Questionario di ripasso letteratura

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura

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Testo

Questionario di ripasso
• Quali sono le caratteristiche principali dell’Alto e Basso Medioevo?
Il Medioevo, è un periodo storico della civiltà europea, che si divide in due parti: Alto Medioevo (476 d.C. anno della caduta dell’impero romano d’Occidente, e anno 1000), Basso Medioevo (1000 – 1492 anno della scoperta dell’America, da parte di Cristoforo Colombo). Il termine Medioevo, ha sempre implicato un giudizio negativo, questo perché posto tra due ere molto importanti per la storia dell’uomo e della letteratura: l’Età d’oro di Roma e Atene, e il periodo del Rinascimento; la parola Medioevo così, indica, fin dal principio, un periodo segnato dalle invasioni barbariche, carestie e malattie.
Alto Medioevo: L’Alto Medioevo, è un periodo di importanti cambiamenti per l’Europa: nel 200 infatti, nascono le prime forme di letteratura scritta in volgare, in Provenza, con la lingua d’Oc, e in Francia con la lingua d’Oil, lingue che affondano le loro basi, nella lingua latina.
Questo periodo però, è anche caratterizzato anche da invasioni barbariche, e dalla nascita dei regni Romano-Barbarici, nati dall’incontro dei popoli germanici, con quelli romani. Sul piano economico e sociale, le invasioni barbariche, hanno comportato effetti catastrofici: rottura dei sistemi di comunicazione, calo demografico, crollo dell’economia, ridotto a livelli di pura sussistenza. In seguito, più precisamente nel natale dell’800, Carlo Magno, venne eletto imperatore del Sacro Romano Impero, si afferma così, l’idea di un nuovo ordine universale, creato sotto il potere della Chiesa.
Col passare del tempo, in Francia, nacque il feudalesimo, che in seguito si diffonde in tutta Europa. Il rapporto feudale, prevede che il sovrano, ceda ad un suo uomo, chiamato vassallo, in cambio di una promessa di fedeltà, un appezzamento di terreno, chiamato feudo.
La società alto medievale, si suddivideva in tre parti: nobili, clero e contadini; a sua volta però, il vescovo Adalberone, la suddivise in atre tre parti: oratores, il clero; bellatores, nobili; laboratores, contadini. Nella cultura popolare, l’uomo medievale, è orientato verso la trascendenza, ossia, l’uomo, non vede il mondo in orizzontale, ma in verticale, a contatto con Dio. Sempre in questi secoli, abbiamo la reductio ad unum, che fa incontrare la realtà, verso l’unità di Dio; non per altro, ne deriva una concezione enciclopedica della conoscenza.
Basso Medioevo: dall’anno mille, l’Europa conosce una forte ricrescita, che riguarda in particolar modo, il miglioramento delle tecniche agricole, sviluppo dei traffici mercantili e un incremento demografico. Ed è proprio i questi secoli che nascono i comuni, come forme autonome di amministrazione cittadina; questa autonomia però, col tempo diventa sovranità, ed è così che in Italia si determina una situazione di policentrismo. Questo sviluppo, ha permesso la nascita delle corti e delle università; per indicare i centri di studi superiori nel Medioevo, si utilizzano due termini: Universitas e Studium generale; in Italia, i due studia più antichi, sono quello di Bologna e quello di Salerno.
Col passare degli anni, la Chiesa torna a far sentire la sua voce, con le crociate. Le crociate, in principio, furono create per scacciare gli infedeli dalla Terra Santa, ma, in seguito, il loro ruolo fu più un ruolo commerciale che religioso; in Italia invece, nasce la lotta per le investiture, che vedeva scontrarsi chiesa e impero; questa lotta, si concluse nel 1122, con il Concordato di Worms. In seguito, l’autorità della Chiesa, si scontra con movimenti di riforma religiosa che propongono il ritorno alla povertà, si fanno interpreti di questo spirito, gli ordini mendicanti dei Dominicani e dei Francescani.
• Perché la chiesa di Roma svolge un ruolo fondamentale nel Medioevo?
Nello scompiglio causato dalle invasioni barbariche, l’unico spiraglio di luce per i popoli europei, è rappresentato dalla Chiesa di Roma, che si era imposta come un vero e proprio soggetto politico, un unico punto di riferimento stabile e unitario, che e aveva diffuso la sua voce lungo i confini di tutto l’impero.
Monasteri e abbazie, avevano trovato il loro periodo di massimo splendore, infatti diventarono, i principali centri di attività economica. Alla religione e alla fede cristiana, viene affibbiato un ruolo predominante: i principi del Cristianesimo, furono utilizzati per giudicare ogni realtà, ogni cosa. Anche in campo artistico, la Chiesa ha un ruolo di rilevare importanza, diventa infatti ispiratrice di nuove figure architettoniche: Romanico e Gotico.
La chiesa romanica, era una chiesa fortezza, con poche aperture e mura spesse; in questo periodo, notiamo la figura dell’uomo medioevale, completamente condizionato da Dio, egli, lo vede infatti, come un giudice severo; ciò, è riprodotto soprattutto in pitture, come quelle del giudizio universale. In seguito però, la chiesa romanica, è totalmente oppressa dalla chiesa gotica. Una chiesa con molteplici aperture e finestre, che si apre al fedele, non solo per pregare, ma anche per discutere; nei dipinti, vengono realizzate immagini di Dio, ma in particolar modo, della vergine.
• Perché la storia del Medioevo è caratterizzata da opposte tendenze all’universalismo e al particolarismo?
Nell’Alto Medioevo, i fattori di crisi, sono evidenti e drammatici: le invasioni barbariche, continuano a distruggere il già frantumato tessuto sociale, il crollo dell’economia si riduce a livelli di pura sussistenza, si ha lo spopolamento verso le campagne, le comunicazioni si interrompono, e così, la frammentazione geopolitica territoriale si accentua, si rompe l’unità linguistica, e il latino si frantuma in una miriade di lingue locali, i volgari.
In questo mondo, confuso e insicuro, si afferma l’autorità sempre più potente, della Chiesa di Roma, di conseguenza, si ha una visione sempre più religiosa della realtà; e, grazie alla forte autorità ecclesiastica, si sviluppa l’ideale universalistico dell’unità di tutti i popoli, sotto un’unica res publica christiana.
A partire dal IX secolo, si afferma il feudalesimo, un sistema politico, economico e sociale, basato su una serie di privilegi e legami gerarchici di tipo personale; in seguito però, il modello organizzativo feudale, accresce la debolezza del potere centrale, e di conseguenza, si ha la divisione del territorio in feudi.
Tutti questi fermenti, concorrono a far nascere delle tendenze come l’universalismo e il particolarismo, che si impongono come una caratteristica costante della storia politica del Medioevo.
• Qual è il significato del termine borghese?
Etimologicamente, il termine “borghese” indica «colui che abita nella città», o meglio nel «borgo», dal tedesco burg (luogo fortificato). Tuttavia, nel Medioevo questo termine non servì a designare tutti gli abitanti della città, ma assunse un preciso significato giuridico, e con esso vennero designati soltanto coloro i quali, già nel secolo VII, facevano parte dei già menzionati conventus civium, cioè i negotiatores, i notai, gli scabini, i giudici, gli esattori delle imposte, uomini di provenienza diversa che si erano raccolti nella città, per lo più intorno alla curia vescovile, e qui avevano raggiunto un certo prestigio ed una certa possibilità economica, acquistando beni fondiari nell'area urbana e nella campagna circostante, commerciando, frequentando porti, mercati, fiere, luoghi di pellegrinaggio.
Questi diversi gruppi sociali e professionali erano così riusciti ad affermare il proprio prestigio nell'ambito della città, tanto da poter imporre la propria volontà nella conduzione della vita cittadina.
I borghesi, erano coloro che avevano particolari doveri e godevano di particolari diritti, erano coloro che pagavano le imposte dirette, che provvedevano alle spese straordinarie della città, alla fabbricazione ed alla manutenzione degli edifici cittadini e delle opere di difesa urbana ecc. e che perciò erano chiamati ad esprimere il loro voto nelle deliberazioni di particolare importanza per la vita della città stessa.
Con l'andare del tempo, e soprattutto in conseguenza del generale risveglio economico che si verificò verso il Mille, questi ceti – ed in particolare quello degli uomini d'affari – andarono acquistando un potere finanziario sempre maggiore, e sentirono quindi, l'esigenza di far sentire in modo sempre più massiccio la loro presenza e la loro voce nella vita politica ed amministrativa della città; i contrasti che sorsero contemporaneamente tra il Papato e l'Impero, e che sfociarono nella lotta per le investiture, furono da essi abilmente sfruttati, infatti, mentre, da un lato, si sostituivano alle antiche famiglie signorili nel possesso delle terre del contado, dall'altro costrinsero l'Impero ad accettare il loro programma politico-amministrativo nell'ambito cittadino, ottenendo per i rispettivi comuni quelle «regalie» che sino allora erano state di diritto imperiale o che, erano passate, più o meno legalmente, nelle mani delle autorità signorili o religiose.
Questo, ci può facilmente indicare, la ragione per cui la borghesia, si impegnò a fondo nella lotta per la conquista del potere politico o almeno per una spartizione di tale potere con la classe signorile; ci permette anche di comprendere perché in alcune occasioni, i borghesi non si fecero scrupolo di vezzeggiare e esortare i movimenti ereticali, al fine di smantellare il potere temporale del clero, e perché poi, furono sempre pronti a smentire ed a condannare tali movimenti; appena gli scopi a cui miravano erano stati raggiunti, e soprattutto quando la manifestazione di sentimenti religiosi particolarmente fervorosi poteva permettere loro l'onore, assai lucrativo, di essere prescelti quali banchieri e ufficiali della Curia romana.
• Che cosa significano i termini monarchia, impero, regno e nazione?
I termini: monarchia, impero, regno e nazione, indicano cose abbastanza differenti, ma, nel linguaggio comune, sono spesso confusi tra loro.
- Monarchia, deriva dal greco mònos “solo”. Il termine, è definito, come l’accentramento dei poteri, in una persona sola; questo termine, viene utilizzato ancora oggi, per indicare le moderne monarchie costituzionali. A questo termine, si contrappongono i termini oligarchia (potere di un gruppo ristretto di perone) e repubblica (forma di governo in cui le massime autorità vengono elette direttamente o indirettamente dai cittadini).
- Impero, deriva dal latino imperium “commando”, il vocabolo indica, una forma di Stato che si espande oltre i confini nazionali; nella storia dell’antica Roma, il termine, indicava il potere monarchico, nella fase della massima espansione. Il Sacro Romano Impero, infatti, designava la compagine, nata dall’ inconorazione di Carlo Magno, che, pur controllando solamente una parte di territori dell’antico impero romano, dominava popoli di diversa nazionalità, e si considerava erede degli antichi imperatori di Roma.
- Regno, deriva dal latino regnum, ed è un vocabolo, che connota uno Stato retto da una monarchia; i regni, fino all’apparizione nell’età Moderna, del fenomeno storico del colonialismo, avevano generalmente estensione molto più limitata dell’impero.
- Nazione, deriva dal latino natio, che inizialmente, significava “nascita”; è un termine che indica una compagine etnica, cosciente delle proprie autonome caratteristiche culturali, storiche e linguistiche, sulle quali si fonda la propria unità politica o la rivendicazione della propria indipendenza.
Nel basso medioevo, la monarchia francese, inglese e quella spagnola, possono essere definite monarchie nazionali, da quando i loro confini, tendono a coincidere con i territori abitati da popolazioni di nazionalità rispettivamente francese, inglese e spagnola.
• In che senso la tecnica dell’interpretazione allegorica cela un’esigenza di conciliazione tra cultura cristiana e cultura classica?
L’allegoria, dal greco àllos, è una figura retorica, per la quale si affida a una scrittura, un doppio senso, nascosto, dal primo significato logico delle parole. In questo termine, possiamo ritrovare anche, un esigenza di conciliazione tra cultura classica e cultura cristiana: infatti, in tutto il Medioevo, possiamo notare, un tentativo di recupero dell’antica cultura classica; i dotti del tempo perciò, attribuiscono alle proprie letture, l’interpretazione allegorica, che cela un secondo significato, nascosto sotto il primo significato letterale. La mentalità simbolico-religiosa però, tende anche in campo letterario, a mutare i fatti del mondo reale; e così l’allegoria, si trasforma, in una sorta di metodo di lettura ad interpretazione.
In questo esempio, possiamo notare, come la figura della Chiesa, sia così forte, da dominare ogni campo della vita umana, dominarlo, e ricrearlo sotto il suo interesse.
• Quali sono gli autori più rappresentativi della poesia religiosa? Quali le tematiche?
Gli autori più rappresentativi della poesia religiosa del Duecento, sono Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi.
Francesco d'Assisi (Assisi, 1181-1226) fu un frate, fondatore dell'ordine cattolico che da lui prese il nome; è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, patrono d'Italia.
Nasce nel 1181 o 1182 da Pietro Bernardone dei Moriconi e dalla nobile Pica Bourlemont, in una famiglia della borghesia emergente della città di Assisi, che, grazie all'attività di commercio in Provenza (Francia), aveva raggiunto ricchezza e benessere.
Le varie biografie del santo non parlano molto a proposito della sua infanzia e della sua giovinezza, si ritiene comunque, che egli fosse stato indirizzato dal padre a prendere il suo posto negli affari della famiglia.
Dopo la scuola presso i canonici della cattedrale, che si tiene nella chie Raffigurazione di san Francesco d'Assisi in un sa di San Giorgio (dove, a partire dal 1257, venne costruita l'attuale ba
affresco di Cimabue nella Basilica di Assisi silica di Santa Chiara) a 14 anni si dedica a pieno titolo all'attività del commercio; è in questo periodo che probabilmente egli, giovane e ricco venditore, prende coscienza del contrasto tra la sua ricchezza e l'indigenza delle schiere di mendicanti presenti in città.
Nel 1054 si ha memoria di una prima guerra che contrappone Assisi a Perugia; tra le due città esiste una rivalità irriducibile: Perugia è guelfa, mentre Assisi, insieme a Foligno e Todi, è ghibellina. La battaglia più famosa è quella in cui gli assisani sono sconfitti a Collestrada, vicino a Perugia, nel 1202.
Anche Francesco, come gli altri giovani, vi partecipa; viene catturato e rinchiuso per un anno in carcere; la prigionia sarà per lui un'esperienza fondamentale. Lo spettacolo dei feriti e delle mutilazioni, l'odore repellente dei corpi lasciati marcire sul terreno, lo sconvolgono a tal punto da indurlo ad un totale ripensamento della sua vita; ed è proprio in questo periodo che inizia ad avvertire quella che lui definisce come "l'esigenza insopprimibile della pace donata da Cristo".
La guerra termina nel 1203 e Francesco, gravemente malato, ottiene la libertà grazie ad un trattato sui prigionieri di guerra che, in caso di malattia, ne impone la liberazione dietro il pagamento di un riscatto, incarico a cui provvede il padre. Tornato a casa, Francesco recupera gradatamente la salute trascorrendo molte ore tra i possedimenti del padre; questi luoghi appartati, contribuiscono a risvegliare in lui, un assoluto e totale amore per la natura, che vede come opera mirabile di Dio.
Il desiderio di giustizia, lo porta, l'anno seguente a partecipare ad una crociata. Partecipare come cavaliere ad una crociata, era al tempo uno dei massimi onori per i cristiani d'occidente; tuttavia, giunto a Spoleto, si ammala nuovamente. Racconterà poi di essere stato persuaso da due rivelazioni notturne: nella prima egli scorse un castello pieno d'armi, ed udì una voce promettergli che tutto quello sarebbe stato suo, ed è qui, che egli, non sarà più lo stesso: sta lontano dalla compagnia, ama la solitudine, si veste di stracci, e si ritira molto spesso in luoghi solitari a pregare.
Francesco dà così inizio ad un nuovo percorso di vita, il vescovo Guido, lo copre compostamente agli sguardi della folla (pur non comprendendo a pieno quel gesto ostentato) e, con quest'atto di manifesta protezione, lo accoglie nella Chiesa.
Placatosi lo scandalo sollevato dalla rinuncia dei beni paterni, Francesco ritorna ad Assisi. Per un certo periodo se ne sta solo, impegnato a riparare alcune chiese in rovina, come quella di San Pietro, la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano.
I primi anni della conversione, sono caratterizzati dalla preghiera, dal servizio ai lebbrosi, dal lavoro manuale e dall'elemosina. Ma, nel 1208, dopo aver ascoltato il Vangelo nella chiesa di San Nicolò ad Assisi, Francesco sente fermamente di dover portare la Parola di Dio per le strade del mondo, inizia così la sua predicazione, dapprima nei dintorni di Assisi, poi sempre più lontano; ben presto, altre persone si aggregano a lui e, con le prime adesioni, si forma il primo nucleo della comunità di frati: uno di essi è Bernardo di Quintavalle, suo amico d'infanzia.
Col tempo, la fama di Francesco cresce enormemente e cresce in maniera esponenziale anche la schiera dei frati (già 7000 in nel 1215). Nel 1217 Francesco presiede il capitolo generale di Assisi, che organizza la grande espansione dell'ordine in Italia e invia missioni in Germania, Francia e Spagna.
Negli anni seguenti Francesco fu sempre più segnato da molte malattie (soffriva infatti di disturbi al fegato ed alla vista). Varie volte gli furono fatti degli interventi medici per attenuargli le sofferenze, ma inutilmente.
Nel settembre 1226 Francesco si trova ad Assisi, nel palazzo del vescovo, dove era stato portato per essere meglio curato. Egli però chiede ed ottiene di voler tornare a morire nel suo "luogo santo" preferito: la Porziuncola. Qui la morte lo accoglie la sera del 3 ottobre; il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi, ed essere stato portato perfino in San Damiano, per mostrarlo un'ultima volta a Chiara ed alle sue consorelle, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio.
Opere
Oltre alle varie stesure della Regola, e al Testamento, Francesco scrisse il Cantico delle Creature o Laudes Creaturarum in volgare, composta, nel 1224, quando Francesco era afflitto da grandi sofferenze, il testo, in prosa ritmica intrecciata da consonanze e assonanze, celebra le lodi a Dio e ad ogni creatura, un testo che non tende a condannare il mondo, ma ad accettarlo con gioia e allegria, in quanto, ogni cosa creata, deve essere considerata regalo della bontà di Dio; le Adminitiones, le Epistolae in latino, e i fioretti. I fioretti, è l’opera più importante e famosa di Francesco: le prime copie, vengono scritte in un monastero delle Marche, e in breve tempo, la raccolta diviene, con le Sacre Scritture, il testo più recitato e commentato fra il popolo; comprendono 53 capitoli, in latino, e parlano della vita del Santo.
Jacopone da Todi
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Jacopo de' Benedetti, noto come Jacopone da Todi (Todi, 1236 - 1306) è stato uno dei più celebri autori di laudi religiose della letteratura italiana. I critici lo considerano uno dei più importanti poeti italiani del Medioevo.
Nato tra il 1230 e il 1236 da Iacobello della nobile famiglia dei Benedetti, Jacopone studiò probabilmente all'università di Bologna e intraprese la professione di notaio e procuratore legale, conducendo una vita spensierata. Nel 1267 sposò Vanna, figlia di Bernardino di Guidone conte di Coldimezzo; la moglie morì l'anno seguente in circostanze tragiche, per il crollo di un palco durante una festa; dopo di che, sul corpo le fu trovato un cilicio; in seguito, Jacopone abbandonò la vita mondana e, distribuiti ai poveri i propri averi, nel 1278 entrò come frate laico nell'ordine francescano, probabilmente nel convento di Pantanelli presso Terni, scegliendo la corrente rigoristica degli Spirituali, o "fraticelli" che si contrapponevano alla corrente predominante dei Conventuali che avevano un'interpretazione più moderata della Regola. Nel 1288, Jacopone si trasferì a Roma, probabilmente presso il Cardinale Bentivenga.
All'inizio del breve pontificato di Celestino V, gli spirituali, anche per merito di Jacopone che aveva mandato al pontefice una lauda, furono ufficialmente riconosciuti come ordine dal nome Pauperes heremitae domini Celestini; ma, il nuovo papa Bonifacio VIII, accanito nemico delle correnti più radicali della Chiesa, abrogò le precedenti disposizioni, e la congregazione dei Pauperes venne così sciolta.
Jacopone fu tra i firmatari del Manifesto di Lunghezza del 10 maggio 1297, con cui gli avversari di Bonifacio VIII, capeggiati dai cardinali Jacopo e Pietro Colonna (appartenenti alla famiglia Colonna acerrima nemica della famiglia Caetana cui apparteneva Bonifacio VIII), chiedevano la deposizione del papa e l'indizione di un concilio. La risposta di Bonifacio VIII non si fece attendere: scomunicò tutti i firmatari con la bolla Lapis abscissus e cinse d'assedio Palestrina, la roccaforte dei dissidenti. Nel settembre del 1298 Palestrina fu presa, e Jacopone fu processato, condannato all'ergastolo e imprigionato nel carcere conventuale di san Fortunato a Todi. Solo alla morte di Bonifacio nel 1303 fu liberato, vivendo poi gli ultimi anni a Collazzone Todi, dove morì la notte di Natale del 1306 nell'ospizio dei Frati Minori annesso al convento delle Clarisse.
Opere
L’opera di Jacopone, consiste principalmente in 92 laudi in volgare, nella sequenza liturgica in latino Stabat mater.
Caratteristica principale del laudario di Jacopone, è che esso, è attraversato da violente antitesi, e oppone i versi di polemica politica,a quelli di carattere religioso. Altri suoi componimenti sono: O iubileo del core, O segnor per cortesia e Donna de Paradiso. Sul piano stilistico e linguistico, il volgare umbro del poeta alterna espressioni popolari talvolta aspre e crude ad altre più dolci, latine o latineggianti. Nelle laudi di Jacopone, si possono rintracciare le origini delle sacre rappresentazioni, drammi a tema religioso, il cui soggetto principale è la ragione.
• Che cosa sono le laudi?
La lauda, è la forma più importante di canzone sacra dialettale, in Italia nel tardo medioevo e nel rinascimento. Essa tornerà popolare nel XIX secolo.
Inizialmente, la lauda aveva una forma monofonica ma verso i primi anni del XV secolo divenne polifonica. Le prime laude, furono probabilmente influenzate dalla musica dei trovatori così che è possibile notare similitudini nel ritmo, nella linea melodica e nella notazione. Molti trovatori lasciarono la loro terra d'origine al seguito delle Crociate nei primi anni del XIII secolo, e si stabilirono nel nord Italia dove il loro stile contribuì allo sviluppo dello stile profano italiano. Una lauda di forma monofonica si diffuse in tutta Europa, nel corso del XIII secolo e del seguente, ed era conosciuta come la musica dei flagellanti; questa forma musicale fu conosciuta anche come Geisslerlieder ed assunse la parlata dialettale del luogo in cui veniva importata. Oltre che in Francia e in Italia essa si sviluppò in Germania, Polonia, Inghilterra e Scandinavia.
Dopo il 1480 il canto delle laude divenne particolarmente popolare a Firenze finché il monaco Girolamo Savonarola non proibì la contaminazione, con ogni altro stile, della musica sacra popolare. La lauda, ebbe una rinascita nel periodo della controriforma, così che uno dei punti fondamentali del concilio di Trento, fu quello di migliorare l'intellegibilità dei testi e la semplicità della lauda ne fu il migliore esempio.
Le laudi più importanti, sono quelle di Gabriele d’Annunzio, e le laudi di Jacopone da Todi:
Gabriele D'Annunzio
LAUDI DEL CIELO - DEL MARE - DELLA TERRA E DEGLI EROI
Furono progettate da D'Annunzio, sul finire del secolo, come un grande ciclo lirico che doveva comprendere, secondo i progetti iniziali, sette libri, tanti quante sono le Pleiadi, ognuna delle quali avrebbe dato titolo ad un libro: Maia, Elettra, Taigete, Alcione, Celeno, Sterope, Merope. Dell'intero progetto, però, D'Annunzio arrivò a pubblicare soltanto quattro libri; un quinto libro, postumo, fu aggiunto nel 1949 con il titolo Asterope per raccogliere i Canti della guerra latina, cioè i versi scritti durante la prima guerra mondiale.
LIBRO PRIMO Maia
Dedicato e intitolato a Maia, dea della forza generatrice, reca come titolo ulteriore Laus vitae, che ne costituisce la parte preponderante. Si tratta, infatti, di un lunghissimo inno in lode della vita, della vitalità della natura e della forza creatrice, in una parola della decima Musa «Energeia». Strutturato rigidamente in quattrocento strofe di ventuno versi ciascuna (per un totale di ottomilaquattrocento versi), Laus vitae è veramente - come lo stesso D'Annunzio scrisse in una lettera a Georges Hérelle - «un poema moderno». Il libro è, in gran parte, un lungo viaggio allegorico, i cui modelli di riferimento sono i testi omerici e la Divina Commedia, e che prende le mosse dal reale viaggio che lo stesso D'Annunzio ebbe a compiere in Grecia nel 1895. L'Ellade è la terra in cui sedimentano i miti pagani e naturali che si contrappongono alla vetusta morale cristiana. Dopo la poesia dedicata Alle Pleiadi e ai Fati e il canto proemiale L'Annunzio (premessi all'intero ciclo delle Laudi, ma strutturalmente posti in limine a questo primo libro), segue, infatti, la lunghissima Laus vitae, ode alla vita agognata e invocata attraverso i «nomi divini» del mito più antico: «O figlie d'Atlante, / Atlantidi, corona ardente / delle Pleiadi, o Taigete, / o Elettra, o Celeno, / Merope fosca, e tu, Maia, / dall'affocata faccia, / Asterope, Alcyone, / scendete ai miei giardini!».
L'esaltazione della vita è il "pensiero dominante" dei primi seicento versi della Laus vitae, dove si formula l'invito, affinché l'uomo si riappropri di un contatto panico con la natura, intesa in senso fisico e primordiale. A essi seguono i versi che ripercorrono il viaggio di D'Annunzio in Grecia. È un itinerario attraverso la Grecia moderna, da Patrasso a Olimpia e Delo, che non esclude tappe come l'Agro Romano, la Cappella Sistina o il Deserto; ovviamente, ciò è possibile in quanto si tratta di un viaggio rivissuto in maniera fantastica, ricorrendo continuamente ai miti pagani, perché accompagnino e secondino l'ansia di vivere, che è l'ansia di navigare incessantemente nel mare dell'esistenza, della natura e dell'esperienza fisica di essa.
LIBRO SECONDO, Elettra
Ritenuto comunemente un libro di falsa oratoria, Elettra è in realtà il tentativo di individuare e celebrare una sorta di favola della bellezza dell'arte e delle glorie della storia d'Italia. Da questa fisionomia "museale", il libro secondo delle Laudi, ha sempre tratto lo svantaggio di essere classificato come una sorta di "centone" mal riuscito, di un collage o di un vero e proprio bric-à-brac «nonostante i raggruppamenti che tentano dargli un simulacro di strutturale unità». In effetti, l'apparente disomogeneità del libro, offre al lettore l'impressione di un insieme disorganico e posticcio. Dopo le prime due "invocazioni" Alle montagne e A Dante, la prima parte, si apre con una serie di componimenti dedicati a eroi o a luoghi eroico-mitici della Patria, e si conclude con la canzone: La notte di Caprera. La seconda parte, contiene i «Canti della morte e della Gloria», ovvero, una serie di liriche dedicate ad artisti ed "eroi" del pensiero filosofico; la terza parte è costituita dai «Canti della Ricordanza e dell'Aspettazione», che è forse il nucleo poetico più autentico. In essa, infatti, sono comprese le liriche dedicate alle cosiddette «Città del silenzio», cioè quelle città italiane particolarmente importanti per il patrimonio artistico, culturale e storico in esse conservato (per lo più, città della Toscana e dell'Umbria). Anche qui, la cultura storica e la retorica compositiva sembrano soffocare la maestria di D'Annunzio, nell'evocare paesaggi semplici e di struggente nostalgia, che è poi una nostalgia, ancora una volta, di tipo figurale o memorativo. Le città d'arte, emarginate e ridotte al silenzio da una storia di utilitarismo mercantile, sembrano rivivere in lontanissime immagini di gloria e di riscatto che le rendono memorabili come sacre reliquie del tempo e dell'arte.
LIBRO TERZO, Alcyone

È il libro più famoso della intera poesia dannunziana e, forse, novecentesca. Dentro la composita architettura delle Laudi, infatti, gli spetta un posto di particolare importanza, non fosse altro che per la complicata storia compositiva di cui è l'esito. In esso, D'Annunzio, sembra aver segnato il massimo grado di sviluppo della sua ricerca poetica, scrivendo un canzoniere che, per sé, ha avuto il significato di tappa fondamentale nell'individuazione dei più autentici nodi mitopoietici della sua stessa arte. Alcyone rimane il miracolo di una scrittura che ha saputo addensare le sensazioni e le vibrazioni di un entusiasmo vitale e le più segrete malinconie che comporta la consapevolezza della vanità del tutto.
Si tratta di un poema, la cui struttura di silloge lirica, accoglie e svolge al suo interno la narrazione della favola di un'avventura esistenziale e metamorfica, compiuta nel disperato, perché illusorio, tentativo di un recupero della libera innocenza del mito. Essa, si sviluppa lungo un preciso arco stagionale (quello estivo, còlto dall'inizio al culmine, fino al declino) e geografico (il litorale tosco-laziale, dalla Versilia al Circeo, sia pur con riferimenti a spazi lontani e solo sognati, come la terra d'Abruzzo o l'Ellade classica), e si caratterizza per la varietà di forme stilistico-metriche, che vanno dai moduli dell'antica letteratura romanza, alle soluzioni più libere della contemporanea tradizione poetica. La "favola" di Alcione, è articolata in 88 liriche, divise in cinque sezìoni, scandite da quattro ditirambi, di cui ciascuno preceduto da un pie-ditirambo con titolo latino d'autore. La prima sezione si apre con i canti premiali: La tregua e Il fanciullo: il primo funge da raccordo verso l'esterno (Maia), il secondo è di introduzione al libro. In questa sezione, che va dal dittico Lungo l'Affrico e La sera fiesolana alla ballata Beatitudine, l'attesa dell'estate è cantata con moduli e scelte linguistiche, stilistiche e metriche. Alla seconda sezione, invece, è affidata la descrizione dei primi, istintivi idee dell'imminenza della stagione panica, in una cornice di paesaggi marini della riviera toscana, che sono i paesaggi entro i quali si situa la prima "avventura" metamorfica di Alcyone (La pioggia nel pineta) e il primo mito metamorfico di Glauco.
La terza sezione, invece, compresa fra L'oleandro e i nove sonetti della «Corona di Glauco», si sostanzia proprio della solarità finalmente esplosa in tutto il suo chiarore nei mesi di luglio e agosto: lo spazio eletto, questa volta, se rinvia ancora al litorale toscano (quello fra il Tirreno e le Alpi Apuane), d'altro canto ricorda una dimensione lontana, un mondo ignoto o dimenticato. L'ambiente geografico concreto, si dissolve o si trasforma, lasciando intravvedere i luoghi dell'Ellade antica, luoghi di fauni e ninfe, di mitiche metamorfosi, di contatto diretto tra la deità e l'uomo, tra la natura arborea e gli animali.
Ne risulta, un paesaggio sospeso nello spazio e nel tempo: sospeso in uno spazio concreto che subito impallidisce in uno virtuale, dove il mare è bianco, il cielo squarciato da una luminosità aurea, tra gli oleandri in fiore e i pini odorosi di resina; e sospeso in un tempo per cui luglio e agosto sono solo un pretesto per compiere il trapasso verso una più mitica estate. In tale dimensione di favola, D'Annunzio/Glauco può vivere pienamente la sua totale avventura metamorfica, perché ora il Tirreno è il mare greco, come la terra di Toscana tra Luni e Populonia è l'Ellade, e l'uomo è il dio. Il mito dell'antichità greca, ora, ritrova tutta la sua forza nel ritmo della poesia, nella struttura musicale di una parola composta di fluida sonorità.
La quarta sezìone, che va da Versilia a L'ala sul mare, vede il persistere della stagione mitico-metamorfica, inaugurata nella sezione precedente. Già la prima lirica, riconduce a quell'atmosfera, in cui la metamorfosi, è la prodigiosa avventura dell'estate alcionica. Estate che è ancora nel pieno fulgore stagionale in cui si verificano visioni (Versilia), metamorfosi (La morte del cervo), prodigi (L'asfodelo), apparizioni di Centauri o del Tritone, di ninfe o divinità, ma che già reca in sé i primi indizi dell'inesorabile declino. La vitale pienezza panica e orfica cede il passo a un'ombra sottile di malinconia che avvolge lentamente il paesaggio e la poesia.
La quinta sezione è aperta dalla ballata Tristezza. Ormai, nel tempo, non ci sono che Gli indizi della stagione che trapassa, e dunque non resta che il conforto nostalgico della memoria. Proprio da questa nostalgia, dalla malinconia, nascono i «Sogni di terre lontane» che accompagnano il poeta in quest'ultima fase del suo indimenticabile sogno. La favola bella di Alcyone è finita per sempre; finita è la stagione, abbandonati i luoghi del sogno mitico, concluse finanche le possibilità di cantare l'estate e il suo sogno nei modi e con gli stili di una musica lontana nel tempo. La malinconica chiusa del Commiato, non è solo relativa alla vicenda stagionale: la conclusione del testo avviene anche in una zona che è fuori del paesaggio, nella stessa poesia.
LIBRO QUARTO, Merope
Le circostanze personali (la condizione di «esule» in Francia) e quelle storiche (la scelta imperialistica compiuta dal governo italiano in Libia) spiegano perché il libro - eccentrico nei confronti delle altre Laudi - canti la grandezza della potenza italiana e della sua vigorosa tradizione storica. Nei termini di un'enfasi che suona eccessiva e poco convincente, le dieci canzoni si snodano l'una dopo l'altra imitando il ritmo martellante della terzina dantesca, nel tentativo di contenere il pathos che nasceva dalla materia trattata. La poesia di Merope ambirebbe assurgere a una melica celebrazione del genus italicum, legittimato dalle incursioni nella storia (con riferimenti a quella comunale, medioevale e cristiana), quale garanzia di rinascita dei fasti del passato. Finisce, invece, con l'essere un'esperienza poetica platealmente fallita perché scaduta entro la vertigine della follia oratoria e declamatoria fine a se stessa.
LIBRO QUINTO, Asterope
È un libro completamente staccato dall'atmosfera biografica, letteraria, cronologica delle prime tre Laudi. Esso raccoglie ventitré testi tra poesie (due in francese), salmi, preghiere e prose ritmiche. l'insieme della raccolta, sembra essere il fallimento di un progetto poetico: la sovrabbondanza dei toni retorici, il grido feroce del violento aggressore, il desiderio del sangue e della guerra, non riescono a riassorbirsi nelle soluzioni tecniche della ritmica "barbara", della prosa musicale o salmodiante, né, tantomeno, nelle soluzioni tematiche delle citazioni stranianti dalla Bibbia o dello stravolgimento di testi della tradizione liturgica cristiana. La diversità strutturale e tematica dei cinque libri, non ha consentito una valutazione omogenea e serena dell'intero ciclo, ma si è esercitata di volta in volta su un singolo libro o, tutt'al più, sui primi tre libri. Le Laudi, anche editorialmente, hanno avuto successo più come libri singoli che come unico ciclo. Le più prestigiose pubblicazioni, hanno riguardato, infatti, ora Alcyone, ora Maia, ora Elettra, separatamente, con una netta emarginazione di Merope e Asterope. Tra le edizioni dell'intero ciclo delle Laudi, va menzionata quella nella collana «I Classici contemporanei italiani», Versi d'amore e di gloria.
Laudi di Jacopone da Todi
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Le laudi di Jacopone da Todi sono componimenti di tema religioso che si rifanno al genere della lauda, assai diffuso in Umbria nel tra il XII secolo e il XV secolo.
Al modulo popolareggiante della lauda, Jacopone aggiunge i toni individuali di un'anima inquieta e tormentata. Le sue 73 laudi, nella forma di ballate in settenari e ottonari, sono una rappresentazione impietosa della realtà umana e terrena, attaccata violentemente per la sua caducità e vanità.
Talvolta, Jacopone si limita alla denuncia commossa e ardente; altre volte, come nel Pianto della Madonna (uno dei capolavori che fanno di lui la più grande personalità della nostra storia letteraria prima di Dante), traduce l'ansiosa passione umana in figure potentemente drammatiche, poste di fronte al mistero della saggezza divina.
Bibliografia critica
L'Editio princeps delle laude jacoponiche risale al 1490: Laude di frate Iacopone da Todi impresse per me Ser Francesco Buonaccorsi in Firenze, 28 settembre 1490. All'edizione Buonaccorsi si rifà ancora esplicitamente il primo editore novecentesco di Jacopone, G. Ferri (Le laude secondo la stampa fiorentina del 1490, Roma, 1910; ristampato nel 1915 presso l'editrice Laterza di Bari nella collana "Scrittori d'italia"; ristampato ancora nel 1930 a cura di S. Caramella); mentre con B. Brugnoli (Le satire di Iacopone da Todi, Firenze, 1914) compare il primo "non felice tentativo parziale di edizione critica" (secondo il parere di Gianfranco Contini).
Le prose attribuite a Jacopone vengono pubblicate da A. Levasti nei Mistici del Duecento e del Trecento, Milano, 1935. Nel dopoguerra tre sono le edizioni principali dell'opera jacoponica: alle Laude di Iacopone da Todi tratte da due manoscritti umbri, a cura di Ugolini, Torino, 1947, segue nel 1953 il "primo saggio scientifico di lezione critica" (Contini): Laudi, trattato e detti, a cura di F.B. Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953.
Un'ulteriore edizione critica delle Laude, a cura di Mancini, esce a Bari presso gli "Scrittori d'Italia" nel 1974. Un'importante antologia delle Laudi, alla cui edizione hanno collaborato F.B. Ageno e G. Contini, si legge nei Poeti del Duecento, a cura di quest'ultimo, usciti a Milano e a Napoli nel 1960 per la casa editrice Ricciardi. La parte del laudario Urbinate che secondo Contini "per ragioni stilistiche va assegnata a Jacopone" si legge in Iacopone e il laudario Urbinate, a cura di R. Bettarini, Firenze, 1969. Le prose latine attribuite a Iacopone di Todi si leggono anche in un'edizione a cura di Menestò, Bologna, 1979.
Saggi
L'interpretazione, che possiamo grosso modo definire romantica, di uno Jacopone "primitivo", voce di una spiritualità popolare, già avallata da Francesco De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, viene ripresa a fine Ottocento nella celebre definizione di D'Ancona (Jacopone da Todi: il giullare di Dio del secolo XIII, in Studj sulla letteratura italiana de'primi secoli, Milano, 1891), a cui farà ancora eco Parodi (Il giullare di Dio, in Poeti antichi e moderni, Firenze, 1923).
A partire dagli anni Venti, cresce l'interesse di numerosi critici per la componente mistica dell'opera di Jacopone.; con gli interventi di Sapegno e Novati la figura del poeta umbro, viene inquadrata sul complesso sfondo della cultura religiosa, e in particolare francescana, del Duecento e del Trecento.
• In che cosa si differenziano la poesia religiosa di F. D’Assisi e quella di Jacopone da Todi?
La poesia religiosa, trova la sua massima rigogliosità, nel 200; trova il suo epicentro nell’area umbra, e affonda le sue radici, in movimenti di religiosità popolare, che coinvolgono masse di credenti, così si formano due importanti movimenti: quello Francescano dell’Alleluja, e quello dei disciplinati. Il 200, è attraversato da molteplici e differenti fermenti religiosi, e risulta perciò caratterizzato, da una religiosità non monolitica, uniforme, ma variegata, nella quale elementi comuni (il ritorno al Vangelo, la suggestione dell’esempio di Cristo), danno luogo ad esiti opposti: le eresie e gli ordini mendicanti, il ripudio dell’autorità ecclesiastica, e l’obbedienza ad essa.
Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi: confronto.
Il rifiuto dei valori mondani, l'abbandono di una vita agiata per praticare la penitenza, furono le scelte decisive in comune ai due personaggi umbri, così come le idee sulla vita del buon religioso, tipiche comunque della tradizione ascetica dell'epoca in generale.
Eppure le immagini che oggi abbiamo di Jacopone da Todi e di Francesco d’Assisi sono diverse: probabilmente, l'immagine di folle e antifemminista accanito di Jacopone, deriva da una lettura ingenua dei suoi testi, senza tener conto del resto dell'ascetica medievale: Jacopone era perfettamente in linea con il generale estremismo, così come lo era stato Francesco, sebbene poi le biografie abbiano tralasciato questi tratti per esaltarne quelli innovativi.
L'umiltà assoluta era la base della concezione di entrambi: il corpo è come un asino, che è bene sottoporre a fatica, battitura, sostentare con foraggio da poco prezzo, come affermava Francesco; inoltre ogni onore mondano rende l'uomo indegno dell'amore di Dio, tanto che Jacopone invitava, non solo a rinunciare agli onori della scienza, ma anche a quelli della penitenza, cioè la "fama di santità" di penitenti corrotti che amano Dio solo per un vantaggio di immagine.
La differenza più profonda tra i due, si può invece cogliere nel temperamento e nella percezione del reale: da un lato Francesco, senza una vera e propria cultura teologica, ma con una nuova sensibilità al mondo della natura, aveva instaurato un rapporto positivo e fiducioso con Dio e ne coglieva la presenza in tutto ciò che circonda l'uomo. D'altro lato Jacopone, in accordo con la mistica tradizionale, considerava un ostacolo tutto ciò che distrae l'uomo dalla sua interiorità, e quindi dal cammino verso l'identità con Dio: abbandonato l'approccio intuitivo al divino e i valori elementari della natura di Francesco, Iacopone condivideva la sua pienezza dell'esperienza mistica, ma attraverso un approccio analogico e imitativo.
• Quali sono gli esponenti e i temi della letteratura comico-realistica?
Accanto alla lirica cortese, un posto di rilievo, va assegnato alla poesia comico-realistica, chiaramente contrapposta alla contemporanea spiritualità stilnovista.
Essa, si sviluppò in Toscana ma ebbe il suo centro a Siena; tra i poeti maggiori, si ricordano Rustico di Filippo, Cecco Angiolieri e Folgore da San Gimignano. Questa, è una corrente che si riallaccia ad una tradizione di derivazione mediolatina, quella della poesia goliardica che si era diffusa nel XII secolo in Francia, in Germania e in Italia. Essa si ispira a temi realistici (l'amore come vibrazione di sensi, la donna come creatura terrena) e a motivi anticortesi (l'esaltazione del denaro, del gioco, della taverna e del piacere); anche il linguaggio, è quello quotidiano con la ricerca della parola efficace e colorita assoggettato all'utilizzo del rinfaccio e del vituperium, con un frequente uso al discorso diretto e all'uso di un gergo che si può definire "furfantesco". Nel linguaggio Medievale, per comico, si intende uno stile basso, che si contrappone, per temi e modelli espressivi, allo stile alto o tragico, caratterizzato da temi elevati, e linguaggio colto e raffinato, proprio come quello degli stilnovisti.
I contenuti della poesia comica, affermatasi a partire dalla seconda metà del 200, sono molto realistici, e toccano la vita quotidiana in tutti i suoi aspetti; lo stile, varia secondo la materia trattata, ma vi predominano un lessico, e un linguaggio popolaresco, che spesso si spinge fino all’insulto, riprendendo il gusto della poesia goliardica, frequente, è la presenza della satira e dell’invettiva. La poesia comica, si sviluppa parallelamente a quella stilnovista, raggiungendo la massima diffusione alla fine del 200 e nei primi due decenni del 300.
Poeti comico-realistici
Rustico de Filippi
Il ghibellino Rustico Filippi nato a Firenze nel 1230-40, è noto come iniziatore della poesia comico burlesca, risulta già morto nel 1300. Ha lasciato 29 sonetti aulici, di argomento amoroso, secondo la tradizione della scuola siciliana ed altrettanti comico-realistici, scritti in linguaggio dialettale e gusto umoristico, contro personaggi reali ed immaginari. Della sua produzione, perfettamente "bipartita", sono di maggiore interesse e importanza i sonetti comico-realistici; spesso, di difficilissima interpretazione, a causa di un lessico inventivo e ricco di allusioni oscene o criptiche, restano almeno i memorabili attacchi di Ovunque vai conteco porti il cesso o Oi dolce mio marito Aldobrandino, tra i più noti e studiati dalla critica e anche tra i più antologizzabili.
Di Rustico, ci rimangono solamente, una sessantina di testi (trasmessi quasi soltanto dal Vaticano latino 3793, il grande canzoniere fiorentino della lirica delle Origini) equamente spartiti tra sonetti di ispirazione cortese, "in stile curiale siculo-toscano" e sonetti burleschi, per lo più appartenenti al genere del vituperium, esercitato a danno di personaggi quasi sempre storicamente identificabili.
Cecco Angiolieri
Cecco Angiolieri, nasce a Siena attorno al 1260, da una ricca famiglia di banchieri; si hanno poche notizie sulla sua vita, che comunque fu piuttosto movimentata e violenta. Sua madre fu monna Lisa de' Salimbeni, appartenente dunque a una delle più nobili, cospicue e potenti famiglie del Comune; suo padre Angioliero, a sua volta figlio di quell'Angioliero detto Solàfica (cioè Serafica) che fu per alcuni anni banchiere di Gregorio IX, era fra le personalità più in vista della vita politica ed economica di Siena. Entrambi entrarono nell'ordine dei Cavalieri di Santa Maria (indicati poi col satirico nome di Frati Gaudenti), del quale potevano far parte anche i coniugati.
In un ambiente così realizzato, Cecco crebbe e si formò secondo i modi d'allora e volto a impossessarsi della cultura vigente (in particolar modo le arti del trivio e del quadrivio), come rivela e documenta la sua produzione poetica. Milita come alleato dei Fiorentini contro Arezzo nel 1288, e qui probabilmente conosce Dante, che sfida a una tenzone di sonetti. Nel 1281 era fra i senesi che militavano contro i ghibellini rinchiusi nel castello di Turri di Maremma, e fu, più di una volta, multato per essersi allontanato dal campo senza la dovuta licenza.
Sono questi gli anni ai quali risale pressoché per intero la sua produzione poetica, almeno quella che ci è pervenuta. Dovrebbe esser questo anche il periodo in cui un oscuro rimatore, un certo Simone, si volge a lui come a maestro, e in cui fiorisce l'amicizia con Dante Alighieri. Non è improbabile che i due si fossero conosciuti anche di persona in occasione della guerra contro Arezzo.
Purtroppo, non ci sono giunti i tre sonetti che Dante, verosimilmente avrà scritti in tenzone con quelli ora ricordati dell'Angiolieri.
Intanto nel 1302 l'Angiolieri vendeva a un tal Neri Perini del popolo di Sant'Andrea una sua vigna per settecento lire; ed è questo l'ultimo documento d'archivio nel quale Cecco è nominato ancor vivo, perché nel successivo documento che lo riguarda e che è del 25 febbraio del 1313, egli compare come già morto; in esso, i numerosi figli di lui, che dunque si era sposato e aveva messo su famiglia, Meo, Deo, Angioliero, Arbolina e Sinione (un'altra figlia, Tessa, era già emancipata), rifiutano l'eredità paterna perché eccessivamente gravata di debiti, se ne deduce che l'Agiolieri doveva esser morto poco innanzi.
Uomo frivolo e spensierato, disordinato e dissipatore, ebbe come ideale di vita tre cose solamente, la donna, la taverna e il dado; tuttavia, ci ha lasciato un ricco canzoniere, dal quale risalta moltissimo anche il suo romanticismo di vita nell'amore per una Becchina, figlia di un cuoiaio. Nelle sue rime, frequente è il motivo dell'odio verso i suoi genitori, velato da un profondo senso di malinconia. Cecco è sicuramente il più noto, e forse anche il più efficace, felice e fortunato rappresentante fra il Due e Trecento di quel genere di poesia, alla quale, con accezione rigorosamente scientifica, dovrebbe essere attribuita la denominazione di giocosa, o più comprensivamente di comico-giocosa, conforme alla mentalità retorica dell'ultimo Medioevo e all'insegnamento delle Poetrie. Una poesia cioè d'argomento e di linguaggio realisticamente quotidiano e dialettale (" comico ") in toni scherzosi e burleschi (" giocoso " di sernio iocosus, di materia iocosa discettavano i trattati di retorica); la poesia, pur nei suoi modi e aspetti municipalistici. non è soltanto comunale e toscana, ma raffigurata tecnicamente com'essa era, e cristallizzata scolasticamente, ricopre tutto il territorio delle letterature romanze, dal francese Rustebeuf allo spagnolo Bernardo Ruiz, dai Carmina buralla a tanti aspetti dei Fabliaux, delle Fratasies, delle Cantigas d'escarnho et de maldizer, ecc. fìno a certe punte addirittura della poesia provenzale. Essa rappresenta il fastidio e la sazietà dei modi aulici assai poveri del senso e del gusto della realtà; si richiama alla vivace varietà della vita in contrapposizione. Più che autentica poesia, la critica moderna scorge nell'Angiolieri arte, genialità, brio, sbrigliata caricatura..
Folgóre da San Gimignano
Folgóre da San Gimignano, pseudonimo di Giacomo di Michele o Jacopo di Michele secondo fonti diverse (San Gimignano, ca. 1270 – ca. 1332) è stato un poeta elegante che rappresentò nei suoi versi scene di caccia, giostre e conviti della ricca borghesia cittadina. Il suo nome (che ha il significato di fulgore, splendore, e si accenta Folgòre) compare in un documento senese del 1295 e altre fonti documentarie ne testimoniano la morte nel 1332. Poco si sa della sua vita, eccetto che combatté come fante, e successivamente come cavaliere, al servizio del suo comune natale. A lui vengono attribuiti trentadue sonetti - scritti fra il 1308 ed il 1316 circa - tra cui molto conosciute sono le due corone dedicate ai giorni della settimana e ai mesi dell'anno. Le due serie di sonetti dipendono dal genere provenzale, detto anche del plazer, consistente in componimenti in cui si elencavano una serie di situazioni piacevoli nell'ambito laico e mondano; l'elenco era inquadrato nell'ambito di un calendario giornaliero o mensile riflettendo le gioie della vita cortese.
La corona "dei mesi" è composta da 14 componimenti immaginati, rivolti ad una brigata nobile e cortese, contenenti auguri di gioie e divertimenti per i mesi dell'anno. La corona "della settimana" consiste di otto sonetti nei quali si consiglia di partecipare alle feste ed ai tornei nonché di praticare la caccia.
Rimangono della sua opera anche un frammento di un'altra corona dedicata alle virtù che non potevano mancare ad un cavaliere ed ancora alcuni sonetti di carattere politico in chiave antighibellina.
Le corone erano così note da ispirare una parodia dei sonetti sui mesi ad opera di Cenne de la Chitarra (la chitarra alluderebbe al mestiere e di giullare) nella quale elencava le "noie" secondo lo schema provenzale noto come enueg contrapposto al plazer. Folgóre da San Gimignano scrisse, oltre a questa corona sui mesi dell'anno, un'altra corona di sonetti sui giorni della settimana; cinque sonetti per l'armamento di un nuovo cavaliere; altri sonetti, alcuni dei quali di dubbia attribuzione, di argomento politico: contro i ghibellini e per lamentarsi delle discordie dei guelfi.
I testi di Folgore, sono uno degli esempi più alti di poesia come attività ludica. Per certi versi lontanissimi dalla nostra sensibilità, ma anche da quella del quasi contemporaneo S.Francesco, i "Sonetti dei mesi" rappresentano anzitutto un tentativo di razionalizzare, e quindi esorcizzare, lo scorrere del tempo. Uomini e cose appaiono reali, si descrivono azioni usuali, si elencano oggetti comuni, le azioni sono sempre concrete, ma tutto è proiettato in una dimensione temporale iterativa (il ciclo naturale dei mesi e delle stagioni) che condanna questo universo rutilante di colori, di suoni e di sapori ad una precaria eternità, tutta umana e quindi verosimilmente provvisoria. In questa temporalità circolare, le azioni diventano imposizioni, regole di un gioco: l'imperativo è piuttosto frequente, e ancor di più lo è l'infinito, a cui potremmo attribuire un valore di ottativo o ancora di imperativo. Ecco allora che le feste, le cacce, i tornei, e persino gli amori e le sbronze, appaiono regolati da sottili codici che ne fissano l'esecuzione, prescrivendone il tempo (secondo il ritmo naturale dell'anno) e le modalità. Prendendo spunto dai dati reali e fissandoli nella struttura chiusa della corona, questi sonetti pertanto, si trasformano in paradigmi. Scrivendoli, Folgore, ha giocato con la lingua e con la retorica per ottenere l'effetto desiderato: "delectando docere"; leggendoli o ascoltandoli, i giovani dedicatari hanno giocato con la propria vita, simulandone alcuni momenti e ricapitolandone le regole essenziali.
• Chi sono i giullari e i goliardi?
Nel Medioevo, l’umorismo, prima di esprimersi in letteratura, si manifesta essenzialmente tramite goliardi e giullari.
Nel sistema formativo medioevale, Scholasticus (studente), è sinonimo di clericus (persona dotta); ed è proprio nelle università, che abbiamo i Clerici Vagantes, studenti universitari, che amano le donne, il bere e le abbuffate. Ed è in questo contesto, che abbiamo l’introduzione di un nuovo termine: goliardia. Goliardia, deriva da Golias (nome medievale del biblico gigante Golia, che simboleggia il diavolo); il termine, entra nell’uso comune e nella lingua ufficiale della Chiesa per indicare i Clerici Vagantes. I goliardi, non sono ben visti dalla Chiesa, poiché nei loro metri rigorosamente latini, compongono satire ardite contro frati, abati, vescovi e papi; i carmina goliardici, sono, uno strumento provocatorio per la Chiesa; la raccolta dei Carmina Burana, comprende oltre 300 composizioni, quasi tutte in latino.
In seguito, i Clerici Vagantes, passano da una corte all’altra, prevalentemente per intrattenere i signori, nel ruolo di giullari. I giullari sono quindi, artisti di piazza, discendenti dai mimi classici e degli antichi histriones, gli attori romani; sono musici, giocolieri, acrobati, buffoni, che si esibiscono in piazze e castelli, coltivando ogni genere; alcune persone: gobbi, deformi, nani…trovano lavoro e abitazione nelle corti.
Utilizzando travestimenti e maschere, il giullare è un vero maestro dell’intrattenimento; l’abito in alcuni casi, viene decorato, in maniera da richiamare negli spettatori immagini diaboliche: campanelli, pellicce, piume, barbe finte, maschere mostruose. I giullari però, col tempo, sono marchiati di disonore da numerosi predicatori; ma, dopo la loro scomparsa, trova spazio, una generica folla di giocolieri, ammaestratori, suonatori e incantatori.
Il mascheramento demoniaco viene assorbito dalla religiosità cristiana e reso innocuo, il diavolo viene trasformato in un personaggio della Sacra rappresentazione, tra le maschere diavolo più famose, già nel Medioevo, è Arlecchino, protagonista di produzioni esagerate, e insultanti, chiamate charivari. Un momento importante della vita cittadina, nel Medioevo, come ai giorni nostri, è il Carnevale, una sorta di annuale azzeramento, che vede l’abolizione di ogni schema sociale; essa, in origine, è una festa propiziatoria, della fertilità della terra, dell’abbondanza dei raccolti; progressivamente però, già dopo il 1000, nelle feste popolari, si usano maschere, e le scene comiche costituiscono il punto prominente di quelle giornate di baldoria.
• Analizza la struttura fisica dell’”Inferno” dantesco
La Commedia, il più grande Poema della letteratura italiana, fu composta presumibilmente fra il 1307 e il 1320 o, comunque, a partire dal 1307. L'ipotesi è che Dante, in quegli anni, abbia impiegato lo schema geometrico della "precessione assiale della terra" per costruire la struttura dell’Inferno, allo scopo di fondare tutta la cosmologia e l’impianto stesso del Poema sulla precessione degli equinozi. Il Poema si compone di 14.233 versi endecasillabi (in terza rima) ed è suddiviso in tre Cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso; ognuna delle quali è suddivisa in 33 Canti, meno l’Inferno che, con un canto introduttivo, ha un totale di 34 Canti. La Commedia, racconta il viaggio ultraterreno del Sommo Poeta compiuto attraverso i tre mondi, al termine del quale Dante riuscirà a godere per un istante della visione beatifica di Dio. Nel suo viaggio è accompagnato dal Poeta Virgilio (che secondo gli studiosi è il simbolo della ragione umana) fino a giungere in prossimità dell’Eden (il Paradiso terrestre), dove la figura di Virgilio scompare per lasciare spazio a Beatrice, la giovane donna amata da Dante (morta nella sua giovinezza), che lo guiderà alle porte del Paradiso.
Gli studiosi, hanno individuato il significato della Commedia, nel tentativo di Dante, di ristabilire un equilibrio tra le vicende terrene, che vedono l’umanità sempre più traviata e perduta e la dimensione divina, alla quale l’uomo aspira.

L’Inferno, è immaginato da Dante come un’immensa voragine a forma di cono rovesciato, il cui vertice è al centro della Terra. La sua struttura, si formò al principio dei tempi a causa della caduta di Satana, che fu precipitato dal Paradiso, in modo tale da restare conficcato al centro della Terra; la voragine infernale, si apre al di sotto di Gerusalemme (ha per asse la verticale di Sion) e l’entrata della Selva oscura è a circa 3000 Km dalla città Santa. Scendendo all’interno della voragine infernale s’incontrano il Vestibolo, il fiume Acheronte, e poi, nove cerchi dei quali i primi cinque costituiscono "l’alto Inferno" e gli altri il "basso Inferno". In fondo all’Inferno, in corrispondenza del centro della terra, si trova Lucifero, con tre facce e sei ali che, sempre in movimento, ghiacciano la palude di Cocito. Nel suo cammino, scendendo girone per girone, Dante incontra le anime dei dannati fino a giungere al centro della terra in cui ha la visione del mostro infernale; Dante e Virgilio, scendono fino al centro della Terra, nella quale vedono il lago ghiacciato di Cocito, che è congelato dal continuo movimento delle sei ali di Lucifero. Qui Dante, descrive la visione mostruosa del Principe del male, che fuoriesce dal lago ghiacciato dal petto in su, e che presenta tre facce con un’unica testa. Infine, si sofferma a descrivere la pena inflitta a Giuda, Bruto e Cassio, che sono condannati ad essere stritolati dai denti di Lucifero in eterno. Giunti al centro della terra, e aggrappandosi ai velli di Lucifero, iniziano la lenta risalita verso l’altro emisfero (australe) giunti nel quale intraprendono il viaggio nel Purgatorio. Prima di iniziare la risalita Virgilio spiega a Dante il modo in cui si formò l’Inferno. Si capisce così, così che Lucifero, ribellandosi a Dio, fu precipitato dal cielo e conficcato al centro della terra, che è anche il centro dell’Universo tolemaico, andando a formare l’immensa voragine infernale
Struttura
La struttura dottrinale dell'Inferno richiama il costante utilizzo simbolico del numero 3: i dannati sono infatti ripartiti in tre categorie, ciascuna localizzata in una sezione decrescente della cavità sotterranea. L'ordinamento delle pene, come dice Virgilio nell'Inferno, dipende dall'Etica Nicomachea di Aristotele, e prefigura una gerarchia del male basata sull'uso della ragione.
I peccatori più "vicini" a Dio e alla luce, posti cioè nei primi più vasti gironi, sono gli incontinenti, quelli cioè che hanno fatto il minor uso della ragione nel peccare. Seguono i violenti, che a loro volta sono stati accecati dalla passione, sebbene a un livello di intelligenza maggiore dei primi. Gli ultimi sono i fraudolenti e i traditori, che hanno invece sapientemente voluto e realizzato il male. Tutti i peccatori dell'inferno hanno una caratteristica comune, percepiscono la lontananza da Dio come la pena maggiore, Virgilio spesso farà trasparire dalle sue parole e atteggiamenti un senso di nostalgia, un sentimento eterno mai destinato a cessare.
Luogo
Dannati
Pena
Personaggi
Luoghi reali
Canto
La selva
-
-
Lonza, leone, lupa, veltro, Virgilio, Cesare, Augusto, Enea, Anchise, Camilla, Eurialo, Turno, Niso
-
I
Selva
-
-
Muse, Enea, Silvio, San Paolo, Beatrice, Madonna, Santa Lucia, Rachele
Mantova, Roma, Troia, Italia
II
Vestibolo o Antinferno
ignavi
("neutrali" per viltà)
corrono nudi punti da vespe e mosconi inseguendo una bandiera; il loro sangue è raccolto da vermi
Caronte,
Papa Celestino V?
Roma
III
Primo cerchio
Limbo
virtuosi non battezzati o nati prima di Cristo
desiderano invano di vedere Dio
Abele , Noè, Mosè, Abramo, Re David, Giacobbe, Rachele, Adamo
Grandi spiriti dell'antichità
Omero, Orazio,
Ovidio, Lucano,
Elettra, Ettore,
Enea, Cesare,
Camilla, Pantasilea,
Re Latino, Lavinia,
Bruto, Lucrezia,
Giulia, Marzia,
Cornelia, Saladino,
Aristotele, Socrate,
Platone, Democrito,
Diogene il Clinico (non è certa l'attribuzione), Anassagora,
Talete, Empedocle,
Eraclito, Zenone (non si sa quale),
Dioscoride, Orfeo,
Cicerone, Lino (cantore),
Seneca, Euclide,
Tolomeo, Ippocrate,
Avicenna, Galeno,
Averroè
-
IV
Secondo cerchio
Incontinenti
lussuriosi
travolti dalla bufera
Minosse, Paolo e Francesca, Semiramide, Nino, Didone, Sicheo;
Cleopatra;
Elena;
Achille;
Paride;
Tristano, Lancillotto, Galeotto
Po, Ravenna
V
Terzo cerchio
Incontinenti
golosi
flagellati dalla pioggia e straziati da Cerbero
Cerbero;
Ciacco;
Tegghiaio Aldobrandi;
Arrigo (?)
Mosca dei Lamberti
Firenze
VI

Esempio