edward Weston il suo curato.
In loro Anne Brontë ha delineato esattamente due opposti e antagonistici personaggi: Mr Hatfield un damerino, galante e cordiale; Mr Weston semplice e sincero, seriamente consacrato alla sua missione.
Hatfield, da buon damerino, si lascia incantare dalla seducente Rosalie, ma è il suo orgoglio, non il suo cuore, che viene ferito quando lei con scarsa sensibilità l’umilia e lo lascia.
Agnes lo considera una persona frivola e superficiale “confident in his own graces”120, mentre il suo giudizio è molto più favorevole nei riguardi di Mr Weston:
“He was a man of strong sense, firm faith, and ardent piety, but thoughtful and stern: and when I found that, to his other good qualities, was added that of true benevolence and gentle, considerate kindness, the discovery, perhaps, delighted me the more, as I had not been prepared to expect it.” 121
La sua gentilezza, i suoi modi così garbati, così naturali non solo con Agnes ma con tutti i parrocchiani, trasformano gradatamente la stima e l’alta considerazione di Agnes in un sentimento segretamente più intimo, più profondo.
Il distacco forzato dalla necessità di dover aiutare la madre nella gestione di una nuova scuola rende Agnes pienamente consapevole dell’amore finora celato per Weston:
“. . . a low voice close beside me said: ‘I suppose you are going this week, Miss Grey ?’
‘Yes,’ I replied . . .
‘Well’, said Mr Weston, ‘I want to bid you good-bye . . . it is not likely I shall see you again before you go.’
‘Good-bye, Mr Weston,’ I said . . . Oh, how I struggled to say it calmly ! I gave him my hand. He retained it a few seconds in his.
‘It is possible we may meet again,’ said he; ‘Will it be any consequence to you whether we do or not ?’
‘Yes, I should be very glad to see you again.’
I could say no less. He kindly pressed my hand, and went.” 122
È evidente come in entrambi i personaggi il sentimento che li lega è molto più forte del semplice rapporto d’amicizia, ma le circostanze impediranno ai due di incontrarsi prima della partenza di Agnes.
La deliberata intenzione di Anne Brontë è proprio quella di creare un’immagine diversa dal solito “principe azzurro”, un uomo che nonostante rappresenti comunque l’uomo del destino, si allontani il più possibile dal modello narrativo romantico, diventando un anti-romantico.
Questo procedimento coincide perfettamente con la determinazione di Anne a non aver niente a che fare con sciocchi sentimentalismi, insipide seducenti eroine ed eroi troppo galanti e troppo romantici per essere veri.
Agnes, bruttina, di banale aspetto, e senza notevole fascino femminile, invidia segretamente Rosalie e le donne in generale che possiedono charm e avvenenza; tuttavia nello stesso tempo si sforza di disprezzare sia loro che gli uomini che le corteggiano, e che trascurano l’esistenza di donne come lei che non possedendo avvenenza particolare, hanno però una buona dose di intelligenza e forza morale.
Così Anne si proietta obliquamente in Agnes e attraverso la sua mediazione dà libera voce ai suoi pensieri:
“ Rosalie left me, offended at my want of sympathy, and thinking, no doubt, that I envied her. I firmly believe I did not. I was sorry for her; I was amazed, disgusted at her heartless vanity; I wonder why so much beauty should be given to those who made so bad a use of it, and denied to some who would benefit to both themselves and others.
(. . .)
It is foolish to wish for beauty. Sensible people never either desire it for themselves or care about it in others.
If the mind be but well cultivated, and the heart well disposed, no one ever cares for the exterior.” 123
Quindi sebbene l’eroina alla fine trionfi, non è certo per le sue qualità fisiche.
Anche sua sorella Charlotte, nel romanzo Jane Eyre, non delineò l’eroina sui tradizionali canoni di bellezza femminile, infatti, Jane era definita come una ‘plain, common creature’, ma Charlotte compensò questa mancanza dandole quella forza morale che permise a Jane di completare il suo cammino raggiungendo ugualmente una stabilità sociale e sentimentale.
Non si può essere vivaci, di bell’aspetto, seducenti ed anche felicemente sposate.
Ci deve essere una compensazione morale per l’iniqua differenza, una vittima, e in Agnes Grey, la vittima è Rosalie Murray: la donna seducente e senza scrupoli, il mostro, che si libera con la sua coquetry da quel silenzio a cui la donna era stata fino allora costretta, distrugge quelle regole sociali che l’eroina e la sua creatrice sembrano accettare passivamente.
È lei a dover pagare per gli ordini e i divieti imposti ad Agnes:
“Rosalie came into the school-room and said: ‘Matilda, I want you to take a walk with me’ . . .
‘Oh, I can’t Rosalie! . . . Miss Grey must go with you.’
‘No, I want you’, said Rosalie.
( . . . )
In these walks she would sometimes go with her sister, sometimes alone, never, now, with me; so that I was debarred the pleasure of seeing Mr Weston.
I could not even se him at church, for Miss Murray, under some trivial pretext, chose to take possession of that corner in the family pew which had been mine ever since I came; I must sit with my back to the pulpit.
Now, I never walked home with my pupils, because she said ‘you can’t walk as fast as we do; you know you’re always lagging behind.’ I knew these were false excuses, but I made no objections.” 124;
per aver trasgredito i canoni tradizionali con le sue numerose relazioni occasionali:
“She never for a moment lost sight of Mr Weston. She embraced every opportunity of meeting him, tried every art to fascinate him, and pursued him with as much perseverance as if she really loved him – and no other, and the happiness of her life depended upon eliciting a return of affection.” 125
Dopo aver flirtato spudoratamente con uomini sposati e non, la vanità e l’ambizione sociale di Rosalie la portano infine a sposare Sir Thomas Ashby, una unione stabilita solo per egoistici vantaggi sociali che segnerà l’inizio delle sue sofferenze e la fine di quelle di Agnes.
Un anno dopo il matrimonio, Rosalie è arrivata al punto di odiare suo marito e di non nutrire alcun sentimento materno per la sua bambina.
La sua vita da principessa è finita, la sua nuova dura realtà è talmente diversa e opprimente che non si può non provare un senso di pietà, sia pure per un attimo, per questa giovane donna disillusa, e capire che il suo comportamento, il suo cinismo e il fallimento coniugale provengono essenzialmente da falsi principi morali impressi in lei sin dall’infanzia da egoistici e immorali genitori.
Ma, in Agnes Grey, sono i veri valori dell’eroina a vincere alla fine, rispettando il codice morale vittoriano secondo il quale gli onesti sono sempre ricompensati moralmente dalle pene subite, e i disonesti puniti.
4 - A Selfhood Sufficient: il matrimonio in Agnes Grey.
È importante notare come il romanzo non sia orientato ad enfatizzare né il protagonista maschile, né il matrimonio. Sebbene si concluda con il suono delle campane nuziali, tradizionale meta dei romanzi del XVIII° e XIX° secolo, il lettore non si aspetta il matrimonio come tappa finale del percorso formativo di Agnes.
Infatti Anne Brontë ha strutturato il suo romanzo in modo tale che tutte le esperienze vissute dall’eroina culminassero con la conquista finale della sua indipendenza.
Proprio per questo l’incontro con Mr Weston avviene relativamente tardi nella storia del romanzo: Agnes, prima riconosce la sua superiorità, dopo scopre in lei i sintomi di una crescente attrazione nei riguardi di Mr Weston.
Dopo aver lasciato il suo posto ad Horton Lodge per aiutare la madre nella gestione di una nuova scuola, Agnes scrive:
“I was inwardly taking myself to task with far sterner severity. ‘What a fool you must be,’ said my head to my heart, or my sterner to my softer self; ‘how could you ever dream that he would write to you? What grounds have you for such a hope – or that he will see you, or give himself any trouble about you – or even think to you again ?” 126
Il confronto fra le pulsioni intellettive e quelle del cuore permette alla Brontë di dimostrare come quest’ultime stravolte dagli eventi possano portare una donna così forte come Agnes a desiderare la morte:
“If I was forbidden to minister to his happiness, forbidden, for ever, to taste the joice of love, to bless and to be blessed, then life must be a burden, and if my heavenly Father would call me away, I should be glad to rest.” 127
Agnes recupera il proprio autocontrollo censurando i suoi pensieri e ribadendo il suo ruolo di figlia obbediente; sebbene questo ruolo sembri convalidare l’ideologia patriarcale, la Brontë evidenzia che il senso di riconoscenza di Agnes è rivolto alla madre:
“But it would not do to die and leave my mother. Selfish, unworthy daughter, to forget her for a moment !” 128
Affidandosi alla fede cristiana, Agnes conforta il suo cuore con questi pensieri:
“Did not He know best what I should do, and where I ought to labour ?
And should I long to quit His service before I had finished my task, and expect to enter into His rest without having laboured to earn it ?
‘No; by His help I will arise and address myself diligently to my appointed duty. If happiness in this world is not for me, I will endeavour to promote the welfare of those around me, and my reward shall be hereafter.’ So said I in my heart.” 129

Ristabilito l’equilibrio mentale e spirituale, ora Agnes può riprendere il suo viaggio verso l’indipendenza.
Una tappa importante che segnerà il cammino di Agnes è il soggiorno in casa Ashby ospite della nuova Lady Ashby, Rosalie Murray.
Ciò che Agnes trova è una donna disperata, infelice, vittima di un matrimonio che la tiene legata ad un uomo che non ama:
“ He will do as he pleases, and I must be a prisoner and a slave . . . Oh, I would give ten thousand worlds to be Miss Murray again ! It is too bad to feel life, health, and beauty wasting away, unfelt and unenjoyed, for such a brute as that !” 130
Il ritorno a casa, dopo l’esperienza vissuta, rende Agnes maggiormente consapevole delle proprie ricchezze morali:
“I awoke early on the third morning after my return from Ashby Park . . . I thought how pleasant it would be to pass through the quiet town and take a solitary ramble on the sands while half the world was in bed.
Refreshed, delighted, invigorated, I walked along, forgetting all my cares, feeling as I had wings to my feet, and could go at least forty miles without fatigue, and experiencing a sense of exhilaration to which I had been an entire stranger since the days of early youth.” 131
La Brontë crea un’ideologica affinità, un intimo legame fra Agnes e l’ambiente marino: solo a contatto con il mare l’eroina sente realmente di essere libera, indipendente. È al mare che Agnes prova per la prima volta la sensazione di completo benessere dentro e fuori di lei.
Solo ora che Agnes ha raggiunto l’equilibrio fisico e mentale, e la personale realizzazione economica, Mr Weston può rientrare a far parte della sua vita.
Mentre Mr Weston ha sempre avuto quella fiducia nelle proprie capacità, quell’indipendenza morale a cui Agnes aspirava, ora lui ha raggiunto anche un livello di indipendenza economica simboleggiata dalla sostituzione del suo vecchio orologio con uno nuovo d’oro.
A differenza delle altre scrittrici vittoriane, Anne Brontë sceglie di non dare alla sua eroina né ricchezze, né comforts materiali alla fine del suo cammino, sottolineando che la sola opulenza non garantisce l’autosufficienza per una donna, ma l’indipendenza e l’autonomia sì.
Per dimostrare quanto la personalità di Agnes sia stabile nella sua flessibilità, la Brontë evidenzia come il sostanziale distacco dallo stato di passiva dipendenza caratteristico delle precedenti esperienze, non sia completamente scomparso.
Durante una delle frequenti visite di Mr Weston in casa Grey, Agnes nota che:
“He generally addressed most of his conversation to my mother; and no wonder, for she could converse. I almost envied the unfettered, vigorous fluency of her discourse, and the strong sense evinced by everything she said – and yet, I did not, for though I occasionally regretted my own deficiencies for his sake, it gave me very great pleasure to sit and hear the two beings I loved and honoured above everyone else in the world, discoursing together so amicably, so wisely, and so well.
I was not always silent, however; nor was I at all neglected. I was quite as much noticed as I would wish to be: there was no lack of kind words, and kinder looks, no end of delicate attentions, too fine and subtle to be grasped by words, and, therefore, indescribable – but deeply felt at heart.” 132
La Brontë illustra qui una nuova dimensione dell’eroina, sempre caratterizzata da una mancanza di voce e di presenza, ma rassicurata e amata dalle persone che la circondano.
La tematica analitica della realizzazione sociale e dell’autosufficienza femminile sono strettamente legate all’analisi, condotta dall’autrice, della sfera sociale e psicologica in cui Agnes si muove nel corso del romanzo, culminando nella fase finale in queste conclusive considerazioni dell’eroina:
“Here I pause. My diary, from which I have compiled these pages, goes but little further. I could go on for years; but I will content myself with adding that I became the wife of Edward Weston . . . Our modest income is amply sufficient for our requirements; and by practising the economy we learnt in harder times, and never attempting to imitate our richer neighbours, we manage not only to enjoy comfort and contentment ourselves, but to have every year something to lay by for our children, and something to give to those who need it.
And now I think I have said sufficient.” 133
La Brontë ricorda tramite le parole di Agnes come l’autosufficienza sia stata da sempre il suo unico scopo. Il matrimonio è semplicemente un’appendice nel viaggio di Agnes verso l’autonomia.
La frase conclusiva “I think I have said sufficient”, riporta la nostra attenzione sul silenzio imposto alle donne come modello di vita; in Agnes Grey, Anne Brontë analizza le condizioni sociali che obbligano una donna al silenzio, e le conseguenze psicologiche causate da quel silenzio.
La decisione dell’autrice di narrare la storia di Agnes Grey attraverso l’uso della prima persona è importante poiché implica che, per Agnes, la presentazione pubblica della sua storia è la prima significativa affermazione del suo Io femminile.
La storia di Agnes, concludendosi con un matrimonio, con la conseguente maternità e con una relativa vita entro la sfera domestica, sembra non capovolgere affatto le consuetudini associate al realismo domestico vittoriano.
Ma l’innovativa tecnica di connessione fra la mente e la voce di Agnes, come modello narrativo adoperato da Anne Brontë, evidenzia, come nota la scrittrice Mary Jean Corbett:
“an astute awareness both of the complex nature of subjectivity and of the relationship of that subjectivity to historical issues of visibility for women.” 134
Un’ultima considerazione infine relativamente al modello narrativo di Anne Brontë: ricorrendo a vicende immaginarie ma con un alto contenuto realistico, ha saputo magistralmente trattare un tema così importante e delicato come quello dell’educazione e dell’indipendenza femminile, in un contesto storico in cui questo problema era drammaticamente vissuto e sofferto.
CAPITOLO 4
With stammering lips and insufficient sound
I strive and struggle to deliver right
That music of my nature, day and night
With my dream and thought and feeling interwound,
And inly answering all the senses round
With octaves of a mystic depth and height
Which step out grandly to the infinite
From the dark edges of the sensual ground.
This song of the soul I struggle to outbear
Through portals of the sense, sublime and whole,
And utter all myself to the air:
But if I did it, - as the thunder-roll
Breaks its own cloud, my flesh would perish there,
Before that dread apocalypse of the soul.
“The Soul’s Expression” E. Barrett Browing
1 - ‘Wholesome truths’ versus ‘soft nonsense’

Nella stesura del suo secondo romanzo, The Tenant of Wildfell Hall, Anne Brontë perfeziona la sua tecnica narrativa, riuscendo a raggiungere intensi momenti drammatici e di analisi psicologica.
Invece di presentare la tranquilla storia di un individuo e della sua formazione attraverso il modello già proposto in Agnes Grey, Anne Brontë esce dai soliti schemi, descrivendo sia la crescita che l’involuzione di molti personaggi nel corso del romanzo, utilizzando una sofisticata tecnica narrativa di struttura a strati o a incastro (su cui mi soffermerò nell’ultimo paragrafo) che condurrà al tema principale del testo.
L’intento di Anne è chiaro: presentando al lettore un orribile ma al tempo stesso realistico quadro di depravazione, cerca di metterlo in guardia dagli inevitabili risultati di tale condotta:
“My object in writing the following pages was not simply to amuse the Reader, neither was it to gratify my own taste, not yet to ingratiate myself with the Press and the Public: I wished to tell the truth, for truth always conveys its own moral to those who are able to receive it.
( . . . )
Let it not be imagined, however, that I consider myself competent to reform the errors and abuses of society, but only that I would fain contribute my humble quota towards so good an aim, and if I gain the public ear at all, I would rather whisper a few wholesome truths therein than much soft nonsense.” 135
Anne in The Tenant of Wildfell Hall riscrive la storia di una ‘Fallen Woman’ come una descrizione di superiorità femminile.
Una donna giovane e colma di ideali sposa un uomo il cui carattere non è ancora ben definito. Credendo suo compito aiutarlo nella formazione psicologica, lei nonostante il suo slancio ottimistico comincia a scoprire che i suoi tentativi di persuasione non hanno alcuna possibilità di cambiare chi non vuole essere cambiato.
La decisione di Anne di far fuggire insieme al proprio figlio la protagonista da una vita coniugale oramai fallita, viola tutte le leggi e le convenzioni sociali vittoriane.
Ai sensi della legge una donna sposata non ha alcun potere decisionale, nessun avere, tutto (perfino la sua stessa vita) appartiene al marito.
Nel 1855, sette anni dopo la pubblicazione del romanzo di Anne Brontë, la studiosa Caroline Norton in un importante documento contenuto nel libro Victorian Women: A Documentary Account avvalora le numerose e dure ingiustizie sociali che gravavano sulle donne sposate vittoriane:
“She had no possessions, her property is his property, she cannot legally claim her own earnings, she may not leave her husband’s house, he may take her by force from the house of anyone who may harbour her, and she may not divorce her husband however profligate may be.” 136
L’eroina fuggendo è costretta a celarsi sotto una falsa identità, deve proteggere quella vera dai vicini troppo curiosi, per non ricadere vittima di suo marito.
Questi eventi, nucleo del romanzo, sono narrati solo retrospettivamente. Infatti, il romanzo è doppiamente retrospettivo: inizia nel 1847, e il narratore, un uomo di mezza età di nome Gilbert Markham, sta scrivendo ad un suo amico Halford una “old-world story ... a full and faithful account of certain circumstances connected with the most important event of my life.”137
Il racconto di Gilbert inizia narrando gli avvenimenti di venti anni prima, nell’autunno del 1827, con l’arrivo a Wildfell Hall della nuova affittuaria.
Helen Graham, la misteriosa affittuaria, è la donna che ha violato le convenzioni sociali lasciando suo marito; i dettagli del suo matrimonio sono raccontati nel suo diario scritto nel 1821 e concluso nel 1827 al suo arrivo a Wildfell Hall quando inizia il racconto di Gilbert.
Anne Brontë situa il suo romanzo durante gli ultimi anni del periodo della Reggenza, perché come molti Vittoriani, lei considera l’età di Byron e di Beau Brummel come un’età particolarmente dissoluta.
Retrodatando l’azione del romanzo a questo periodo, Anne Brontë si rende pienamente conto che la sua denuncia realistica e scottante della dissolutezza dell’alta società sarebbe stata accettata dai suoi contemporanei lettori borghesi, perché non direttamente coinvolti nella vicenda svoltasi in un periodo diverso.
Tuttavia se il tempo è ben definito, il luogo è vago e immaginario.
In tutto il romanzo c’è solo un’unica dettagliata descrizione di Wildfell Hall:
“Near the top of the hill, about two miles from Linden-Car, stood Wildfell Hall, a superannuated mansion of the Elisabethan era, built of dark grey stone, - venerable and picturesque to look at, but, doubtless, cold and gloomy enough to inhabit, with its thick stone mullions and little latticed panes, its time-eaten airholes, and its too lonely, too unsheltered situation, only shielded from the war of wind and weather by a group of Scotch firs, themselves half blighted with storms, and looking as stern and gloomy as the hall itself . . .” 138
Così come il titolo del primo romanzo di Anne, Agnes Grey, sottolinea la provocatoria dichiarazione d’individualità dell’eroina eponima contro le condizioni sociali che ostacolavano la sua autonomia, così anche il titolo del suo secondo romanzo, The Tenant of Wildfell Hall, suggerisce un perdurante interesse nell’analisi della soggettività, della concezione dell’Io, e della rappresentazione dell’Io.
Differentemente da Agnes Grey, The Tenant of Wildfell Hall segue in modo più sottile e sofisticato il processo con il quale l’eroina lotta per stabilire e mantenere un’identità che è incompatibile con le aspettative di quelli che la circondano.
Nel suo secondo romanzo, la Brontë analizza come una donna può inconsapevolmente compromettere il suo tentativo di essere autonoma, assumendo un comportamento e un’identità conferitale da altre persone.
La dinamica di questo processo assume un procedimento simile a quello recentemente avanzato dal filosofo Rom Harre:
“The selfhood is fundamentally intersubjective – that is, that one’s sense of self is informed by and in some sense a product of the concept of person invoked either directly or implicitly in interactions with others.
I distinguish between the concept of person, the publicy recognized human individual who is the focus of the overt practices of social life, and the sense that a person has his own being.” 139
L’agitata relazione tra queste due reciproche e collegate dimensioni d’identità rappresenta il punto focale di The Tenant of Wildfell Hall, il tematico ponte tra il racconto di Markham su Helen Huntingdon e la parte narrata dalla stessa Helen che le lettere di Markham racchiudono.
2 - “The Fair Unknown”: Helen Huntingdon e la sua battaglia contro il vizio.
Attraverso la tecnica narrativa usata da Anne, la struttura e il soggetto del romanzo pongono in modo particolare l’accento sugli effetti e sulle conseguenze di una vita all’insegna del vizio e dell’indulgenza.
Anne Brontë è particolarmente sensibile ai disastrosi effetti provocati dall’indulgenza, poichè nel momento in cui scriveva The Tenant of Wildfell Hall, fu testimone della morte prematura di suo fratello Branwell causata da una vita sregolata, fatta di vizi e di piaceri.
La Brontë evidenzia come grazie all’indulgenza concessa agli uomini nella società vittoriana, questi diventino sempre più tiranni nei confronti delle donne.
La loro condizione è brillantemente esposta in un ironico elogio della madre di Gilbert a proposito del marito:
“He was steady and punctual, seldom found fault without reason, always did justice to my good dinners, and hardly ever spoiled my cookery by delay – and that’s as much as any woman can expect of any man.”140
Ma errori che possono sembrare minori in Gilbert o in suo padre, assumono minacciose dimensioni in Huntingdon, il marito di Helen.
Quando chiede alla zia di Helen il permesso di sposare sua nipote, implorandola di essere “indulgente”, la zia risponde bruscamente:
“No indulgence for you, Mr Huntingdon, must come between me and the consideration of my niece’s happiness.” 141
Se Helen Huntingdon rappresenta la stessa Anne e ne è la sua portavoce, nel personaggio della bigotta Aunt Maxwell si può certamente intravedere il carattere della Aunt Branwell dei Brontë, la quale fece crescere i suoi nipoti educandoli al proprio severo credo evangelico.
Sconvolta dall’idea di un possibile matrimonio fra sua nipote e Mr Huntingdon, da lei considerato un uomo empio pronto alla dannazione, Aunt Maxwell cerca, nonostante le ferme convinzioni di Helen “his worst and only vice is thoughtlessness,” di avvertire la nipote:
“And thoughtlessness may lead to every crime, and will but poorly excuseour errors in the sight of God.
Mr Huntingdon, I suppose, is not without the common faculties of men: he is not so light-headed as to be irresponsible: his Maker has endowed him with reason and conscience as well as the rest of us.
And, remember Helen, ‘the wicked shall be turned into hell, and they that forget God’ !
And suppose, even, that he should continue to love you, and you him, and that you should pass through life together with tolerable comfort, - how will it be in the end, when you see yourselves parted forever; you, perhaps, taken into eternal bliss, and he cast into the lake that burneth with unquenchable fire – there forever to-.” 142
Le dure parole pronunciate dalla Aunt Maxwell/Branwell influenzarono talmente la giovane Anne/Helen, che la malattia e la conseguente morte di Mr Huntingdon furono imputate alla vita sregolata e a quella indulgenza contro cui predicava il credo evangelico della zia.
La vita viziosa e sregolata condotta da Mr Huntingdon conduce, nell’analisi della Brontë, a riconoscere che il concetto di virilità, come in Agnes Grey, è associato esclusivamente a concezioni come bere, bestemmiare, cavalcare, andare a caccia e uccidere.
La più seria e dura di tutte è la critica sul bere. Dopo essere stata testimone della dissolutezza del marito, Helen cerca di salvare suo figlio dalle abitudini paterne:
“He detests the very sight of the wine, and the smell of it almost makes him sick.
I have been accostumed to make him swallow a little wine or weak spirits-and-water, by way of medicine when he was sick, and, in fact, I have done what I could to make him hate
them.” 143
Attraverso la totale rieducazione del figlio di Helen, Arthur, e alla formazione di Gilbert Markham, Anne formula una tagliente critica nei confronti dell’educazione maschile e dell’intero sistema patriarcale vittoriano dei suoi tempi.
Il risalto dato alla ragione e alla razionalità di Helen è dovuto sia ad un femminismo illuminista legato alle convinzioni religiose dell’autrice, sia al bisogno di un’uguale educazione sociale per le donne.
Ma, secondo il credo comune degli uomini vittoriani, la donna, da sempre appartenente alla sfera familiare, considerata l’angelo del focolare, ha sì bisogno di un’educazione sociale, ma soltanto per adempiere nel migliore dei modi ai compiti per i quali è stata creata.
Di ben altra opinione era stata la scrittrice Mary Wollstonecraft che, già nel 1792, nel suo libro A Vindication of the Rights of Woman, aveva sostenuto:
“If woman be allowed to have an immortal soul, she must have, as the emplyment of life, an understanding to improve.
Gracious Creator of the whole human race! Hast thou created such a being as woman, who can trace thy wisdom in thy works, and feel that thou alone art by thy nature exalted above her – for no better purpose ?
Can she believe that she was only made to submit to man, her equal, a being, who, like her, was sent into the world to acquire virtue ?
Can she consent to be occupied merely to please him; merely to adorn the earth, when her soul is capable of rising to thee ?
And can she rest supinely dependent on man for reason, when she ought to mount with him the arduous steeps of knowledge ?” 144
In una discussione con Gilbert Markham, concernente il tipo di educazione più adatta per i bambini e le bambine, Helen, riprendendo il pensiero della Wollstonecraft, domanda:
“But will you be so good as to inform me why you make this distinction ?
Is it that you think she has no virtue ?” 145
Quindi, Helen afferma la virtù delle donne, e lo stesso Gilbert evoca elementi che rammentano quelli presenti nel libro A Vindication:
“It must be, either, that you think she is essentially so vicious, or so feeble-minded, that she cannot withstand temptation,- and though she may be pure and innocent as long as is kept in ignorance and restraint, yet, being destitute of real virtue, to teach her how to sin is at once to make her a sinner, and the greater of her knowledge, the wider her liberty, the deeper will be her depravity . . .” 146
Per Helen e Anne Brontë, come per la Wollstonecraft, la virtù deve essere coltivata e la capacità delle donne all’educazione morale deve essere pari a quella degli uomini.
È solo l’educazione e l’intelletto di Helen che preservano il suo “self-respect and self-reliance . . . the power, or the will, to watch and guard herself.”147
È proprio il suo sviluppato talento di pittrice che alla fine le permetterà di fuggire e di essere economicamente indipendente.
Naturalmente, se l’indipendenza economica conquistata da Helen va contro quell’ideologia sociale secondo la quale le donne hanno sempre bisogno di protezione in un mondo crudele; il suo comportamento non trasgredisce il mito dello “Angel in the House”, reso famoso dall’omonima poesia di Patmore, di una donna che si prodiga come angelo per la redenzione di chiunque la circondi.
Anche Helen, infatti, sin dall’inizio della sua relazione con Arthur Huntingdon, desidera essere per lui un angelo redentore:
“There is essential goodness in him; and what delight to unfold it ! If he has wandered, what bliss to recall him ! If he is now exposed to the baneful influence of corrupting and wicked companions, what glory to deliver him from them ! Oh ! if I could but believe that Heaven has designed me for this !” 148
3 - The ‘Angel in the House’: ideologia domestica fra adesione e distanza

“I think I might have influence sufficient to save him from some errors, and I should think my life well spent in the effort to preserve so noble a nature from destruction . . .
I will save him, and if he has done amiss, I shall consider my life well spent in saving him from the consequences of his early errors.” 149

Con queste parole Helen, inizialmente, si riconosce strumento di Dio che opera per migliorare il suo futuro marito e per condurlo alla sua salvezza.
Una volta sposati, lei tenta in tutti i modi di adempiere al suo compito di redenzione, ma i suoi sforzi come educatrice spirituale diventano presto difficili: quando suo marito la critica definendola ‘too religious’, e affermando che: “a woman’s religion ought not to lessen her devotion to her earthly lord,”150 Helen ribatte con una dichiarazione sull’uguaglianza spirituale equivalente ad una dichiarazione d’indipendenza:
“I will give my whole heart and soul to my Maker if I can . . . and not one atom more of it to you than He allows.
What are you, sir, that you should set yourself up as a god, and presume to dispute possession of my heart with Him to whom I owe all I have and all I am, every blessing I ever did or ever can enjoy – and yourself among the rest – if you are a blessing, which I am half inclined to doubt.” 151
L’elevata espressione della spiritualità di Helen diventa l’alternativa al suo silenzio, il mezzo principale della Brontë per rappresentare la sua voce.
A tal proposito è interessante l’opinione di Maria Frawley nell’introduzione all’opera della Brontë:
“Anne Brontë shows the ways in which Helen defines herself through a religious language and how she uses that language – her religious voice – to empower herself.” 152
La Brontë non solo analizza il processo attraverso il quale Helen impara ad articolare la sua autonomia attraverso il linguaggio religioso, ma esamina anche il profondo amore evangelico che lega spiritualmente le donne a Dio.
È la fede a sostenere Helen, a farle cercare l’indipendenza da suo marito e a restituirle quella libertà spirituale che il matrimonio le aveva negato.
La studiosa Juliet McMaster, così, scrive:
“Helen is prepared to enter with zeal into her role as the good angel, the woman specializing in goodness.
It is her hubris, her special arrogance, to suppose that she can be good enough for two, reform the rake, and save the sinner’s soul.” 153
Le parole della McMaster riassumono in modo eccellente il canone tipico dell’ideologia domestica che incoraggiava le donne a trasformarsi in ‘ethereal agents of morality and virtue’.154
Purtroppo, le numerose assenze del marito da casa, non permettono ad Helen di seguire completamente quel canone, e la rendono sempre più consapevole del fallimento del suo compito:
“The week is over, and he is not come. All the sweet summer is passing away without one breath of pleasure to me or benefit to him.
And I had all along been looking forward to this season with the fond, delusive hope that we should enjoy it so sweetly together; and that, with God’s help and my exertions, it would be the means of elevating his mind, and refining his taste to a due appreciation of the salutary and pure delights of nature, and peace, and holy love.” 155
La ribellione di Helen è determinata essenzialmente dal rifiuto di purificazione del marito; Helen non accetta più di essere un agente di redenzione, un angelo, perché teme di essere contaminata dalla corruzione del marito: “I am no angel and my corruption rises against it.”156
Ma, sul letto di morte di Arthur, Helen ritorna ad essere il suo angelo redentore:
“ ‘God is Infinite Wisdom, and Power, and Goodness – and Love; but if this idea is too vast for your human faculties – if your mind loses itself in its overwhelming infinitude, fix it on Him who condescended to take our nature upon Him, who was raised to heaven even in His glorified human body, in whom the fulness of the Godhead shines.
It cost the blood of an incarnate God, perfect and sinless in Himself, to redeem us from the bondage of the evil one; - let Him plead for you.’
I know I cannot help him.
I did my best to soothe and comfort him.” 157

La miglior articolazione di questo credo nella dottrina della salvezza universale, si può trovare in una lettera scritta da Anne Brontë al Reverendo David Thom.
Spiegando che sin dall’infanzia lei ha sempre creduto nella salvezza universale, Anne scrive:
“We see how liable men are to yield to the temptation of the passing hour; how little the dread of future punishment – and still less the promise of future reward – can avail to make them forbear and wait; and if so many thousand rush into destruction with, as they suppose – the prospect of Eternal Death before their eyes – what might not the consequence be, if that prospect were changed for one of a limited season of punishment, far distant and unseen, however protracted and terrible it might be ?” 158
Anne utilizza la morte di Huntingdon per affrontare il tema dell’ideologia domestica e le conseguenze di questa sullo sviluppo della personalità.
La Brontë attacca l’ideologia domestica attraverso la rappresentazione dello sviluppo dell’assertività di Helen, che raggiunge il suo climax nel rifiuto dell’eroina di far entrare suo marito nella camera da letto, così da scuotere “the Victorian icon of the submissive wife.”159
Nella sua straordinaria critica dell’ideologia della femminilità e della conseguente idea che la casa rappresenti il sicuro rifugio e il naturale posto per l’angelica donna vittoriana, The Tenant of Wildfell Hall rappresenta uno dei più innovativi romanzi scritti del XIX secolo, tanto da essere riconosciuto dalla critica come romanzo femminista, e giudicato dalla scrittrice Elaine Showalter:
“a feminist-work that merely transposed domestic ideology into an activist key . . .
This chivalrous vision of the sacred influence of women had been a central concept of the Victorian domestic ideal.” 160

La Brontë, stabilendo un complesso rapporta tra il linguaggio religioso e l’ideologia domestica, partecipa alla tradizione radicale delle donne scrittici e predicatrici.
Di notevole importanza è la tesi espressa da Christine L. Krueger:
“From the women preachers of the eighteenth century to the Victorian novelists who were their heirs, women’s writings testify to their ability to recognize the ideological conflicts in scripture that were suppressed in the patriarchal feminine ideal, and to interpret scripture as offering divinely sanctioned challenges to masculine authority.” 161
Così, in The Tenant of Wildfell Hall, il momento in cui Helen Huntingdon diventa effettivamente libera da suo marito è strettamente collegato con il momento in cui lei finalmente abbandona il suo ruolo da missionaria preteso e sancito dalla società e dall’ideologia domestica.
Considerando che il romanzo di Anne Brontë ha concentrato l’analisi esclusivamente sul racconto di Helen sul suo matrimonio, se ne può dedurre che il romanzo progetti la crescita dell’eroina da uno stato di sottomissione ad uno stato d’indipendenza, e che questa evoluzione può essere valutata prendendo in considerazione il modo in cui il suo uso del linguaggio religioso diventi sempre più forte e frequente nel corso del romanzo, in special modo dopo la morte di suo marito Arthur, come si può notare in una lettera scritta a suo fratello, Frederick:
“How could I endure to think that that poor trembling soul was hurried away to everlasting torment? It would drive me mad ! But thank God I have hope- not only from a vague dependence on the possibility that penitence pardon might have reached him at the last, but from the blessed confidence that, through whatever purging fires the erring spirit may be doomed to pass- whatever fate awaits it, still, it is not lost, and God, who hatest nothing that He hath made, will bless it in the end !” 162
Le parole di Helen rappresentano una nuova presa di coscienza: mentre evidenziano la sua consapevolezza nel non poter partecipare attivamente alla salvezza e alla redenzione dell’anima di Arthur, rivelano una straordinaria forza morale datale dalla fede in Dio e dalla possibilità di una salvezza universale.
Il modo in cui Helen parla e articola i discorsi, ricordando i ‘sermoni’ che l’eroina del primo romanzo di Anne, Agnes recitava ai suoi lettori alla fine del suo diario, diventa il principale mezzo usato dalla Brontë in The Tenant of Wildfell Hall per criticare i modelli generali di comportamento della sua società.
Quindi, la fede e il linguaggio religioso sono l’assoluta fonte della sincerità e della determinazione in Anne, attributi che le conferiscono quella rara ‘quality of heat’ che George Moore notò sin dalla prima lettura del romanzo.
4 – Reputazione e Interpretazione in The Tenant of Wildfell Hall.
Sin dall’inizio il romanzo di Anne Brontë, con l’utilizzo della lettera di Gilbert, fa nascere nella mente dei lettori molta curiosità per la misteriosa figura della nuova affittuaria stabilitasi a Wildfell Hall. Ma sarà la sorella di Gilbert, Rose, a fornire ai lettori maggiori particolari sull’effettivo arrivo della misteriosa affittuaria, riportando in casa le ultime notizie apprese dai suoi concittadini:
“I was going to tell you an important piece of news I heard, I’ve been bursting with it ever since.
You know it was reported a month ago, that somebody was going to take Wildfell Hall – and – what do you think ? It has actually been inhabited above a week ! – and we never knew !
A single lady has had two or three rooms made habitable; and there she lives, all alone – except an old woman for a servant !” 163
Il fratello di Gilbert, Fergus, ipotizza che la nuova affittuaria possa essere una strega.
La sua scherzosa congettura anticipa il sospetto pubblico e la predisposizione degli abitanti al pettegolezzo sulla ‘mysterious lady’:
“She is called Mrs Graham, and she is in mourning – not widow’s weeds, but slightish mourning . . .
They tried all they could to find out who she was, and where she came from, and all about her, but neither Mrs Wilson, with her pertinacious and impertinent home trust, nor Miss Wilson, with her skilful manoeuvering, could elicit a single satisfactory answer, or even a casual remark, or chance expression calculated to allay their curiosity, or throw the faintest ray of light upon her history, circumstances, or connexions.” 164
Anche lo stesso Gilbert confessa la sua curiosità nei confronti della misteriosa signora, offrendone una minuziosa descrizione:
“On Sunday, everybody wondered whether or not the fair unknown would profit by the vicar’s remonstrance, and come to church.
I confess, I looked with some interest myself towards the old family pew, appertaining to Wildfell Hall . . .
And there I beheld a tall, lady-like figure, clad in black. Her face was towards me, and there was something in it, which, once seen, invited me to look again. Her hair was raven black, and disposed in long glossyringlets, a style of coiffure rather unusual in those days, but always graceful and becoming; her complexion was clear and pale; her eyes I could not see, for being bent upon her prayer book they were concealed by their drooping lids and long black lashes, but the brows above were expressive and well defined, the forehead was lofty and intellectual, the nose, a perfect aquiline, and the features in general, unexceptionable . . .” 165
Quindi una giovane e sconosciuta vedova, in questo caso Helen, diviene l’argomento principale, per più di quattro mesi, dei discorsi e dei pettegolezzi di una piccola comunità come Wildfell Hall.
Di notevole interesse è l’opinione in merito espressa dallo scrittore Jan Gordon:
“Such gossip or ‘overhead language’ has no authorship that can be readily identified.
It is a speculative language thrown out at that which is only incompletely understood, and its origins can never be traced or determined.” 166
Seppur senza artefice e fonte, il ‘gossip’, il pettegolezzo è difficile da contenere, e molto spesso non è neanche veritiero; poiché è facile nei piccoli paesi ingrandire con scioccanti e false rivelazioni anche la più insignificante notizia.
La stessa esperienza è vissuta dal povero Gilbert costretto a sentire le calunnie e le menzognere invenzioni sulla reputazione della sua amata Helen.
In questo modo Anne Brontë può dimostrare come queste storie non sono semplicemente dei pettegolezzi, delle voci infondate, ma sono discorsi atti a capire il modo di pensare e i comportamenti sia della famiglia di Gilbert Markham, sia degli abitanti di Wildfell Hall.
Inizialmente Gilbert cerca di stabilire un’amicizia con lei, rendendola consapevole dei pettegolezzi dei vicini:
“I heard some detestable falsehoods; but none but fools would credit them for a moment, Helen, so don’t let them trouble you . . .
If I, by my thoughtlessness and selfish disregard to appearances, have at all assisted to expose you to these evils, let me entreat you not only to pardon me, but to enable me to make reparation; authorize me to clear your name from every imputation: give me the right to identify your honour with my own, and to defend your reputation as more precious than my life !” 167
La Brontë, in questo romanzo, identifica il ‘gossip’, il pettegolezzo, con l’irragionevolezza, con la voce perversa, rabbiosa spesso associata alle donne (il pettegolezzo è il ‘mostro’ a cui l’eroina soggiace passivamente), mentre la scrittura è sinonimo di riflessione e di autorità.
Infatti, è solo dopo aver letto ciò che Helen ha scritto nel suo diario, che Gilbert può far tacere i pettegolezzi, provando una “ joy unspeakable that my adored Helen was all I wished to think her.”168
La prima metà del romanzo culmina con un confronto tra Helen e Gilbert, e termina proprio con il passaggio di proprietà del diario di Helen a Gilbert:
“She did not speak, but flew to her desk, and snatching thence what seemed a thick album or manuscript volume, hastily tore away a few leaves from the end, and thrust the rest into my hand, saying, 'You needn’t read it all; but take it home with you’, - and hurried from the room.
But when I had left the house, and was proceeding down the walk, she opened the window and called me back.
It was only to say:
‘Bring it back when you have read it; and don’t breathe a word of what it tells you to any living being – I trust to your honour’.” 169
L’unica risorsa di Helen per difendersi contro le ingiurie e il disonore è il suo diario, il quale secondo l’impressione di Gilbert è un ‘full and faithful account’ proprio come la sua lunga lettera a Halford sembra essere un dettagliato resoconto degli eventi salienti della sua vita.
Inoltre, è solo incorporando il diario di Helen nel suo racconto che Markham può reinterpretare il mito della “Fallen Woman” e della moglie ‘outcast’ nella società vittoriana come il modello della “Exemplary Wife”, donna e moglie perfetta.
Il diario di Helen e le sue seguenti lettere al fratello Frederick Lawrence costituiscono la causa che scatena in Gilbert l’analisi interpretativa dei comportamenti e dei discorsi di Helen:
“Did I not know Mrs Graham ? Had I not seen her, conversed with her time after time ? Was I not certain that she, in intellect, in purity and elevation of soul, was immeasurably superior to any of her detractors; that she was, in fact, the noblest, the most adorable, of her sex I had ever beheld, or even imagined to exist ? Yes, and I would say with Mary Millward (sensible girl as she was) that if all the parish, ay, or all the world should din these horrible lies in my ears, I would not believe them; for I knew her better than they.” 170
Nel diario Helen racconta se stessa, i suoi dolori e le sue gioie, mette a nudo la sua anima, descrivendo con assoluta franchezza i fatti accaduti.
Helen definisce il suo diario come un testo privato, un amico sicuro, fidato che non ha l’autorità, il potere di raccontare o rivelare la sua storia.
All’inizio della sua relazione con Arthur Huntingdon, Helen scrive:
“This paper will serve instead of a confidential friend into whose ear I might pour forth the overflowings of my heart.
It will not sympathize with my distresses, but then it will not laugh at them, and, if I keep it close, it cannot tell again; so it is, perhaps, the best friend I could have for the purpose.” 171
In questo passo la Brontë rivela sia la predisposizione di Helen a chiudersi in se stessa, manifestatasi quindi prima del suo arrivo a Wildfell Hall, sia come la scrittura diaristica e solitaria diventino mezzi di sopravvivenza.
È l’insicurezza e la solitudine che spingono Helen a trascrivere tutte le sue emozioni nel diario.
Come Agnes Grey e molti altri personaggi della poesia di Anne Brontë, Helen Huntingdon adopera la sua solitudine come un meccanismo di difesa, in questo caso come una protezione contro la disistima di chi la circonda.
Il desiderio di Helen di celare i suoi sentimenti diventa sempre più una necessità quando la sua relazione con Arthur diventa effettiva.
È significativo notare come i primi tentativi di Huntingdon di comunicare con Helen assumono piuttosto l’aspetto di un obbligo a parlare:
“But what are your sentiments towards me ? – Helen –
Speak ! - How do you regard me ?
And again he pressed my hand; but I feared there was more of conscious power than tenderness in his demeanour, and I felt he had no right to extort a confession of attachment from me when he had made no correspondent avowal himself, and knew not to answer.” 172
Anche successivamente nel suo diario Helen racconta molti episodi dove l’arroganza e l’impertinenza di Arthur sono messe in primo piano.
Le loro accese discussioni permettono alla Brontë di mettere in evidenza i modi in cui il silenzio e la privacy di Helen frustrano il carattere autoritario di Arthur:
“ ‘You must and shall tell me,’ was added, more vehemently . . . ‘Are you sure it is nothing to me ? Can you swear that you were not thinking of me while you wept ? . . . Tell me, I want to know’.
I could no answer at the moment. He threw himself on his knees, beside me on the rug, and forcibly possessed himself of my hand; but I hastily caught it away . . .” 173
La Brontë sottolinea il crescente senso di sconforto di Helen nei riguardi del marito aumentando i momenti di silenzio e di preghiera in cui si rifugia l’eroina.
Come nel suo primo romanzo, anche qui la Brontë si pone come obiettivo l’analisi dell’interiorità della sua eroina condotta attraverso i processi di pensiero di Helen.
La prima parte del diario inclusa nel racconto di Gilbert illustra molto bene questo procedimento tecnico usato dalla Brontë.
Nel paragrafo iniziale del diario Helen scrive:
“I wonder whether he ever thinks of me; and I wonder whether I shall ever see him again.
And then might follow a train of other wonderments . . . I wonder what my aunt would tell me if she knew what I was thinking about.” 174
Progettando la sua futura relazione con Arthur Huntingdon, il diario rivela la crescente fiducia di Helen basata su quello che lei chiama ‘a secret something – an inward instinct’, presto tradito dal comportamento immorale di Arthur.
La Brontë evita semplicemente di rappresentare Helen come una donna ingenua e passiva, ma menziona i processi mentali e di pensiero di Helen per esplorare la complessa natura della soggettività.
Quando Helen comincia per la prima volta a dubitare della solidità del suo matrimonio, scrive:
“There are times when, with a momentary pang – a flash of wild dismay, I ask myself, ‘Helen, what have you done ?’ But I rebuke the inward questioner, and repel the obtrusive thoughts that crowd upon me.” 175
È un’ammissione che consente alla Brontë di illustrare il modo in cui Helen coscientemente inganna se stessa e limita la sua capacità di gestire la sua vita.
N. M. Jacobs ha scritto:
“Helen experiences her own mind as a structure within which her thoughts and feelings are confined, just as her narrative of secret misery is confined within Gilbert’s less painful one in the structure of the novel.” 176
L’illusione è solo uno dei molti lati della soggettività che The Tenant of Wildfell Hall analizza nel suo studio sull’identità.
Con questo romanzo, la Brontë elabora un meta-commento sulla natura del racconto stesso; il racconto funziona sia come soggetto e sia come tecnica narrativa, e in entrambi i casi è utile per la formazione dell’identità.
Proprio come, nel diario di Helen, la molteplicità delle imposizioni a parlare rendono la stessa funzione del raccontare soggetto d’interesse per i lettori, così anche nelle lettere di Gilbert Markham riguardanti Helen si possono trovare una serie di riferimenti al parlare, alle confessioni e alle rivelazioni.
Il romanzo si presenta con una complessa struttura a carattere dinamico: da un lato, esalta l’atto della narrazione attraverso i ripetitivi ordini imposti ad Helen di parlare; dall’altro, l’interesse sull’eroina scaturisce proprio dal suo comportamento tranquillo e spesso silenzioso.
Infatti la prima impressione che Helen lascia agli abitanti di Wildfell Hall è quella di una persona solitaria e fondamentalmente tranquilla.
Tuttavia attraverso il racconto di Markham, la Brontë evidenzia come il silenzio di Helen non viene considerato come un sinonimo di riservatezza, ma è da Gilbert interpretato come un affronto personale:
“Just then, she happened to raise her eyes, and they met mine; I did not choose to withdraw my gaze, and she turned again to her book, but with a momentary, indefinable expression of quiet scorn, that was inexpressibly provoking me.” 177
Facendo notare più volte nella narrazione il fastidio di Gilbert causato dal silenzio di Helen, Anne Brontë mette in discussione l’ideologia domestica vittoriana che tenta di recludere le donne nella sfera familiare.
Il racconto di Helen della sua vita accanto ad Arthur è segnata da un’oscillazione tra la calma e l’inquietudine.
La calma, o la tranquillità viene usata dalla Brontë per descrivere la vita di Helen prima del suo matrimonio:
“It was a splendid morning; and I went out to enjoy it, in a quiet ramble in company with my own blissful thoughts . . .” 178
o per distinguere il carattere dell’eroina da quello del protagonista maschile, il quale in un rilevante colloquio con la moglie pretende che lei assuma un comportamento passivo adatto alla sua subordinata posizione di donna:
“I must have some good, quiet soul that will let me just do what I like and go where I like, keep at home or stay away, without a word of reproach or complaint; for I can’t do with being bothered.” 179
L’inquietudine, invece, è usata dalla Brontë per rappresentare le reazioni della sua eroina nei confronti dell’inettitudine morale di Huntingdon e la fondamentale incompatibilità che c’è fra i due.
È la stessa Helen a rendersi conto del profondo abisso che li distanzia, quando così scrive nel suo diario:
“I used to fly into passions or melt into tears at first, but seeing that his delight increased in proportion to my anger and agitation, I have since endeavoured to suppress my feelings and receive his revelations in the silence of calm contempt; but still, he reads the inward struggle in my face, and misconstrues my bitterness of soul for his unworthiness into the pangs of wounded jealousy.” 180
Per Helen, il silenzio è un meccanismo di difesa, proprio come lo era per Agnes Grey.
Il silenzio è una soppressione della voce a cui Helen coscientemente ricorre nelle rivalse contro suo marito, ed è inoltre ciò che lei stessa chiama ‘inward struggle’, cioè un’obbligata repressione dei sentimenti.
Nella sezione del romanzo dedicata al racconto dei rapporti di Helen con suo marito, Anne Brontë enfatizza le connessioni tra l’inclinazione dell’eroina ad una vita relativamente appartata e i suoi bisogni spirituali.
Confidando al suo diario quanto poco soddisfatti siano questi bisogni, Helen scrive, alludendo ad un passaggio del Libro di Isaia:
“Arthur never will let me be satisfied with him. I have never, for a single hour since I married him, known what it is to realize that sweet idea, ‘In quietness and confidence shall be your rest’.” 181
Purtroppo Helen non scoprirà mai l’intensa felicità di una vita serena che un matrimonio comporta, poiché verrà presto a conoscenza dell’infedeltà del marito.
Non potendo manifestare apertamente il suo dolore, le sue emozioni, sconvolta, trova rifugio nel suo diario:
“I found my bed so intolerable that before two o’clock, I rose, and, lighting my candle . . . I got my desk and sat down in my dressing-gown to recount the events of the past evening . . .
I have found relief in describing the very circumstances that have destroyed my peace, as well as the little trivial details attendant upon their discovery.
No sleep I could have got this night would have done so much towards composing my mind, and preparing me to meet the trials of the day – I fancy so, at least; - and yet, when I cease writing, I find my head aches terribly; and when I look into the glass I am startled at my haggard, worn appearance.” 182
È una delle più toccanti e significative dichiarazioni di Helen, un processo di autoanalisi dell’eroina dove descrivendo le ‘very circumstances’ fissa il racconto in una struttura interpretativa.
Sebbene si possa ritenere che né Arthur Huntingdon né Gilbert Markham siano dei partner adeguati per aiutare Helen nella sua formazione, la Brontë, invece, sostiene che quest’ultimo concluso il suo percorso formativo, dimostra quella comprensione e quella maturità necessaria per apprezzare l’intensità del bisogno di solitudine di Helen, disponibilità che lo rende degno di diventare il suo uomo ideale, capace di proteggerla e renderla felice.
Nella parte finale del romanzo, l’ultima lettera di Gilbert denota il suo nuovo modo di vivere dopo il matrimonio con Helen, invitando il suo amico Halford a “leave your dusty, smoky, noisy, toiling, striving city for a season of invigorating relaxation and social retirement with us.”183
Nella scelta dell’espressione ossimorica del ‘social retirement’ come frase per descrivere la nuova vita di Helen con Gilbert, la Brontë sottintende che il secondo matrimonio ha reso possibile un equilibrio tra l’Io pubblico e l’Io privato dell’eroina.
Anche il lavoro di pittrice rende possibile l’equilibrio tra l’Io pubblico e l’Io privato dell’eroina, inoltre nei due personaggi maschili di Huntingdon e Markham il lavoro di Helen viene utilizzato dall’autrice come mezzo iniziale di conquista.
I quadri rappresentano gli stati d’animo dell’eroina, sono visibili manifestazioni dei più intimi pensieri di Helen.
Infatti sono i suoi quadri che rivelano ad Huntingdon i suoi sentimenti, e sono i quadri che attraggono l’interesse di Markham per Helen.
La pittura è uno dei molti meccanismi che la Brontë usa per rappresentare il modo in cui Helen si pone in contatto con altre persone.
Due autorevoli scrittrici, Sandra Gilbert e Susan Gubar, sostengono che:
“Helen serves as an example of the female artist who must deny or conceal her own art, or at least deny the self-assertion implicit in her art.” 184
Anche il suo diario ha una simile funzione: definito il ‘silent paper’185 a cui Helen confessa le sue emozioni e i suoi bisogni, provoca sia in Arthur sia in Gilbert un intenso desiderio di invadere la sua privacy.
Entrambi cercano di ‘leggere’ Helen, attraverso le sue parole, i suoi quadri e le sue espressioni mimiche.
Il tentativo di Helen di lasciare Huntingdon fallisce nel momento in cui lui scopre le sue intenzioni leggendo il diario, e distruggendo i quadri che Helen intendeva vendere come unico mezzo per il suo sostentamento:
“I was about to close the book, but he suddenly placed his hand upon it, and saying – ‘With your leave, my dear, I’ll have a look at this’.
He sat down to examine it, turning back leaf after leaf to find an explanation of what he has read.
Then he said -‘It’s rather long; I’ll look at it some other time; and I’ll trouble you for the keys of your cabinet, desk and drawers.’
And putting the keys into his pocket, he walked into the library . . . My painting materials were laid together on the corner table . . . He soon spied them out, and putting down the candle, deliberatly proceeded to cast them into the fire . . . I saw them all consumed.” 186
Il rapporto di Markham con Helen è caratterizzato da simili, ma meno drammatici, sforzi di introdursi nella sua vita privata.
In uno dei primi incontri con Helen, Gilbert crede di poter interpretare i suoi pensieri soltanto guardandola in viso:
“I likewise took the hand that offered it, and looked into her face.
She let me hold it for a moment, and I saw a flash of ecstatic brilliance in her eye, a glow of glad excitement on her face – I thought my hour of victory was come – but instantly, a painful recollection seemed to flash upon her; a cloud of anguish darkened her brow, a marble paleness blanched her cheek and lip; there seemed a moment of unward conflict,- and with a sudden effort, she withdrew her hand, and retreated a step or two back.” 187
La Brontë enfatizza il modo in cui il diario e la pittura di Helen si trasformino da proprietà personali e private in proprietà di pubblico dominio.
Questa trasformazione accentua l’assoluta mancanza dei diritti di Helen sulle sue proprietà. Giusta è perciò l’opinione espressa da Elisabeth Langland:
“Within a traditional narrative analysis, then Brontë’s Tenant may tell an untraditional tale of a fallen woman redeemed, but it tells it in a way that reaffirms the patriarchal status quo masculine priority and privilege, of women’s subordination and dependency.” 188
È di notevole importanza notare come l’analisi della Brontë concordi con il pensiero della Langland: infatti, la storia di Helen sottolineando l’attenzione posta verso il suo sesso e la sua classe sociale, dimostra come queste ideologie privino Helen di una autonoma identità.
Scritto quasi dieci anni prima del ‘Matrimonial Causes Bill’ (1857), e del ‘Married Women’s Propriety Acts’ alla fine del secolo, il romanzo di Anne Brontë richiama l’attenzione su quello che la scrittrice Mary Poovey chiama:
“The paradoxical fact that in Britain, when a woman became what she was destined to be (a wife), she became ‘nonexistent’ in the eyes of the law.
The Matrimonial Causes Act was designed to ease restrictions and simplify procedures for obtaining a divorce.
It was the first mayor piece of British legislation to focus attention on the anomalous position of married women under the law.” 189
La Brontë concentra la sua analisi specialmente su due punti nodali del romanzo: sui modi in cui il matrimonio usurpa i diritti di proprietà di Helen, tra i quali anche suo figlio, e sul cammino di formazione che Helen è obbligata a percorrere, dopo il fallimento del suo matrimonio, per stabilire la sua indipendenza.
Il risultato ottenuto da Anne con questo romanzo è notevole non solo dal punto di vista della tecnica narrativa, ma soprattutto per la creazione di ‘psychologically convincing’190 personaggi che i critici hanno definito come rappresentazioni oblique dell’autrice stessa.
Comunque Anne decide di pubblicare il suo romanzo The Tenant of Wildfell Hall, sotto lo pseudonimo di Acton Bell, e nella prefazione della seconda edizione del romanzo afferma:
“Respecting the author’s identity, I would have it to be distinctly understood that Acton Bell is neither Currer nor Ellis Bell, and therefore, let not his faults be attributed to them.
As to whether the name be real or fictitious, it cannot greatly signify to those who know him only by his works.
As little, I should think, can it matter whether the writer so designated is a man, or a woman as one or two of my critics profess to have discovered.” 191
Questa asserzione indica la ferma decisione di Anne di preservare la propria identità d’autore da possibili appropriazioni e distorsioni.
Lo scrittore Jan B. Gordon, in riferimento al paragrafo finale della prefazione, così lo interpreta:
“In this remarkable paragraph, Anne Brontë says, in effect, ‘I am different from them, but you cannot know how because I am also different from my writing’.” 192
Affermando nella prefazione che era suo desiderio “to tell the truth, for truth always conveys its own moral to those who are able to receive it” 193, Anne intende dire che il suo romanzo rispecchia la propria vocazione spirituale e che i suoi personaggi affrontano il suo stesso cammino verso la conquista dell’indipendenza.
1 Titolo di una poesia di Coventry Patmore, che esprime bene l’essenza delle aspettative nei confronti della donna.
2 E. Langland, Anne Brontë, The Other One, London, Macmillan Education Ltd, 1989, p. 24.
3 Da una lettera di Robert Southey a Charlotte Brontë, estratto da J. Barker, The Brontës, London, Orion Books Ltd, 1997, p. 262.
4 V. Woolf “Professions for Women”, in The Death of the Moth and Other Essays, New York, Harcourt Brace Jovanovisch, 1942, pp. 235-242.
5 “On the Real Differences in the Minds of Men and Women”, Journal of the Anthropological Society of London vii (1869): LXIX; in Elaine Showalter , A Literature of Their Own , London , Virago , 1978.
6 Anne Brontë Dreams, vv. 1-5, estr. da Anne Brontë The Other One, Elizabeth Langland. Le note successive senza ulteriori riferimenti bibliografici faranno riferimento allo stesso volume citato nella presente nota.
7 Anne Brontë Self-Communion, poem written in 1847.
8 Thomas Salmon , A new Geographical and Historical Grammar, Edinburgh , Willison & Darling , 1771; Oliver Goldsmith’s History of England, fu mostrato a Charles Hale da William Wood l'8 Novembre 1861, Wood lo comprò per 18 pence all'asta delle Brontë il mese precedente; Charles Hale, An American Visitor at Haworth, 1861; Rollin’s History (nessun particolare relativo alla pubblicazione è stato reso noto) , J. Goldsmith A Grammar of General Geography, London, Langman, 1823. Estr. da Juliet Barker, op. cit., p. 862.
9 Anne Brontë, Poems, 1847. Secondo il commento di E. Langland: “In poem 92 there’s a confidence in God’s love and help, and a conviction of redemption through Christ. In poem 105 the starting point for belief is a conviction of one’s waverings and unworthiness; therefore, God is great. The conclusion here and elsewhere stresses the infinite mercy of heaven”.
10 C. Brontë “The History of the Year” 1829 in Barker, op. cit., p. 151.
11 C. Brontë “Tales of the Islanders” 1829.
12 E. J. Brontë , Diary Paper , 30 July 1845. Estr. da Juliet Barker, The Brontës. Barker commenta: “This Gondal play-acting took less than a year before they began to write their novels , Wuthering Heights and Agnes Grey”.
13 C. Brontë , “The History of the Year”, 12 March 1829. Estr. da Juliet Barker, The Brontës. J. Barker racconta come Branwell dia alla storia una differente enfasi: “I gave Charlotte Twemy (i.e Wellington) \to Emily\ Pare (Parry) \to Anne\ Trott (Ross) to take care of them though they were to be mine and I to have the disposal of them as I would – shortly after this I gave them to them as their own”.
14 Lettera a Ellen Nussey ,15 Aprile 1839, in Barbara Lanati, Charlotte, Emily e Anne Brontë Lettere, Torino, La Rosa, 1979, p.12.
15 The Brontës: Their Lives, Friendships and Correspondence, eds. T.J. Wise and J.A. Symington, Oxford, The Shakespeare Head Press, 1932; reprint 4 vols. in 2 , Philadelphia: Porcupine Press, 1980, vol. 1, p. 239.
16In The Brontës :Their Lives, Friendships and Correspondence, vol.1, p. 239.
17 James la Trobe to William Scruton, quoted in William Scruton, “Reminiscences of the late Miss Ellen Nussey”., in Juliet Barker The Brontës, op. cit. p.572.
18 A. Brontë If This Be All, 20 May 1845, in W. Gerin Anne Brontë, 1st ed., London, Thomas Nelson and Sons, Ltd. 1959. Gerin dà un'accurata spiegazione della poesia: “The poem begins with the speaker agonizing over the lack of pleasure and fulfillment that her life has thus for brought her. Here Brontë adopts several motifs. . . The representation of the self as exiled, not just from others but also from God, who fails to provide comfort.”
19 La frase “axiology of the self”, proviene dal libro di Regina Gagnier Subjectivities: A History of Self Representation in Britain, 1832-1920, New York, Oxford University Press 1991, 3. Lei lo descrive come “the systems of values, expectations, and constraints that come into play when one represents oneself to others in the concrete circumstances of daily life.”
20 Sidonie Smith, A Poetics of Women’s Autobiography: Marginality and the Fiction of Self-Representation, Bloomington, Indiana University Press, 1987, 5. Smith afferma che: “This book offers an outline of a poetics of women’s autobiography that encompasses psychoanalytic and historical approches, addressing both the psychodinamics of an author’s (or a fictional character’s ) emotional life and the social and cultural conditions that delimit the author’s (or the character’s) understanding of narrative and identity in the first place”.
21 Maria H. Frawley, Anne Brontë, New York, Simon & Schuster, 1996, p. 153.
22 E. Hardwick, Seduction and Betrayal, London, Weidenfeld & Nicolson, 1975, p. 11.
23 C.Brontë, “ Biographical Notice of Ellis and Acton Bell”, reprinted in Emily Brontë’s Wuthering Heights, eds. Hilda Marsden and Ian Jack, London, Claredon, 1976, appendix I.
24 cfr. “ The Victorian Governess: Status Incongruence in Family and Society” di M. Jeanne Peterson, in Martha Vicinus Suffer and be Still, (ed), Bloomington, Indiana U.P., 1973, pp.3-20.
25 J. W. Scott, “Women’s History and the Rewriting of History”, in The Impact of Feminist Research in Academy, ed. Christie Farnham, Bloomington, Ind., Indiana University Press, 1987, p. 44.
26 C. Brontë, “Introduction” to “ Selections from Poems by Acton Bell”, pubblicata prima nell’edizione del 1850 di Wuthering Heights e Agnes Grey, London, Smith, Elder.
27 In Wise and Symington, op. cit.,p.79.
28 La frase “suffer and be still” fu creata da Mrs. Sarah Stickney Ellis, che scrisse in The Daughters of England, London, Fisher, Son, e Co., 1845, che “a woman’s highest duty is so often to suffer and be still”. La sua frase fu usata come titolo di un’importante collezione di saggi di Martha Vicinus, Suffer and be Still: Women in the Victorian Age, Bloomington, Ind., Indiana University Press, 1972.
29 Cfr. Albert O. Hirschiman “ La Privatizzazione”, in Felicità Privata e Felicità Pubblica, Bologna, Il Mulino, 1983.
30 In Juliet Barker, op. cit., p.262.
31 In Teorie del Linguaggio e Prassi Analitica in J. Lacan , Dario Galati, Milano Multhijla Edizioni, 1981, p. 42.: “Il complesso delle normative legate all’accesso alla parola- legge è riassunto da Lacan nel concetto di Nome del Padre. Per Nome del Padre egli intende il nome, cioè il simbolo della funzione paterna in quanto veicolo e rappresentante della legge dello scambio esogamico.”
32 Julia Kristeva, La Rivoluzione del Linguaggio Poetico, Venezia, Marsilio, 1979, p.178.
33 Isobel Armostrong Victorian Poetry: Poetry, Poetics, and Politics, New York, Routledge, 1993, p. 58.
34 Angela Leighton, op. cit.,. p.2. Leighton afferma giustamente che “women’s poetry of the nineteenth century much more than the novel, was written and read as part of a self – consciously female tradition".
35 In Germania Greer “ Preface” to Winged Words: Victorian Women’s Poetry and Verse, compiled by Catherine Reilly, London, Enitharman Press, 1994, XV°.
36 Elisabeth Jay The Religion of the Heart: Evangelicalism and the Nineteeth – Century Novel, Oxford, Clarendon Press, 1979.
37 Anne Brontë, Self - Congratulation , 1 January 1840.
38 Lettera a E. Gaskell, 20 Giugno 1855, in Gerin, op. cit., p. 359.
39 In The Brontës: Their Lives, Friendships, and Correspondence, op. cit., vol. 2, p. 321.
40 Anne Brontë, The Captive’s Dream, vv. 11-21.
41 Janis P. Stout, Strategies of Reticence: Silence and Meaning in the Works of Jane Austen, Willa Cather, Katherine Anne Porter, and Joan Didion, Charlottesville, Va., The University Press of Virginia, 1990. Stout sostiene che: “The woman writer may find another answer, however, to the multifarious problem of silencing by the male hegemony. That answer is to use silence, the very silence that has been imposed, as a tool to undermine the ascendancy that silenced her”.
42 Isobel Armstrong Victorian Poetry: Poetry, Poetics, and Politics, New York, Routledge, 1993, p. 7.
43 C. Brontë, prefazione all’edizione del 1850 di Wuthering Heights & Agnes Grey, in Gaskell, op. cit., pp. 234-235.
44 Lettera a W. S. Williams, in The Brontës: Life and Letters, ed. C. Shorter, Holder and Stoughton, London 1933, vol. 1, p. 418.
45 V. Woolf, op. cit., p.107.
46 Anne Brontë Agnes Grey, Harmondsworth, Penguin, 1988, p. 61.
47 Mary Jacobus, op. cit., p. 23.
48 Cfr. George Sand, Storia della mia Vita, Milano, La Tartaruga, 1981, cpp. 5-6 passim (nomi e abiti maschili).
49 Christina Rossetti, in Dolores Rosenblum “Christina Rossetti: the Inward Pose”, Gilbert e Gubar (eds), op. cit., 1979, p. 85.
50 Ibid.
51 Maria Del Sapio, recensione a Gilbert e Gubar (eds), op. cit., in “Memoria”, n.5, 1982, p. 135.
52 Anne Brontë “Preface to the Second Edition” in The Tenant of Wildfell Hall, Harmondsworth, Penguin, 1988, p. 31.
53 Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination, New Haven, Yale University Press, 1980, p. 72.
54 Emily Dickinson, Poems, in Gilbert e Gubar, op. cit., 1980, p. 73.
55 Elaine Showalter, “Review Essay”, Signs 1 no. 2, 1975, p. 435, in Gilbert e Gubar, op. cit., p. 75.
56 The Hostile Sun: the Poetry of D.H Laurence, Los Angeles, Black Sparrow P., 1973; in Gilbert e Gubar, op. cit., 1980, p. 69.
57 George Lukacs Il Romanzo Storico, Einaudi, Torino, 1965, p. 14.
58 Crf. G. Lukacs, op. cit., 1965, p. 18.
59 W. Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, trad.it., N. Saito, Milano, Garzanti, 1977.
60 F. Schlegel, Frammenti sulla poesia, a cura di M.E. D’Agostini, Parma 1972, p. 45.
61 L.Mittner, Ambivalenze romantiche. Studi sul Romanticismo tedesco, trad. it., D’Anna, Messina-Firenze, 1954, pp.45-46.
62 Franco Moretti, Il romanzo di formazione, , Milano, Garzanti, 1991, p.293.
63 Jacob Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, 1905, trad. it. Firenze, Sansoni, 1959, p. 291 e p. 281.
64 Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, 1976, tr. it., Milano, Feltrinelli 1978, p. 125.
65 Ivi, p. 14.
66 Ivi, p. 112.
67 “L’istruzione sessuale dei fanciulli”, in S.Freud , Opere, Roma, Newton Compton ed., 1992, vol.2, p.159. Tr. it., Milano, Longanesi, 1980. Le note successive senza ulteriori riferimenti bibliografici faranno riferimento allo stesso volume delle opere citato nella presente nota.
68 “Psicologia collettiva e analisi dell’io”, in op. cit., p. 1161.
69 Ivi, pp. 1163-1164.
70 “Al di là del Principio del Piacere”, p. 1104.
71 “Psicologia collettiva e Analisi dell’Io”, p.1160.
72 In C.G. Jung, Psicologia, linguaggio e associazione verbale, Roma, Newton Compton ed., 1975, p.224.
73 “Sulla Psicoanalisi. Cinque Conferenze.”, pp.356-357.
74 “Pulsioni e loro vicissitudini”, p.825.
75 Titolo originale: “Das Motiv der Kastchenwahl”, pubblicato la prima volta in Imago, 2, 1913. Tr.it., Antonella Ravazzolo.
76 Da un commento in disparte di Cordelia, in King Lear atto I, scena 1.
Si ricordi inoltre come il silenzio diverrà in epoca vittoriana elemento necessario nella vita delle donne.
77 “Il Motivo della Scelta degli Scrigni”, pp.686-689.
78 J. Susann, The love machine; trad.it., La macchina dell’amore, Milano, Garzanti, 1970, in Michel Mercier, Il Romanzo al Femminile, Milano, il Saggiatore, 1979, p. 60.
79 Prefazione tratta dal libro di Mary Hays, Female Biography, New York, Simon and Schuster, 1969; trad. it., Biografia Femminile, Milano, Garzanti, 1970, in Michel Mercier, op. cit., pp. 67-68.
80 H.C. Agrippa, Traité de l’excellence de la femme; trad.it., Trattato dell’eccellenza della donna, Torino, Einaudi, 1959, in Mercier, op. cit., p. 40.
81 M. J. Holmes, Ethelyn’s Mistake; trad. it., Lo Sbaglio di Ethelyn, Milano, Mondadori, 1971, pp. 54-55.

82 Susan Warner, The Wide Wide World; trad. it., Milano, Lerici, 1971, in M. Mercier, op. cit., p. 97.
83 Susan Warner, Queechy; trad. it., Milano, Lerici, 1974, in M. Mercier, op. cit., p. 64.
84 M. J. Holmes, Dora Deane; trad., it., Milano, Garzanti, 1965, in M. Mercier, op. cit., p. 87.
85 In M. Mercier,op. cit., p.78.
86 George Moore, Conversations in Ebury Street, New York, Liveright, 1924, p. 257, in A. Craig Bell , The Novels of Anne Brontë, London, Merlin Books LTD., p. 2.
87 Anne Brontë, Agnes Grey, Harmondsworth, Penguin, 1988, p. 61. Le note succesive senza ulteriori riferimenti bibliografici faranno riferimento allo stesso volume dell’opera citato nella presente nota.
88 Agnes Grey, p. 69.
89 Agnes Grey, p. 69.
90 Ivi, p. 70.
91 Ivi, p. 68.
92 Ivi, p. 69.
93 Charlotte Brontë, Jane Eyre, Harmondsworth, Penguin, 1971, p. 96.
94 Agnes Grey, p.91.
95 Ivi., p. 120.
96 Ivi., p. 122.
97 Agnes Grey, p. 121.
98 Ivi., pp. 117-118.
99 Kathryn Hughes, The Victorian Governess, London, Hambledon Press, 1993, pp. 99-100.
100 Agnes Grey, pp.161-162.
101 Ivi., p. 79.
102 Ivi., pp. 198-199.
103 Ivi., p. 177.
104 Ivi., p. 107.
105 Ivi., p. 92.
106 Ivi., p. 128.
107 Ivi., p.129.
108 Ivi., p. 93.
109 Agnes Grey, p. 110.
110 Agnes Grey, p. 61.
111 Ivi., p. 61.
112 Ivi., pp. 65-66.
113 Ivi., p. 64.
114 Ivi., p.62.
115 Ivi., p.73.
116 Agnes Grey, p. 70.
117 Agnes Grey, p. 96.
118 Ivi., p. 119.
119 Ivi., pp. 123-124.
120 Ivi., p. 174.
121 Ivi.,p. 156.
122 Ivi., p. 221.
123 Ivi., p. 180 e p. 192.
124 Ivi., p. 191 e p. 197.
125 Ivi., p. 196.
126 Agnes Grey, p. 223.
127 Ivi., p. 224.
128 Ivi., p. 225.
129 Ivi., p. 225.
130 Ivi., p. 237.
131 Ivi., pp. 240-241.
132 Ivi., pp. 247-248.
133 Agnes Grey, pp. 250-251.
134 Mary Jean Corbett, Representing Femininity: Middle-Class Subjectivity in Victorian and Edwardian Women’s Autobiographies, New York, Oxford University Press, 1992, p. 11.
135 Anne Brontë, The Tenant of Wildfell Hall, Harmondsworth, Penguin, 1985, p. 31. Tutte le citazioni successive (con pagina data direttamente nel testo) si riferiscono a questa edizione.
136 Caroline Norton, “A Letter to the Queen on Lord Chancellor Cranworth’s Marriage and Divorce Bill”, in Victorian Women: A Documentary Account (eds) Hallerstein et al. Stanford University Press, 1981, pp. 258-259.
137 The Tenant of Wildfell Hall, p. 34.
138 Ivi., pp 45-46.
139 Rom Harre, “Persons and Selves”, in Persons and Personality: A Contemporary Inquiry, eds. Arthur Peacocke and Grant Gillett, New York, Basil Blackwell, 1987, p. 110.
140 Ivi., p. 79.
141 Ivi., p. 185.
142 Ivi., p. 191.
143 Ivi., p.53.
144 Mary Wollstonecraft, A Vindication of The Rights of Woman, (ed.) Carol Poston, New York, W. W. Norton, 1975, p. 63 e p. 67.
145 The Tenant of Wildfell Hall, p. 56
146 Ivi., p. 57.
147 Ivi., p. 57.
148 The Tenant of Wildfell Hall, p. 168.
149 Ivi., pp. 165-167.
150 Ivi., p. 217.
151 Ivi., p. 217.
152 Maria Frawley, “The Female Saviour” in The Tenant of Wildfell Hall: Brontë Society Transactions, New York, Oxford University Press, 1991, p. 135.
153 Juliet McMaster, “Imbecile Laughter”and “Desperate Earnest” in The Tenant of Wildfell Hall: Modern Language Quarterly, New York: Modern Language Association, 1982, p. 355.
154 Elisabeth Langland, “The Voicing of Feminine Desire in Anne Brontë’s The Tenant of Wildfell Hall”, in Gender and Discourse in Victorian Literature and Art, eds. Antony H. Harrison and Beverly Taylor, De Kalb, Ill., Northern Illinois University Press, 1992, p. 118.
155 The Tenant of Wildfell Hall, p. 236.
156 Ivi., p. 279.
157 Ivi., p. 451.
158 In Appedice B della seconda edizione di Winifred Gerin, Anne Brontë, London, Allen Lane, 1976, p. 361.
159 Nell’Introduzione di Margaret Smith a The Tenant of Wildfell Hall, London, J. M. Dent & Sons, 1993, p. 16.
160 Elaine Showalter, A Literature of Their Own: British Women Novelists from Brontë to Lessing, Princeton, N. J., Princeton University Press, 1977, p. 84 e pp. 183-184.
161 Christine L. Krueger, The Reader’s Repetance: Women Preachers, Women Writers, and Nineteenth Century Social Discourse, Chicago, University of Chicago Press, 1992, p. 8.
162 The Tenant of Wildfell Hall, p. 452.
163 The Tenant of Wildfell Hall, pp. 37-38.
164 Ivi., p. 38.
165 Ivi., pp. 40-41.
166 Jan Gordon, “Gossip, Diary, Letter, Text: Anne Brontë’s Narrative Tenant and the Problematic of the Gothic Sequel”, English Language History, Bloomington, Arden Library, 1984, p. 722.
167 The Tenant of Wildfell Hall, pp. 120-121.
168 Ivi., p. 403.
169 Ivi., p. 146.
170 Ivi., p. 101.
171 Ivi., pp. 169-170.
172 Ivi., p. 163.
173 Ivi., p. 183.
174 Ivi., p. 148.
175 Ivi., p. 221.
176 N. M. Jacobs, “Gender and Layered Narrative” in Wuthering Heights and The Tenant of Wildfell Hall: Journal of Narrative Technique 16 (Fall 1986) p. 210.
177 The Tenant of Wildfell Hall, p. 41.
178 Ivi., p. 187.
179 Ivi., p. 234.
180 Ivi., p. 221.
181 Ivi., pp. 281-282.
182 Ivi., p. 317.
183 Ivi., p. 490.
184 Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination, New Haven, Yale University Press, 1979, p. 81.
185 The Tenant of Wildfell Hall, p. 256.
186 Ivi., pp. 370-371.
187 Ivi., p. 110.
188 E. Langland, op. cit., p. 111.
189 Mary Poovey, Uneven Developments: The Ideological Work of Gender in Mid-Victorian England, Chicago, University of Chicago Press, 1988, pp. 51-52.
190 E. Langland, op. cit., p. 147.
191 The Tenant of Wildfell Hall, p. 31.
192 Jan B. Gordon, op. cit., p. 736.
193 The Tenant of Wildfell Hall, p. 29.
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