La letteratura tra il 1800 e il 1900

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Testo

GIOVANNI VERGA
VITA
1840: Nasce a Catania da una famiglia di piccola nobiltà agraria
1859: s’iscrive malvolentieri alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania
1869: ma si trasferisce a Firenze, dove frequenta ambienti letterari prestigiosi
1872: poi a Milano, dove frequenta il mondo giornalistico ed editoriale
1884: infine a Parigi, dove conosce e frequenta il prestigioso scrittore naturalista francese Emile Zola.
1890: si ritira definitivamente a Catania,
per poi morire nel 1922.
IL VERISMO
E’ la scrittura letteraria (come suggerisce la parola stessa) del “vero”, cioè la descrizione realistica di fatti veri, reali, anche negativi (per es. ambienti sociali popolari di difficili condizioni), attraverso un linguaggio impersonale e distaccato, che cioè né vuole abbellire questa realtà attraverso forme eleganti e raffinate, né vuole deriderla attraverso forme comiche e satiriche, parodistiche, ma anzi intende solo rappresentarla così com’è.
La prima produzione letteraria di Verga non fu subito verista, ma ancora storico patriottica: ”Amore e patria” (1857); “I Carbonari della montagna” (1862) (legate all’entusiasmo per i contemporanei moti risorgimentali e poi per l’avvenuta unificazione d’Italia) ; e romantico sentimentale: “Storia di una capinera” (1870) (la storia di una fanciulla costretta a diventare suora, secondo le abitudini del tempo, ma innamorata di un giovane che poi, con suo sommo dolore, finirà per sposare sua sorella.)
Quali furono le ragioni che spinsero Verga a passare da un’iniziale giovanile letteratura storico patriottica e romantico sentimentale ad una successiva e più matura letteratura veristica?
• Innanzitutto una certa delusione per l’esito dei moti risorgimentali; sì l’unificazione d’Italia e la sua liberazione dagli Austriaci, ma un’Italia piena di problemi, soprattutto al sud, sulla quale ancora tanto bisognava lavorare per migliorarne le condizioni. Ma da questa delusione, Verga non divenne un rivoluzionario volto a cambiare lui le condizioni dell’Italia specie meridionale, semplicemente divenne sfiduciato e scettico verso quel decantato progresso di cui tutti parlavano e verso quell’entusiasmo risorgimentale che aveva portato tanti uomini a combattere e a morire per migliorare la propria patria.
• Un’insoddisfazione per tutta la letteratura romantico sentimentale, a suo avviso troppo languida e poco costruttiva
• L’avvicinamento alla letteratura naturalistica francese, visto che a Parigi conobbe e frequentò il prestigioso scrittore naturalista francese Emile Zola (dal naturalismo francese si sviluppò il verismo italiano)
• L’interesse per le condizioni effettive dell’Italia meridionale, soprattutto della sua Sicilia, terra natia. Ma questo interesse per la sua terra natia siciliana scoppiò solo dopo averla abbandonata, solo quando Verga si trovò da essa lontano, immerso nella vita mondana e culturale di centri italiani come Firenze, Milano e europei come Parigi.
LE NOVELLE
La produzione letteraria veristica di Verga cominciò con alcune novelle, incentrate quasi tutte sulla rappresentazione di un mondo di contadini, di pastori, un mondo lontano dalla storia italiana frenetica di quegli anni (dalla quale, anzi, non aveva ottenuto alcun miglioramento di condizione) e anzi chiuso nella propria realtà di lavoro faticoso, di miseria, di una natura ostile, di tradizioni e regole di comportamento da rispettare, di sottomissione ai più ricchi e potenti, di gerarchie sociali immutabili.
Tuttavia per Verga quello era un mondo autentico (per questo lo rappresenta nella sua opera così com’era), capace fino in fondo di accettare con dignità la propria condizione senza alcuna pretesa di cambiarla con la rivoluzione.
Tra le novelle ricordiamo la raccolta “Vita dei campi” del 1880, comprendente “Rosso Malpelo”, “La Lupa”, “La cavalleria rusticana”.
I ROMANZI DEL “CICLO DEI VINTI”
Ma il vero e proprio verismo di Verga emerge nei suoi romanzi.
Verga progettò di scrivere un ciclo di romanzi, che avrebbe dovuto intitolarsi “Il Ciclo dei Vinti” e avrebbe dovuto comprendere i seguenti 5 romanzi:
1. I “Malavoglia”
2. “Mastro don Gesualdo”
3. ”La Duchessa di Leyra”
4. “L’Onorevole Scipioni”
5. “L’uomo di lusso”
un ciclo che avrebbe dovuto rappresentare mano mano classi sociali dalle più basse (i pescatori di Aci Trezza dei “Malavoglia” e poi i contadini catanesi di “Mastro don Gesualdo”, classi dalle difficili condizioni di vita) alle più alte (quelle borghesi ed aristocratiche dei romanzi successivi, classi, invece, dalle condizioni di vita migliori, perché più ricche e potenti), per far capire la differenza.
Tuttavia, il ciclo rimase incompiuto e Verga scrisse soltanto i “Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”.
I MALAVOGLIA (1881)
L’AMBIENTAZIONE SPAZIALE E TEMPORALE
Da un punto di vista spaziale geografico, il romanzo è ambientato ad Aci Trezza, piccolo paese siciliano prevalentemente abitato da pescatori; da un punto di vista storico è ambientato negli anni immediatamente successivi all’unificazione d’Italia, ossia tra il 1864 e il 1876, anni di storia italiana frenetica alla quale però la famiglia dei Malavoglia rimarrà sostanzialmente estranea.
LA VICENDA
E’ incentrato sulle vicende della famiglia Toscano, detta maliziosamente dagli abitanti del paese “Malavoglia”, abitante nella cosiddetta “casa del nespolo” e composta dai seguenti personaggi: il nono ‘Ntoni, il figlio Bastianazzo, la moglie di questo Maruzza e i 5 nipoti: ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi, Lia.
La vicenda comincia con il tentativo dei Malavoglia di arricchirsi acquistando a credito una partita di lupini ed esportandoli a destinazione con la propria barca, la “Provvidenza”, ma su questa si abbatte una tempesta, i lupini vanno persi, la barca si rompe e il braccio destro della famiglia, Bastianazzo, muore.
Per pagare il debito, i Malavoglia sono costretti a ipotecare la cara “casa del nespolo” e a vendere la loro barca, unico mezzo di affari economici che possedevano.
Luca, partito militare, muore durante la battaglia di Lissa del 1866 (è uno dei pochi contatti tra la vicenda paesana dei Malavoglia e la storia italiana frenetica di quegli anni);
‘Ntoni giovane torna dal militare senza alcuna voglia di lavorare, perdendo tempo appresso alle donne e al bere, viene arrestato e scarcerato, per poi scappare alla fine dal proprio paese in cerca di fortuna.
La madre dei giovani Maruzza muore per la disperazione di tali sventure familiari
Lia ha una relazione segreta con un brigadiere e solo dopo il paese ne viene a conoscenza; allora per vergogna fugge a Catania dove si dà alla prostituzione
Mena è innamorata segretamente del carrettiere Alfio Mosca, ma non può sposarlo perché già promessa in sposa dal nonno al più ricco Brasi Cipolla, ma nemmeno questo matrimonio si può celebrare, perché è troppa la vergogna che si era abbattuta sulla famiglia Malavoglia
Il vecchio ‘Ntoni si ammala gravemente e muore
Alessi, alla fine, l’unico onesto e lavoratore della famiglia Malavoglia, riesce a riscattare la casa del nespolo e sposa una brava ragazza, Nunziata, dalla quale avrà dei figli.
IL VERISMO NEI “MALAVOGLIA”
Anche i “Malavoglia” adottano una scrittura letteraria (come suggerisce la parola stessa) del “vero”, cioè la descrizione realistica di fatti veri, reali, anche negativi (per es. ambienti sociali popolari di difficili condizioni come i pescatori di Aci Trezza), attraverso un linguaggio impersonale e distaccato, che cioè né vuole abbellire questa realtà attraverso forme eleganti e raffinate, né vuole deriderla attraverso forme comiche e satiriche, parodistiche, ma anzi intende solo rappresentarla così com’è, nei suoi aspetti positivi (classi autentiche -per questo rappresentate così come sono-, capaci fino in fondo di accettare con dignità la propria condizione senza alcuna pretesa di cambiarla con la rivoluzione: il senso del lavoro di Alessi, il senso della famiglia del vecchio ‘Ntoni ecc.) che negativi (la pigrizia del giovane ‘Ntoni, la prostituzione di Lia, l’innocenza di Luca che muore in guerra ecc.).
Per quanto riguarda la scelta del linguaggio, Verga avrebbe potuto scegliere tra:
• o il linguaggio italiano ufficiale unitario, un lombardo fiorentino; il vantaggio era quello per cui l’avrebbe potuto comprendere un più vasto ed eterogeneo pubblico (l’Italia in genere), lo svantaggio era quello per cui non sarebbe stato fedele alla rappresentazione di quel mondo siciliano popolare.
• o quello dialettale siciliano; il vantaggio era quello per cui sarebbe stato fedele alla rappresentazione di quel mondo siciliano popolare, lo svantaggio era quello per cui non avrebbe potuto essere compreso dal più vasto ed eterogeneo pubblico dell’Italia in genere
Quale linguaggio tra i due scegliere? Verga sceglie un compromesso fra i due linguaggi, unendo i lati vantaggiosi di ognuno (la comprensione di un più vasto ed eterogeneo pubblico -l’Italia in genere- e la fedeltà alla rappresentazione di quel mondo siciliano popolare); sceglie cioè un italiano medio nella struttura generale del discorso e un dialetto siciliano nella struttura particolare, per es, dei dialoghi.
Verga sceglie inoltre la tecnica narrativa dell’impersonalità e del distacco rispetto alle cose che racconta: cioè non interviene direttamente in esse, ma si limita semplicemente a registrarle, a raccontarle, facendo parlare al posto suo le stesse situazioni e gli stessi personaggi.
Sceglie infine la tecnica narrativa dello “STRANIAMENTO”, ossia tende a rappresentare ciò che è normale, positivo e vincente, al contrario, come invece qualcosa di anormale, negativo e perdente. Per es. l’arresto del giovane ‘Ntoni anziché essere visto dagli abitanti del paese come una vergogna, è visto come una fortuna: la famiglia Malavoglia si liberava di un elemento pigro nel lavorare (dunque inutile) e aveva così una bocca in meno da sfamare; oppure il naufragio della nave Provvidenza, anziché essere vista dagli abitanti del paese come una disgrazia umana e familiare (vi muore Bastianazzo, braccio destro della famiglia), è vista come una disgrazia economica (fallisce l’affare, si perdono i lupini acquistati a credito, si rompe la barca, unico mezzo di affari economici che possedevano.)
MASTRO DON GESUALDO (1888)
E’ il secondo dei cinque romanzi che Verga avrebbe dovuto scrivere e comprendere nel “ciclo dei vinti”, un ciclo che avrebbe dovuto rappresentare mano mano classi sociali dalle più basse (i pescatori di Aci Trezza dei “Malavoglia” e poi i contadini catanesi di “Mastro don Gesualdo”, classi dalle difficili condizioni di vita) alle più alte (quelle borghesi ed aristocratiche dei romanzi successivi, classi, invece, dalle condizioni di vita migliori, perché più ricche e potenti), per far capire la differenza.
Tuttavia, il ciclo rimase incompiuto e Verga scrisse soltanto i “Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”.
Questo romanzo è incentrato sulla vicenda di tale mastro don Gesualdo, contadino lavoratore onesto che però col tempo accumula una grande ricchezza economica che lo porta a contatto con gli ambienti più ricchi e potenti, ma corrotti. Lascia la sua amante, una umile serva (Diodata) e sposa una nobile decaduta (Bianca) dalla quale avrà una figlia (Isabella), ma non riuscirà mai a farsi accettare fino in fondo né dalla moglie, né dalla figlia Isabella, da quell’ambiente nobiliare in cui si era inserito, che continuerà a vederlo sempre come un contadino. Infatti, rimasto vedovo, è costretto a farsi ospitare dalla figlia Isabella e morirà tra l’indifferenza di questa nel suo palazzo.
Con questo Verga vuole dimostrare come il tentativo popolare di rovesciare le gerarchie sociali, sia comunque destinato al fallimento: Mastro don Gesualdo fallisce il suo tentativo di inserirsi in un ambiente nobiliare dal quale non riuscirà mai a farsi accettare fino in fondo, e il contrasto stava proprio nella passione onesta con cui lui aveva vissuto la sua ascesa da contadino a ricco improvviso e l’indifferenza e corruzione della realtà a lui esterna.
Ecco perché Verga sembra piuttosto dalla parte di quelle classi sociali povere ma capaci fino in fondo di accettare con dignità la propria condizione senza alcuna pretesa di cambiarla con la rivoluzione; e adotta, specie negli ultimi anni della sua vita, un atteggiamento sfiduciato e scettico verso quel decantato progresso di cui tutti parlavano e verso quell’entusiasmo risorgimentale che aveva portato tanti uomini a combattere e a morire per migliorare la propria patria.
IL CLASSICISMO E GIOSUE’ CARDUCCI
IL CLASSICISMO
Anche nella fase di maggiore diffusione del Romanticismo, certe tendenze al Classicismo e alle sue forme armoniose ed equilibrate non vennero mai meno; tuttavia, nella fase di formazione della nuova Italia, Stato finalmente indipendente e unitario, il Classicismo si ridusse (come accadde all’associazione culturale degli “Amici pedanti”) ad una polemica contro le tendenze modernizzanti ed esterofile del precedente Romanticismo e ad una retorica e nazionalistica proclamazione dell’inutilità di tanti modelli stranieri contro la ricchezza del patrimonio culturale italiano, che affondava le sue radici nella cultura appunto classica. Si può dire che Carducci sia l’ultimo esponente del Classicismo italiano, colorandolo persino di accenti originalmente realisti.
VITA
1835: Nasce a Val di Castello in Versilia
1838-49 cresce e studia in Maremma
1853-56: studia e si laurea in filosofia e filologia all’università di Pisa1856
1856-57 ottiene la cattedra di un ginnasio a San Miniato
1859: ottiene la cattedra di eloquenza italiana presso l’università di Padova.
(sospensione di due ani e mezzo dall’insegnamento)
1890: è proclamato vate ufficiale dell’Italia umbertina e poi senatore del Regno
1904: cura l’edizione completa di tutte le sue opere presso l’editore Zanichelli
1906: premio Nobel per la letteratura
1907: muore a Bologna
GLI ORIENTAMENTI IDEOLOGICI E LA POESIA CLASSICISTA
Distinguiamo tre tappe fondamentali degli orientamenti ideologici e, di pari passo, della poesia classicista del Carducci:
1. ideali risorgimentali per la liberazione e unificazione d’Italia;
e di conseguenza un classicismo volto al superamento della letteratura romantico sentimentale, a suo avviso troppo languida e poco costruttiva, a e una maggiore operosità umana e sociale, insomma un classicismo realista che riproponga il vigore passato come modello esemplare del torpore presente e che rappresenti la realtà sì attraverso riferimenti classici, ma non nel senso di un assorbimento della realtà nei riferimenti classici, bensì, al contrario, nel senso di un adeguamento di questi alla realtà. Tra gli ideali classici, la serena accettazione della vita e della morte, l’ammirazione dell’armonia del cosmo, la consapevolezza della dignità umana.
2. in risposta alla delusione dei suoi ideali risorgimentali e all’inefficienza della classe dirigente del nuovo stato italiano, ideali polemicamente repubblicani, giacobini, socialisti e anticlericali, che gli costeranno la sospensione dell’insegnamento per circa due mesi. Tuttavia, tali ideali portarono il Carducci non ad atteggiamenti estremisti o negativi, ma soltanto al desiderio di un nuovo, sano equilibrio;
e di conseguenza un classicismo molto più polemico e vigoroso, fermo spesso nella descrizione del paesaggio di Maremma dove l’autore visse in gioventù: un paesaggio, appunto, aspro e selvaggio, fonte di sensazioni energiche ed aggressive.
3. secondo un vero e proprio cambio di posizione, ideali conservatori che gli fecero vedere nella monarchia sabauda dei Savoia l’unica garanzia di unificazione italiana completa, cambio di posizione che gli valse il titolo di vate ufficiale dell’Italia umbertina e di senatore del Regno (1890);
e dunque un classicismo molto più mite, fermo ad una riesumazione degli antichi ideali di bellezza formale o dell’antica sensibilità malinconica, oppure nella celebrazione ufficiale della nuova Italia monarchica umbertina, ormai appagato dai riconoscimenti ufficiali che da questa aveva ottenuto.
LE OPERE
1857: ”Rime giovanili di San Miniato”
1868: “Levia Gravia” (titolo preso dal poeta latino Ovidio; una raccolta di poesie insieme leggere e pesanti, come suggerisce il titolo, scritte con lo pseudonimo di Enotrio Romano)
1871: “Poesie”, raccolta divisa nelle tre parti di “Decennalia”, “Levia Gravia”, “Juvenilia”
1872: “Primavere elleniche”
1873: “Nuove poesie di Enotrio romano”
1877: “Odi Barbare”
1882: “Nuove Odi Barbare” } (le prime in metrica barbara)
1889: “Terze Odi Barbare”
1882: “Giambi ed epodi” (la poesia repubblicana, giacobina, socialista, anticlericale dal classicismo più polemico e vigoroso)
1887: “Rime nuove” (perché non più in metrica barbara)
1899: “Rime e ritmi” (poesie insieme in metrica barbara e italiana)
LA METRICA BARBARA
Fu un arduo esperimento di Carducci, consistente nell’adattare alla più tipica metrica classica (esametro,distico elegiaco, ode archilochea, asclepiadea, saffica) la metrica ritmica ed accentuativa tipicamente italiana.
Tale metrica è definita barbara, perché forse tale sarebbe sembrata agli antichi se avessero potuto ascoltarla.
LA VISIONE DELLA STORIA
Carducci è anche il poeta della storia, che ama cioè rappresentare la storia nelle sue poesie, non solo la storia antica, ma anche quella di altre epoche, soprattutto quelle che ponevano modelli esemplari di virtù laiche (l’amore per la Patria…) e di libertà repubblicana: e quindi il Medioevo dell’età comunale, la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano.
Tuttavia la poesia di Carducci raggiunge risultati ancora più elevati, quando il poeta si sofferma sulla piccola storia, anziché sulla grande storia, cioè sulla piccola storia della propria infanzia ed adolescenza in Maremma, oppure sulla piccola storia di famiglie popolari, contadine, contraddistinte da una vita semplice, elementare, dal senso della famiglia e del lavoro, e da altri sani valori, serena e rassegnata di fronte alla forza invincibile della natura, della malattia e della morte, (e questo a differenza della frenetica vita cittadina priva di valori che lui visse durante la sua carriera scolastica e universitaria delle grandi città).
DECADENTISMO
Nasce: a Parigi, anni ‘80
Nome: questa corrente viene ben presto marchiata come “decadente” dalla critica accademica e borghese, in quanto considerata stanca e tardiva replica del Romanticismo e, allo stesso tempo, decadenza dell’arte. Viene assunto dagli stessi artisti in modo ironico.
Il termine “decadente” appare per la prima volta in un componimento poetico: di PAUL VERLAINE “Languore”, manifesto della cultura decadente, in quanto esprime l’atteggiamento psicologico tipico degli intellettuali parigini (senso di sfinitezza e di atonia spirituale). Bohèmien.
Rivista: “Le Décadent” Verlaine
Definizione: movimento culturale che esprime la “delusione storica” di interi gruppi intellettuali europei.
Motivi storici: Grande crisi ==> politica protezionistica e monopolistica

gravi ripercussioni in politica: ETICA DEL PROFITTO
* estera ricerca di nuovi mercati

colonialismo
c
scontri e frizioni internazionali
* interna conflitto nel mercato del lavoro primi partiti politici operai
nascita sindacati

difficoltà nei ceti medi ==> condizione sociale e psicologica frustrante.
Diffusione: tale movimento dopo la sua nascita si irradia, in maniera differenziata perchérelativa a contesti storici e sociali diversi, in tutta Europa.
Caratteri generali:
• Legame con il Romanticismo;
• Rifiuto della normalità borghese (delusione postrisorgimentale): ne criticavano il malgusto, la volgarità, il 1perbenismo; (Da notare anche loro erano borghesi.)
• Moto di reazione al 2positivismo[FB1][FB2]-naturalismo ==> esperienze di segno irrazionalistico, spiritualistico, soggettivistico del moto romantico;
• Atto di sfiducia nella ragione e nei metodi “positivi” di conoscenza e indagine del reale elaborati dalla scienza e dalla filosofia di metà secolo;
• Crollo delle certezze;
• Convinzione che la realtà vera è quella che si cela dietro le apparenze;
• Convinzione dell’importanza dell’interiorità, abisso misterioso di cui vengono messe in evidenza debolezze, perversioni, componenti anomale e patologiche, senza alcuna pretesa di analizzarle e curarle;
• Penetrazione del mistero grazie all’intuizione. L’ARTE È UNA FORMA DI CONOSCENZA SUPERIORE ALLA CONOSCENZA RAZIONALE. Spetta al poeta il compito di interpretare il misterioso linguaggio della realtà e della natura;
• Sono venuti meno i rapporti tra intellettuali e società.
GENESI
1) SIMBOLISMO
“Corrispondenze” CHARLES BAUDELAIRE
• Crollo dei confini tra i cinque sensi;
• Compito del poeta: decifrare i simboli per scoprirne il senso riposto, l’essenza;
• Ruolo del poeta: sconfina nel misticismo.Invito a servirsi liberamente delle parole e delle immagini e ad associarle a seconda della loro risonanza psicologica e della legge misteriosa dell’analogia universale.
“Arte poetica” PAUL VERLAINE
“Musica prima di ogni altra cosa, / e perciò preferisci il verso Dispari / più vago e più solubile nell’aria / senza nulla che pesi o posi”
“Fuggi l’Arguzia che assassina, / lo Spirito tagliente e il Riso impuro / per cui piangono gli occhi dell’Azzurro”
“Sia il tuo verso la buona avventura / sparsa al vento frizzante del mattino / che porta odori di menta e di timo... / E tutto il resto è letteratura”
• Poesia = musica;
• Il verso Dispari piace molto ai simbolisti perché da un senso di vago;
• Parola equivoca, ambigua, polemica;
• Non ci sono colori, ci sono solo sfumatura;
• I simbolisti non ammettono l’ironia.

“Vocali” ARTHUR RIMBAUD

“L’Albatro” CHARLES BAUDELAIRE
2) MUSICALITA’
“Corrispondenze” CHARLES BAUDELAIRE
• La musica ha il potere di esprimere quella parte non definibile del sentimento che la parola, troppo positiva, non può rendere.

“Arte poetica” PAUL VERLAINE
3) IRRAZIONALISMO
MISTICISMO punta estrema dell’irrazionalismo
• fantasia
• immagine
• mistero m natura
animo umano
4) ESTETISMO
• FARE DELLA PROPRIA VITA UN’OPERA D’ARTE, VIVERE NEL CULTO ESASPERATO DELLA BELLEZZA O IN FUNZIONE TOTALE DELL’ARTE;
• Rifiuto della nuova società borghese e dei valori di massa;
• Nostalgica tendenza verso un’età di aristocratica raffinatezza;
• TUTTA L’ARTE È COMPLETAMENTE INUTILE;
• L’esteta è superiore perché capace di apprezzare il Bello.
“À Rebours” HUYSMANS
Protagonista: nevrotico parigino che cerca inutilmente di sfuggire alla noia della metropoli moderna, per rivendicare, in uno stato di allucinante solitudine, la propria superiorità.
Tematiche:
• Nevrosi del protagonista (motivazioni di carattere sociale);
• Coscienza di vivere in un mondo decaduto, in cui la Bellezza è sfiorita;
• Esigenza di porsi al di fuori della legge e della morale comune;
• Frustrazioni ed umiliazioni della società ==> atteggiamento “sadico”;
• Tendenza antinaturalistica T fantasie, sogni.
“Il ritratto di Dorian Gray” OSCAR WILDE
Protagonista: giovane e raffinato “dandy” che percorre tutte le strade del vizio, per ribadire che l’arte è superiore alla banale natura.
Tematiche:
• Antinaturalismo;
• L’arte è il bene supremo, in quanto supera la miseria della vita umana e la situa in una dimensione eterna.
“Il Piacere” GABRIELE D’ANNUNZIO
5) SUPEROMISMO
NIETZSCHE posizione antipositivista;
polemica contro la tirannia della ragione scientifica.
• Privilegio dei soli valori terreni: esaltazione della forza, dell’Eros gioioso e libero, del vitalismo, dello spirito agonistico e della volontà di potenza;
• “Spirito dionisiaco” “ superuomo: nuovo esemplare di umanità al di là della morale comune, la quale non è altro che una forma di mascheramento, di falsa coscienza che presenta come valori morali la debolezza, l’affievolirsi della gioia dionisiaca del vivere, cioè i frutti della decadenza provocati dalla predicazione cristiana;
• Posizione antidemocratica;
• Introduzione dell’attivismo e del vitalismo;
• Ricerca del rischio e dell’esperienza di vita;
• Espressione di una drammatica lacerazione, di un dissidio che solo l’uomo futuro potrà colmare.
E’ una complicazione ed amplificazione dell’estetismo.
“Le vergini delle rocce” GABRIELE D’ANNUNZIO
6) VITALISMO, ATTIVISMO
Nasce: in seguito alla corrente esteta e alla teoria di Nietzsche.
Consiste: nello slancio avventuristico, nel vitalismo esasperato, nella ricerca del gesto memorabile, nell’esaltazione del rischio per il rischio. E’ traducibile nella sfida alla morte.
Atteggiamenti apparentemente opposti:
• Introversione totale;
• Rifiuto della realtà e della civiltà di massa.
• Estroversione totale;
• Volontà di potenza, di dominio sulle stesse folle disprezzate.
Motivo:
• un’analoga inquietudine;
• un’analoga scontentezza del rapporto normale che l’individuo instaura con la realtà naturale e sociale;
• un’analoga solitudine.
FREUD

7) INETTITUDINE
Caratteristiche del personaggio: è ripiegato su se stesso, avvulso dalla realtà sociale e in attento ascolto del proprio Io inquieto e tormentato, deluso dal mondo, avverso alla società borghese e ai suoi valori, incapace di vivere normalmente, inetto, malato, sensibilissimo, capace di svelare i propri ed altrui compromessi morali, le proprie ed altrui meschinità. E’ sempre alla ricerca di una realizzazione esistenziale, di un assoluto esistenziale e religioso.
IL DECADENTISMO E GIOVANNI PASCOLI
Il Decadentismo è un movimento culturale che si sviluppa grosso modo tra il 1871 e l’inizio della prima guerra mondiale, nel periodo, cioè, di passaggio tra l’età moderna e l’età contemporanea e di una nuova rivoluzione industriale fatta di scoperte destinate a cambiare radicalmente la vita degli uomini, come quelle delle fonti energetiche di petrolio ed elettricità.
Abbiamo visto come tra la fine del ‘700, la borghesia promuove delle rivoluzioni contro gli antichi poteri monarchici assoluti e repressivi, in nome di valori come la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza, il progresso scientifico (delle scienze “positive”) che liberasse l’uomo dalla miseria.
Quando alla fine la borghesia vince tali rivoluzioni e sale al potere, sembra smentire tutti i valori in nome dei quali aveva tanto combattuto: la libertà è negata dai suoi atteggiamenti antiparlamentari, dai suoi divieti di stampa, di associazione e dalle repressioni condotte contro chiunque si ribellasse a questo (gli operai, i contadini…); l’eguaglianza è negata dalla disuguaglianza reale tra classi imprenditoriali e capitaliste e classi subalterne, contadine o operaie, sfruttate e impoverite dalle prime e volte poi e volte poi a organizzarsi in partiti (comunista, socialista) e associazioni per ribellarsi alla borghesia dominante ed ottenere migliori condizioni di vita ; la fratellanza è negata dallo sfruttamento coloniale di alcuni paesi europei in terre lontane e dal mito della superiorità di certe razze (la razza bianca germanica, per es.) rispetto ad altre (la razza nera, ecc.); il progresso scientifico, infine, anziché liberare l’uomo dalla miseria, rende l’uomo schiavo delle macchine o produce armi per lo sterminio dei popoli: anziché produrre dei miglioramenti, produce peggioramenti su vari fronti.
Di fronte a questa crisi generale, la reazione degli intellettuali è quella di uno sbandamento e i loro atteggiamenti sono molto diversi, ora intimi e solitari, ora aggressivi e violenti:
• di un’evasione e rifiuto del presente (rifiuto della ragione tanto decantata dal progresso scientifico e dalle “scienze positive”, in nome di una razionalità più profonda, capace di cogliere la realtà anche al di là di come essa appare, oppure in nome dell’irrazionalità più totale)
• di una chiusura e isolamento nella propria soggettività (o per estraniarsi semplicemente dal mondo circostante oppure per esaltare al massimo la propria soggettività sulla mediocrità del mondo circostante, per es. attraverso esperienze forti, fuori dal comune e dalle regole oppure attraverso il culto della violenza e della guerra.)
LA POESIA E LA LETTERATURA DECADENTISTA
In poesia e in letteratura, il termine “decadentista” fu usato con valenza dapprima negativa (“maledetti” erano definiti i poeti che conducevano una vita sregolata e estraniata da tutto il mondo circostante) e poi positiva (per indicare la diversità e la superiorità di questi poeti rispetto al negativo mondo circostante).
Sono queste le caratteristiche principali della poesia e letteratura decadentista in genere:
• rifiuto, come abbiamo detto, non solo del presente, ma anche del passato, cioè rifiuto di prendere a modello per la loro poesia qualsiasi tradizione, in nome della propria originalità.
• La poesia come strumento privilegiato di conoscenza intuitiva
• Il distacco totale tra il soggetto (l’autore) e l’oggetto (la realtà esterna) da rappresentare
• Il simbolo come unico punto d’incontro fra il soggetto (l’autore) e l’oggetto (la realtà esterna) da rappresentare
• Una poesia, dunque dalla difficile comprensione e interpretazione, a volte anche priva di messaggi da trasmettere.
LA POESIA E LA LETTERATURA DECADENTISTA IN ITALIA
In Italia, il Decadentismo nasce sulla delusione che i giovani nutrono per la conclusione dei moti risorgimentali nei quali avevano tanto sperato e dopo i quali nasce un’Italia, sì finalmente libera e unita, ma tanto difficile da governare e afflitta da fenomeni negativi come la povertà meridionale.
Possiamo dire che i rappresentanti della letteratura e poesia decadentista in Italia furono Pascoli, per quanto riguarda la tendenza più intimista e solitaria e D’Annunzio, per quanto riguarda invece la tendenza più aggressiva e violenta. Ma anche Pirandello e Svevo diffusero una letteratura decadentista di enorme originalità e di più ampia risonanza europea.
GIOVANNI PASCOLI
VITA
1855: Nasce a San Mauro di Romagna
1862-71: studia in un collegio di Urbino
1867: subisce una serie di disgrazie familiari: gli muoiono il padre (forse ucciso per ragioni d’interesse), la madre, la sorella maggiore e il fratello; da allora il resto della famiglia (Pascoli e le sue due sorelle) si trasferisce a Rimini
S’iscrive a Bologna presso la Facoltà di Lettere, dove aderisce ai movimenti socialisti molto diffusi allora tra gli studenti bolognesi, ma lì fu per questo arrestato per qualche mese; l’esperienza del carcere gli procurò una forte depressione e il rifiuto totale della politica, sicché i suoi precedenti e ribelli ideali socialisti si stemperarono in più miti e generici ideali di pace, giustizia, bontà, solidarietà e gli faranno rappresentare in poesia una natura dolce, remissiva, fatta di tradizioni genuine (sul modello di quella di Virgilio nelle “Bucoliche” e “Georgiche”) e non la natura rappresentata crudamente dal verismo o la natura come era effettivamente soprattutto al Sud (e cioè fatta di miseria, di lavoro faticoso, di arretratezza, ignoranza, malattia e tasse da pagare al nuovo Stato.) Per questo la poesia di Pascoli fu accusata di essere lontana dalla realtà.
1882: si laurea e comincia la sua carriera d’insegnamento scolastico che lo portò a viaggiare per molte città d’Italia, portandosi sempre dietro le due sorelle, quanto restava del suo nucleo familiare distrutto.
1902: realizzò finalmente il suo sogno di riacquistare la casa e il podere perduti di Castelvecchio in Romagna, dove va a vivere con le sue due sorelle
1905: ottiene la cattedra di Lettere (occupata precedentemente da Carducci) presso l’Università di Bologna, finalmente un giusto risarcimento materiale e morale a tutte le disgrazie subite dalla sua famiglia fino a quel momento.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo aver stemperato i suoi giovanili ideali socialisti in più miti e generici ideali di pace, giustizia, bontà, solidarietà, accetta pienamente la politica di Giolitti e i suoi ideali di collaborazione fra le classi sociali e di un’espansione coloniale italiana che desse lavoro a tanti italiani disoccupati o costretti all’emigrazione in altri paesi; per questo accettò con entusiasmo la guerra di Libia.
1912: muore a Bologna
Come si è visto, la vita del Pascoli, a differenza di quella del Carducci e del D’Annunzio, rifugge da polemiche ideologiche o politiche, da mondanità o gesta avventurose e spettacolari, ma è soltanto scandita dai continui trasferimenti per scuole e università d’Italia, per di più solo in compagnia delle sue due sorelle (quanto restava del suo nucleo familiare distrutto) e l’unico schermo attraverso il quale Pascoli guardò il mondo femminile, amoroso e sessuale; invece, i pochi rapporti sociali che ebbe furono dovuti alla sua professione di insegnante e alla sua posizione di poeta famoso e furono comunque visti come una costrizione visto che a lui premeva soltanto la ricerca di un nido protettivo ove poter ricostruire il suo nucleo familiare andato distrutto.
I CARATTERI DELLA POESIA PASCOLIANA
• E’ spesso incentrata sugli aspetti più semplici ed elementari della vita campestre a contatto con la natura, una natura dolce, remissiva, fatta di tradizioni genuine (sul modello di quella di Virgilio nelle “Bucoliche” e “Georgiche”) e non la natura rappresentata crudamente dal verismo o la natura come era effettivamente soprattutto al Sud (e cioè fatta di miseria, di lavoro faticoso, di arretratezza, ignoranza, malattia e tasse da pagare al nuovo Stato.) Per questo la poesia di Pascoli fu accusata di essere lontana dalla realtà.
• Gli uomini presenti nella sua poesia non sono gli individui reali e concreti del verismo, ma soggetti indeterminati che si confondono con la vitalità naturale, sia animale che vegetale.
• La continua ricerca di un nido protettivo ove poter ricostruire il suo nucleo familiare andato distrutto
• E quindi il motivo nostalgico dell’infanzia, che però si lega inevitabilmente a quello della morte (confrontando il passato col presente, i ricordi d’infanzia sono anche ricordi di persone ora morte, vicine perché familiari, ma lontane perché non esistono più).
• Poiché Pascoli crebbe in un’età cosiddetta del Positivismo, dominata dalle scienze positive e dal progresso scientifico e lontana dalle astrazioni della religione, egli ebbe una concezione molto particolare del Cristianesimo: lo ridusse a un’indeterminata religione di ideali concreti come pace, giustizia, bontà, solidarietà (gli ideali socialisti di gioventù) e ne escluse aspetti molto più spirituali come l’immortalità dell’anima (Pascoli considera i propri cari morti come lontani, perché, appunto, non più esistenti).
• Coerentemente con gli aspetti concreti e quotidiani della natura reale e concreta che intende rappresentare, Pascoli usa un linguaggio fatto di termini altrettanto concreti e quotidiani, addirittura i termini tecnici della vita campestre, fino ad allora esclusi dalla tradizione poetica: nomi di animali, piante, attività agricole, piccoli arnesi, ecc. Molti oggetti vengono addirittura rappresentati attraverso i suoni che producono (la figura retorica dell’onomatopea, per es. il gre gre delle ranelle), attraverso delle analogie (associazioni tra immagini diverse) o simbolismi (l’uso di qualcosa al posto di qualcos’altro). Tuttavia, se per molti poeti di primo ‘900 il simbolismo è una tecnica letteraria ben studiata, per Pascoli è una scelta istintiva quella di usare dei simbolismi che riescano a mascherare qualcosa che si teme o che si ha paura di descrivere direttamente, per es. le contraddizioni della vita e della natura.
• Un certo realismo = una rappresentazione realistica di aspetti concreti e quotidiani della natura, ma anche l’idea che questa natura concreta e reale sia animata da forze segrete e inafferrabili, da un mistero e irrazionalità di fondo che l’uomo non potrà mai scoprire per quanto lo desideri. Per questo la poesia pascoliana esprima a volte dei desideri segreti ma irrealizzabili (sapere qualcosa che non si potrà mai sapere = il senso della vita; avere qualcosa che non si potrà mai avere = per Pascoli, per es. una donna, un amore, visto che a questo mondo femminile, amoroso e sessuale egli guardò sempre attraverso lo schermo onnipresente delle due sorelle che vissero con lui.) Tutto ciò lo avvicina a quel senso di mistero e di irrazionalità che caratterizza la poesia decadentista di primo ‘900, come si è visto.
• La funzione sociale della poesia, ovvero la convinzione che questa abbia il compito di unire gli uomini (anziché dividerli in guerre) in una serena accettazione della vita e della morte, di consolarli e di farli accontentare del poco che hanno, per es. di un nido protettivo che li protegga dai pericoli della realtà esterna
LA POETICA DEL FANCIULLINO
Pascoli non ebbe una vera e propria teoria sulla poesia; tuttavia, nel 1897 pubblicò su una rivista chiamata “Marzocco” un articolo intitolato “Il Fanciullino” (poi pubblicata nel 1903 in una raccolta di saggi e conferenze dal titolo “Miei pensieri di varia umanità”), nel quale possiamo individuare meglio la teoria pascoliana sulla poesia.
Secondo Pascoli, in ognuno di noi c’è un “fanciullino”, ossia un desiderio di tornare all’infanzia e ai valori più genuini dell’infanzia: la spontaneità, la naturalezza, l’ingenuità e la meraviglia, ciò che ci fa vedere le cose della natura, persino le più piccole o le più banali, sempre secondo un certo valore, mai senza significato o con indifferenza. Questo fanciullino e questi valori non vengono distrutti con l’età matura, ma vengono solo offuscati, nascosti; spetta alla poesia il compito di riportarli a galla.
Il motivo del fanciullino ci porta al motivo del nido protettivo che Pascoli cercò ossessivamente per tutta la vita, ove poter ricostruire il suo nucleo familiare andato distrutto o che lo proteggesse dai pericoli della realtà esterna. Giustamente la teoria del fanciullino del Pascoli fu definita come l’opposizione
-del pre-razionale (anziché dell’”irrazionale”) al razionale contemporaneo di scienze positive e progresso scientifico
-dell’intuizione e illuminazione della natura alla sua analisi oggettiva e scientifica da parte del verismo e della scienze positive, come già visto.
LE OPERE
1891-97: “Myricae”, così intitolate da un verso di Virgilio (il poeta delle “Bucoliche” e delle “Georgiche” che ispirò la poesia di vita campestre del Pascoli): “arbusta iuvant humilesque myricae”, cioè “piacciano gli arboscelli e le umili tamerici”.
1904-09: “I Poemetti” (dapprima “Primi poemetti”, poi “Nuovi Poemetti”), una raccolta poetica incentrata, per episodi successivi, sulla vita campestre di una famiglia patriarcale di un piccolo podere, scandita dalla ciclicità degli avvicendamenti stagionali e delle relative attività campestri e domestiche.
1903: “I Canti di Castelvecchio”
1904: “I Poemi conviviali” , una poesia classicista alla Carducci, incentrata su di una storia a noi così lontana come quella antica, che va dalla sete di conoscenza dell’uomo all’avvento del Cristianesimo e che è accomunata a quella presente dallo stesso problema della morte come unico fine della vita.
1906-13: “Odi e Inni”, una poesia ufficiale e celebrativa, di scarso successo per un poeta abituato a stare sempre lontano dai clamori della realtà esterna (contenente: 1911: “I Poemi italici”, 1912: “Le canzoni di re Enzio”, incentrata sulla vicenda medievale bolognese di re Enzo,figlio dell’imperatore Federico II, reso prigioniero dai bolognesi drenate la battaglia di Fossalta del 1248; 1913 “Poemi del Risorgimento”; 1911 “Inno a Roma” e “Inno a Torino” per la celebrazione del cinquantenario del Regno d’Italia.)
I CREPUSCOLARI
Si veniva delineando il “crepuscolarismo”.
Il termine “crepuscolarismo” venne coniato dallo scrittore e critico siciliano Giuseppe Antonio Borgese che, recensendo un volumetto comune di alcuni giovani poeti (Moretti, Martini, Chiaves), volle vedervi il declino della grande poesia romantica. Egli, infatti, era rimasto colpito dal clima patetico-sentimentale di quella poesia che si connetteva al filone del sentimentalismo romantico.
Ma col tempo il termine perse questo valore di opposizione alla tradizione poetica precedente e servì ad indicare in modo autonomo un clima, il modo di atteggiarsi di questi poeti di fronte alle cose.
Questa nuova poesia si mostra per vari aspetti poliedrica, instabile e in rapida evoluzione.
Nella poesia crepuscolare incidono:
• sia le esperienze nostrane (come il languido, nostalgico, convalescente ripiegamento ad idoleggiare i buoni sentimenti caratteristico del D’Annunzio del Poema Paradisiaco e certe regressioni infantili tipiche del Pascoli),
• sia i simbolisti e i poeti “provinciali” e “fiamminghi” della letteratura francese.
Tuttavia nel crepuscolarismo non mancano propositi di reazione e di rinnovamento, soprattutto dato dalla novità del linguaggio che consiste nella ricerca di un tono diverso, di una poesia non vociata e che aspira, invece, ad un andamento dimesso. Chiaramente i crepuscolari si oppongono totalmente a:
• D’Annunzio e alla sua idea superomistica;
• I classicismi.
I crepuscolari cantano la routine quotidiana, la vita paesana, noiosa ma preferibile a quella cittadina che risulta frenetica e alienante, quegli “ambienti” particolari in cui la vita si spegne lentamente, ma inesorabilmente senza traumi o scatti plateali, oppure gremiti di oggetti svariati più o meno inutili e di “pessimo gusto”, e ancora la noia dei pomeriggi domenicali, malinconiche scene di vita d’altri tempi.
Ma è soprattutto la malattia il loro punto modale, perché la malattia diventa metafora del disagio e della stanchezza di vivere, della rinuncia a vivere dopo la scoperta del nulla dell’essere nell’esistenza, del ripiegamento su se stessi, dell’incapacità di stabilire un rapporto col mondo.
L’opposizione salute/malattia, poesia/pianto diviene un’esplicita e significativa dichiarazione di una poetica antieloquente.
“Perché tu mi dici: poeta? […] Io non sono che un piccolo fanciullo che piange” (Corazzini).
“Ma cosa mi chiedi, ma cosa vuoi sapere da me, io non ho nulla da dire” (Moretti).
Nonostante tutto il crepuscolarismo può essere inserito nel decadentismo, in quanto alla base dei vari atteggiamenti di questi poeti c’è quella crisi di certezze, quel vuoto che è una delle componenti di fondo del decadentismo. La frattura fra individuo e società, l’angoscioso senso della solitudine, il ripiegamento entro il chiuso cerchio dell’io sono gli aspetti più evidenti di questa età: e nei crepuscolari sono tutti presenti.
IL CREPUSCOLARISMO E GUIDO GOZZANO
Nell’ambito della poesia decadentista si sviluppa il cosiddetto Crepuscolarismo, un termine adoperato le prime volte con valenza negativa, a indicare un gruppo di poeti contemporanei, detti appunto “crepuscolari”, cioè autori di una poesia grigia e spenta, di zone d’ombra, appunto “crepuscolare”, ispirati alla poesia delle “piccole cose” di “Myricae”del Pascoli o della Scapigliatura, un analogo movimento letterario dell’ultimo ‘800.
Il Crepuscolarismo non è un movimento letterario vero e proprio che si avvale di un gruppo ben definito di intellettuali o di una teoria poetico letteraria ben precisa, ma è piuttosto un atteggiamento di certi intellettuali (prevalentemente torinesi) verso la mutata realtà contemporanea), né di adesione né di opposizione, ma semplicemente di registrazione, ora malinconica e triste, ora insofferente, ora indifferente.
Certo con il loro atteggiamento, i crepuscolari testimoniarono la crisi di valori della mutata realtà a loro contemporanea, tuttavia senza riuscire a proporne una soluzione alternativa ben definita, ma soltanto un’ideologia del disimpegno, della marginalità, una poesia che non ha più fiducia nelle sue tradizionali edificanti funzioni, ma rimane gratuita, fine a se stessa.
Il rappresentante più significativo del Crepuscolarismo è Guido Gozzano, autore di una raccolta poetica intitolata “I Colloqui” del 1911, incentrata sul desiderio del mondo femminile, amoroso, desiderio spesso non realizzato o deluso.
Se D’Annunzio è il poeta conquistatore, pieno di donne e di amori, Gozzano (il poeta crepuscolare) è il poeta innamorato, fragile, perdente; se gli amori di D’Annunzio sono amori sublimi verso donne elevate o passionali, quelli di Gozzano (e del poeta crepuscolare) sono amori patetici verso donne mediocri e banali. L’unico strumento che Gozzano e il poeta crepuscolare ha per difendersi dalla delusione d’amore è l’ironia.
Il linguaggio è un misto di linguaggio parlato e linguaggio letterario, marginale e disimpegnato proprio come lo stato d’animo del poeta rispetto alla realtà esterna e agli oggetti che sta rappresentando.
Tra gli altri poeti crepuscolari ricordiamo Sergio Corazzini e Marino Moretti.
GABRIELE D’ANNUNZIO
VITA
1863: Nasce a Pescara
1881-91 Si iscrive a Roma alla facoltà di Lettere, senza conseguire la laurea e gettandosi nella vita mondana della capitale
1891-93: l’assalto di alcuni creditori lo spinse a trasferirsi a Napoli e poi a Francavilla
1895: compie un illuminante viaggio in Grecia
1896: comincia la sua relazione più importante: quella con l’attrice di teatro Eleonora Duse
1897: si presenta alle elezioni politiche di Ortona con un programma di destra nazionalista ed autoritario e viene eletto
1900: abbandona clamorosamente la destra e si presenta alle elezioni politiche di Firenze con un programma di sinistra, ma non fu eletto
1910-15: sempre l’assalto di alcuni creditori lo spinse a trasferirsi a Parigi gettandosi nella vita mondana della capitale francese
1910-15: proclama l’intervento dell’Italia in guerra anche con campagne giornalistiche; entrata l’Italia in guerra, si arruola compiendo audaci e spettacolari azioni belliche che gli valsero riconoscimenti pubblici
1916: ma, ferito a un occhio in un incidente aereo, passa una lunga convalescenza a Venezia senza uso della vista
1919: dopo la guerra e le trattative di pace annesse, approfittando dei riconoscimenti pubblici precedentemente ottenuti e del fascino esercitato sulle folle, divenne protagonista indiscusso del primo dopoguerra, guidando l’annessione all’Italia di Istria e Dalmazia e l’impresa legionaria di Fiume, e presiedendo lì una repubblica detta “Reggenza italiana del Carnaro” e poi fatta cadere da Giolitti nel 1920
1921-38: durante il regime fascista, nutrì profonde diffidenze verso alcuni suoi rappresentanti compreso Mussolini; in ogni caso fu tagliato fuori dagli eventi e si ritirò nella sua villa sul lago di Garda, poi detta “Vittoriale” e trasformata dopo la sua morte in un museo della sua memoria di vita e di opera, lasciata in eredità allo Stato.
1924: fu nominato principe di Montenevoso
1938: muore osannato da varie celebrazioni ufficiali
L’IDEOLOGIA
D’Annunzio partì da una critica al Positivismo contemporaneo (al trionfo delle scienze positive), ribadendo che la scienza nuda e cruda fosse incapace di rendere l’uomo grande e felice; ci voleva qualcos’altro e per questo si rese in breve tempo modello esemplare di vita e comportamenti eroici per la classe dirigente, specie durante gli anni della Roma umbertina, durante la prima guerra mondiale e durante il primo dopoguerra (mentre, come abbiamo visto, durante il regime fascista fu tagliato fuori dal corso degli eventi).
Tuttavia, secondo un atteggiamento antidemocratico, non tutti gli uomini sarebbero potuti diventare degli eroi in questo senso; i privilegiati sarebbero stati solo gli aristocratici, i borghesi e di questi si sarebbe dovuta comporre la classe dirigente (D’Annunzio diffidava delle soluzioni politiche democratiche e parlamentari, sostenendo che il popolo sarebbe stato un incapace e disordinato strumento di governo). L’uomo ideale di D’Annunzio doveva essere dunque
• aristocratico o borghese di nascita, e se da una parte disprezzava le masse popolari, dall’altra le affascinava con le sue opere, riscattandole dalla propria banale quotidianità e si teneva buono il loro consenso per propagandare se stesso e la propria opera.
• intellettuale d’eccezione, capace di comprendere a fondo i messaggi dell’arte
• e capace infine di proporre modelli di vita e comportamento eroici.
L’IMPORTANZA DELL’ARTE
Abbiamo detto come l’uomo ideale di D’Annunzio doveva essere intellettuale d’eccezione, capace di comprendere a fondo i messaggi dell’arte.
Per D’Annunzio l’arte ricopre un’importanza fondamentale, anzi è strettamente connessa e complementare alla stessa vita. Inoltre è un’arte classica perché ripropone di continuo ideali supremi di bellezza ed armonia (estetismo) contro la mediocrità e lo squallore della realtà esterna e un’arte che sa aderire alla natura circostante attraverso la sensazione fisica, epidermica, sensuale (panismo).
Tuttavia per D’Annunzio, l’arte non aveva a che fare con la soggettività privata dell’autore, ma veniva da lui continuamente pubblicizzata (resa pubblica), esibita all’esterno, questo soprattutto per affascinare la massa e tenersi buono il suo consenso per propagandare se stesso e la propria opera.
Come abbiamo visto, D’Annunzio volle trasformare la villa (“Il Vittoriale”)dove si ritirò a un certo punto a vivere, in un museo della propria memoria di vita ed opera, che alla sua morte fu addirittura lasciato in eredità allo Stato; ancora oggi vi si può accedere per vedere gli oggetti d’arte e di vita del poeta.
IL SUPEROMISMO
Abbiamo detto anche che l’uomo ideale di D’Annunzio doveva essere capace infine di proporre modelli di vita e comportamento eroici. Per questo D’Annunzio si accostò a quella corrente filosofica che in Germania fu rappresentata da Friedrich Nietsche e che fu detta Superomismo. Quali erano le caratteristiche principali di questo Superomismo?
• Una concezione aristocratico borghese del mondo e un’insofferenza o disprezzo per le masse popolari (anche se di queste era comunque importante il consenso, che aiutasse il superuomo a propagandare se stesso e la propria opera): infatti, secondo un atteggiamento antidemocratico, non tutti gli uomini sarebbero potuti diventare degli eroi in questo senso; i privilegiati sarebbero stati solo gli aristocratici, i borghesi e di questi si sarebbe dovuta comporre la classe dirigente (D’Annunzio diffidava delle soluzioni politiche democratiche e parlamentari, sostenendo che il popolo sarebbe stato un incapace e disordinato strumento di governo).
• Culto del Dominio, che il superuomo poteva esercitare su altri uomini o con l’arte e la bellezza, o con la forza e la violenza per guidarli verso un nuovo destino.
• L’idea che solo un superuomo sarebbe stato destinato a questa missione per le sue doti intellettuali (un’artista, capace di comprendere a fondo i messaggi dell’arte e dominare gli altri anche attraverso questa e i suoi ideali di suprema bellezza), sociali (la sua posizione sociale levata, aristocratica o borghese), morali (capace di dominare altri uomini anche con la forza e la violenza per guidarli verso un nuovo destino) e persino fisiche (il sangue, la stirpe, la razza, tutti fattori che l’avrebbero anche reso un valente combattente militare).
• Ricerca delle proprie tradizioni storiche nella civiltà classica, greca e romana, e in quella più recente umanistica e rinascimentale.
• Rifiuto dell’etica evangelica e cristiana della bontà, della fratellanza, della carità, dell’umiltà, della mortificazione del piacere, e anzi la proclamazione di valori opposti: la superiorità sugli altri, il potere, il dominio, il bisogno di piacere fisico, la forza, la violenza.
IL LINGUAGGIO E LO STILE
Qualsiasi contenuto trattino le opere di D’Annunzio, il linguaggio e lo stile adottati sono sempre alla ricerca di bellezza ed armonia; spesso egli usa termini o rari, o antiquati o tecnicamente artistici, che tendono sempre ad abbellire la realtà rappresentata e a nasconderne i lati negativi e le contraddizioni.
In poesia adotta infine il cosiddetto verso libero, svincolato dai modelli costituiti, per adattare più liberamente la poesia al sentimento che vuole esprimere.
LE RACCOLTE POETICHE
1879: “Primo vere”, ancora sul modello del classicismo di Carducci
1882: “Canto novo”, una poesia che sa aderire alla natura circostante attraverso la sensazione fisica, epidermica, sensuale (panismo).
1884: “Intermezzo di rime”, le prime immagini dell’eroe decadente, sfrenato nel lusso e lussuria e privo di ideali e valori da trasmettere
1886-1890: “Isaotta Guttadauro”, poi “Isotteo e la chimera”, la rappresentazione poetica della donna simile a quella classica dello stilnovo 200esco e petrarchesco 300esco
1892: “Elegie romane”: una celebrazione classicista della Roma del ‘500
1893: “Poema paradisiaco”, incentrato su apparizioni di donne eleganti e raffinate sullo sfondo di giardini misteriosi e abbandonati; un motivo “crepuscolare” questo, che ci suggerisce quasi il desiderio dell’autore di appartarsi un po’ dai clamori della vita esterna, di tornare alla bontà e innocenza e di ricordare nostalgicamente le cose passate.
1893: “Odi navali”, un’esaltazione nazionalistica della Marina Militare italiana
1903-04: “Le Laudi”: il progetto originario doveva contenere ben sette libri, ciascuno dedicato a una stella della costellazione delle Pleiadi, ma alla fine i libri realizzati furono solo cinque:
• “Maia”, introdotto da un lungo poema detto “Laus vitae”, che paragona il recente viaggio compiuto in Grecia con il viaggio di Ulisse alla scoperta e alla conquista superomistica del mondo;
• “Elettra”, è incentrato sulla commemorazione ed esaltazione di vari momenti ed eroi della storia, modelli esemplari del suo progetto di scoperta e conquista superomistica del mondo;
• “Alcyone”, è incentrato sull’intero ciclo della stagione estiva e sulla volontà di goderne il sole, il mare, insomma tutti quegli aspetti della natura, alla quale l’arte = la poesia sanno aderire attraverso le sensazioni fisiche, epidermiche, sensuali (panismo).
• “Merope”, sulla guerra con la Libia (retorica nazionalistica)
• “Asterope”, sulla prima guerra mondiale (retorica nazionalistica)
I ROMANZI E LA PROSA
1889: “Il piacere”, ambientato a Roma e in Toscana; incentrato sulle vicende sentimentali, mondane ed artistiche di Andrea Sperelli, il quale incarna l’ideale uomo, anzi superuomo di D’Annunzio in tutte le caratteristiche che abbiamo precedentemente esaminato. Tuttavia emerge in Andrea Sperelli la figura di eroe, oltre che superuomo, anche negativo e decadente, sfrenato nel lusso e lussuria e privo di ideali e valori da trasmettere, se non addirittura privo di capacità di scegliere cosa vuole veramente (per es. tra le due donne della sua vita: una, Elena Muti, sensuale e aggressiva, l’altra, Maria Ferres, sensibile ed intellettuale); insomma, un uomo incoerente e insoddisfatto.
1891: “Giovanni Episcopo” (un uomo maltrattato dalla moglie, che alla fine decide di ucciderne l’amante)
1892 “L’Innocente” (un uomo che uccide il neonato dalla relazione di sua moglie con un amante)
un desiderio di tornare alla bontà e all’innocenza, attraverso la storia triste di questi due personaggi.
1894: “Il trionfo della morte”, ancora un superuomo, ma alla fine eroe negativo e decadente come Andrea Sperelli, che si uccide.
1895: “Le vergini delle rocce”: ambientato in Abruzzo; un uomo cerca una donna dalla quale avere il figlio superuomo che ha sempre sognato; la scelta è fra tre sorelle, tutte diverse fra loro: Violante, bella ma irraggiungibile, Massimilla, fragile e già votata a farsi suora, Anatolia, forte, ma votata all’assistenza dell’anziana e malata madre.
1900: “Il fuoco”, ambientato a Venezia; ambientato a Mantova; la storia d’amore tra un artista e un’attrice di teatro, gelosa quest’ultima della più bella e giovane Donatella, la quale aveva un certo fascino sul suo amante.
1910: “Forse che si, forse che no”: la storia d’amore tra un aviere (che con il volo si pone come un moderno Ulisse, volto alla superomistica scoperta e conquista del mondo) e una donna disinibita.
UGO FOSCOLO
VITA
1778: nasce a Zante (Zacinto), isola greca dello Ionio, appartenente alla Repubblica Veneta
1784-97: a Venezia cade la Repubblica aristocratica e s’instaura la Repubblica democratica con l’appoggio dei francesi e di Napoleone; in questo periodo Foscolo sostiene ideali giacobini e rivoluzionari, tanto da dedicare a Napoleone (un Napoleone ancora giacobino e rivoluzionario e non ancora imperatore dittatore) un’ode affinché portasse la rivoluzione anche in Italia e la liberazione dallo straniero austriaco.
1797: ma con il Trattato di Campoformio Napoleone delude le speranze di Foscolo e molti patrioti, riconsegnando inaspettatamente la Repubblica di Venezia nelle mani di quegli austriaci da cui doveva invece liberarla. Per i suoi ideali di libertà, Foscolo è dagli austriaci condannato all’esilio a Milano.
1801: si arruola nel regime militare imperialistico di Napoleone con le stesse speranze di prima, ma la subordinazione dell’Italia alla forza napoleonica e la chiusura della mentalità e della cultura italiana continuano a deluderlo. In una tragedia scritta in questi anni (l’”Ajace”) già affiorano chiare allusioni antinapoleoniche; qui l’autore sostiene molto indirettamente che Napoleone in fondo era solo un tiranno come tanti, che si era servito dell’Italia, promettendole la liberazione dallo straniero austriaco attraverso la rivoluzione, per poi instaurarvi il proprio potere. Per queste affermazioni indirette, l’opera fu naturalmente censurata e condannata dagli austriaci.
1813-1815: Dopo la caduta del regime militare e imperialistico napoleonico, Foscolo è addirittura chiamato dal viceré d’Italia per promuovere l’unificazione e l’indipendenza italiana dagli austriaci ma, deluso dalle faziosità in atto e dall’autoritarismo della classe dirigente italiana, giunge persino a sperare in un ritorno degli austriaci.
1815: con il Congresso di Vienna il governo austriaco viene restaurato in Italia e con esso Foscolo deciderà di collaborare, ma al momento del giuramento di fedeltà eterna all’Austria preferisce darsi all’esilio in Svizzera e in Inghilterra.
1827: in Inghilterra muore in miseria; i suoi resti verranno trasportati nei sepolcri illustri della chiesa di Santa Croce in Firenze, accanto a quelli da lui cantati nei “Sepolcri”
IL PERSONAGGIO FOSCOLIANO
Il personaggio “Ugo Foscolo” è contraddistinto da un certo egocentrismo di fondo, dalla rivendicazione costante del valore assoluto e totalizzante della propria esperienza individuale e culturale. Per esempio, da un punto di vista amoroso egli sembrò quasi adottare un certo atteggiamento libertino, ma a differenza del libertinismo tardo illuministico, il suo si caricò di forti valori passionali e sentimentali. Le sue esperienze amorose, se da una parte sono l’esaltazione della bellezza femminile e della sua forza passionale e sentimentale, dall’altra sono governate da forze inquiete, rovinose e distruttive fino al suicidio per della loro irrealizzabilità a causa di certe convenzioni sociali.
Questo egocentrismo foscoliano rimane comunque qualcosa di artificioso e teatrale, come se ogni volta dovesse essere sottoposto all’osservazione giudizio altrui (del lettore spettatore) e si cristallizza in maschere a volte diverse ed opposte (i personaggi delle sue opere): Didimo Chierico, espressione del suo io ironico, e Jacopo Prtis, espressione del suo io inquieto.
Il fatto che i personaggi delle sue opere riflettano vari aspetti della sua personalità ci dimostra quanto stretto per Foscolo doveva essere il rapporto fra vita e letteratura, specie dal punto di vista della precarietà ed instabilità: se precaria ed instabile fu tutta la sua vita, altrettanto precaria ed instabile fu tutta la sua letteratura: fatta eccezione per alcune liriche e per i “Sepolcri”, le restanti opere non si risolsero mai in lavori compiuti e definitivi da subito, ma furono sottoposti a pazienti e ossessivi lavori di revisione e ricorrezione.
Tuttavia esistevano anche motivi solidi e costanti della precarietà ed instabilità di vita e letteratura foscoliane, punti fermi di riferimento, ideali che poi si risolsero in miti o illusioni perché, non avendo alcun fondamento oggettivo nella natura e nella realtà (anche dal Foscolo come dal Leopardi vista estranea ed ostile), rimangono piuttosto scelte soggettive di evasione e consolazione, o al massimo strumenti di cementificazione e solidarietà nel consorzio civile e sociale.
Essi furono prevalentemente ARTE, AMICIZIA, AMORE, BELLEZZA, PATRIA, SEPOLCRO.
LA CONCEZIONE DELLA POESIA
Innanzitutto la concezione foscoliana della poesia parte dal concetto di FACOLTA’: la capacità di creare nella realtà esterna le condizioni migliori per la propria conservazione, crescita, sviluppo, virtù, civiltà, razionalità e comunicazione profonda con altri simili.
Dunque, relativamente alla realtà esterna, la poesia non ha la funzione di imitare freddamente e razionalmente quest’ultima così com’è, ma di creare fantasiosamente realtà diverse da quella presente, affinché la illuminino, la riscattino e ne rivelino i significati intimi e profondi. La poesia, cioè, deve muovere dalla realtà effettiva ma deve poi trasfigurarla in qualcosa di fantastico in senso mitologico e neoclassico.
Relativamente all’uomo, invece, essa ha la funzione di mediazione sociale, cioè di rendere i miti e le illusioni dei propri ideali da scelte soggettive di evasione e consolazione prive di fondamento oggettivo nella natura e nella realtà a strumenti di cementificazione e solidarietà nel consorzio civile e sociale.
LA RIFLESSIONE SU NATURA E SOCIETA’
Già gli ideologi del ‘700 illuminista avevano riflettuto sul rapporto fra natura e società, riscontrando fra le due cose una profonda rottura che soltanto la rivoluzione sarebbe riuscita a sanare, dimostrando come la società poteva benissimo essere trasformata secondo natura, anzi che la società era una sorta di seconda natura dell’uomo. Il pensiero politico del ‘700 aveva inoltre distinto fra stato di natura (un’originaria condizione di disuguaglianza, violenza e ingiustizia per l’imposizione di rapporti di sola forza) e la società (capace, attraverso un contratto sociale –espressione di una volontà generale- di superare la disuguaglianza dello stato naturale e di instaurare condizioni d’eguaglianza, nonché pace e giustizia fra gli uomini).
Ma Foscolo, continuamente deluso nelle sue speranze di migliorare la società, ritiene pertanto inutile ogni distinzione fra natura e società e considera anzi la società come un semplice perpetuamento dell’originario stato di natura e delle sue condizioni di forza, guerra e ingiustizia; entrambe, natura come società, sono sottoposte a un ciclo meccanico e materiale di nascita, crescita e morte senza alcuna speranza di progresso (è questa un’interpretazione in negativo, in chiave pessimistica del materialismo e meccanicismo 700eschi, i quali vedevano quel ciclo naturale e sociale finalizzato alla realizzazione di un innegabile progresso).
Alla luce di queste considerazioni pessimistiche, Foscolo conclude dunque che la virtù sia solo un travestimento dignitoso della forza; la ragione abbia solo i compiti marginali di dimostrare che gli ideali sono solo miti, illusioni privi di un fondamento oggettivo nella natura e nella realtà; lo stato garantisce pace e giustizia solo attraverso la forza e la disuguaglianza; la giustizia non è un valore assoluto, ma solo un perpetuo bilanciarsi di bene e di male, di egoismo e compassione, o una forma di solidarietà fra comunità vicine; la storia è vichianamente storia delle soprafazioni umane, inflitte o subite.
Tuttavia quello di Foscolo sembra in fondo essere un percorso in progresso che da premesse negative e pessimiste sembra portare a traguardi positivi, non certo realizzabili nella realtà contemporanea, ma in una futura ideale realtà nazionale continua rispetto a quella classica e di stampo aristocratico borghese, da realizzarsi gradualmente e non con gli eccessi rivoluzionari, basata sui supremi valori civili e morali di libertà, pace e giustizia, ma anche su di una necessaria suddivisione in classi e separazione di funzioni: la classe aristocratico borghese detentrice del governo e la classe popolare detentrice dei doveri di produzione e lavoro (pena la propria sopravvivenza), tenuta a freno dal timore delle pene e dalla religione.
La riflessione di Fscolo sulla società è contenuta nelle seguenti opere:
1809: “Sull’origine e limiti della giustizia”
1809: “Scritti polemici contro i gruppi politici operanti in Italia (ad essi contrapponendo la propria sdegnosa scelta di solitudine ed esilio)
1814: “Della servitù d’Italia”
1824: “Lettera apologetica”
LE COMPONENTI DELLA FORMAZIONE CULTURALE E DILDEOLOGICA DEL FOSCOLO
ILLUMINISMO
L’ideologia illuministica influenzò i suoi giovanili ideali giacobini e rivoluzionari; il SENSISMO influenzò la sua forte capacità di sentire; il MATERIALISMO e MECCANICISMO influenzarono la sua concezione di una natura e società sottoposte ad un ciclo meccanico e materiale di nascita, crescita e morte senza alcuna speranza di progresso (è questa un’interpretazione in negativo, in chiave pessimistica del materialismo e meccanicismo 700eschi, i quali vedevano quel ciclo naturale e sociale finalizzato alla realizzazione di un innegabile progresso); il RAZIONALISMO influenzò la sua tendenza a sottoporre a vaglio critico i propri ideali per scoprire che questi erano semplicemente miti, illusioni senza alcun fondamento oggettivo nella natura e nella realtà.
NEOCLASSICISMO
Il Neoclassicismo influenzò la propria concezione della poesia, nel conferire a quest’ultima una duplice funzione.
(Relativamente alla realtà esterna, non quella di imitare freddamente e razionalmente quest’ultima così com’è, ma di creare fantasiosamente realtà diverse da quella presente, affinché la illuminino, la riscattino e ne rivelino i significati intimi e profondi. La poesia, cioè, deve muovere dalla realtà effettiva ma deve poi trasfigurarla in qualcosa di fantastico in senso mitologico e neoclassico.
(Relativamente all’uomo, invece, essa ha la funzione di mediazione sociale, cioè di rendere i miti e le illusioni dei propri ideali da scelte soggettive di evasione e consolazione prive di fondamento oggettivo nella natura e nella realtà a strumenti di cementificazione e solidarietà nel consorzio civile e sociale.
Il Neoclassicismo foscoliano fu determinato anche dalle origini classico greche della propria terra natia (l’isola greca di Zante o Zacinto), e vuole porsi come recupero della tradizione classica non in senso rivoluzionario bensì rieducativo, cioè non come strumento di critica e distruzione ma di analisi e ricomposizione della società, lungi dalle contemporanee forme di riammodernamento sociale.
Sia il Neoclassicismo di Foscolo che quello di Monti prendono spunto da situazioni circostanziate e concrete del presente contemporaneo fino ad una sua trasfigurazione in qualcosa di fantastico in senso mitologico e neoclassico, contro l’incombente ed aggressiva poetica romantica del vero.
Tuttavia il Neoclassicismo di Monti è svincolato da un’adeguata problematizzazione ideologica e da un’adeguata coscienza critica e teorica del presente contemporaneo, pur prendendo spunto dalle sue situazioni circostanziate e concrete: tale Neoclassicismo è un quadro estetico, formale ed autosufficiente rispetto a tale presente, è semplicemente un suo ricamo o decoro poetico.
Il Neoclassicismo di Foscolo, invece, pur trasfigurando in senso mitologico e neoclassico il presente contemporaneo in qualcosa di fantastico, è supportato da un’adeguata problematizzazione ideologica e da un’adeguata coscienza critica e teorica di questo; è umanizzato, storicizzato; ha precise funzioni civili, morali, eternatrici, consolatrici o civilizzatrici.
Tutto questo secondo un certo EVEMERISMO, termine che deriva da EVEMERO, storico e filosofo del 3° sec. d.C., che suggeriva di interpretare i miti alla luce dei fatti umani e sociali della storia.
PREROMANTICISMO
Sono queste le caratteristiche che invece sembrano inquadrare Foscolo in un’atmosfera più preromantica:
(La visione radicalmente negativa di uomo e società dopo la delusione delle proprie speranze ideologiche
(Rivalutazione reazionaria di nazionalismi patriottici contro l’universalismo e il cosmopolitismo illuministici ( (tanto da essere considerato un profeta del risorgimento italiano per le sue vicende di persecuzioni, di esili e di nostalgia per la patria lontana)
(Rivalutazione reazionaria di passioni e sentimenti contro il razionalismo illuministico: non più la fiducia illuministica nella ragione, ma analisi e critica lucida delle sue contraddizioni e limiti
(Per tematiche antiquarie o macabre delle sue opere, specie “I Sepolcri” (notte, morte, malattia, caducità terrena, fugacità del tempo, sepolcro).
LE OPERE
LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS
Si tratta di un romanzo epistolare.
Un romanzo epistolare è una forma di narrazione indiretta, avvenuta attraverso lettere scambiate fra due o più personaggi, o lettere di un solo personaggio che s’immaginano trovate per caso o indirizzate a qualcuno in particolare (a Lorenzo Alderani, in questo caso) oppure all’autore del romanzo epistolare; questa forma di narrazione è poi integrata dai vari interventi dell’autore stesso volti a chiarire i punti oscuri delle lettere e a creare maggiore continuità di tematica.
Se si escludono alcune imitazioni o traduzioni di romanzi epistolari stranieri, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” costituirebbero il primo modello esemplare di romanzo epistolare italiano.
Già nel 1796 Foscolo annunciava il suo progetto di romanzo epistolare, ma all’opera vera e propria lavorò a Bologna, lasciandola in sospeso per i continui interventi della censura austriaca; di questa sospensione approfittarono il Sassuoli e il Marsigli, editori che completarono l’opera e la diffusero arbitrariamente col titolo di “Laura, lettere. Vera storia di due amanti infelici” suscitando giustamente la protesta di Foscolo che, dal 1802, cominciò a lavorare alle edizioni più celebri della sua opera: di Milano, Zurigo e, nel 1817, la definitiva di Londra.
Il romanzo è incentrato sulle vicende del giovane Jacopo Ortis che, deluso dal trattato di Campoformio (col quale Napoleone delude le speranze di molti patrioti, riconsegnando inaspettatamente la Repubblica di Venezia nelle mani di quegli austriaci da cui doveva invece liberarla), è perseguitato dagli austriaci per il suo esasperato patriottismo e, costretto a rifugiarsi in Svizzera sui Coli Euganei, s’innamora qui della bella Teresa, tuttavia dal padre destinata a sposare il ricco Odoardo, pur innamorata anch’ella dell’Ortis.
Per questa delusione, l’Ortis comincia a vagare inquietamente per l’Italia: dapprima è ad Arquà, dove visita la casa del Petrarca, poi a Milano, dove incontra il vecchio Parini, infine a Ventimiglia, dove si accentua la sua visione negativa e pessimista della vita e dove comincia matura i primi propositi di suicidio. Tornato sui colli Euganei ed appresa lì la notizia del matrimonio avvenuto tra Teresa ed Odoardo, dopo un ultimo saluto all’amata, si toglie la vita con un pugnale.
Innanzitutto, l’Ortis è una delle tante maschere di schermo diverse ed opposte (i personaggi delle sue opere) in cui Foscolo cristallizza spesso il suo egocentrismo di fondo: se Didimo Chierico sarà espressione del suo io ironico, Jacopo Ortis è qui espressione del suo io inquieto.
Inoltre Jacopo Ortis è un personaggio autobiografico, in cui Foscolo trasferisce aspetti della propria vota e della propria personalità: la delusione delle proprie speranze nel trattato di Campoformio (col quale Napoleone delude le speranze di molti patrioti, riconsegnando inaspettatamente la Repubblica di Venezia nelle mani di quegli austriaci da cui doveva invece liberarla); la persecuzione austriaca per il proprio esasperato patriottismo; la costrizione a rifugiarsi in Svizzera; l’amore per Teresa Pickler, già donna del Monti, (“Teresa” anche nell’opera); il vagare inquieto per l’Italia; l’incontro col vecchio Parini; la visione negativa e pessimista della vita; i propositi di suicidio.
Infine, l’Ortis sembrerebbe un eroe alfieriano ma, a differenza di quest’ultimo è costretto a calarsi in una realtà non mitologica o classica, ma concreta e quotidiana, fatta di convenzioni sociali (per le quali non può esprimere liberamente il proprio pensiero politico o ideologico, pena la censura e la condanna, la persecuzione e l’esilio, e non può sposare Teresa, già destinata dal padre a sposare uno più ricco di lui). Inoltre, a differenza dell’eroe alfieriano, l’Ortis non è sconfitto dopo un reale scontro eroico, ma dall’impossibilità d’ogni iniziativa eroica: è sconfitto non dopo aver combattuto, ma perché gli è stato impedito di combattere.
La negatività e il pessimismo radicali della sua visione della vita sembra tuttavia bilanciata dalla positività di certi ideali, che poi si risolsero in miti o illusioni perché, non avendo alcun fondamento oggettivo nella natura e nella realtà (anche dal Foscolo come dal Leopardi vista estranea ed ostile), rimasero piuttosto scelte soggettive di evasione e consolazione, o al massimo strumenti di cementificazione e solidarietà nel consorzio civile e sociale. Tra questi ideali:
un DIO a cui non crede ma del quale sente la nostalgia,
l’AMORE per Teresa che, come del resto le esperienze amorose dell’autore stesso, se da una parte sono l’esaltazione della bellezza femminile e della sua forza passionale e sentimentale, dall’altra sono governate da forze inquiete, rovinose e distruttive fino al suicidio per della loro irrealizzabilità a causa di certe convenzioni sociali (non può sposare Teresa, già destinata dal padre a sposare uno più ricco di lui).
Il SUICIDIO, per quanto spinta rovinosa e distruttiva, è la liberazione annientatrice della propria tormentata esistenza, è la risoluzione eroica non di un qualche scontro avvenuto col mondo, ma dell’impossibilità di comunicazione con esso.
Infine, la negatività e il pessimismo radicali della sua visione della vita sembra tuttavia bilanciata anche dalla positività di Lorenzo Alderani, il destinatario delle lettere dell’Ortis, che su queste interviene per chiarirne i punti oscuri e per creare maggiore continuità di tematica.
Lorezno Alderani, sebbene condivida molti dei valori e dolori dell’Ortis (l’esilio), conserva uno sguardo molto più ironico e disincantato sul mondo; del resto il suo nome (Lorenzo) richiama quello di Lawrence Sterne, autore inglese molto caro al Foscolo per le sue suggestioni ironiche e umoristiche. Queste verranno fuori in Foscolo nel personaggio Didimo Chierico, espressione del suo io ironico.
Le suggestioni PREROMANTICHE dell’opera sono le seguenti:
(Rivalutazione reazionaria di passioni e sentimenti contro il razionalismo illuministico: non più fiducia illuministica nella ragione, ma analisi e critica lucida delle sue contraddizioni e limiti.
In più:
(Non più analisi esterna e trionfale della società, ma analisi interna e cupa dell’individuo, dei suoi desideri e aspirazioni, delusioni e lacerazioni.
(Non più attesa ottimistica e progressista di un mondo migliore, bensì il rimpianto nostalgico di un passato andato perduto per sempre
(Una nuova concezione della propria esperienza culturale, non più come strumento di mediazione sociale o divulgazione del vero e dell’utile, incisiva concretamente sulla realtà esterna, ma esperienza totalizzante ed assoluta in cui può risolversi tutto il senso della propria dimensione individuale.
(Tematiche antiquarie o macabre come notte, morte, malattia, caducità terrena, fugacità del tempo, sepolcro.
La principale suggestione LETTERARIA è invece quella de “I dolori del giovane Werther” di Goethe inquietante modello di scontro tra la propria esperienza assoluta e totalizzante e le convenzioni sociali, i modelli socio-culturali imposti, fino alla spinta rovinosa ed autodistruttiva al suicidio.
La prosa è ancora lontana da quella armoniosa ed equilibrata del neoclassicismo ed è piuttosto intensa, vigorosa, fatta di scatti improvvisi dal patetico al drammatico, sospensioni e alternanze tra domande e risposte.
LA POESIA: ODI E SONETTI
Foscolo si dedicò alla poesia sin dall’età giovanile attraverso esercitazioni di poetica ancora classicista e arcadica, poi rifiutate e rimaste inedite (1797: “Ode a Napoleone Bonaparte”; “Al sole”), ma testimonianza, sul piano formale, di una precoce padronanza di tecniche e, sul piano dei contenuti, dell’emergere i quei motivi costanti della sua vita e letteratura.
Ma i risultati più validi sul piano artistico della poesia di Foscolo furono le due odi (1799, 1802) e i 12 sonetti: 8 anteriori e 4 posteriori alle odi; il tutto edito a stampa a Pisa e a Milano nel 1803.
LE ODI
1799: “Ode a Luigia Pallavicini caduta da cavallo”, incentrata sul pericolo corso dall’amica genovese Luigia Pallavicini di rimanere sfigurata in viso e di perdere la propria bellezza in seguito ad una caduta da cavallo; affiora il motivo della caducità di valori terreni quali la bellezza.
1802: “Ode all’amica risanata”, incentrata sulla convalescenza e guarigione della sua donna, Antonietta Fagnani Arese, reduce da una malattia: ancora una volta è presente il motivo della caducità di valori terreni quali la bellezza.
Le due odi rappresentano un parziale superamento della negatività e pessimismo ortisiani verso la positività di ideali tipicamente neoclassici quali la bellezza o una poesia eternatrice di quelli, oltre la caducità dei beni terreni e l’inesorabile scorrere del tempo.
I SONETTI
I primi 8 sonetti, anteriori alle odi, risalgono agli anni dell’Ortis e delle prime esperienze di Foscolo col romanzo in generale; dunque risentono ancora di forme enfaticamente passionali e sentimentali e di contenuti tipicamente romanzeschi nonché dello sforzo di trasferirli in poesia (“Che stai? Già il secolo l’orma ultima lascia”; “Solcata ho la fronte” -sulla gloria-; “Te, nutrice alle Muse” -sul suicidio-); “Perché taccia il rumor di una catena” -sul patriottismo-; “Non so chi fui” -sull’amore-; “E tu nei carmi avrai perenne vita” -sulla malinconia-; gli ultimi 4 sonetti, posteriori alle odi, risalgono agli ani della sua visione già radicalmente negativa e pessimista della vita e dunque risentono di una massima interiorizzazione individuale, letteraria e autobiografica, ma ovviamente trasfigurata in senso mitologico e neoclassico.
Questi ultimi furono:
“Alla sera”: meditazione sul valore della sera che scende consolatrice dei mali del giorno, anche se poi trascina il pensiero a mali ulteriori come la notte, la nostalgia, la caducità dei beni terreni, l’inesorabile scorrere del tempo, la morte: dalle immagini circostanti di buio e nubi, Foscolo avvia cioè una profonda meditazione sui destini di uomo e mondo.
“Alla Musa”, meditazione sulle alte funzioni della poesia (eternatrice, consolatrice, civilizzatrice), tuttavia difficilmente praticabili nella convulsa e turbinosa realtà contemporanea.
A Zacinto”, meditazione sulla propria patria e terra natia, l’isola greca di Zante, Zacinto, abbandonata per sempre, sia attraverso le solite trasfigurazioni mitologiche e neoclassiche per la sua grecità (il motivo di Venere fecondatrice del mare ellenico), sia attraverso motivi individuali e autobiografici (nostalgia di patria e famiglia durante l’esilio).
“Un dì s’io non andrò sempre fuggendo” (o “In morte del fratello Giovanni”); dedicata al fratello Giovanni morto suicida per debiti di gioco nel 1801; dunque la meditazione sul suicidio (per quanto spinta rovinosa e distruttiva, è la liberazione annientatrice della propria tormentata esistenza) e sul sepolcro (motivo poi approfondito in maniera esemplare nei “Sepolcri”, luogo di continuità ideale fra mondo dei vivi e dei morti e in grado di ricreare la continuità della famiglia.
I SEPOLCRI
Sono un poemetto di 295 endecasillabi sciolti del 1806, indirizzati in forma di epistola a Ippolito Pindemonte, esponente della letteratura italiana neoclassica d’età napoleonica.
Stretto per Foscolo fu il rapporto fra vita e letteratura, specie dal punto di vista della precarietà ed instabilità: se precaria ed instabile fu tutta la sua vita, altrettanto precaria ed instabile fu tutta la sua letteratura; molte sue opere non si risolsero mai in lavori compiuti e definitivi da subito. A parte alcune liriche, “I sepolcri” costituiscono l’eccezione più evidente a questo in quanto furono sottoposti a pazienti e ossessivi lavori di revisione e ricorrezione.
“I sepolcri”, infatti, sono un modello esemplare di sintesi tra classico e moderno, passato e presente, mito e realtà, privato e pubblico, positivo e negativo.
Essi sono il risultato di un dibattito culturale tenuto nel 1803 tra Foscolo, Isabella Teotocchi Albrizzi e Ippolito Pindemonte, sul recente editto napoleonico di Saint Claude (poi esteso anche all’Italia), il quale imponeva la sepoltura di cadaveri in cimiteri fuori delle mura cittadine e degli abitati; imponeva inoltre lapidi ed epigrafi di eguale grandezza da fare approvare preventivamente dalla magistratura locale.
Il dibattito risentiva, oltre che delle tematiche antiquarie e macabre tipicamente preromantiche, anche dell’influenza di recenti dibattiti intorno alla funzione complessa della sepoltura e del sepolcro, che andremo ad approfondire nell’analisi dell’opera.
La prima edizione a stampa dell’opera fu quella Bettoni di Brescia del 1807, che scatenò le polemiche dell’abate Guillon, alla quale Foscolo replicava con un opuscolo intitolato “Lettera a monsignor Guilon sulla sua incompetenza a giudicare i poeti italiani”, utile anche per comprendere le caratteristiche che contraddistinsero l’opera e le intenzioni con cui Foscolo la scrisse.
Possiamo dividere il poemetto in 4 sezioni:
VV.1-90, incentrati sull’importanza della funzione del sepolcro: non solo quella morale, spirituale e religiosa, ma anche consolatrice, eternatrice e civilizzatrice dell’uomo e della società; tale ideale –come tutti gli ideali perseguiti da Foscolo- si risolse in mito o illusione perché, non avendo alcun fondamento oggettivo nella natura e nella realtà, rimase piuttosto una scelta soggettiva di evasione e consolazione, o al massimo strumento di cementificazione e solidarietà nel consorzio civile e sociale.
Come abbiamo già visto nel sonetto“Un dì s’io non andrò sempre fuggendo” (o “In morte del fratello Giovanni”), il sepolcro è per Foscolo luogo di continuità ideale fra mondo dei vivi e dei morti e in grado di ricreare la continuità della famiglia. Essi, per quanto inutili ai morti, sono utili ai vivi perché ricreano in questi gli affetti lasciati loro in eredità dai morti, ossia quella “sopravvivenza di memorie” e quella “corrispondenza d’amorosi sensi”.
Foscolo, però, ha ben presente una certa distinzione tra spiriti superiori e spiriti malvagi, sostenendo che i sepolcri di quest’ultimi non ricreino nulla di quanto detto; tuttavia, non avendo il sepolcro alcun fondamento oggettivo (scientifico) nella natura e nella realtà, la natura stessa, ciclo meccanico e materiale di distruzione, indifferente al valore del sepolcro, tende ad equiparare ogni cosa nella distruzione finale della morte e ignora la distinzione fra spiriti superiori e spiriti malvagi: ecco spiegato l’intollerabile affiancamento del sepolcro dell’illustre poeta Parini a quello di un ladro malcapitato.
VV.91-150: incentrati sulla storia del culto dei sepolcri; esso passò da alcune civiltà originarie (considerato presso queste una vera e propria virtù domestica) ai successivi popoli illustri (presso i quali nacquero i primi sepolcri illustri di eroi). Tuttavia, presso popoli corrotti e decadenti (quello italiano, ad es.), il culto del sepolcro viene visto come inutile, contaminato persino da superstizioni come quella cattolica circa la condannabile promiscuità dei sepolcri.
VV.151-212, incentrati sul rapporto fra sepolcro e popolo; in questo senso il sepolcro non ha solo la funzione morale, spirituale e religiosa consolatrice, eternatrice e civilizzatrice dell’uomo e della società, ma anche una funzione pedagogica ed educativa: specie i sepolcri illustri di eroi (per es. quelli greci della battaglia di Maratona o dopo la distruzione di Troia, o quelli nella chiesa di Santa Croce a Firenze) devono ispirare negli uomini vivi che li visitano e li raccolgono i medesimi valori e le medesime imprese nobili ed eroiche.
Paradossale come un ideale, un mito-illusione, che non ha alcun fondamento oggettivo e scientifico nella natura e nella realtà e che è per molti una scelta soggettiva di evasione e consolazione, sia poi destinato non solo a cementificare il consorzio civile e sociale, ma anche a fondare, giustificare e nobilitare la storia di uomini e società.
VV.213-295, incentrati sulla funzione civilizzatrice, consolatrice ed eternatrice della poesia: essa civilizza uomini e società, consola dai mali presenti e rende eterni valori e ricordi ispirati dai sepolcri, per es.: le imprese nobili ed eroiche di personaggi così risarciti delle ingiustizie subite in vita; in questo senso la poesia non è destinata al raziocinio, ma alla passione e al sentimento del lettore.
Non solo i contenuti, ma anche le FORME di quest’opera sono sì neoclassiche, ma ricche di implicazioni originali: ricche di inversioni, sistemi di richiami e corrispondenze simmetriche, di paradossi, antitese più altre figure retoriche d’effetto.
L’IRONIA E “LA NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO”
Didimo Chierico, insieme con Jacopo Ortis, è una delle tante maschere di schermo in cui Foscolo cristallizzava il proprio egocentrismo, diversa e opposta rispetto a quella di Jacopo Ortis, perché se quest’ultima era l’espressione del suo io inquieto, questa è invece l’espressione del suo io più ironico.
Questa via dell’ironia aveva già trovato espressione in Lorenzo Alderani, il destinatario delle lettere dell’Ortis, che su queste interviene per chiarirne i punti oscuri e per creare maggiore continuità di tematica.
Lorenzo Alderani, sebbene avesse condiviso molti dei valori e dolori dell’Ortis (l’esilio), conservava uno sguardo molto più ironico e disincantato sul mondo; del resto il suo nome (Lorenzo) richiamava quello di Lawrence Sterne, autore inglese molto caro al Foscolo per le sue suggestioni ironiche e umoristiche (le quali vengono fuori appunto nel personaggio Didimo Chierico, espressione del suo io ironico e protagonista di quest’opera).
E infatti, intorno al 1813, Foscolo si accingeva alla traduzione dell’ultima opera di Lawrence Sterne intitolata “Il viaggio sentimentale di Yorick attraverso Francia e Italia”, pensando di attribuirla a un personaggio fittizio, Didimo Chierico, chierico come Sterne e lo stesso Yorick, cioè privo di ordini sacri.
Lo Yorick del viaggio di Sterne è un viaggiatore completamente diverso da quelli della cultura illuministica tardosettecentesca, senza alcuna stabile collocazione nel mondo, ma scettico verso tutte le contraddizioni riscontrate nel mondo visitato, attraverso un linguaggio altrettanto provvisorio ed incoerente che non sempre Foscolo riesce a riprodurre nella sua originalità nella sua traduzione italiana.
Invece il Didimo Chierico del viaggio di Foscolo è altrettanto senza alcuna stabile collocazione nel mondo, ma è disposto e capace di viverne le contraddizioni, di abbandonare l’utopistica ricerca della verità assoluta per una più realistica ricerca del probabile relativo, attraverso un linguaggio ironicamente solenne e pedantesco.
Questa via dell’ironia fu tentata da Foscolo anche in altre opere quali:
1801: “Sesto tomo dell’io”, abbozzo di un romanzo autobiografico
1815: “Hypercalypsos liber singularis”, invettiva in latino contro la società letteraria della Milano napoleonica.
1811: “Lettere scritte dall’Inghilterra o Gazzettino del bel mondo”, scritta durante il soggiorno inglese, ironico confronto tra costumi aristocratici inglesi e italiani.
LE GRAZIE
“Le Grazie” sono l’opera foscoliana per eccellenza mai compiuta e definitiva da subito e anzi frutto di un continuo e paziente lavoro di revisione e ricorrezione.
Questo lavoro cominciava a Firenze nel 1812 come un insieme di manoscritti dedicati allo scultore Antonio Canova e in cui era già rintracciabile embrionalmente la divisione nei 3 inni di Venere, Vesta e Pallade.
Il lavoro proseguiva sempre a Firenze con l’aggiunta di ulteriori versi, per esempio quelli dedicati al viaggio delle api o alla storia della poesia dalle origini.
Poi proseguiva in Inghilterra ispirato da un volume artistico intitolato “Profilo, stampe e descrizioni dei marmi di Woburn Abbey, duca di Bedford”, incentrato sulla descrizione delle sculture possedute da questo duca, tra cui anche le Grazie di Antonio Canova.
Da questa ispirazione artistica il Foscolo decideva di presentare il proprio lavoro come una traduzione dei frammenti di un antico inno alle Grazie da lui attribuito al poeta alessandrino Fanocle.
La frammentarietà dell’opera rese difficile anche la sistemazione in vista editoriale, tanto che una degna edizione compare solo nel 1985 a cura di Scotti.
Il poema è incentrato sulla figura delle Grazie, divinità femminili minori, intermedie tra il cielo e la terra e che nella mitologia classica comparivano al seguito di Venere.
VENERE è il primo libro del poema, dedicato a Venere, simbolo della forza generatrice dell’universo e della bellezza e dell’amore, al seguito della quale poi compariranno le tre Grazie. Ad esse il poeta immagina di dedicare un’ara sul poggio di Bellosguardo e una storia della poesia dalle origini, ossia dal loro primo comparire sulla terra (affiorando dal mare ellenico per civilizzare gli uomini allo stato ferino) fino al loro commiato dalla madre Venere che, risalendo all’Olimpo, emana sulla terra una luce armoniosa dalla quale nasceranno le belle arti: pittura, scultura e architettura.
VESTA è il secondo libro del poema, dedicato a Vesta, simbolo del progresso, e al passaggio delle Grazie da Oriente ad Occidente, dalla Grecia all’Italia. Qui il Foscolo immagina di guidare presso l’ara delle Grazie, sul poggio di Bellosguardo, tre bellissime donne italiane, incarnazioni dei tre doni che le tre Grazie dispensarono agli uomini: la Nencini, incarnazione della musica (suona l’arpa), la Martinetti, incarnazione della poesia (reca sull’ara un favo, simbolo dell’eloquenza poetica), la Bignami, incarnazione della danza (danza intorno all’ara).
PALLADE, dedicato a Minerva, simbolo della resistenza, nell’animo degli uomini, degli ideali alla convulsa e turbinosa realtà di contraddizioni e conflittualità, e dunque simbolo delle arti consolatrici.
Poi il Foscolo immagina che le Grazie, turbate da quella realtà degli uomini, si rifugino presso il mitico continente di Atlantide, dove le dee minori tessono per loro un velo che le protegga da quella, un velo su cui sono raffigurati tutti gli ideali più nobili dell’animo umano (Amore, Patria…) e che consenta loro di ritornare presso la realtà degli uomini per diffondervi le arti belle, consolatrici e civilizzatrici.
Dunque nelle “Grazie”, Foscolo sostituisce ai giovanili ideali d’azione del periodo milanese (giacobini e rivoluzionari), ideali di pensiero del maturo periodo fiorentino (scaturiti dalla profonda delusione storica subita) come il vagheggiamento neoclassico di una realtà serena e incontaminata, d’ideali di armonia e di equilibrio tipici della civiltà classica.
Tuttavia è riduttivo considerare la poesia delle Grazie come una poesia semplicemente evasiva, consolatrice, scaturita da una profonda delusione storica, perché, nonostante le trasfigurazioni mitologiche e neoclassiche, essa è comunque chiaramente cosciente dell’enorme distanza intercorrente tra quei miti e la realtà presente e dell’impossibilità di farli rivivere in essa.
Dietro quelle trasfigurazioni mitologiche e neoclassiche, essa nasconde cioè profondi significati filosofico morali (il motivo della poesia che civilizza l’uomo allo stato ferino), e pedagogico educativi (l’ispirazione ai giovani di tutti quei nobili ideali raffigurati sul velo delle Grazie).
Quei nobili ideali non erano andati perduti per sempre, ma sopravvivevano nella realtà contemporanea solo a frammenti; ecco spiegata la frammentarietà dell’opera, presentata dall’autore come una traduzione dei frammenti di un antico inno alle Grazie da lui attribuito al poeta alessandrino Fanocle, espediente necessario a ridurre anche il peso di quei profondi significati e per evitare il rischio di cadere in un artificioso moralismo retorico che trasformasse presuntuosamente la voce del poeta in quella di un vate.
“Le Grazie”, nonostante furono scarsamente conosciute e apprezzate dalla cultura italiana ed europea 800esca, furono sicuramente l’espressione più ambiziosa e impegnativa del Neoclassicismo italiano di primo ‘800.
L’ATTIVITA’ FILOLOGICA E LE TRADUZIONI
Il Neoclassicismo foscoliano, oltre a risolversi nella suddetta concezione della poesia e nelle opere analizzate, si risolse anche in uno studio attento dei classici, filologico e critico, i cui frutti furono:
Traduzione di alcuni frammenti di Lucrezio, da cui Foscolo derivò una certa concezione materialistica e meccanicistica della natura.
1803: “Traduzione e commento alla ‘Chioma di Berenice’”,un poemetto di Callimaco andato perduto, ma conosciuto attraverso la traduzione offertane da Catullo, in cui l’autore inserirà, come nelle “Grazie” i frammenti di un antico inedito inno alle Grazie.
1804: “Esperimento di traduzione dell’’Iliade di Omero’”, (incompiuto), testimonianza della sua mai sopita predilezione (tutta neoclassica e preromantica) per Omero e per una certa poesia primitiva, originaria o nazionalpatriottica, sul modello esemplare di quella successiva dantesca.
LA RIFLESSIONE SULLA CRITICA E LA POETICA
I metodi della poesia dovranno
(Essere basati sulla retorica oratoria, l’eloquenza e la persuasione, ma sempre nel rifiuto degli schematismi esteriori della retorica tradizionale.
(Essere strettamente legati alla contestualità storico culturale vigente, nonché all’individualità soggettiva dell’autore
(Essere integrali, esprimere cioè tutte le facoltà umane
I frutti di tale riflessione sulla critica e poetica saranno:
OPERE STORICHE, dedicate ai grandi scrittori e opere letterarie del passato, quasi gettando le basi per la futura storia della letteratura italiana, lontane dagli schemi eruditi delle storie letterarie ‘700ecshe e piuttosto propense ad un certo dialogo diretto lettore – scrittore.
“Saggi sulla ‘Divina Commedia’”, modello esemplare di rapporto tra poesia e civiltà
“Saggi sul Petrarca”, modello esemplare d’analisi psicologica e introspezionistica
“Saggi sul ‘Decamerone’ di Boccaccio”
OPERE MILITANTI, ossia interventi diretti sulla letteratura contemporanea
1809: “Dell’origine e ufficio della letteratura”, in cui espone la propria concezione della poesia
1818: “Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia”
1824: “La letterata periodica italiana”, in cui sottolinea l’importanza sociale del giornalismo periodico italiano, ma critica quello contemporaneo, per es. del “Conciliatore”.
1826: “Della nuova scuola drammatica in Italia”, in cui polemizza contro l’incombente ed aggressiva poetica romantica del “vero” e del “vero storico” (dunque anche contro Manzoni e il teatro romantico), difendendo una superiore poetica di finzione dietro cui, però, mascherare il reale.

IL ROMANTICISMO
CARATTERI GENERALI
Innanzitutto l’aggettivo “romantico” deriva dal termine inglese “romance”, termine che indicava nel ‘600 il mondo fantasioso di poemi e romanzi cavallereschi e nel ‘700 il mondo affascinante del passato (specie medievale) o della natura in tutte le sue energie più vitali e forze più irrazionali.
Il Romanticismo è un movimento culturale di vasta portata (poetico, letterario, artistico, ideologico e sociale, quotidiano), difficilmente sottoponibile a limiti cronologici e temporali ben precisi: esso sembra cominciare nella prima metà dell’800 (in Italia dal 1815 in poi) per esaurire quasi ovunque la sua spinta creativa intormo alla metà del secolo e per sopravvivere soltanto come fenomeno di costume, di stile ufficiale o di strategia di consumo editoriale.
Secondo uno schema storiografico molto diffuso, il Romanticismo nascerebbe come reazione polemica e critica al razionalismo illuministico:
(Non più fiducia illuministica nella ragione, ma analisi e critica lucida delle sue contraddizioni e limiti e rivalutazione di passione e sentimento.
(Non più analisi esterna e trionfale della società, ma analisi interna e cupa dell’individuo, dei suoi desideri e aspirazioni, delusioni e lacerazioni.
(Non più attesa ottimistica e progressista di un mondo migliore, bensì il rimpianto nostalgico di un passato andato perduto per sempre
(Una nuova concezione della propria esperienza culturale, non più come strumento di mediazione sociale o divulgazione del vero e dell’utile, incisiva concretamente sulla realtà esterna, ma esperienza totalizzante ed assoluta in cui può risolversi tutto il senso della propria dimensione individuale.
(Non più esaltazione del cosmopolitismo e universalismo illuministici, ma rivalutazione della tradizione popolare e nazionalistica.
(Non più una natura come qualcosa di esterno all’uomo, da studiare oggettivamente e scientificamente, ma organismo vivente di cui l’uomo è parte integrante; non più come insieme di leggi matematiche di equilibri e rapporti, ma animata anch’essa dalle stesse passioni e sentimenti dell’uomo, anzi da energie vitali e forze irrazionali. Alla natura l’individuo si congiunge attraverso l’arte e la poesia.
Ma al di là di queste differenze tra Illuminismo e Romanticismo, esistono anche importanti punti in comune tra i due movimenti culturali:
(Tensione ad una società migliore (che dall’Illuminismo viene auspicata col calcolo razionale e dal Romanticismo viene desiderata con la passione e il sentimento).
(La ragione come fattore dalla rilevanza storica e sociale, anziché come elemento astratto, ossia un fatto della natura umana diverso ogni volta perché ogni volta diversamente rapportato alle diverse fasi dello viluppo storico e sociale.
(L’arte come suprema manifestazione di sensibilità o come supremo piacere estetico superiore a tanti altri piaceri materiali, capace di liberare dal dolore o dai sentimenti più confusi ed indistinti come il tedio e la noia e di dare un senso più pieno alla propria esistenza limitata. Attraverso questa l’individuo si ricongiunge alla natura.
(Come la letteratura illuministica era divulgazione del ero e dell’utile capace di incidere concretamente sulla realtà esterna, così una particolare tendenza della letteratura romantica (quella storico realista anziché patetico sentimentale) è incentrata sull’analisi del “vero”, specie del “vero storico”.
Proprio per questi importanti punti in comune, il Romanticismo non va interpretato, secondo quello schema storiografico diffuso, come una reazione polemica e critica al razionalismo illuminista, ma meglio ancora come un passo ulteriore, come una complicazione interna di questo.
Per questo non è altrettanto facile schematizzare le caratteristiche principali del Romanticismo, visto che molto spesso esso assumeva atteggiamenti diversi e opposti, come ad esempio a proposito dei suoi rapporti con i poteri politici costituiti: atteggiamenti ora di adesione, ora di alienazione ora di ribellione, tanto che da quest’ultimo punto di vista sarà l’ideologia di supporto del successivo processo risorgimentale di unificazione e liberazione d’Italia dal dominio straniero.
Ma possiamo affermare che in generale le caratteristiche che meglio identificarono e contraddistinsero il Romanticismo anche dai movimenti culturali precedenti e successivi furono le seguenti:
IL CULTO DELL’INDIVIDUO E DELLA GENIALITA’: abbiamo visto come il Romanticismo non è più analisi esterna e trionfale della società, ma analisi interna e cupa dell’individuo, dei suoi desideri e aspirazioni, delusioni e lacerazioni. Esso avanza una nuova concezione della propria esperienza culturale, non più come strumento di mediazione sociale o divulgazione del vero e dell’utile, incisiva concretamente sulla realtà esterna, ma come esperienza totalizzante ed assoluta in cui può risolversi tutto il senso della propria dimensione individuale.
Sorge così il mito dell’individuo genio d’eccezione, che ai perduti punti di riferimento sostituisce il culto della propria esasperata individualità e genialità d’eccezione; tuttavia tale mito assume funzioni diverse a seconda del contesto storico e socioculturale un cui compare: in un contesto storico e socioculturale già maturo in senso borghese (come quello francese), esso diventa opposizione al convenzionalismo borghese; invece, in un contesto storico e socioculturale non ancora maturo in senso borghese (come quello italiano), esso diventa spinta popolare e nazionalpatriottica, capace di stimolare bisogni e valori del popolo e tradurli in imperativi morali.
IL CULTO DEL SENTIMENTO: abbiamo visto come il Romanticismo, secondo uno schema storiografico molto diffuso, nascerebbe come reazione polemica e critica al razionalismo illuministico: non più come fiducia illuministica nella ragione, ma come analisi e critica lucida delle sue contraddizioni e limiti e rivalutazione di passione e sentimento, un sentimento che anima tanto l’individuo quanto la natura stessa di cui egli è, peraltro, parte integrante.
IL CULTO DELLA NATURA: non più una natura come qualcosa d’esterno all’uomo, da studiare oggettivamente e scientificamente, ma organismo vivente di cui l’uomo è parte integrante; non più come insieme di leggi matematiche d’equilibri e rapporti, ma animata anch’essa dalle stesse passioni e sentimenti dell’uomo, anzi da energie vitali e forze irrazionali. Alla natura l’individuo si congiunge attraverso l’arte e la poesia.
IL CULTO DI POPOLO E NAZIONE: abbiamo visto come il Romanticismo non è più esaltazione del cosmopolitismo e universalismo illuministici, ma rivalutazione della tradizione popolare e nazionalistica. Il culto del popolo è innanzi tutto culto del popolo primitivo e originario, oppure quello medievale e cristiano (tutta romantica è la rivalutazione del Medioevo) o infine quello contemporaneo dell’aristocrazia legittimista, della borghesia imprenditoriale e capitalista o il popolo lavoratore. Tuttavia questo culto si ridurrà presto a semplice folklore, culto cioè degli aspetti più esteriori e pittoreschi del popolo, o al massimo in un’adesione patetica e sentimentalista a questo, ma slegata da un’adeguata comprensione delle sue effettive condizioni. Il culto della nazione, invece, va alla ricerca delle radici storiche e culturali della nazione, in un periodo in cui quasi tutte le nazioni combattevano per la propria libertà dallo straniero, ossia per ritrovare e conservare la propria peculiare identità nazionale.
LA RELIGIONE, che desse un senso più pieno alla propria esistenza, tuttavia colta anche nei suoi legami più irrazionali e superstiziosi con la tradizione popolare.
LA TRADIZIONE, contro le contemporanee ideologie di progresso, il Romanticismo propone anche una rivalutazione quasi reazionaria di tradizioni passate (popolari e nazionaliste, per es.)che abbia una funzione evasiva, consolatrice o idealizzante.
LA CONCEZIONE DELLA STORIA. Il Romanticismo porta avanti la famosa “Querelle des ancients e des modernes”, un dibattito sul rapporto fra antico e moderno, avanzato già da molti secoli prima. Se il ‘600 barocco e il ‘700 illuminista concludevano per un’indiscutibile superiorità del moderno sull’antico (il ‘600 barocco per una maggiore ricchezza e dinamicità d’esperienza, il ‘700 illuminista per un maggiore razionalismo), il Romanticismo complica la questione e si chiude addirittura quale fra le due cose possa essere considerata come “antico” o come “moderno”. Per alcuni, la recente rivoluzione, essendo stata un positivo punto d’arrivo d’un lungo processo di evoluzione storica, era il MODERNO contro l’ANTICO del MEDIOEVO; per altri, invece, la recente rivoluzione, essendo stata una catastrofe, era paradossalmente l’ANTICO contro il MODERNO dei valori medievali.
Perché dunque la romantica rivalutazione della storia è essenzialmente rivalutazione della passata storia medievale? Perché è la fase di storia, ad avviso dei romantici, più immersa negli stessi culti della mentalità romantica: culto dell’individuo, del sentimento, di popolo e nazione, della natura, della tradizione, della religione; perché è immersa insomma negli ideali di organicità e di coscienza collettiva e perché è luogo di elaborazione per eccellenza dei moderni valori di libertà, indipendenza, nazionalismo e patriottismo.
Per questo, il Romanticismo è contraddistinto da una particolare concezione della storia, per la quale questa non è più un meccanismo immutabile fondato su una netta contrapposizione fra passato e presente, antico e moderno, arretratezza e progresso, ma è una processualità dinamica in continuo divenire, mai compiuta e definitiva, che investe ogni aspetto dell’esperienza umana e sociale ed è influenzato dai più disparati fattori.
Per questo, oltre che da una particolare concezione della storia, il Romanticismo è contraddistinto anche da un forte STORICISMO per il quale ogni esperienza storica (culturale, ideologica, artistica, poetica o letteraria, politica, economica o sociale) è sempre e comunque un prodotto particolare della storia, diverso ogni volta perché ogni volta diversamente rapportato a condizioni storiche diverse, a fasi diverse di sviluppo storico, irripetibile in futuro, quando ormai saranno definitivamente tramontate le condizioni storiche in cui era emerso e quando al massimo ci si potrà solo ispirare ad esso attraverso l’arte, la poesia o la letteratura.
Molti storici si divisero tra le due seguenti posizioni diverse ed opposte riguardo al loro presente: o una chiusura al futuro storico, considerando la presente età borghese fosse un punto d’arrivo insuperabile del lungo processo di evoluzione storica; oppure uno storicismo esasperato, per il quale la presente età borghese fosse, come ogni altra esperienza storica, sempre e comunque un prodotto particolare della storia, ma destinato a essere superato da altri ancora diversi e migliori.
Esemplare è in questo senso l’opposizione tra un Leopardi, che è consapevole delle contraddizioni della storia e le patisce attraverso il linguaggio lirico, e un Manzoni che, invece, per quanto anch’egli consapevole delle contraddizioni della storia è pronto a sanarle, sul piano ideologico, attraverso la fede cristiana e, sul piano artistico e letterario, attraverso il genere del romanzo storico.
LA POETICA ROMANTICA
Partiamo innanzi tutto dal presupposto che due furono le tendenze fondamentali della poetica romantica:
(Una PATETICO SENTIMENTALE, contraddistinta dalla passione e dai sentimenti contro il precedente razionalismo illuministico, ciò che suscita la pietà e la compassione del lettore.
(Una STORICO REALISTICA, contraddistinta dalla suddetta attenzione alla storia, dall’esigenza di una letteratura dell’utile e del vero, specie del capace di incidere concretamente sulla realtà contemporanea, e infine dalla rappresentazione realistica di realtà anche concrete e quotidiane, di classi sociali anche intermedie e popolari.
Inoltre la poetica romantica è contraddistinta dalle seguenti caratteristiche:
(Una poesia strumento di congiunzione tra individuo e natura (tra le loro rispettive passioni e sentimenti, nonché tra loro rispettive forze irrazionali e energie vitali), deve servirsi del SIMBOLO e dell’ANALOGIA per creare le corrispondenze più inedite tra gli aspetti più diversi ed opposti di individuo natura.
(un’IRONIA come consapevolezza, amara o giocosa delle contraddizioni e conflittualità di uomo e mondo, dell’irripetibilità di certi passati storici vagheggiati e idealizzati.
(Non più soltanto la rivalutazione della esclusività e ricchezza della tradizione culturale italiana, come nel precedente classicismo, ma APERTURA ALLE INFLUENZE STRANIERE
(Non più codificazione di regole come la precettistica, ovvero di modelli normativamente precostituiti, ma LIBERTÀ’ individuale, soggettiva e CREATIVA dell’autore.
(Rapporto più diretto e immediato col pubblico, un PUBBLICO COMPOSITO (vasto ed eterogeneo dal punto di vista socio culturale, anche popolare) nel senso di un’autentica comprensione delle sue condizioni, tanto da stimolarne valori e bisogni e tradurli in imperativi morali.
LE TEMATICHE E I CONTENUTI
Circa il filone storico realista:
(Tematiche e contenuti storici, tipici di una letteratura dell’utile e del vero (“vero storico”) capace di incidere concretamente sulla realtà contemporanea
(e infine la rappresentazione realistica di realtà anche concrete e quotidiane, di classi sociali anche intermedie e popolari.
Circa il filone patetico sentimentale:
(Passione e dai sentimenti che suscitino la pietà e la compassione del lettore
(Analisi psicologico introspezionistica dell’individuo
(Il negativo naturale (notte, morte, malattia, sogni, misteri, fantasmi…) e umano (aspirazioni alla felicità e lacerazioni)
(Bellezza femminile, ora concreta e quotidiana, ora eterea e angelica, strumento di congiunzione tra uomo e natura, ma spesso spinta rovinosa e distruttiva al suicidio per la sua irraggiungibilità a causa di certe convenzioni sociali
(Esperienza amorosa spesso assoluta e totalizzante dal punto di vista passionale e sentimentale, in cui risolvere tutto il senso della propria dimensione individuale, ma spesso anch’essa spinta rovinosa e distruttiva al suicidio per la sua irrealizzabilità a causa di certe convenzioni sociali.
I GENERI LETTERARI
Il Romanticismo rompe i tradizionali confini fra forme e tecniche artistiche (poesia, prosa, musica) e la tradizionale codificazione in regole dei vari generi letterari come la precettistica (o altri modelli normativamente precostituititi), sottoponendoli anzi all’unica legge della libertà’ individuale, soggettiva e creativa dell’autore e a modelli completamente diversi da quelli classici (la poesia primitiva, originaria di Dante, Omero, Shakespeare, anziché quella armoniosa ed equilibrata dei soliti classici), ma mai risolvendo il rapporto poeta e modello in rapporto di pura imitazione e riproduzione, bensì volgendosi a una rielaborazione originale.
Tuttavia questa rottura romantica della tradizionale codificazione in regole dei vari generi letterari come la precettistica non fu radicale; non si spinse, cioè, all’anarchica esplosione della parola come faranno le avanguardie futuristiche del ‘900, ma a volte si esaurì in una semplice proposta di ulteriori codificazioni in regole o precettistiche(o altri modelli normativamente precostituititi), di ulteriori modelli, lungi da una vera e propria originalità e piuttosto in linea con una certa convenzionalità.
I generi della letteratura romantica furono i seguenti:
LA LIRICA, lontana dai modelli precedenti (il petrarchismo) sia nelle forme sia nei contenuti (nonostante il persistente successo del sonetto) e piuttosto in linea con una maggiore libertà individuale, soggettiva e creativa dell’autore, in funzione, cioè, delle sue esigenze espressive (per es. la canzone libera di Leopardi, la lirica patriottica di Berchet).
LA BALLATA, componimento poetico popolare proveniente da Germania e Inghilterra; sintesi di lirica e narrativa, cioè di motivi sentimentali e romanzeschi.
LA NOVELLA IN VERSI, genere narrativo di media ampiezza che, alla materia narrativa della novellistica tradizionale, sostituisce una materia narrativa forte in senso patetico sentimentale o realistico o lugubre (le novelle di Lord Byron).
IL ROMANZO STORICO, genere narrativo incentrato su momenti storici particolari; è una perfetta fusione di vero storico e finzione narrativo-romanzesca, capace di oggettivare nei personaggi, situazioni, ambientazioni e vicende contenute, le reali contraddizioni e conflittualità della storia e di suggerirne soluzioni che neppure la realtà contemporanea era in grado di intravedere; (“I promessi sposi” di Alessandro Manzoni.)
IL ROMANZO D’APPENDICE è un romanzo pubblicato a puntate in appendice a quotidiani o settimanali, rivolto al nuovo pubblico composito, eterogeneo da un punto di vista socio culturale, anche popolare, ma soprattutto a un pubblico di compratori; dunque una letteratura di consumo e mercato editoriale, basata su strategie d’effetto come lo schema narrativo romanzesco della suspance. (“I tre moschettieri” di Dumas)
IL ROMANTICISMO IN EUROPA
IL ROMANTICISMO TEDESCO
Già nell’ultimo ‘700 certi atteggiamenti radicalmente negativi e pessimisti (d’inquietudine post rivoluzionaria, successiva cioè alla delusione per l’avvenuta rivoluzione), tipici di neoclassicismo e preromanticismo, trovarono in Germania le loro forme di comunicazione culturale più intense e violente in un movimento chiamato “Sturm und Drang” (“Tempesta e assalto”), un movimento culturale fondato da giovani scrittori tedeschi che dal 1760 intesero rivendicare il carattere più primitivo, originario, intenso e violento, vitale e anche irrazionale dell’uomo, della natura e della poesia.
Esponente dello “Sturm und Drang” tedesco fu Johann Wolfgang Goethe, autore nel 1744 de “I dolori del giovane Werther”, inquietante modello di scontro tra la propria esperienza assoluta e totalizzante e le convenzioni sociali, i modelli socio-culturali imposti, fino alla spinta rovinosa ed autodistruttiva al suicidio; l’opera sarà un modello esemplare per “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo.
Ma in Germania, il Romanticismo vero e proprio si sviluppa a partire dalla celebre polemica fra classici e romantici, lì promossa da un gruppo di giovani scrittori appoggiati dai fratelli Wilhelm e Friedrich Schlegel e dalla rivista “Athenaeum” (1798-1800), il primo gruppo di scrittori a definirsi esplicitamente “romantico” e ad elaborare una vera e propria poetica romantica.
Esponenti furono:
(Gli stessi fratelli Wilhelm e Friedrich Schlegel, per il loro anelito all’infinito, per la loro libertà dalle norme e rivendicazione della fantasia.
(Friedrich Schiller, autore nel 1795 del “Saggio sulla poesia ingenua e sentimentale”, in cui distinse tra 1) una POESIA INGENUA (quella degli antichi, nata da un certo contatto diretto e immediato con la natura, dunque una poesia oggettiva e impersonale, dai caratteri, però, precisi e definiti) e una POESIA SENTIMENTALE (quella dei moderni, nata invece da una continua contraddizione e conflittualità tra uomo, natura, storia, mondo e dunque una poesia soggettiva e personale, dai caratteri vaghi e indefiniti).
(Herder, convinto che sia il popolo stesso a dovere elaborare il proprio patrimonio culturale.
In Germania, grande attenzione fu prestata alla mediatrice culturale francese Madame De Stael, autrice del “L’Alemanne”, un trattato in cui cerca di smussare le punte più esasperatamente individualistiche del Romanticismo tedesco, gettando così un ponte di passaggio fra basi ancora illuministiche e la contemporanea età di Restaurazione e Romanticismo.
Infine la produzione letteraria romantica tedesca influenzerà anche il pensiero filosofico tedesco, in particolare l’Idealismo hegeliano come strumento interpretativo del divenire storico, il Pessimismo irrazionalistico di Schopenhauer e il Preesistenzialismo di Kierkegaard.
IL ROMANTICISMO INGLESE
Il Romanticismo prende piede in Inghilterra attraverso movimenti culturali non propriamente definibili come romantici, ma orientati chiaramente in senso già romantico: i repertori poetico-eroici i Wordsworth, Coleridge, Keats, Shelley e Lord Byron (che tuttavia preferì sempre definirsi come classico, tanto da morire mentre combatteva per la libertà della Grecia). Da sottolineare che proprio in Inghilterra nasce la sopravvalutazione del passato storico medievale e del romanzo storco come genere letterario ad esso attento.
IL ROMANTICISMO FRANCESE
Il Romanticismo prende piede in Francia inizialmente come atteggiamento conservatore e reazionario nei confronti della precedente cultura illuministica, giacobina e rivoluzionaria, nonchè napoleonica, attraverso soprattutto l’opera di Renèè de Chateaubriand, ma si delineò come movimento culturale vero e proprio attraverso l’opera dei seguenti autori:
(Madame de Stael, mediatrice culturale francese attenta soprattutto alla cultura tedesca e italiana, gettando le basi della poetica romantica e della futura polemica fra classici e romantici; tuttavia cercando di smussare le punte più esasperatamente individualistiche di certo Romanticismo europeo, gettando così un ponte di passaggio fra basi ancora illuministiche e la contemporanea età di Restaurazione e Romanticismo.
(De Vigny, de Lamartine, Victor Hugo, che da iniziali posizioni monarchiche si sposteranno verso successive posizioni repubblicane e che in letteratura sperimenteranno con fortuna il genere del romanzo storico.
(Stendhal o Balzac, portavoce di atteggiamenti culturali non propriamente definibili come romantici, ma piuttosto rappresentativi di certe contraddizioni e conflittualità dell’età contemporanea, anticipando sorprendentemente il successivo realismo storico, narrativo e romanzesco.
IL ROMANTICISMO ITALIANO
INTRODUZIONE
In età romantica l’Italia continua ad esser un paese dominato dalla sprovincializzazione, dalla frantumazione particolaristica politico territoriale e linguistico culturale, nonché da condizioni materiali e culturali di arretratezza, specie al sud.
I principali tentativi di modifica e miglioramento furono: i moti del ’20-’21, del ’30-31, le rivoluzioni del ’48-’49, la vittoria del ’59, la spedizione dei mille del ’60, la proclamazione dell’unificazione e liberazione dall’Austria del ’61; tentativi che, in alcune aree geografiche (Piemonte, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna) videro la partecipazione di gruppi sociali avanzati come aristocrazia legittimista, borghesia imprenditoriale e capitalistica, lavoratori impegnati ideologicamente, mentre al sud videro la loro puntuale emarginazione a causa di fattori quali la miseria, lo sfruttamento, il malgoverno amministrativo e la sopravvivenza di retaggi e privilegi o diritti ancora di stampo feudale.
Nonostante la limitata e ritardata partecipazione al fermento romantico europeo a causa del suo impegno al processo risorgimentale, l’Italia d’età di restaurazione e risorgimentale è un paese “romantico”, soprattutto per le suggestioni storico antiquarie di un passato glorioso, quello classico romano, ciò che la rese al centro dell’attenzione culturale europea:
(Già Napoleone vide in essa un museo d’antica civiltà e cultura imperialistica da restaurare
(Madame de Stael, nel suo “Corinne ou l’Italie” del 1806, effettua una panoramica sulle condizioni culturali ed artistiche italiane (ispirata dal suo recente viaggio in Italia), influenzando di molto la successiva poetica romantica italiana.ò
(Scrittori inglesi come Keats e Shelley, soggiornando in Italia, stringono rapporti con intellettuali italiani e, al contrario, scrittori e cospiratori italiani, soggiornando all’estero in esilio (Mazzini, Foscolo o Ruffini, autore di fortunati romanzi in lingua inglese), stringono rapporti con intellettuali inglesi.
(Scrittori francesi come Stendhal e Hugo, rifugiandosi in Italia alla caduta del regime napoleonico, oscilleranno tra un’adesione partecipe alle vicende italiane, anche vista un certa collaborazione tra i gruppi liberaldemocratici dei due paesi, e la chiara coscienza di un’enorme distanza tra le due realtà nazionali.
Tuttavia, in Italia il Romanticismo vero e proprio prende piede soltanto dopo il 1815, dopo la pubblicazione, sul 1° numero della “Biblioteca italiana” di un articolo intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, inaugurando così la celebre polemica fra classici e romantici, perché invitava gli italiani ad una letteratura romantica nel senso delle caratteristiche elencate (storico-realistica, aperta alle influenze straniere, libera da un punto di vista creativo).
A differenza di quello europeo, il Romanticismo italiano è più cauto e moderato, meno disposto ad una rottura radicale con la precedente tradizione classicista (proprio l’Italia era la sede per eccellenza dell’antica civiltà classica e romana), anzi a volte si pose addirittura in continuità con la suddetta tradizione.
Tuttavia, il Romanticismo italiano è a volte anche molto lontano dall’intensità spirituale di certo romanticismo europeo e ridotto, piuttosto, ad atteggiamenti esteriori di fenomeno di costume, di stile ufficiale o di strategia di consumo editoriale.
Esso fu etichettato spesso come un romanticismo nazionalpatriottico o popolare, liberale o religioso, nel senso del cattolicesimo come massima espressione della collettività italiana aspirante all’unificazione e alla liberazione.
Esemplare è in questo senso l’opposizione tra
(Manzoni, esponente più del filone storico realistico che patetico sentimentale che, per quanto anch’egli consapevole delle contraddizioni della storia è pronto a sanarle, sul piano ideologico, attraverso la fede cristiana e, sul piano artistico e letterario, attraverso il genere del romanzo storico.
(e Leopardi, esponente più del filone patetico sentimentale che storico realistico e che, invece, è consapevole delle contraddizioni della storia e le patisce attraverso il linguaggio lirico della tradizione classica; dunque è più vicino a certe radicali esperienza culturali europee contemporanee (pessimismo e nichilismo filosofici) che a certo riduttivo romanticismo italiano.
LA POLEMICA FRA CLASSICI E ROMANTICI
Abbiamo detto che questa (come il Romanticismo vero e proprio) prende piede soltanto dopo il 1815, dopo la pubblicazione, sul 1° numero della “Biblioteca italiana” di un articolo intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, che invitava gli italiani ad una letteratura romantica nel senso delle caratteristiche elencate (storico-realistica, aperta alle influenze straniere, libera da un punto di vista creativo).
Anche se in Italia tale polemica fu il primo modello esemplare di dibattito culturale pubblico attraverso lo strumento del giornalismo periodico, essa comunque si esauriva intorno a poche fondamentali questioni:
(l’uso di classicismi, come la mitologia, sostenuto dai classicisti e avversato dai romantici, che ad esso opponevano una chiara coscienza della superiorità dei moderni sugli antichi, del presente sul passato, dunque il “vero storico” o comunque altre tradizioni oltre a quella classica, quali quella primitiva originaria o quella medievale.
(L’apertura alle influenze straniere, sostenuta dai romantici e avversata dai classicisti, che ad essa opponevano l’autarchia di una tradizione culturale esclusiva e ricca come quella italiana.
(La codificazione in regole come le precettistiche, sostenuta da alcuni classicisti e avversata dai romantici che ad essa opponevano la libertà dell’individualità soggettiva e creativa dell’autore.
(Una letteratura divulgativa dell’utile e del vero (di mediazione sociale), sostenuta dai romantici (specie del filone storico realistico) ed estranea ai classicisti che ad essa opponevano una poetica di finzione dietro cui a volte mascherare o idealizzare il reale (dalla funzione, dunque, evasivo-idealizzante, consolatrice o di semplice decoro formale).
IL GIORNALISMO PERIODICO ITALIANO
E’ in età romantica lo strumento principale di diffusione di dibattiti pubblici di vario tipo (politico, economico sociale, poetico, letterario, artistico e culturale in genere, ideologico…) (ad es. la polemica analizzata fra classici e romantici), nonostante le minacce di censura e condanna del restaurato governo austriaco.
Esponenti di tale giornalismo periodico furono:
(1819-56. “Annali universali di statistica”, che diffuse il pensiero del Cattaneo più varie questioni di liberismo economico o riformismo capitalistico
(“La Biblioteca italiana”
(“Il Conciliatore”
(1825-33 “L’Antologia” di Firenze
“LA BIBLIOTECA ITALIANA” : Nonostante fu la rivista che pubblicò nel suo primo numero un articolo intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, che invitava gli italiani ad una letteratura romantica nel senso delle caratteristiche elencate e che dunque apriva la polemica fra classici e romantici, perseguì posizioni classiciste, forse perché finanziata dal governo austriaco come strumento di sostegno della sua cultura ufficiale.
Difatti, contro l’incombente ed aggressiva poetica romantica del “vero”, continuavano a sopravvivere posizioni classiciste, o disimpegnate (una formale difesa dell’onore italiano) o più impegnate; la forma più matura di classicismo (sostenuta anche da Leopardi) fu quella di un certo classicismo progressista, diffuso da Pietro Giordani, esponente della letteratura italiana neoclassica d’età napoleonica. Esso rivendicava:
(L’uso di classicismi, come la mitologia alla quale i romantici opponevano una chiara coscienza della superiorità dei moderni sugli antichi, del presente sul passato, dunque il “vero storico” o comunque altre tradizioni oltre a quella classica, quali quella primitiva originaria o quella medievale.
(L’autarchia di una tradizione culturale esclusiva e ricca come quella italiana alla quale i romantici opponevano l’apertura alle influenze straniere
(Tuttavia una letteratura che fosse classica nelle forme, ma moderna nei contenuti, italiana nella lingua (dunque né latineggiante né dialettale)
(Una letteratura come insieme arte dello scrivere e del persuadere, fonte dell’educazione ad una certa coscienza civile e morale, alla virtù, supportata dalla retorica e oratoria, unico strumento necessario a renderla tale.
Tra le opere del Giordani ricordiamo: 1807, “Panegirici ad Antonio Canova e a Napoleone Bonaparte”; 1810, “Lettere”;”Studi degli italiani nel sec. XVIII”; “Storia dello spirito pubblico in Italia considerato nelle vicende della lingua in 600 anni”.
Modello esemplare di tale maturo classicismo progressista fu quello di Leopardi che si risolse in una rivitalizzazione, anziché imitazione, dei classici, nel senso di una forte esperienza interiore e sentimentale, ignota tanto ai classicisti stessi (i quali spesso degeneravano in una pedissequa imitazione dei classici), quanto ai romantici (i quali lasciavano degenerare l’interiorità e il sentimento in un individualismo eroico e compiaciuto).
Tale classicismo, per quanto avverso alla romantica letteratura dell’utile, incise realmente e concretamente sulla realtà contemporanea, proponendo anzi originali forme di partecipazione, anche critiche e polemiche, ad essa.
IL CONCILIATORE
Fu per eccellenza la rivista dell’opposizione al classicismo e del Romanticismo italiano nelle caratteristiche esposte, in particolare nella posizione di un forte storicismo tipicamente romantico, per il quale ogni esperienza storica (culturale, ideologica, artistica, poetica o letteraria, politica, economica o sociale) è sempre e comunque un prodotto particolare della storia, diverso ogni volta perché ogni volta diversamente rapportato a condizioni storiche diverse, a fasi diverse di sviluppo storico, irripetibile in futuro, quando ormai saranno definitivamente tramontate le condizioni storiche in cui era emerso e quando al massimo ci si potrà solo ispirare ad esso attraverso l’arte, la poesia o la letteratura.
In più “Il Conciliatore” avanzò un’originale concezione evoluzionista della poesia e letteratura le quali, al pari di un organismo vivente, si evolvono storicamente in maniera diversa dietro l’influenza di diversi fattori.
Rappresentanti delle posizioni romantiche de “Il Conciliatore” furono:
PIETRO CORSIERI, autore nel 1816 delle “Avventure letterarie di un giorno”
LUDOVICO DI BREHME, autore nel 1816, dell’”Ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani”
GIOVANNI BERCHET, autore delle seguenti opere:
1816: “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo”, in cui immagina che tale Grisostomo voglia spiegare al figlio la nuova poetica romantica attraverso la traduzione di due ballate recenti del tedesco Burger (l’”Eleonora” e “Il cacciatore feroce”); in questa spiegazione emerge la sua particolare predilezione per il popolo, né quello dei PARIGINI (intellettuali retrogradi e classicisti), né gli OTTENTOTTI (la plebe ignorante), ma una classe sociale intermedia di leggenti e ascoltanti, capaci di aprirsi ai significati della nuova poetica romantica.
Berchet fu esponente del genere letterario romantico della lirica patriottica incentrata, in senso patetico sentimentale, su tematiche nazionalpatriottiche o popolari e domestiche (combattenti che partono lasciando mogli e figli piangenti, case vuote…), tematiche spesso ambientate nel Medioevo per evitare confronti diretti e immediati con la situazione di malcontento contro gli austriaci e dunque censure e condanne. Opere di lirica patriottica del Berchet furono:
1819: “I profughi di Parga”, in cui immagina che uno degli esuli di Parga, ceduta dagli inglesi ai turchi, tenti di uccidersi e poi inveisca contro un inglese che aveva tentato di salvarlo.
1822-24: “LE ROMANZE”, tra cui “Il Romito del Cenisio”, in cui il padre di Silvio Pellico dissuade un viaggiatore inglese dal desiderio di visitare l’Italia, esponendogli tute le sue miserie; “Il Trovatore”, in cui un trovatore, scoperto dal proprio signore la sua relazione con sua moglie, è reso esile nostalgico della propria patria e della propria amante, con evidenti trasfigurazioni allegorico simboliche: la donna è la patria, il signore è lo straniero dominatore austriaco e l’esule trovatore è il patriota italiano; 1829: “Le Fantasie”, 50 quadri o visioni (tra cui “Il giuramento di Pontida”) in cui un esule italiano contrappone alle attuali corruzioni e decadenze della sua patria le virtuose e gloriose lotte dei Comuni medievali contro l’Impero.
L’ANTOLOGIA
Nonostante la posizione classicista sembrò rimontare con Vincenzo Monti (autore nel 1825 di “Sulla mitologia”, in cui difende con vigore la poetica classica), sarà proprio l’”Antologia” a decretare la sconfitta della poetica classica (da questo momento in poi ridotta a scelte personali di singoli autori) sotto il successo di quella incombente e aggressiva dei romantici.

ALESSANDRO MANZONI
VITA
1785: nasce a Milano dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria, esponente dell’Illuminismo lombardo ed autore dell’opera “Dei delitti e delle pene”, modello esemplare di libertà e apertura intellettuale.
La sua formazione culturale si compì negli anni giovanili presso vari collegi, poi nella Milano neoclassica napoleonica e poi nelle Parigi degli Ideologues francesi fra cui Claude Fauriel.
1807: a Milano conosce e sposa la calvinista ginevrina Enrichetta Blondel, compagna, insieme alla madre Giulia, della sua profonda conversione al cattolicesimo.
1833: una serie improvvisa di lutti familiari (la madre Giulia, la figlia Giulia, la moglie Enrichetta, la seconda moglie Teresa Borri, altri suoi amici) contribuirono ai suoi frequenti stati depressivi e ansiosi, alla diminuzione della sua attività e genialità creativa e al ritiro ad una vita sempre più appartata
1873: muore a Milano, attento alle ultimi vicende risorgimentali italiani e d’unificazione.
L’IDEOLOGIA POLITICA
Possiamo scandirla in più fasi:
(Negli anni giovanili della sua formazione culturale presso vari collegi, il Manzoni aderì alla precedente cultura illuministica di ideali rivoluzionari e giacobini, influenzato anche dalla libertà e apertura intellettuale della madre Giulia e del nonno Cesare Beccaria che, come abbiamo visto, fu un esponente dell’Illuminismo lombardo ed autore dell’opera “Dei delitti e delle pene”, appunto modello esemplare di libertà e apertura intellettuale.
In questa fase scrive “Il trionfo della libertà” (1801) in cui esalta la precedente rivoluzione francese e i recenti avvenimenti come la vittoria di Napoleone a Marengo o la proclamazione della Repubblica cisalpina e, secondo lo schema dantesco montiano dei viaggi-visione, immagina di incontrare eroi antichi e recenti morti in difesa della Patria
(Ma il fallimento dei processi rivoluzionari in Italia e l’involuzione autoritaria del regime napoleonico maturarono in lui 1)il distacco dai precedenti ideali illuministi, rivoluzionari e giacobini 2)e una chiusura sdegnosa in un culto astratto della virtù di stampo neoclassico slegata completamente dalle vicende contemporanee.
In questa fase scrive:
1801: “Qual su le cinzie cime”
1802: “Adda”
1804: “Quattro sermoni”, contro l’involuzione autoritaria del regime napoleonico e contro l’adulazione e il servilismo dei francesi verso i potenti.
1805: “In morte di Carlo Maria Imbonati”, in cui, sempre secondo lo schema dantesco montiano dei viaggi visione, immagina di incontrare il defunto Carlo Maria Imbonati, amante della madre (forse per consolarla del recente lutto da lei subito) e di instaurare con lui un dialogo contro i vizi contemporanei e post-rivoluzionari di “adulazione”, “servilismo” e in favore di ideali civili e morali più sani.
1806: “Urania”: l’esaltazione foscoliana delle Grazie e delle Arti da queste simboleggiate, come consolatrici, civilizzatrici e moralizzatrici degli uomini.
(Ma da questa chiusura sdegnosa in un culto astratto della virtù slegata completamente dalle vicende contemporanee e da queste esperienze letterarie di stampo neoclassico, Manzoni pervenne ad atteggiamenti antirivoluzionari e conservatori.
In questa fase scrive i “Saggi storici e comparativi sulla Rivoluzione francese del 1789 e sulla Rivoluzione italiana del 1859” (1860-64) in cui sostiene che gli atti rivoluzionari siano legittimi dal punto di vista istituzionale soltanto quando rispettosi dei valori della sicurezza, del rispetto, della dignità e della libertà; dunque, legittimi da tale punto di vista istituzionale sono stati gli atti rivoluzionari italiani e non francesi.
(Dopo il crollo del regime napoleonico e la restaurazione in Italia del potere austriaco, egli sperò che la Chiesa, dopo aver contrastato la dominazione francese e napoleonica, contrastasse con altrettanto successo quella austriaca e dunque si rendesse nuova guida del movimento di liberazione dallo straniero e di unificazione d’Italia; ma poi l’involuzione autoritaria del regime austriaco, i caratteri negativi dell’Italia d’età di Restaurazione e lo schierarsi della Chiesa dalla parte delle stesse potenze restaurate come l’Austria, maturarono in lui una profonda delusione e una breve fase di polemica ideologica (in chiave romantica) con il gruppo romantico del “Conciliatore”. Ma, nonostante questa delusione e questa breve fase di polemica ideologica, visse con trepidazione alla rivoluzione del ’48, la guerra vittoriosa del ’59, l’annessione della Lombardia al Piemonte e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861 fino ad essere nominato senatore del nuovo Regno d’Italia e ad appoggiare in senso cattolico liberale la politica del nuovo Regno d’Italia.
LA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO
La conversione del Manzoni al cattolicesimo fu mossa dai seguenti fattori:
(Il contatto a Parigi con gli Ideologues francesi (tra cui Claude Fauriel) e con il loro bisogno di valori universali ed eterni
(alcuni eventi autobiografici cruciali come alcuni lutti improvvisi ((la madre Giulia, la figlia Giulia, la moglie Enrichetta, la seconda moglie Teresa Borri, altri suoi amici) e soprattutto il matrimonio con la calvinista ginevrina Enrichetta Blondel e il contatto con alcuni sacerdoti giansenisti ad essa legati.
Nel 1810 l’intera famiglia Manzoni si convertì al cattolicesimo, persino la madre Giulia, modello esemplare di libertà e apertura intellettuale e la moglie Enrichetta che abiurò al calvinismo.
Tuttavia il cattolicesimo manzoniano non si risolse in una passionale immersione nell’irrazionalità di certi dogmi e di certi rituali religiosi oppure in una negazione conservatrice e reazionaria delle innovazioni contemporanee, bensì in una realistica immersione sia nella tradizione e nel passato storico che nel presente contemporaneo.
L’ATTENZIONE ALLA STORIA
Manzoni fu molto attento alla storia, soprattutto alla ricerca delle radici storiche e culturali della nazione, in un periodo in cui quasi tutte le nazioni combattevano per la propria libertà dallo straniero, ossia per ritrovare e conservare la propria peculiare identità nazionale, una storia non solo attenta ai popoli forti e dominatori, ma anche a quelli deboli e dominati, attenta non solo alle vicende ufficiali (guerre, concordati, successioni) ma anche a vicende private meno note.
DALLA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO E DA QUESTA ATTENZIONE ALLA STORIA SCATURIRANNO LE OPERE PIU’ IMPORTANTI DEL MANZONI.
SAGGISTICA STORICA
Comprende opere che sono il risultato della suddetta attenzione di Manzoni alla storia.
Innanzitutto ricordiamo due opere in cui Manzoni difende la Chiesa cattolica; ricordiamo che dopo il crollo del regime napoleonico e la restaurazione in Italia del potere austriaco, Manzoni sperò che la Chiesa, dopo aver contrastato la dominazione francese e napoleonica, contrastasse con altrettanto successo quell’austriaca e dunque si rendesse nuova guida del movimento di liberazione dallo straniero e di unificazione d’Italia; ma poi l’involuzione autoritaria del regime austriaco, i caratteri negativi dell’Italia d’età di Restaurazione e lo schierarsi della Chiesa dalla parte delle stesse potenze restaurate come l’Austria, maturarono in lui una profonda delusione e una breve fase di polemica ideologica (in chiave romantica) con il gruppo romantico del “Conciliatore”. Queste due opere furono:
1818: “Osservazioni sulla morale cattolica”. Sismondo de Sismondi, nell’opera intitolata “Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo”, interpretava il Medioevo in chiave laica anziché cattolica, sostenendo cioè che nel Medioevo fossero nate le prime forme di libertà nazionalistica e che la morale della Chiesa cattolica avesse sempre scoraggiato ogni progresso e libertà e generato la corruzione e la decadenza tipiche della nostra Italia. In quest’opera, Manzoni confuta appunto le tesi sostenute dal Sismondi, dimostrando al contrario che proprio dalla morale cattolica sarebbero nate le prime forme di libertà nazionalistica e che responsabile della corruzione e della decadenza tipiche della nostra Italia sarebbe stata piuttosto una cattiva interpretazione o una trasgressione di quella morale della Chiesa cattolica.da parte di principi e politici italiani.
1824: “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia” pubblicata in appendice alla tragedia dell’Adelchi, forse per correggerne l’aspetto troppo romanzesco e immergerla in più chiaro sfondo storico, quello del passaggio (nell’8°secolo), dell’Italia dalla dominazione longobarda a quella franca. La precedente storiografia laica e giurisdizionalista di Paolo Sarpi e Ludovico Muratori aveva sostenuto che 1)nell’8° secolo, alla discesa dei Franchi in Italia, popolazioni italiche e popolazioni longobarde convivessero pacificamente 2)e che sarebbe stato il Papato a chiedere la discesa dei Franchi in Italia, provocando così un’ulteriore dominazione straniera in Italia e impedendo già da allora la formazione di uno spirito nazionale italiano unitario. In quest’opera il Manzoni confuta appunto le tesi sostenute da tale storiografia laica e giurisdizionalista di Paolo Sarpi e Ludovico Muratori, dimostrando al contrario che nell’8° secolo, 1) alla discesa dei Franchi in Italia, popolazioni italiche e popolazioni longobarde non convivessero pacificamente, ma anzi le prime sarebbero state vittime della dominazione tirannica e dispotica delle seconde; 2) e che il Papato avrebbe chiesto la discesa dei Franchi in Italia solo per liberare le popolazioni italiche da una dominazione tirannica e dispotica come quella longobarda (in linea con la sua secolare funzione di riscattare quindi l’esistenza di popolazioni deboli e dominate, misere ed oppresse); ad aver impedito già da allora la formazione di uno spirito nazionale italiano unitario, dunque, non sarebbe stato il Papato, quanto piuttosto la tendenza umana ad imporsi sugli altri uomini, popoli e stati, dunque una secolare concezione della storia come storia di sopraffazioni fra uomini, popoli e stati.
NELLA SAGGISTICA STORICA DEL MANZONI SEGUIRONO POI OPERE COME:
1842: “Storia della colonna infame”, pubblicata in appendice all’edizione del 1840 dei “Promessi sposi”, forse per correggerne l’aspetto troppo romanzesco e immergerla in più chiaro sfondo storico, quello della storia di tale colonna, eretta a Milano nel 1630 in memoria degli UNTORI, ingiustamente accusati e condannati a morte dalla superstizione degli stessi giudici per aver propagato malignamente la peste del 1630 (giudici che dunque usarono in modo distorto ed ingiusto il loro potere istituzionale).
1860-64: “Saggi storici e comparativi sulla Rivoluzione francese del 1789 e sulla Rivoluzione italiana del 1859”, in cui sostiene che gli atti rivoluzionari siano legittimi dal punto di vista istituzionale soltanto quando rispettosi dei valori della sicurezza, del rispetto, della dignità e della libertà; dunque, legittimi da tale punto di vista istituzionale sono stati gli atti rivoluzionari italiani e non francesi.
1812-15: GLI “INNI SACRI”
Sono il primo risultato –poetico- della profonda conversione del Manzoni al cattolicesimo del 1810, testimonianza intellettuale e spirituale di chi sente di aver raggiunto la verità e di chi se la sente continuamente confermata attraverso la fede.
Essi s’incentrano sulla celebrazione dei momenti fondamentali della religione cattolica, della missione del Cristo fra gli uomini, come solennità fondamentali dell’anno liturgico. Manzoni ebbe intenzione di comporre ben 12 inni sacri, quanti erano i momenti fondamentali della missione del Cristo fra gli uomini, le solennità fondamentali dell’anno liturgico, ma poi, tra il 1812 e il 1815, riuscì a comporne soltanto 5.
Tra gli “Inni sacri” compiuti:
Il “Natale”, incentrato sulla nascita del Cristo e sul fatto che egli si fosse rivelato dapprima ad umili pastori
“Il nome di Maria”, incentrato sul mistero della sua verginità e della sua generazione del Cristo, sulla sua assunzione in cielo e sul suo rappresentare la pietà fra gli uomini.
“La Passione”, incentrato sul martirio subito dal Cristo per espiare il peccato originale commesso dagli uomini.
“La Resurrezione”, incentrato sulla riconciliazione di Dio con gli uomini, sulla rivelazione agli uomini della divinità del Cristo e sulla vittoria della vita sulla morte.
“La Pentecoste”, inno sacro incompiuto nel 1817 e poi compiuto nel 1822, incentrato su:
(la discesa dello Spirito Santo fra gli apostoli, nel quinto giorno dopo la resurrezione del Cristo
(dunque sull’esaltazione di quella Chiesa cattolica che, da debole unione di pochi discepoli, diventa forte unione di predicatori e martiri di tutto il mondo.
(inoltre su una rigenerazione morale, spirituale e religiosa dell’intera umanità, attraverso un rifiuto di valori mondani e terreni e la loro sostituzione con valori universali ed eterni (libertà, uguaglianza, pace, giustizia, fratellanza).
(infine sull’invocazione allo Spirito affinché discendesse indistintamente su tutti gli uomini per il loro riscatto spirituale, ricchi e poveri, potenti e deboli, dominatori e dominati, in linea con una religiosità veramente umana e democratica. Infine è importante sottolineare un’importante differenza fra le due redazioni della “Pentecoste”, quella incompiuta del 1817 e quella compiuta del 1822: se la prima annuncia anche da un punto di vista materiale questo senso di libertà e liberazione degli oppressi, la seconda lo annuncia solo da un punto di vista spirituale, visto che è successiva al fallimento dei moti rivoluzionari del ’20-’21 contro l’Austria e deve quindi adottare maggiore cautela per evitare la condanna.
Tra gli “Inni sacri” rimasti incompiuti:
un secondo “Il Natale”, scritto per l’anniversario della morte della moglie Enrichetta Blondel, dunque segnato dalla sofferenza di questo lutto improvviso e dall’interrogare Dio sulle ragioni di tanta sofferenza degli uomini; un Dio che, mentre ascolta con dolcezza e pietà le preghiere degli uomini, poi prende delle decisioni assolutamente insondabili sul loro destino di sofferenza e di morte.
“L’Ognissanti”, incentrato sul tema della santità, specie quella dei santi più solitari e privi volutamente di ogni comunicazione col mondo.
LA POESIA CIVILE: “LE ODI”
Sono il primo risultato -poetico- della nuova attenzione del Manzoni alla storia, soprattutto alla ricerca delle radici storiche e culturali della nazione, in un periodo in cui quasi tutte le nazioni combattevano per la propria libertà dallo straniero, ossia per ritrovare e conservare la propria peculiare identità nazionale, una storia non solo attenta ai popoli forti e dominatori, ma anche a quelli deboli e dominati, attenta non solo alle vicende ufficiali (guerre, concordati, successioni) ma anche a vicende private meno note.
Durante il passaggio dell’Italia dal regime napoleonica al restaurato regime austriaco, Manzoni scrisse due canzoni civili incompiute ed inedite:
1814: “Aprile 1814”, contro l’involuzione autoritaria del regime napoleonico
1815: “Il proclama di Rimini”. Ricordiamo che dopo il crollo del regime napoleonico e la restaurazione in Italia del potere austriaco, Manzoni sperò che la Chiesa, dopo aver contrastato la dominazione francese e napoleonica, contrastasse con altrettanto successo quell’austriaca e dunque si rendesse nuova guida del movimento di liberazione dallo straniero e di unificazione d’Italia; ma poi soprattutto lo schierarsi della Chiesa dalla parte delle stesse potenze restaurate come l’Austria, maturò in lui una profonda delusione e una breve fase di polemica ideologica (in chiave romantica) con il gruppo romantico del “Conciliatore”.
In questo componimento, Manzoni risponde con entusiasmo alla proposta di Geoacchino Murat di riunire gli italiani armati sotto la sua guida, nella convinzione che almeno l’unità popolare si rendesse nuova guida del movimento di liberazione dallo straniero e di unificazione d’Italia.
Ma i risultati più alti della poesia civile del Manzoni furono:
1821: “Marzo 1821”, scritta in decasillabi durante quel clima di speranza suscitato in quell’anno dalla politica piemontese di Carlo Alberto, il quale, appoggiando i moti carbonari, aveva creato l’illusione di un’imminente liberazione della Lombardia dagli Austriaci e di una sua imminente annessione al Piemonte, varcando il Ticino.
Ma la rapida caduta di quelle speranze e il timore di essere poi coinvolto nella condanna degli Austriaci, lo indussero a non pubblicare l’ode; la pubblicazione avvenne soltanto nel 1848, quando parte delle sue speranze di liberazione dell’Italia si verificarono con la rivoluzione di quell’anno.
In quest’ode, Manzoni legittima dal punto di vista della volontà divina il diritto di insorgere contro gli oppressori stranieri e di conquistare la libertà e l’unità, come una legge comune a tutti gli individui, i popoli e gli stati.
Per questo alla fine dell’ode, Manzoni invoca gli austriaci che, con la loro dominazione in Italia, negavano alla nostra nazione quel diritto di insorgere contro gli oppressori stranieri e di conquistare la libertà e l’unità, come una legge comune a tutti gli individui, i popoli e gli stati; negavano, cioè, qualcosa che veniva legittimato dalla stessa volontà divina (diritto che peraltro gli stessi austriaci avevano invocato in precedenza contro i francesi e Napoleone).
1821: “Il 5 maggio”, scritta in settenari di getto (caso unico di tutta la produzione letteraria manzoniana, solitamente frutto di un lungo e paziente lavoro di revisione e ricorrezione), alla notizia della morte di Napoleone Bonaparte, avvenuta il 5 maggio 1821 nell’isola di Sant’Elena e da lui letta sulla “Gazzetta di Milano” qualche giorno dopo; tuttavia la cesura austriaca costrinse l’autore a non pubblicare l’ode, che invece circolò manoscritta in Italia e fuori con grande successo.
Nonostante la sua mai nascosta diffidenza e ostilità verso Napoleone, Manzoni rimase profondamente scosso alla notizia, tanto da decidere di scrivere e dedicargli di getto un’ode in cui effettua una sintesi di tutta la sua vicenda terrena, dalla gloria totale di un uomo arbitro -a cavallo dei due secoli- dei destini del mondo, alla sventura finale della sconfitta, dell’esilio, della solitudine e della morte.
Tuttavia, il vero riscatto di Napoleone non consistette nella gloria della sua vicenda terrena, ma nella finale conversione a Dio. Non è dunque Napoleone il vero protagonista dell’ode, ma Dio che, attraverso Napoleone, realizza i suoi insondabili progetti: prima gli dà gloria, poi la sventura finale; infine, attraverso la conversione, lo salva e fornisce ancora prova della sua infinita misericordia.
Questa nuova attenzione manzoniana alla storia (una storia attenta non solo a vicende di gloria ma anche di sventura) sottopone un personaggio della portata di Napoleone ad un giudizio non proprio politico o storico sull’eroe e sulla sua gloria (“Fu vera gloria” la sua? si chiede il Manzoni) quanto ad un giudizio morale sull’uomo e sulla sua sventura finale di sconfitta, esilio, solitudine e morte, ciò che lo rendeva simile a tanti altri uomini e gli permise alla fine di avvicinarsi e convertirsi a Dio.
LA TRAGEDIA
E’ il secondo risultato artistico dell’attenzione manzoniana alla storia, anzi forse il genere artistico più idoneo ad esprimere una profonda meditazione morale sulla storia.
Alla scelta della tragedia, Manzoni è guidato dalle seguenti ispirazioni:
(”Lezioni sulla letteratura drammatica “ di Schlegel, esponente del romanticismo tedesco
(dalla collaborazione con il gruppo romantico del “Conciliatore”
(dall’interesse per i nuovi drammaturghi inglesi e tedeschi come Shakespeare, Goethe, Schiller
Nella “Lettera a monsignor Chaveut sull’unità dei tempi e dei luoghi” del 1823, Manzoni elabora una personale idea di tragedia storica, contraddistinta dalle seguenti caratteristiche:
1) Il rifiuto della rigida precettistica aristotelica sull’unità dei tempi e dei luoghi (la tragedia, cioè, secondo le regole stabilite da Aristotele, doveva svolgersi in un tempo e in uno spazio unici), a favore di una maggiore libertà di movimento nello spazio e nel tempo (anche in uno stesso atto), in linea con le romantiche rivendicazioni di una maggiore libertà della creatività dell’autore (anche se comunque la tragedia del Manzoni rispetta le regole di base di quella precettistica, restando divisa in 5 atti e composta in endecasillabi sciolti; inoltre, pur in una maggiore libertà di movimento nello spazio e nel tempo, essa rappresenta un avvenimento storico in sé concluso).
2) La presenza del coro, come piccolo angolo lirico in cui l’autore richiama l’attenzione del lettore su alcuni punti ricchi di particolari significati morali.
3) L’incentrazione su di una precisa materia storica, sulla base di un’accurata ricerca di relative fonti documentative.
4) L’incentrazione non tanto sulle aspirazioni o sugli atti eroici dei personaggi, quanto sulle loro sofferenze, specie se innocenti che espiano ingiustamente colpe altrui e sono proprio per questo destinati alla sconfitta; ciò che suscitava nel lettore una maggiore identificazione sentimentale con i personaggi e le vicende della tragedia e una maggiore coscienza critica degli avvenimenti narrati, attraverso la quale distinguere meglio il bene dal male.
5) dunque una perfetta integrazione tra vero storico (l’incentrazione su di una precisa materia storica, sulla base di un’accurata ricerca di relative fonti documentative) e vero poetico (l’incentrazione sulle sofferenze dei personaggi, specie se innocenti che espiano ingiustamente colpe altrui); integrazione che può risolversi ora a vantaggio del vero storico, ora di quello poetico.
6) Il linguaggio e lo stile sostituiscono all’enfasi e alla declamazione delle tragedie tradizionali toni molto più intimi, affettivi, dolenti, sofferti, confidenziali, insomma più consoni alle sofferenze dei personaggi, specie se innocenti che espiano ingiustamente colpe altrui.
La novità delle caratteristiche che contraddistinsero la tragedia manzoniana e la difficoltà di trovarne analoghi precedenti nella storia della tragedia italiana, spiega la difficoltà di stesura delle due tragedie da parte del Manzoni.
1816-19: “Il conte di Carmagnola”
LA MATERIA STORICA: l’Italia rinascimentale della battaglia di amclodio del 1427
LE FONTI: “Storia delle repubbliche italiane del Medioevo” del Sismondi
LA VICENDA: Francesco Bussone, conte di Carmagnola, dopo aver militato gloriosamente a servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti, ne suscita l’invidia e la persecuzione; così passa a militare a servizio della Repubblica di Venezia, fino all’importante vittoria, nel 1427, nella battaglia di Maclodio contro Milano. Ma per alcune incertezze di condotta durante la battaglia e per la sua generosità verso i vinti milanesi, suoi ex compagni, viene sospettato dai magistrati veneziani di ambiguità e tradimento e processato e condannato a morte.
Sempre sulla base di un’accurata ricerca di fonti documentative relative alla vicenda del Carmagnola, Manzoni accetta la tesi della sua innocenza (poi smentita dalla storiografia successiva), rendendolo anzi modello esemplare di eroe virtuoso, ma sfortunato a causa di una spietata politica di ragion di stato rappresentata dagli spietati magistrati veneziani suoi accusatori.
Come già ne “Il 5 maggio”, questa nuova attenzione manzoniana alla storia (una storia attenta non solo a vicende di gloria ma anche di sventura) sottopone il personaggio protagonista ad un giudizio non proprio politico o storico sull’eroe e sulla sua gloria quanto ad un giudizio morale sull’uomo e sulla sua sventura finale delle accuse subite, del processo, della solitudine del carcere e dell’ingiusta condanna a morte; insomma il Carmagnola colto nei suoi commoventi colloqui con la moglie e le figlia o nei soliloqui in cui perdona i suoi spietati accusatori, in cui riconosce la vanità delle ambizioni terrene e la morte come una forza liberatrice dal male terreno per un nuovo bene ultraterreno: sono questi momenti drammatici e tragici i più significativi della tragedia.
IL CORO, collocato al termine del terzo atto e intitolato “S’ode a destra uno squillo di tromba” si riferisce alla battaglia di Maclodio, combattuta nel 1427 tra Milano e Venezia e vinta da Venezia, (in cui militò anche il conte di Carmagnola) e giudicata dall’autore secondo un punto di vista (cristiano e nazionalista) opposto a quello dei personaggi protagonisti: la guerra civile fra città di una stessa nazione è una guerra irrazionale fra italiani che dovrebbero essere fratelli e invece sono schiavi di ambizioni terrene e di una spietata politica di ragion di stato, mentre lo straniero ne approfittava e si preparava ad invadere e dominare l’Italia.
1820-22: l’”Adelchi”
LA MATERIA STORICA: il passaggio, (nell’8°secolo), dell’Italia dalla dominazione longobarda a quella franca.
LE FONTI: cronache e dissertazioni varie di storia medievale, una storia nello studio della quale si cimenterà molto il Manzoni anche nel suo “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia” pubblicata in appendice alla tragedia dell’Adelchi, forse per correggerne l’aspetto troppo romanzesco e immergerla in più chiaro sfondo storico, quello appunto del passaggio (nell’8°secolo), dell’Italia dalla dominazione longobarda a quella franca.
LA VICENDA:
1° ATTO: nel 774 Ermengarda, figlia di Desiderio re dei Longobardi e sorella di Adelchi, torna tristemente alla corte paterna di Pavia, dopo essere stata ripudiata dal marito Carlo, re dei Franchi.
Nonostante il figlio Adelchi invano tenti di dissuaderlo, Desiderio, in preda all’ira e al desiderio di vendicare la figlia Ermengarda, medita un’azione di guerra indiretta contro i Franchi, cioè contro la Chiesa, alleata dei Franchi: così comincia a sottrarre alla Chiesa alcuni territori. Carlo, re dei Franchi interviene in favore della Chiesa, intimando i Longobardi di restituire alla Chiesa i territori sottratti; al rifiuto dei longobardi, scoppia la guerra tra Longobardi e Franchi.
2° ATTO: nonostante dissentisse dalla spietata politica paterna, Adelchi assume il comando dell’esercito longobardo che con successo riesce a sbarrare la strada all’esercito franco nelle impenetrabili chiuse della Val di Susa. pertanto Carlo sta per rinunciare all’impresa, quando gli appare all’improvviso Martino, un diacono di Ravenna che, ispirato da Dio, gli indica un sentiero ignoto attraverso le Alpi che gli avrebbe consentito di aggirare quelle impenetrabili chiuse della Val di Susa sbarrate dall’esercito longobardo.
3° ATTO: dopo un’effimera illusione di vittoria, i longobardi sono costretti a scontrarsi a sorpresa coi franchi che sbucano improvvisamente dall’ignoto sentiero indicato a Carlo da Martino e vengono sconfitti. Desiderio si rifugia a Pavia, sede della corte longobarda e Adelchi a Verona.
4° ATTO: in seguito alla sconfitta dei longobardi, anche Ermengarda si rifugia presso il monastero di San Salvatore a Brescia, dove ripensa nostalgicamente al padre Desiderio e al fratello Adelchi in fuga e al marito Carlo al quale perdona il ripudio subito, confessando di esserne ancora innamorata. Così delirante e sofferente, morirà.
5° ATTO: conquistata la città di Pavia, sede della corte longobarda, Carlo fa prigioniero Desiderio che lì si era rifugiato e invade la città di Verona dove invece si era rifugiato Adelchi; Desiderio prega Carlo di essere clemente con suo figlio Adelchi, estraneo alla sua spietata politica e alle sue colpe; ma presto gli giunge la notizia che il giovane è stato mortalmente ferito. Adelchi giunge così in fin di vita dinanzi al padre e gli pronuncia il suo sconsolato messaggio: “Non c’è posto sulla terra per chi voglia operare per un fine giusto ed innocente”; “Si può essere soltanto oppressori od oppressi”.
I PERSONAGGI
I personaggi più strettamente politici (Carlo, Desiderio e i loro rispettivi uomini) vengono individuati nella loro potenziale umanità, tuttavia brutalmente spenta dalla loro spietata politica e dalla ragion di stato; in particolare, i franchi e Carlo, pur perpetuando con la loro vittoria la secolare sottomissione delle popolazioni italiche allo straniero, rappresentano comunque un certo spregiudicato e vincente realismo politico.
Ermengarda e Adelchi estranei alla spietata politica e alle colpe paterne, personaggi innocenti che espiano ingiustamente colpe altrui e proprio per questo destinati alla sconfitta. La loro morte non è una risoluzione vincente del loro conflitto col mondo (come per gli eroi alfieriani) ma è anzi una forza liberatrice dal male terreno per un nuovo bene ultraterreno, una morte cristiana nella fede e nel pentimento.
IL CORO, collocato alla fine del terzo atto e intitolato “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti” è un’invocazione al popolo italico a risvegliarsi dalla sua condizione di “vulgo disperso” in secolare stato di sottomissione allo straniero, senza più alcuna identità nazionale.
Triste non fu solo il destino del popolo italico, ma anche del popolo longobardo che, dopo aver dominato su altri (gli italici), negando loro il diritto di insorgere contro gli oppressori stranieri e di conquistare la libertà e l’unità, (come una legge comune a tutti gli individui, i popoli e gli stati, per di più legittimata dalla volontà divina), alla fine vengono a loro volta sconfitti (dai franchi) e viene loro negato quel diritto e quella legge.
Il messaggio di fondo della tragedia è dunque questo contrasto eterno tra valori universali ed eterni come la pace, la giustizia, la fratellanza, la libertà (rappresentati da Ermengarda e Adechi) e la spietata politica della ragion di stato (rappresentata da Desiderio e Carlo).
Sappiamo inoltre come nel “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica” del 1824 (pubblicata in appendice alla tragedia dell’Adelchi, forse per correggerne l’aspetto troppo romanzesco e immergerla in più chiaro sfondo storico, quello del passaggio (nell’8°secolo), dell’Italia dalla dominazione longobarda a quella franca), Manzoni confutò le tesi sostenute dalla storiografia laica e giurisdizionalista di Paolo Sarpi e Ludovico Muratori: se queste sostennero che 1)nell’8° secolo, alla discesa dei Franchi in Italia, popolazioni italiche e popolazioni longobarde convivessero pacificamente 2)e che sarebbe stato il Papato a chiedere la discesa dei Franchi in Italia, provocando così un’ulteriore dominazione straniera in Italia e impedendo già da allora la formazione di uno spirito nazionale italiano unitario, Manzoni dimostrò al contrario che nell’8° secolo, 1) alla discesa dei Franchi in Italia, popolazioni italiche e popolazioni longobarde non convivessero pacificamente, ma anzi le prime sarebbero state vittime della dominazione tirannica e dispotica delle seconde; 2) e che il Papato avrebbe chiesto la discesa dei Franchi in Italia solo per liberare le popolazioni italiche da una dominazione tirannica e dispotica come quella longobarda (in linea con la sua secolare funzione di riscattare quindi l’esistenza di popolazioni deboli e dominate, misere ed oppresse); ad aver impedito già da allora la formazione di uno spirito nazionale italiano unitario, dunque, non sarebbe stato il Papato, quanto piuttosto la tendenza umana ad imporsi sugli altri uomini, popoli e stati, dunque una secolare concezione della storia come storia di sopraffazioni fra uomini, popoli e stati.
Ma la tragedia vuole anche suggerire indirettamente dei confronti storici: il passaggio, (nell’8°secolo), dell’Italia dalla dominazione longobarda a quella franca può indirettamente confrontarsi storicamente con il contemporaneo passaggio del popolo italiano dalla dominazione francese e napoleonica a quella austriaca della Restaurazione; e nel coro “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti” l’invocazione al popolo italico può indirettamente confrontarsi storicamente con un’ideale invocazione al contemporaneo popolo italiano a risvegliarsi dalla sua condizione di “vulgo disperso” in secolare stato di sottomissione allo straniero, senza più alcuna identità nazionale.
IL ROMANZO STORICO E “I PROMESSI SPOSI”
Alla scelta del romanzo storico, genere letterario romantico per eccellenza, il Manzoni fu spinto dai seguenti fattori:
(Suggestioni letterarie come l’”Ivanhoe” di Walter Schott
(L’esigenza di una letteratura di più ampio respiro, incentrata sulla rappresentazione realistica di realtà umane e sociali mutevoli e multiformi, articolate in varie sfaccettature, destinata a un pubblico vasto ed eterogeneo, nazionalpopolare e patriottico, dunque di consumo editoriale; tutti requisiti che i precedenti generi letterari adottati (saggistica storica, inni sacri, poesia civile, tragedia) non avrebbero potuto garantire.
LA STORIA EDITORIALE:
1821: Manzoni comincia a lavorare al suo progetto di romanzo storico; scrive l’introduzione e i primi due capitoli, per poi interromperlo momentaneamente per la stesura dell’”Adelchi”
1823: lo riprende e ne viene fuori un manoscritto diviso in 4 tomi intitolato “Fermo e Lucia”
1827: prima edizione del romanzo, detta ventisettana, a cura di Vincenzo Ferrario, intitolata “Sposi promessi; storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni”
1827-40: rielaborazione linguistica di questa prima edizione nel senso dei suoi interventi decisivi di allora sulla questione della lingua, ovvero nel senso del suo toscano lombardizzato.
1840: seconda definitiva edizione del romanzo, detta quarantana, a cura di Guglielmini e Radaelli, intitolata “Promessi sposi; storia milanese del sec. XVII”, con pubblicata in appendice la “Storia della colonna infame” del 1842 (opera di saggistica storica incentrata sul processo agli untori), anche per correggerne l’aspetto troppo romanzesco e immergerla in più chiaro sfondo storico.
LE EDIZIONI VENTISETTANA E QUARANTANA
Le due edizioni ventisettana e quarantana (del ’27 e del ’40) furono così diverse tra di loro da sembrare ai critici come due opere completamente diverse: sperimentale la prima, sistemata la seconda.
Queste furono le principali differenze:
(La prima divisa in 4 tomi, la seconda in 38 capitoli
(Nella prima prevale l’elemento saggistico storico, nella seconda quello più narrativo romanzesco
(Nella prima i personaggi sono sbrigativamente classificati in buoni e cattivi, ricchi e poveri, deboli e potenti, dominatori e dominati; nella seconda i personaggi sono sottoposti a una rielaborazione psicologico introspettiva molto più approfondita; nella prima sono delineati in modo schematico, nella seconda sono più individualmente caratterizzati.
(Nella prima vige un moralismo molto severo e fermo a una radicale separazione tra bene e male, nella seconda vige un moralismo molto più aperto all’ironia e a sguardi più omnicomprensivi sulla realtà
(Nella prima vige un Dio severo giudice e punitore, nella seconda un Dio più premuroso e misericordioso
(Nella prima vige un linguaggio composito, eterogeneo (toscano, lombardo, francese, spagnolo, latineggiante); la seconda è sottoposta a una rielaborazione linguistica nel senso dei suoi interventi decisivi di allora sulla questione della lingua, ovvero nel senso del suo toscano lombardizato.
L’AMBIENTAZIONE STORICA E GEOGRAFICA
Innanzitutto il romanzo è presentato attraverso il diffuso espediente letterario del ritrovamento: l’autore finge di aver trovato un manoscritto del ‘6oo, finge di trascriverne la parte iniziale e poi prosegue più o meno autonomamente.
Sulla base di un’accurata ricerca di relative fonti documentative (l’”Historia patria” di Giuseppe Ripamonti), il romanzo è ambientato nella Milano del ‘600, precisamente nella campagna milanese fra il 1628-30: gli anni del malgoverno spagnolo in Italia, della guerra dei 100 anni, della peste. Tale ambientazione storica era lontana sia da quella medievale tanto cara ai romantici, sia da quella contemporanea e permise così all’autore di oscillare tra passato e presente, tra estraneità ad essa e possibilità di confronti impliciti (per es. il malgoverno spagnolo di allora e il malgoverno austriaco di oggi), tra oggettività storica e finzione narrativa, tra punti di vista propri e personali e punti di vista fittizi dell’autore di cui immagina aver ritrovato il manoscritto.
LA STRUTTURA NARRATIVA E GLI SCHEMI NARRATIVI ROMANZESCHI
Abbiamo visto come il romanzo è incentrato sulla rappresentazione realistica di realtà umane e sociali mutevoli e multiformi, articolate in varie sfaccettature:
(REALTA’ UMANE di bontà o cattiveria, avidità o coraggio, prepotenza o umiltà, fede, religiosità ipocrita o ateismo.
(REALTA’ SOCIALI di umili i popolari o nobiltà feudale, di campagnoli e di cittadini, il bigotto mondo clericale e religioso o i dotti pedanti che usano cultura e religione solo per conservare certe gerarchie sociali e i propri privilegi.
(REALTA’ STORICHE ufficiali (il malgoverno spagnolo, la guerra dei 100 anni, la peste) e marginali, quotidiane, meno note (il mancato matrimonio di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella)
(Insomma FORZE di bene e di male, che sostengono o ostacolano la vicenda centrale del matrimonio tra Renzo e Lucia.
La struttura narrativa è basata sui seguenti tradizionali schemi narrativi romanzeschi:
AMORE E PERIPEZIA: due giovani che vedono ostacolato il loro matrimonio da forze nemiche, tanto da poter distinguere nel romanzo forze di bene e di male, che sostengono o ostacolano la vicenda centrale del matrimonio tra Renzo e Lucia. Tuttavia questo schema dell’amore peripezia è depurato di ogni risvolto eroico, avventuroso, fantastico o erotico, ed è anzi inserito in un più saldo sistema di valori civili e morali.
IL LIETO FINE: a metà del suo corso, il romanzo sembra pervenire alla sua svolta più negativa ( si registrano vicende destabilizzanti come l’impedimento del matrimonio, la fuga di Renzo, il rapimento di Lucia, l’allontanamento di fra Cristoforo, l’unico che poteva aiutare i due giovani). Ma ecco improvvisamente il lieto fine (si registrano vicende riequilibratici come l’ingresso in scena del cardinale Federigo Borromeo, la conversione dell’Innominato che aveva rapito Lucia, e persino la peste: questa permette a Renzo di tornare nella sua Milano contagiata, dove viene scambiato per untore, riuscendo poi a salvarsi saltando su un carretto di cadaveri; poi finisce in un lazzaretto dove finalmente rincontra Lucia, perdona con lei il loro nemico don Rodrigo ormai in fin di vita; infine ritrovano fra Cristoforo che finalmente scioglie il voto di castità di Lucia e benedice l’unione matrimoniale dei due giovani).
I PERSONAGGI
Se nella prima edizione ventisettana i personaggi sono sbrigativamente classificati in buoni e cattivi, ricchi e poveri, deboli e potenti, dominatori e dominati, nella seconda quarantana sono sottoposti a una rielaborazione psicologico introspettiva molto più approfondita; se nella prima sono delineati in modo schematico, nella seconda sono più individualmente caratterizzati.
Tuttavia possiamo ricondurli a caratteristiche tipiche e stereotipate, soprattutto in senso sociale:
(LE CLASSI POVERE, DEBOLI, DOMINATE sono contraddistinte dalle caratteristiche positive di umiltà, laboriosità, concretezza, solidarietà, religiosità
(LE CLASSI RICCHE, POTENTI E DOMINATRICI sono contraddistinte dalle caratteristiche negative di inganno, prepotenza, egoismo.
(LE CLASSI CLERICALI E RELIGIOSE sono contraddistinte da religiosità o autentica o ipocrita o da vero e proprio ateismo oppure da torbidi intrecci fra gerarchie ecclesiastiche e gerarchie politiche.
8 sono i personaggi fondamentali dei “Promessi sposi”, che noi possiamo dividere in 4 del mondo laico e 4 del mondo ecclesiastico:
MONDO LAICO
Renzo, personaggio dinamico nel suo spirito di non rassegnazione e di adattamento, capace di trovare soluzioni anche nelle svolte più negative, ma mai macchiando il proprio senso di dovere e di religiosità derivatogli da una condizione di onesto lavoratore, depurato di ogni risvolto eroico, avventuroso, fantastico o erotico, anzi inserito in un saldo sistema di valori civili e morali.
Lucia, personaggio simbolo della femminilità cristiana devota, a partire dal suo stesso nome Lucia, “colei che illumina”, spesso paurosa ed appartata rispetto alla realtà esterna, e tuttavia eroina del romanzo, simbolo del finale trionfo delle forze del bene su quelle del male, anch’essa depurata di ogni risvolto eroico, avventuroso, fantastico o erotico, ed anzi inserita in un saldo sistema di valori civili e morali.
Don Rodrigo, potente libertino che per puro capriccio –il desiderio di Lucia- mette in moto tutta la struttura narrativa del romanzo, minacciando don Abbondio, attraverso i bravi, di non sposare i due giovani e incaricando poi l’Innominato di rapire Lucia nel monastero di Monza. Egli rappresenta cioè tutte quelle caratteristiche negative di inganno, prepotenza, egoismo proprie delle classi ricche, potenti e dominatrici.
L’Innominato, potente libertino che come don Rodrigo rappresenta solo inizialmente tutte quelle caratteristiche negative d’inganno, prepotenza, egoismo proprie delle classi ricche, potenti e dominatrici, ma che poi, attraverso la sua conversione dopo aver rapito Lucia, rappresenta la possibilità di intraprendere strade completamente diverse da quelle intraprese in precedenza e dunque la possibilità del riscatto dell’uomo.
MONDO ECCLESIASTICO
Don Abbondio, da quando è costretto dai bravi di don Rodrigo a non sposare più Renzo e Lucia, diventa un personaggio di raccordo tra le classe poveri, deboli e dominate e le classi ricche, potenti e dominatrici. Anche dopo sarà chiamato in causa nelle vicende del romanzo, ma sempre controvoglia, vista la sua mancanza di coraggio, la sua proverbiale pavidità, anche a costo di mancare ai suoi doveri morali, spirituali e religiosi di frate verso le persone in difficoltà. Da questo scaturisce un’eccezionale vena di comicità necessaria a stemperare i toni più drammatici e tragici del romanzo
Fra Cristoforo, come l’Innominato, dopo una giovinezza di peccato, rappresenta la possibilità di intraprendere strade completamente diverse da quelle intraprese in precedenza (la povertà conventuale e la dedizione alle persone in difficoltà) e dunque la possibilità del riscatto dell’uomo. Dotato di profonda esperienza e cultura, me sempre rispettoso degli ordini costituiti. E’ il principale sostegno dei giovani protagonisti dle romanzo (è lui che procura a Lucia il rifugio presso il monastero di Monza); momentaneamente allontanato dalla scena ma risolutivo per il lieto fine del romanzo, visto che fa ritrovare Renzo e Lucia nel lazzaretto, scioglie finalmente il voto di castità di Lucia e benedice l’unione matrimoniale dei due giovani.
Gertrude la monaca di Monza, è la monaca che ospita Lucia nel suo monastero di Monza per porla al sicuro dai soprusi di don Rodrigo, ma è lei la complice principale del rapimento di Lucia ordinato dall’Innominato. Per questo e per il fatto di vivere con peso la sua forzata monacazione, visto che è ancora contaminata dalla passione per il conte Egidio, rappresenta le caratteristiche più negative della classe clericale e religiosa, specie in questo torbido intreccio fra gerarchie ecclesiastiche e gerarchie politiche.
Il cardinale Federigo Borromeo, contribuirà alla conversione dell’Innominato e metterà Lucia al sicuro da donna Prassede dopo l’episodio del rapimento nel monastero; dunque rappresenta le caratteristiche più positive della classe clericale e religiosa, ovvero una religiosità autentica di pensiero e di azione.
I personaggi minori, nonostante siano solo spalla di quelli maggiori o compaiano una o poche volte nel racconto, contribuiscono ugualmente al realismo del romanzo, al suo rappresentare cioè realtà umane e sociali mutevoli e multiformi, articolate in varie sfaccettature. Ricordiamo Agnese, Perpetua, i bravi, il Griso, il Nibbio, il conte zio, il padre provinciale, donna Prassede, don Ferrante, l’oste milanese, Ambrogio Fusella.
L’IDEOLOGIA NEI “PROMESSI SPOSI”
Il Manzoni assume nei confronti del suo romanzo l’atteggiamento di NARRATORE ONNISCIENTE, capace di distinguere saggiamente le forze del bene e del male e la loro funzione disgregante o riequilibratrice nelle vicende; capace infine di scorgere i significati ultimi ed autentici dei disegni insondabili della Provvidenza divina, attraverso generali categorie morali, spirituali e religiose.
Inoltre l’autore assume nei confronti delle classi povere, deboli e dominate un atteggiamento di PATERNALISTICA approvazione delle loro caratteristiche positive, di solidarietà con il loro essere vittime di quelle ricche, potenti e dominatrici, ma sempre disapprovando atteggiamenti eversivi o rivoluzionari verso gli ordini costituiti.
Questa disapprovazione aveva:
(radici religiose: egli accettava con fiducia gli insondabili disegni della divina Provvidenza; perché dunque sfidarli o cambiarli presuntuosamente con atteggiamenti eversivi e rivoluzionari?
(radici sociali: egli apparteneva comunque ad un’aristocrazia che era stata già abbastanza colpita dalle rivoluzioni precedenti e piuttosto preferiva affidare la giustizia alla coscienza dei singoli.
Nei confronti delle classi ricche, potenti e dominatrici, il Manzoni non assume tanto un atteggiamento diretto di condanna, quanto piuttosto di ironia e comunque, pur avendo rappresentato le caratteristiche negative di certi personaggi e classi sociali, egli evita la rappresentazione totale ed assoluta del male in se stesso e anzi insidia nei personaggi più negativi delle sottili esitazioni e sensi di colpa: l’Innominato arriverà alla conversione, don Rodrigo, in fin di vita nel lazzaretto, ha in sogno il presentimento della sua morte e viene perdonato dalle sue stesse vittime Renzo e Lucia.
Dicevamo dell’IRONIA, caratteristica fondamentale del romanzo:
(non l’ironia spregiudicata e distruttiva dell’Illuminismo, ma un’ironia più cauta e costruttiva
(non l’ironia del Romanticismo, ferma ad una radicale separazione fra bene e male, ma un’ironia che è sguardo omnicomprensivo sul mondo, sulle realtà umane e sociali più mutevoli e multiformi, articolate in varie sfaccettature.
Essa si manifesta chiamando spesso in causa il lettore, con l’effetto di metterlo in guardia da identificazioni troppo facili con la materia narrativa e di portarlo ad una complessa coscienza critica che gli facesse proiettare le vicende del romanzo su di un piano più universale.
I suoi bersagli più frequenti sono: la condotta immorale o irrazionale di certi personaggi, oppure quei dotti pedanti (l’aristotelico don Ferrante) che usavano cultura e religione solo per conservare certe gerarchie sociali e i propri privilegi.
La RELIGIOSITA’ del Manzoni è evidente non solo nella fede in una realtà ultraterrena che riscatti l’uomo da quella terrena, o nella fiduciosa accettazione dei disegni insondabili della divina Provvidenza, ma è evidente anche in tutta quella che è stata definita una vera e propria EPOPEA DELLA DIVINA PROVVIDENZA, secondo la quale ogni azione umana o sociale che tenti di sfidare o cambiare presuntuosamente i suoi insondabili disegni con atteggiamenti eversivi e rivoluzionari è inevitabilmente destinata al fallimento (i moti rivoluzionari, o i tentativi di popolari di farsi giustizia da soli) o al conseguimento di fini completamente diversi ed opposti rispetto a quelli che ci si era prefigurati in partenza (l’ETEROGENESI DEI FINI).
(Fallisce il proposito dei due giovani di sposarsi subito (dovranno attraversare tante traversie prima di sposarsi)
(Fallisce il proposito di don Rodrigo di avere Lucia (alla fine Lucia sposa Renzo e lui stesso muore)
(Fallisce il proposito di fra Cristoforo di inviare Lucia al sicuro dai soprusi di don Rodrigo nel monastero di Monza (ma proprio in quel monastero Lucia è rapita con la stessa complicità della monaca di Monza che avrebbe dovuto proteggerla)
(Fallisce il proposito di fra Cristoforo di inviare Renzo al sicuro a Milano (lì subirà varie traversie)
(Fallisce il proposito dell’Innominato di rapire Lucia (alla fine si converte e la libera)
(Fallisce il voto di castità di Lucia durante il rapimento (verrà sciolto da fra Cristoforo prima di sposarla a Renzo)
(Persino la peste ha una funzione riequillibratrice, poiché permette a Renzo di tornare nella sua Milano contagiata, dove viene scambiato per untore, riuscendo poi a salvarsi saltando su un carretto di cadaveri; poi finisce in un lazzaretto dove finalmente rincontra Lucia, perdona con lei il loro nemico don Rodrigo ormai in fin di vita; infine ritrovano fra Cristoforo che finalmente scioglie il voto di castità di Lucia e benedice l’unione matrimoniale dei due giovani).
Soprattutto per questa fiduciosa accettazione negli insondabili disegni della Provvidenza divina, l’ACCUSA principale mossa ai “Promessi sposi” è quella di trattarsi di un romanzo provinciale, volto a predicare la rassegnazione cristiana anziché il necessario riscatto nazionale.
In realtà la società rappresenta nei “Promessi sposi” è la società preborghese ‘600esca di malgoverno spagnolo, confrontata implicitamente con la società borghese ‘800esca di malgoverno austriaco, in un momento prerisorgimentale di aspirazione alla liberazione dallo straniero e di unificazione italiana.
Tuttavia, a causa della censura austriaca e di alcune personali censure psicologiche da parte dell’autore, il romanzo, prima di diventare il primo romanzo storico della nostra letteratura italiana, rimase per lungo tempo un romanzo ancora in ombra rispetto a tanti altri romanzi storici europei.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Alle soglie dell’unificazione d’Italia, si pose subito il problema di quale lingua adottare.
Manzoni intervenne spesso nelle questione della lingua allora sollevata:
nel trattatelo “Sentir Messa”
1858: “Della lingua italiana”
1868: “Lettera sul ‘De vulgari eloquentia’ di Dante”
1868: “Lettera intorno al vocabolario”
1868: “Dell’unità della lingua e mezzi per diffonderla”, relazione presentata al ministro della Pubblica Istruzione Broglio, in occasione della sua nomina a presidente della Commissione per l’Unificazione della lingua italiana, e pubblicata sulla “Nuova Antologia” e sulla “Perseveranza”
La soluzione manzoniana al problema della nuova lingua italiana fu dunque quella di un toscano lombardizzato: esso adottava come lingua letteraria di base il toscano fiorentino (come tanta letteratura precedente), ma integrato dal lombardo di certe conversazioni borghesi e in più da ulteriori elementi linguistici, solo se veramente integrabili o indispensabili ad esso: quando, per es. aveva la funzione di un certo realismo (non tanto i dialetti veri e propri, quanti piuttosto certe espressioni popolari) o la funzione di sottolineare ironicamente certe ambiguità comportamentali o certi contrasti socioculturali (espressioni latineggianti, come per es. il latino dell’aristotelico don Ferrante e della sua cultura pedante, strumento di conservazione di certe gerarchie sociali e dei propri privilegi).
Così la nuova lingua manzoniana del toscano lombardizzato ben si adattava dunque alla rappresentazione realistica di realtà umane e sociali mutevoli e multiformi, articolate in varie sfaccettature.
Fu così che la seconda edizione dei “Promessi sposi”, quella quarantana, è sottoposta a una rielaborazione linguistica nel senso dei suoi interventi decisivi di allora sulla questione della lingua, ovvero nel senso del suo toscano lombardizzato.
La lingua manzoniana e le teorie manzoniane sulla lingua (il cosiddetto MANZONISMO) si imposero normativamente nella scuola italiana nel senso di un’unificazione italiana completa anche dal punto di vista linguistico e culturale oltre che politico e territoriale, dopo secoli e secoli di frantumazione e sprovincializzazione. Tuttavia presto si rivelarono astratte, assurdamente pretenziose di imporre a tutta la nazione e a tutta la scuola italiana quel toscano lombardizzato della borghesia risorgimentale, contro l’effettivo farsi e mutarsi delle forme linguistiche e culturali in Italia.
ALTRE OPERE
LA RIFLESSIONE SULLA POETICA
1817: “L’ira di Apollo”, in cui il Manzoni finge ironicamente di placare l’ira del dio Apollo indignato perché un temerario milanese, Giovanni Berchet, aveva osato parlar male degli antichi dei e miti dell’Olimpo. L’opera segna dunque il passaggio del Manzoni dall’iniziale giovanile neoclassicismo al successivo maturo romanticismo del “Conciliatore”, soprattutto nella sua ricerca di una letteratura utile che rifiutasse la mitologia e contrapponesse ad essa il vero della storia.
1823: “Lettera sul Romanticismo”, indirizzata al marchese Cesare d’Azeglio, in cui la sua teorizzazione di un’ormai definita poetica romantica raggiunge il più alto grado di consapevolezza.
1823: “Lettera a monsignor Chaveut sull’unità di tempi e luoghi della tragedia”, in cui elabora la propria personale idea di tragedia storica, realizzandola pienamente nell’”Adelchi” e nel “Conte di Carmagnola”.
LA RIFLESSIONE SULL’INVENZIONE
Tutta la produzione poetico letteraria di Manzoni è caratterizzata da una attenzione alla storia e da un’accurata ricerca di fonti documentative; in appendice ad alcune opere (l’”Adelchi” o “I promessi sposi”), Manzoni pubblicava opere di saggistica storica (rispettivamente il “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica” o la “Storia della colonna infame”) per correggerne l’aspetto forse troppo romanzesco e immergerle in più chiaro sfondo storico, sempre cioè nell’esigenza di un’integrazione tra vero storico e vero poetico.
Ma presto Manzoni cominciò a nutrire profonda insofferenza verso gli elementi narrativo romanzeschi, antistorici delle sue opere, fino alla condanna dell’invenzione e della letteratura su di essa basata, prediligendo la saggistica storico comparativa precedentemente analizzata.
Egli tradusse questa indifferenza nelle seguenti opere:
1831: “Del romanzo storico e dei componimenti misti di storia e di invenzione”
1831: “Dell’invenzione”.
GIACOMO LEOPARDI
Possiamo scandire la vicenda poetica e letteraria di Giacomo Leopardi attraverso la sua vicenda biografica, scandendole nelle seguenti tappe:
1) GLI ANNI GIOVANILI
Nacque innanzitutto a Recanati nel 1798.
In età adolescenziale frequentò la ricca biblioteca del padre Monaldo, maturandone una precoce formazione culturale n senso classicista.
Il Classicismo giovanile di Leopardi è ancora di tipo arcadico, ma già consapevolmente volto alla ricerca di un confronto con i valori di un mondo, quello classico, così virtuoso e glorioso rispetto a quello corrotto e decadente contemporaneo, confronto che già da allora maturava in lui i primi pessimismi.
In quegli anni scrisse
ESERCITAZIONI GRAMMATICALI
1811: “Virtu’ indiana”, tragedia
1812: “Pompeo in Egitto”, tragedia
OPERE DI ERUDIZIONE FILOLOGICA
Traduzioni, compilazioni, note, testimonianza della sua precoce conoscenza delle lingue classiche e della sua precoce erudizione filologica sconosciuta persino ai suoi contemporanei illustri filologi.
OPERE DI CURIOSITA’ FILOSOFICA E SCIENTIFICA
1813: “Storia dell’astronomia dalle origini fino al 1811”
1815: “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, uno smontaggio critico (in chiave illuminista) degli errori degli antichi (errori, pregiudizi, ritualità, superstizioni, prodigi, vaticini, fabulae antiche).
PRIME OPERE DI IDEOLOGIA POLITICA
Egli tradusse questa insofferenza in opere DI PROPAGANDA ANTITIRANNICA (specie ANTINAPOLEONICA):
1815: “Orazione agli italiani per la liberazione del Piceno”, in linea con l’atteggiamento conservatore e reazionario del suo ambiente familiare, scriveva della sconfitta del progetto rivoluzionario e popolare di Geoacchino Murat e del ritorno delle Marche dalla dominazione franconapoleonica a quella pontificia.
Ma presto il giovane Leopardi nutrì insofferenza verso l’autoritarismo conservatore e reazionario del suo ambiente familiare (ostile a qualsiasi tipo di fermento, illuministico, rivoluzionario, napoleonico o romantico), che proteggeva e coltivava il suo genio quasi come in una gabbia e scriverà le due canzoni civili e patriottiche che aprono la raccolta dei “Canti”:
1818: “All’Italia”,
1818: “Sopra il monumento di Dante”.
Era un altro confronto con i valori di un mondo, quello classico, così virtuoso e glorioso rispetto a quello corrotto e decadente contemporaneo, confronto che già da allora maturava in lui i primi pessimismi. In queste canzoni si rivolgeva classicisticamente all’Italia per risvegliarne l’antica virtù di cui modello esemplare era quella del mondo classico o dei grandi trecentisti come Dante e Petrarca.
E’ facile intuire come qui il lamento della propria patria sia già il lamento di un uomo solo e incapace di reagire.
2) 1815-17: LA CONVERSIONE AL “BELLO” DELLA LETTERATURA
Durante l’involuzione autoritaria del regime austriaco di Restaurazione, se alcuni intellettuali come il Manzoni maturarono brevi fasi di polemica ideologica (per es. in chiave romantica con il gruppo romantico del “Conciliatore”), Leopardi maturava invece una totale immersione nell’attività poetico letteraria.
Sono, questi, gli anni della sua conversione al bello della letteratura, nel senso di un classicismo non più arcadico, come quello giovanile, ma più maturo e completo, quello che gli venne suggerito dalla fitta corrispondenza epistolare con l’amico Pietro Giordani, l’unico ad avergli conferito una certa apertura e sicurezze intellettuale) e quel classicismo che poi delineerà meglio nel suo celebre intervento nella polemica fra classici e romantici.
In questi anni scrisse:
Traduzioni degli “Idilli” di Mosco, del poemetto pseudomerico della “Batracomiomachia”, del I libro dell’”Odissea” e del II libro dell’”Eneide”.
“Inno a Nettuno”, la finzione della traduzione di un inesistente inno greco così intitolato.
“Le Ricordanze”, idillio funebre
“Maria Antonietta”, tragedia incompiuta
“Appressamento alla morte”, 5 canti interzine
“Diario del primo amore”
“I Elegia”
“II Elegia”, immaginari e dolenti colloqui con una donna lontana che non sa nulla dei sentimenti che il poeta provava per lei.
IL CLASSICISMO LEOPARDIANO NELLA POLEMICA FRA CLASSICI E ROMANTICI
Attraverso le riviste che giungevano a Recanati, Leopardi seguì attentamente lo svolgersi della polemica tra classici e romantici e v’intervenne direttamente nelle seguenti opere:
1816: “Lettera ai signori compilatori della biblioteca italiana” in risposta ad alcune posizione romantiche di Madame de Stael
1818: “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, in risposta ad un articolo del romantico Ludovico di Brehme.
Leopardi intervenne nella polemica fra classici e romantici in senso inequivocabilmente antiromantico (contro lo storicismo, il realismo, il progressismo e la religiosità spirituale dei romantici) e in senso classico.
Il Classicismo giovanile di Leopardi è ancora di tipo arcadico, ma già consapevolmente volto alla ricerca di un confronto con i valori di un mondo, quello classico, così virtuoso e glorioso rispetto a quello corrotto e decadente contemporaneo, confronto che già da allora maturava in lui i primi pessimismi.
Un classicismo più maturo e completo gli venne suggerito dalla fitta corrispondenza epistolare con l’amico Pietro Giordani, (l’unico ad avergli conferito una certa apertura e sicurezze intellettuale) appunto quel classicismo che poi delineerà meglio in questo celebre intervento nella polemica fra classici e romantici.
Il classicismo più maturo di Leopardi si risolse in una rivitalizzazione, anziché imitazione, dei classici, nel senso di una forte esperienza interiore e sentimentale, ignota tanto ai classicisti stessi (i quali spesso degeneravano in una pedissequa imitazione dei classici), quanto ai romantici (i quali lasciavano degenerare l’interiorità e il sentimento in un individualismo eroico e compiaciuto).
Tale classicismo, per quanto avverso alla romantica letteratura dell’utile, incise realmente e concretamente sulla realtà contemporanea, proponendo anzi originali forme di partecipazione, anche critiche e polemiche, ad essa.
LA CONCEZIONE DELLA POESIA E DELLA NATURA
Ma il classicismo più maturo di Leopardi si risolse soprattutto in una complessa concezione della poesia in rapporto ad un’altrettanto complessa concezione della natura; concezioni destinate a subire un radicale cambiamento di prospettiva negli anni.
Leopardi parte dal presupposto fondamentale che la natura sia immutabile e che perciò non la natura a noi, ma noi alla natura dobbiamo adattarci, imitandola in poesia per es.
FASE 1) Nella natura e nell’imitazione poetica della natura l’uomo ritrova, attraverso i suoi sensi e immaginazione, una forte capacità di sentire e una serie di illusioni anche piacevoli, come quella del bello. In questo senso, modelli esemplari di poesia saranno i classici, i soli ad aver intrattenuto con la natura un rapporto così diretto ed immediato anche attraverso la poesia e ad aver comunicato una forte esperienza interiore e sentimentale.
FASE 2) Ma quando l’incivilimento moderno ha voluto adattare la natura (per quanto immutabile) all’uomo e alle sue esigenze materiali, attraverso la conoscenza scientifica e tecnologica (che è spesso violenza sulla natura), ecco che cominciano a spegnersi quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni.
FASE 3) Quando il pessimismo ancora storico di Leopardi comincia a scoprire una natura in realtà ostile all’uomo (di cui l’uomo è anzi vittima), ecco che la poesia diventa l’unico mezzo per far sopravvivere quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni.
FASE 4) Quando infine il pessimismo ormai cosmico di Leopardi scopre la natura responsabile essa stessa dell’infelicità e della morte dell’uomo e indifferente al suo destino negativo, ecco che quelle illusioni non hanno più senso e quella forte capacità di sentire diventa capacità di sentire l’infelicità che è congenita all’uomo; la poesia diventa allora uno strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
3)1817-18: LA CONVERSIONE AL “VERO” DELLA FILOSOFIA: LO “ZIBALDONE”
In quegli anni Leopardi maturò una profonda riflessione filosofica sul destino dell’uomo e del mondo, sempre più nel senso di un pessimismo dapprima storico (esteso solo alla condizione contemporanea di uomo e mondo) poi cosmico (esteso a tutte le condizioni di uomo e mondo di ogni tempo e ogni luogo).
Il percorso filosofico di Leopardi è contenuto nel suo celebre “Zibaldone di pensieri”, una raccolta di appunti dalle tematiche più svariate, numerati e datati progressivamente, stesi tra il 1817 e il 1832, ma editi soltanto tra il 1898 e il 1900.
La critica ha spesso discusso intorno alla legittimità di attribuire al pensiero leopardiano il valore di una vera e propria filosofia, ma la filosoficità del pensiero leopardiano starebbe proprio nel suo carattere modernamente problematico, frammentario e non sistematico, il quale, contro il percorso tradizionale della filosofia:
(intreccia fortemente esperienza biografica, esperienza poetico letteraria e pensiero filosofico, concependo così filosofia e poesia-letteratura non come universi professionali diversi ed opposti, ma connessi e complementari nel fornire risposte a domande fondamentali sui destini di uomo e mondo.
(mette in discussione e confronta criticamente concetti, definizioni, giudizi, prospettive diverse ed opposte, ma senza mai cristallizzarli in ambiti definitivi ed assoluti.
Proviamo a scandire per tappe e per schemi convenzionali il percorso filosofico di Leopardi:
FASE 1) Nella natura e nell’imitazione poetica della natura l’uomo ritrova, attraverso i suoi sensi e immaginazione, una forte capacità di sentire e una serie di illusioni anche piacevoli, come quella del bello. In questa fase, Leopardi aderisce alla filosofia del SENSISMO e alla teoria sensista sul piacere.
Egli sostiene che l’uomo, a causa dell’amor proprio (attaccamento a se stesso, che nel mondo classico era virtù) tende costituzionalmente alla realizzazione del proprio piacere, ma senza mai riuscire pienamente in questa realizzazione, anzi più non realizza più tende costituzionalmente alla realizzazione del proprio piacere, prolungando all’infinito questa tensione.
FASE 2) Ma quando l’incivilimento moderno ha voluto adattare la natura (per quanto immutabile) all’uomo e alle sue esigenze materiali, attraverso la conoscenza scientifica e tecnologica (che è spesso violenza sulla natura), ecco che cominciano a spegnersi quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni.
Allora l’amor proprio (attaccamento dell’uomo a se stesso) degenera in interesse personale ed egoismo e il piacere diventa una semplice sospensione del suo opposto, ovvero del dolore.
FASE 3 e 4) Quando il pessimismo ancora storico di Leopardi comincia a scoprire una natura in realtà ostile all’uomo (di cui l’uomo è anzi vittima), e poi il pessimismo ormai cosmico scopre la natura responsabile essa stessa dell’infelicità e della morte dell’uomo e indifferente al suo destino negativo, ecco che cominciano a spegnersi quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni, ed ecco che poi quelle illusioni non hanno più senso e quella forte capacità di sentire diventa capacità di sentire l’infelicità che è congenita all’uomo; la poesia diventa allora uno strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
Allora Leopardi abbandona il SENSISMO per abbracciare il MATERIALISMO E IL MECCANICISMO, sostenendo che la natura sia un ciclo meccanico e materiale di costruzione e distruzione, di cui fa parte anche l’uomo; all’uomo essa dà soltanto l’esistenza, ma non anche la vita (quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni); per questo essa stessa, nella conclusione tutta originale e poco scientifica di Leopardi, è responsabile dell’infelicità e della morte dell’uomo, ma alla fine è completamente indifferente al suo destino negativo.
In conclusione, possiamo affermare che la filosofia leopardiana si tiene sempre ancorata alla filosofia illuminista: parte da un’iniziale adesione al sensismo, per poi abbracciare materialismo e meccanicismo e, restando sempre estranea alla filosofia idealistica tedesca contemporanea, anticipa piuttosto alcuni motivi della successiva filosofia nietscheana ed esistenzialista quali:
(Una concezione negativa della natura
(L’infelicità come dato congenito dell’esistenza umana
(La noia come continua discordanza dell’uomo da se stesso
(Il nulla come unico obiettivo cui possa tendere l’esistenza umana
(La morte come suprema liberazione annientatrice dell’esistenza
(L’uomo che inutilmente oppone al ciclo meccanico e materiale di costruzione e distruzione che gl’impone la natura la propria capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni.
(La poesia e letteratura come strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
Il pensiero leopardiano, per quanto avverso alla ricerca di una romantica letteratura dell’utile, incise realmente e concretamente sulla realtà contemporanea, proponendo anzi originali forme di partecipazione, anche critiche e polemiche, ad essa.
Queste furono forme originali di progresso, un progresso lontano comunque da quello ottimista e progressista dell’età contemporanea, bensì un progresso che (movendo da una ragione strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella dura verità sulle condizioni di uomo e mondo, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni) portasse poi a una civiltà consona a queste consapevolezze e che valesse davvero la pena di vivere.
Certo Leopardi non indica concretamente il modo per realizzarla, ma almeno anticipa il tema tutto moderno delle cosiddette false illusioni.
4) GLI ANNI 1819-22: “I PICCOLI IDILLI” E LE “CANZONI”
L’idillio è un genere letterario dell’antichità classica, che in Leopardi diventa un piccolo quadro-visione di sfondo da cui trarre spunti poetici, una forma lirica che gli consentisse di esprimere le sensazioni indefinite del proprio io (l’infinito, di ricordanza), slegate da ogni riferimento storico e culturale, in un rapporto ancora di profonda rispondenza tra uomo e natura; allora per Leopardi la natura è ancora qualcosa nella quale e nell’imitazione poetica della quale l’uomo ritrova, attraverso i suoi sensi e immaginazione, una forte capacità di sentire e una serie di illusioni anche piacevoli, come quella del bello.
I “PICCOLI IDILLI”
“L’infinito”: lo spunto poetico è tratto dall’osservazione di un colle solitario (il monte Tabor presso Recanati) e da una siepe che materialmente impedisce all’autore lo sguardo dell’orizzonte ulteriore e spiritualmente lo immerge in una meditazione sull’infinito, sia spaziale (“gl’interminati spazi”) sia temporale (l’eternità).
Quella di Infinito è una delle sensazioni indefinite del proprio io che l’autore esprime liricamente nei suoi “piccoli idilli”, slegate da ogni riferimento storico e culturale, in un rapporto ancora di profonda rispondenza tra uomo e natura.
Essa è l’evasione da quelle realtà circoscritte e limitate, rappresentate appunto dalla siepe ed è resa dalla poesia in una maniera così completa ed efficace che neanche la ragione stessa sarebbe stata in grado di arrivare a tanto.
La continua dialettica tra aggettivi dimostrativi, ora di vicinanza (“Questo”) ora di lontananza (“Quello”), riflette quella fra Finito ed Infinito e la presenza del poeta ora alla realtà del finito ora alla surrealtà dell’infinito.
Il linguaggio e lo stile si servono di un’alternanza fra immagini concrete e immagini astratte, parole comuni e parole liriche, alternanza che ha come la funzione di aprire un varco ideale fra finito ed infinito, rendendo così l’”Infinito” leopardiano modello esemplare di quella poesia in cui ogni elemento risponde ad una precisa funzione espressiva e semantica, poetica e filosofica.
“Alla luna”, idillio incentrato su un dolente colloquio con una luna più volte rimirata in gioventù, quando la vita del poeta era già infelice, ma almeno con qualche speranza ancora davanti. Questo dolore del colloquio è espresso attraverso il contrasto tra la luminosità del paesaggio lunare e il buio interiore del poeta. Qui si affaccia per la prima volta la sensazione indefinita della ricordanza, della rievocazione nostalgica di un passato giovanile andato perduto per sempre.
“La sera del dì di festa” incentrata sul dolente colloquio con una donna amata, ma lontana, ignara dei sentimenti che il poeta provava per lei. Il dolore del colloquio è espresso attraverso il contrasto fra lo splendore del paesaggio serale durante il giorno di festa e le continue occasioni di sofferenza inflitte a se stesso e all’umanità: dal dolore per la fine imminente del giorno di festa alla percezione della scomparsa della virtù dal mondo.
LE “CANZONI”
Nello stesso periodo in cui Leopardi esprime nei suoi “piccoli idilli” le sensazioni indefinite del proprio io, in un rapporto ancora di profonda rispondenza tra uomo e natura, rinnova la tensione civile e patriottica delle precedenti canzoni del ’18 (“All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante”) in ben altre 8 canzoni pubblicate nel 1824, in cui partecipa attivamente a una grande tradizione italica attraverso le voci di grandi personaggi soprattutto dell’antichità classica, sullo sfondo di una natura concepita già come ostile all’uomo, mentre la poesia è ancora l’unico mezzo attraverso il quale far sopravvivere in una natura così negativamente concepita quella forte capacità di sentire e quelle illusioni piacevoli.
“Ad Angelo Mai”, in cui, traendo spunto dal recente ritrovamento dell’erudito ecclesiastico Angelo Mai di alcuni frammenti del “De re publica” di Cicerone nella Biblioteca vaticana, invoca i grandi personaggi dell’antichità classica e della tradizione letteraria italiana (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri), modelli esemplari di virtù intrecciata all’immaginazione e di una tenace resistenza ad un presente negativo.
“Bruto minore”, in cui, traendo spunto dalla battaglia di Filippi del 42 a.C. e dalla sconfitta e suicidio di Bruto, considera la morte come liberazione annientatrice dell’esistenza e il crollo dell’antica repubblica romana come il crollo della virtù e l’inizio di tutta la successiva corruzione e decadenza della storia.
“L’ultimo canto di Saffo”, in cui Leopardi rappresenta l’infelicità personale di Saffo, poetessa greca che, secondo una corrente leggenda, si tolse la vita per la propria bruttezza fisica, per l’amore non contraccambiato per Faone, per il contrasto fra la propria esigenza femminile di bellezza e il proprio alto valore intellettuale, per il contrasto fra la propria bruttezza fisica e lo splendore del paesaggio naturale ad essa circostante. Ancora una volta, traendo spunto dal suicidio di Saffo, Leopardi considera la morte come liberazione annientatrice dell’esistenza e compie un’ultima invocazione ad una bellezza e felicità per sempre negate a se stesso come alla poetessa protagonista della canzone.
“Alla sua donna”, incentrata su un dolente colloquio con una donna amata, lontana, che non si trova, anzi con l’immagine di questa. E, come dimostra nella sua teoria sensista sul piacere, il poeta dimostra di tendere costituzionalmente alla realizzazione del proprio piacere (l’amore), ma senza mai riuscirvi pienamente; anzi, più non vi riesce (più, cioè, la donna non s’incarna nella sua esistenza quotidiana), più vi tende, prolungando così all’infinito la sua tensione.
“Inno ai Patriarchi”, unico realizzato di una serie di inni cristiani progettati per compiacere l’ideologia conservatrice e reazionaria del proprio ambiente familiare. Tuttavia l’inno è privo, a differenza degli “Inni sacri” del Manzoni, di un’autentica prospettiva religiosa e considera semplicemente gi antichi patriarchi come modelli esemplari di un’umanità direttamente rapportata alla natura. La recente distruzione di tribù indigene da parte della moderna civiltà europea è proprio il simbolo della distruzione di un’antica felicità.
“Nelle nozze della sorella Paolina”
“Ad un vincitore nel gioco del pallone”, in cui contrappone particolari modelli esemplari di virtù (nel primo caso il patriottismo femminile di Paolina Bonaparte, nel secondo caso la vigoria fisica e agonistica di un marchigiano giocatore di pallone) alla mediocrità fisica e spirituale dell’età contemporanea.
“Inno alla primavera o delle favole antiche”, l’esaltazione del rapporto diretto dell’uomo con la natura in età antica.
5) GLI ANNI 1822-25: L’IRONIA E LE “OPERETTE MORALI”
L’ironia è per Leopardi uno strumento eccezionale per rappresentare motivi negativi come le reali condizioni dell’esistenza di uomo e mondo, cioè l’infelicità.
E’, come la ragione, uno strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
Quali sono dunque queste false illusioni, questi bersagli costanti dell’ironia leopardiana soprattutto nelle “Operette morali”?
(Tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile)
(L’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco).
Da quest’ironia e da un provvisorio distacco dalle proprie negative condizioni esistenziali, nascono le “Operette morali” scritte la maggior parte nel ’24, venti prose satiriche che risentono della tradizione dialogica di Luciano, dal linguaggio neutrale, destinate ad un pubblico indefinito, capace di elevarsi tanto all’ironia letteraria quanto alla riflessione filosofica, visto che in fondo il messaggio delle operette (le reali condizioni dell’esistenza di uomo e mondo, cioè l’infelicità) riguardava tutti indistintamente.
“Storia del genere umano”, una storia mitica del genere umano, scandita da epoche diverse a seconda del tipo di felicità ricercato dagli uomini e dalle società
“Dialogo di Ercole e di Atlante”, in cui i due protagonisti giocano a palla col globo terrestre
“Dialogo della moda e della morte”, incentrato sul tema della moda, che col suo costruire e distruggere capricciosamente le cose terrene, compie una funzione simile a quella della morte.
“Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, in cui s’immagina che un’eventuale sparizione degli uomini dalla terra lasci la natura nella più totale indifferenza
“Proposta di premi fatta dall’Accademia di Sillografi”, in cui, in omaggio al secolo delle macchine, si riduce ironicamente la natura umana alla perfezione della macchina artificiale
“Dialogo di Malambruno e Farfarello”
“Dialogo della natura e di un’anima”, dialogo tra un’anima che s’interroga sulla propria infelicità e una natura che tenta ancora di risponderle
“La scommessa di Prometeo”, in cui il mitico gigante Prometeo si pone angoscianti interrogativi sull’uomo (è la creatura più perfetta dell’universo?; che differenza c’è tra l’uomo primitivo e quello odierno, tra quello naturale e quello razionale?) e trova l’unica risposta certa nella constatazione delle negative condizioni della sua esistenza, cioè nella sua stessa infelicità.
“Dialogo di un fisico e di un metafisico”, in cui si sottolinea l’inutilità di una vita noiosa e tediosa, priva di forti azioni e passioni
“Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”, in cui ha un dialogo dolente con Torquato Tasso (del quale visitò la tomba durante il suo deludente soggiorno a Roma) circa la negatività delle condizioni d’esistenza dell’uomo
“Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”, durante il loro viaggio verso terre ignote, Leopardi immagina che i due scopritori s’interroghino sul senso di fondo della loro impresa, per concludere che il viaggio è l’unico modo per fuggire in parte dalla noia e dal tedio che dominano l’esistenza umana.
“Senofonte e Niccolò Machiavelli”
“Galantuomo e mondo”
“L’Elogio degli uccelli”, in cui Amelio, filosofo solitario considera il canto e il volo degli uccelli come l’unico modo per fuggire in parte dalla noia e dal tedio che dominano l’esistenza degli esseri viventi.
“Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, una raccolta di aforismi di questo immaginario personaggio fortemente ironico nei confronti della negatività delle condizioni d’esistenza dell’uomo.
“Il Parini, ovvero della gloria letteraria”, in cui Leopardi immagina che Parini, poeta del ‘700 insegni a un suo discepolo che la gloria letteraria, un tempo da lui stesso fortemente ambita, sia solo una vana ambizione terrena.
“Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie”, in cui Leopardi immagina che le mummie studiate dallo scienziato del ‘600 Federico Ruysch acquisiscano per breve tempo capacità di parola per poi definire la morte come “silenzio poetico”, cessazione di ogni sensazione, sia di piacere che di dolore, e dunque come un piacere in se stesso.
“Il cantico del gallo silvestre”, in cui Leopardi raffigura questo animale mitico sospeso tra il cielo e la terra che ogni mattino ricorda a tutti gli esseri viventi il loro inevitabile destino di distruzione e morte, che poi si estenderà a tutto il cosmo (qui siamo già alla fase leopardiana di pessimismo cosmico)
“Dialogo della natura e di un islandese”. Innanzitutto la scelta di un islandese come protagonista ha dietro la suggestione letteraria di un’opera di Voltaire in cui si narrava che gli islandesi subissero condizioni naturali e climatiche davvero inclementi nella loro terra. Dunque quest’islandese, dopo aver preso coscienza della vanità delle ambizioni terrene e la negatività dei rapporti sociali, sceglie una vita solitaria e gira il mondo alla ricerca di un posto che gli dia non tanto il piacere quanto assenza di dolore. Improvvisamente gli appare la natura in una zona equatoriale sconosciuta dell’Africa, sotto le sembianze di una donna le cui caratteristiche simboleggiano quelle della natura stessa: gigante, fissa e immobile, bella e terrificante. Alla fine, per quanto liberato da uomini e società, scopre di essere sempre in balia della natura e delle sue inclementi condizioni e approda alle seguenti conclusioni pessimistiche: la natura è ostile all’uomo, è un ciclo meccanico e materiale di costruzione e distruzione, di cui fa parte anche l’uomo; all’uomo essa dà soltanto l’esistenza, ma non anche la vita (quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni); per questo essa stessa, nella conclusione tutta originale e poco scientifica di Leopardi, è responsabile dell’infelicità e della morte dell’uomo, ma alla fine è completamente indifferente al suo destino negativo. Ecco perché Leopardi criticava fortemente tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile) e l’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco). Ecco dunque la domanda fondamentale dell’islandese alla natura: che senso ha una natura che come una matrigna nemica crea gli uomini per poi tormnatrli di infelicità e distruggerli? La domanda è destinata a restare insoluta come del resto tanti altri insondabili misteri del destino di uomo e mondo. Anzi, proprio dopo tale domanda, a testimonianza delle conclusioni pessimistiche sulla natura cui egli era approdato, l’islandese muore improvvisamente, secondo la leggenda o divorato da leoni o sommerso dalla sabbia. Il linguaggio e lo stile sono elaborati nelle domande dell’islandese, per rappresentare la sua ansia di sapere, e brevi ed essenziali nelle risposte della natura per rappresentare l’impossibilità o la non volontà di rispondere da parte di questa.
“Dialogo di Timandro e di Eleandro”, è il dialogo tra due personaggi diversi e doppiasti: Timandro (immagine dell’autore) che compatisce gli uomini per la loro infelicità e per la negatività radicale delle loro condizioni d’esistenza, aspirando a uno stoico distacco da illusioni e passioni, ed Oleandro, grande lodatore degli uomini e delle loro illusioni e passioni.
6) GLI ANNI 1825-28; l’allontanamento da Recanati e le ultime “Operette morali”
Questi sono i primi anni del suo allontanamento da Recanati, anni di una prima partecipazione alla vita contemporanea, soprattutto a Milano dove, in collaborazione con l’editore Stella curò l’edizione completa delle opere di Cicerone e dove concepì alcune opere di divulgazione letteraria di grande confronto con la grande letteratura italiana:
1826: “Commento alle Rime del Petrarca”
1826: “Lettera al conte Carlo Pepoli”, una meditazione sulle funzioni della poesia; inizialmente è quell’imitazione della natura nella quale l’uomo ritrova, attraverso i suoi sensi e immaginazione, una forte capacità di sentire e una serie di illusioni anche piacevoli; poi diventa l’unico mezzo per far sopravvivere quella forte capacità di sentire e quelle piacevoli illusioni in mezzo a una natura concepita negativamente; infine è strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
1826: “Traduzione del manuale del filosofo ellenistico Epitteto”, dalla partecipazione all’astensione dalla vita contemporanea scoperta in questo suo primo allontanamento da Recanati; anzi l’elaborazione di una vera e propria morale dell’astensione.
1827: “La Crestomazia italiana”, sintesi dei luoghi in poesia e in prosa più esemplari della letteratura italiana
In questi anni leopardi scrive anche due ulteriori operette morali:
“Il Copernico”, ancora una volta l’ironia e la polemica contro tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile) e contro l’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco).
“Dialogo di Plotino e di Porfirio”, dialogo tra questi due importanti filosofi neoplatonici intorno all’argomento del suicidio: Porfirio contesta la diffusa opinione secondo cui il suicidio non sia naturale affermando che è anzi la stessa natura umana a non essere naturale in quanto alterata dalla razionalità; Plotino conclude più ottimisticamente che l’esistenza umana, per quanto abbia condizioni radicalmente negative, concentri tutto il suo valore nella forza delle sensazioni e degli affetti. (Così Leopardi anticipa la poesia della fase successiva, quella del suo ritorno a Recanati e della poesia degli affetti dei “Grandi idilli”).
7) GLI ANNI 1828-30: il ritorno a Recanati e la poesia degli affetti dei “GRANDI IDILLI”
Questi sono gli anni del suo ritorno a Recanati, tra nostalgie del passato giovanile e un “risorgimento poetico”, di una poesia (“I Grandi idilli”), cioè, degli affetti, di quelle sensazioni indefinite che il poeta aveva già espresso nei suoi “piccoli idilli” (l’infinito e la ricordanza), slegate da ogni riferimento storico e culturale. Se nei piccoli idilli la sensazione quasi predominante era quella dell’infinito, qui nei “grandi idilli” la sensazione predominante è quella della ricordanza, del ricordo, della rievocazione nostalgica di un passato (quello giovanile) andato perduto per sempre.
Il tema della ricordanza si lega al tema della doppia vista, ciò che ci fa vedere le cose come doppie: non solo per il valore che hanno in se stesse, ma anche per ciò che esse ci fanno ricordare, e dunque secondo un valore più forte di quello che esse hanno in se stesse.
A differenza dei “piccoli idilli” non troviamo quel rapporto di profonda rispondenza tra uomo e natura, ma questa è già concepita negativamente come realtà ostile all’uomo, e la poesia non è più quell’imitazione della natura nella quale l’uomo ritrovava, attraverso i propri sensi e immaginazione, la sua forte capacità di sentire e piacevoli illusioni, ma è anzi l’unico mezzo per far sopravvivere tutto questo in una natura così negativamente concepita.
I “Grandi idilli” costituirono il nucleo essenziale di un volume pubblicato a Firenze nel 1831 e intitolato “Canti”, perché esprime la stessa spontaneità e intensità musicale del canto.
“Il Risorgimento”, in cui il poeta annuncia appunto il proprio “risorgimento poetico”, di una poesia (“I Grandi idilli”), cioè, degli affetti, di quelle sensazioni indefinite che il poeta aveva già espresso nei suoi “piccoli idilli” (l’infinito e la ricordanza), slegate da ogni riferimento storico e culturale.
“Le Ricordanze”, prendono spunto dalla contemplazione delle stelle dell’Orsa, per incentrarsi sulla sensazione indefinita della ricordanza, del ricordo e della rievocazione nostalgica di un passato giovanile andato perduto per sempre, attraverso la rievocazione di tempi e luoghi lontani annunci di felicità poi violentemente negate; dunque un pessimismo in crescendo, che si conclude con l’immagine di una fanciulla morta, dietro il quale si nasconde il continuo bisogno d’amore, destinato a scontrarsi con la totale assenza di esso.
“Il sabato del villaggio”
“La quiete dopo la tempesta”; due grandi idilli che possiamo analizzare insieme, dividendoli in due parti: 1) la rappresentazione realistica della vita concreta e quotidiana di paese, colta rispettivamente nel momento della quiete dopo la tempesta e nel giorno del sabato, ossia della gioia per un dolore passato e l’attesa di un piacere futuro; 2) la riflessione filosofica speculativa sulla sua teoria sensista del piacere e del dolore, secondo la quale il piacere non esiste in se stesso, come tale, ma sia qualcosa d’illusorio ed inconsistente che al massimo può esistere o come provvisoria sospensione di un dolore passato o come attesa vibrante di un piacere futuro che mai si rivelerà tale. Ecco pertanto l’invito del poeta a godersi la propria giovinezza, un’età fatta non tanto di piaceri in se stessi, come tali, ma almeno di piaceri, per quanto illusori e inconsistenti, come l’attesa vibrante di piaceri futuri (la maturità) che però mai si riveleranno tali. Il linguaggio e lo stile sono caratterizzati da immagini concrete e termini comuni, per quanto riguarda i momenti di rappresentazione realistica di vita concreta e quotidiana, e di immagini astratte e termini lirici, per quanto riguarda i momenti di speculazione filosofica.
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, è una sintesi completa di tutte le vecchie pessimistiche considerazioni leopardiane sulla radicale negatività delle condizioni d’esistenza dell’uomo, vecchie considerazioni alle quali, però, s’aggiunge quella nuova e più positiva secondo la quale l’uomo, nonostante questa radicale negatività, debba sempre accettarla con dignità, nella consapevolezza che cambiarla sia comunque impossibile. Per questa somma di vecchie e nuove considerazioni, Leopardi si serve della voce semplice ed ingenua di un pastore (espressione di un’essenza umana pura e primitiva slegata da ogni riferimento storico e culturale), dopo aver letto in una rivista che alcuni pastori nomadi dell’Asia centrale, erano soliti trascorrere la notte seduti su una pietra a guardare la luna e ad interrogarla circa i misteri più insondabili del cosmo. A differenza della natura fredda e austera dell’islandese, la luna del pastore errante dell’Asia è dolce e confidenziale, ma (forse perché simbolo di quella forza trascendente che regge i governa i destini di uomo e mondo), non può o non vuole fornire riposte alle domande del pastore. Il linguaggio e lo stile, trattandosi della voce semplice e ingenua di un pastore, assumono l’andamento lento e tipico della nenia.
“Il passero solitario” incentrato sul confronto fra la solitudine naturale del passero rispetto agli altri suoi simili (naturale, perché dettata dalla natura) e la solitudine innaturale del poeta rispetto agli altri suoi giovani coetanei (innaturale perché gli comporta una continua perdita d’esperienza e un futuro rimpianto per il suo passato giovanile andato perduto per sempre).
“A Silvia”; dietro il nome di Silvia (tratto dall’”Aminta”, favola pastorale del Tasso), si nasconde la persona di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi nel 1818. Essa è qui destinata a trasfigurarsi nella figura poetica di Silvia, che ha vissuto in gioventù gli stessi sogni e le stesse speranze del poeta per poi vederseli brutalmente negare da una morte prematura; essa è dunque simbolo degli inganni e del dolore continuamente perpetrati dalla natura all’uomo. La poesia è un colloquio immaginario tra il poeta e la fanciulla, visto che quando Leopardi scrisse il componimento, la morte della fanciulla era già avvenuta.
8) GLI ANNI 1830-33 DEL SOGGIORNO A FIRENZE
Sono gli anni del suo soggiorno a Firenze tra gli intellettuali del tempo del circolo dell’”Antologia”, come Pietro Coletta e Antonio Ranieri. In questi anni Leopardi scrisse le seguenti opere:
LE ULTIME “OPERETTE MORALI”
“Dialogo di un venditore di almanacchi”; è il dialogo di strada tra un ottimista ambulante, venditore di almanacchi (che prevede ottimisticamente gli eventi del nuovo anno) e un pessimista ma ironico viandante (che invece gli espone le amare verità sull’esistenza dell’uomo e del mondo).
“Dialogo di Tristano e di un amico”; è un’ultima, polemica rivendicazione delle sue “Operette morali” e del loro pessimismo filosofico contro coloro che lo ascrivevano alla bruttezza delle sue condizioni fisiche ed esistenziali. Leopardi sostiene che questo aveva rispettose origini (risalisse agli antichi) e comunque non era disfattista, ma si traduceva in un solido impegno alla consapevolezza dignitosa della verità sull’uomo e sul mondo, contro dunque tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile)
e contro l’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco).
LA LIRICA AMOROSA DEL “CICLO D’ASPASIA”
E’ un ciclo di poesie incentrate sulla tematica amorosa, cioè sull’intenso amore provato in quegli anni per la dama intellettuale Fanny Targioni Tozzetti, qui denominata Aspasia dal nome di una celebre cortigiana ateniese del V sec. a.C.
Questo amore è ben lontano dall’idealizzazione fantastica degli amori giovanili precedenti, ma si risolve in un rapporto reale, vissuto in ambienti reali e condiviso con amicizie reali quali Antonio Ranieri (suo amico e confidente fino alla morte, amante di molte donne); tuttavia tale amore è vissuto come esperienza sentimentale totalizzante ed assoluta ed è destinato a tramontare tragicamente e a disilludere per sempre il poeta sulla forza dell’amore.
Sono questi i componimenti del ciclo d’Aspasia:
“Il pensiero dominante” in cui il poeta invoca un “pensiero dominante” (quello amoroso); tale pensiero, provenendo dall’esterno, si radica nell’io del poeta e, se da una parte trasforma lo spazio e il tempo presenti in un infinito presente, dall’altra parte comincia a rivendicare la sua fisicità.
Il Consalvo”, in cui il poeta esprime la propria dichiarazione d’amore per Elvira per ottenerne, solo in un punto di morte, la carità di un bacio.
“Amore e morte”,in cui l’amore e la morte sono rappresentate come due forze vitali capaci di sollevare l’uomo contro la negatività radicale delle sue condizioni d’esistenza: l’amore in vita e la morte (rappresentata come una figura femminile materna, accogliente e liberatrice) per sempre.
“A se stesso”, in cui il movimento della sua passione verso una donna gli è bruscamente negato al punto da invocare una forza morale eroica che riduca a zero la sua sensibilità e non lo faccia più soffrire.
“Inno ad Arimane”, è il progetto di un inno ad Arimane, un dio del male di antiche religioni orientali (la natura matrigna?), con l’intento di rovesciare in senso blasfemo il giovanile progetto di inni cristiani.
“Aspasia”, un componimento in cui la donna amata (Fanny Targioni Tozzetti) viene denominata Aspasia dal nome di una celebre cortigiana ateniese del V sec. a.C.; qui Leopardi esprime il suo amaro congedo dalla donna amata per l’evidente contrasto fra la sua immagine idealizzata di donna e la donna stessa, lontana ed estranea, ignara dei sentimenti che il poeta provava per lei.
DUE CANZONI NEOCLASSICHE
forse per la tematica sepolcrale; ma comunque in chiara continuità con la lirica amorosa del ciclo d’Aspasia.
“Sopra un basso rilievo sepolcrale dove una giovane donna morta è rappresentata in atto di partire, accomiatata dai suoi”
“Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima”
in cui è espresso il contrasto fra vita/bellezza e morte che tutto distrugge.
OPERE SATIRICHE
Sono una ripresa dell’ironia delle “Operette morali” e del provvisorio distacco che l’autore ad un certo punto prende dalle proprie negative condizioni esistenziali.
Abbiamo detto che l’ironia è per Leopardi uno strumento eccezionale per rappresentare motivi negativi come le reali condizioni dell’esistenza di uomo e mondo, cioè l’infelicità.
E’, come la ragione, uno strumento di accettazione, per quanto dolorosa, di quella verità, di analisi e smascheramento di tutte le precedenti illusioni.
Quali sono dunque queste false illusioni, questi bersagli costanti dell’ironia leopardiana soprattutto nelle “Operette morali” e in queste ultime opere satiriche?
(Tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile)
(L’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco).
1831: “I Paralipomeni della Batracomiomachia”; in età adolescenziale, Leopardi aveva tradotto la “Batracomiomachia”, un poemetto pseudomerico sulla guerra tra rane e topi (come suggerisce il titolo in greco). Il tema viene ripreso in quest’opera, dove l’aggiunta del termine “Paralipomeni” sta ad indicare l’intenzione del poeta di completare il poemetto; la trama è la seguente: durante la guerra fra rane e topi, i granchi intervengono in favore delle rane e insieme le sconfiggono e ne mangiano il capo Mangiaprosciutti; i topi sconfitti si organizzano allora in un regime liberale e costituzionale capeggiato da Leccafondi; ma in una successiva guerra vengono ulteriormente sconfitti dai granchi e costretti ad abrogare il loro regime, nonché all’esilio del loro capo Leccafondi. Nel suo viaggio verso l’esilio, costui viene accompagnato dal solitario Dedalo a visitare l’Oltretomba animale, mentre gli animali si scatenano in una risata incontenibile di fronte alle sue disperate richieste d’aiuto. Tuttavia l’opera, nonostante il suo tono scherzoso e comico, suggerisce dei chiari confronti polemici e critici verso l’età contemporanea: i Granchi vittoriosi sono gli Austriaci e i regimi assolutistici e repressivi dell’età di restaurazione; i Topi sono i Patrioti italiani nella loro aspirazione risorgimentale all’unificazione e liberazione d’Italia dal dominio straniero; il loro capo Leccafondi, deriso nelle sue speranze e illusioni, rappresenta gli intellettuali ottimisti e progressisti del tempo, incontrati da Leopardi soprattutto a Firenze; la derisione subita da Leccafondi nell’Oltretomba animale da parte degli animali presenti di fronte alla sue disperate richieste d’aiuto è un’ironia satirica e sarcastica verso le comuni dottrine sull’immortalità dell’anima e vuole suggerire che negative sono e saranno per sempre le condizioni d’esistenza di tutti i viventi (non solo l’uomo, ma anche l’animale) e che infine c’è totale estraneità tra vita e morte.
1835 “Palinodia al marchese Gino Capponi”, è ancora una volta la critica verso quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile), nonché a quell’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco) scoperte soprattutto a Firenze in figure come il marchese Gino Capponi; Leopardi finge ironicamente di aderire a tali posizioni, ma alla fine ribadisce contro queste il proprio pessimismo filosofico. Leopardi sostiene che questo aveva rispettose origini (risalisse agli antichi) e comunque non era disfattista, ma si traduceva in un solido impegno alla consapevolezza dignitosa della verità sull’uomo e sul mondo, contro dunque tutte quelle dottrine antropocentriche che inducevano ingannevolmente a porre l’uomo al centro dell’universo e ad adattare la natura alle sue esigenze (quando questa in realtà era immutabile) e contro l’ottimismo progressista delle ideologie contemporanee (dopo l’Illuminismo 700esco, il Positivismo ‘800esco), rappresenta dal marchese Gino Capponi.
“I nuovi credenti” (del successivo periodo napoletano), incentrata sul contrasto fra il proprio pessimismo filosofico e l’ideologia cattolica spiritualistica diffusa in quegli anni a Napoli.
OPERE INCENTRATE SUL RAPPORTO FRA UOMO E SOCIETA’
Attraverso l’idea machiavelliana che l’uomo abbia una seconda, artificiosa natura, Leopardi porta qui avanti una riflessione sul rapporto uomo e società, sulla vita sociale e sui suoi discutibili fondamenti (egoismo, cinico culto dell’interesse individuale, contraddizione e incoerenza fra ideali e comportamenti effettivi).
1826: “Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani”, (degli anni precedenti: 1826) critica alla vita sociale italiana contemporanea priva, a differenza di altre europee, di valori o regole di comportamento anche convenzionali (bon ton, per es.), e contraddistinta piuttosto da derisione verso quelle, aggressività e latente stato di guerra di tutti contro tutti.
1835: “I Pensieri”, un’altra riflessione sulla vita sociale dal punto di vista della reputazione per la quale ciascuno tende a simulare all’esterno un’immagine positiva di sé, per poi rivelare le sue caratteristiche più negative (egoismo, cinico culto dell’interesse individuale, contraddizione e incoerenza fra ideali e comportamenti effettivi).
9) 1833-37; GLI ANNI DEI MESSAGGI CONCLUSIVI
anni del suo ultimo soggiorno, quello a Napoli, insieme all’amico Antonio Ranieri, caratterizzato dai due seguenti messaggi conclusivi:
“La Ginestra”, scritta nel 1836 a Torre del Greco, pubblicata postuma nei “canti” del 1845 a cura dell’amico Antonio Ranieri. La poesia porta avanti l’idea positiva (rispetto a tanti messaggi pessimisti precedenti, che però non abbandona) di una confederazione di solidarietà fra uomini chiaramente coscienti della radicale negatività delle proprie condizioni esistenziali e dell’inganno di tutte quelle posizioni e dottrine che Leopardi aveva finora contestato; uomini democraticamente solleciti verso i più deboli, efficacemente rappresentati dal povero villanello costretto a fuggire e ad abbandonare i suoi beni di fronte all’incombente pericolo dell’eruzione di lava del Vesuvio vicino. Anzi, tutta la “Ginestra” è ispirata dal paesaggio vesuviano contemplato dalla finestra dell’ultima abitazione di Torre del Greco; tale paesaggio viene confrontato nella sua quotidianità con quello storico remoto dell’eruzione vesuviana, di cui ancora oggi restano tracce nelle rovine di Pompei ed Ercolano. Simbolo dell’uomo vittima impotente di queste terribili catastrofi della natura è la ginestra, fiore posto sul davanzale dell’abitazione di Torre del Greco, minacciata anch’essa dall’eruzione vulcanica e pronta a chinare il suo capo ad essa; è simbolo dunque di una dignitosa resistenza dell’uomo alla natura, dell’ultima forma di razionalità concessa all’uomo.
“Il tramonto della luna”, è l’ultima canzone scritta da Leopardi; forse, nelle sue strofe conclusive, sarebbe stata scritta e dettata nelle ultime ore della sua vita. E’ incentrata sul dolente confronto fra il tramonto della Luna (che si ripete ciclicamente in natura) e il tramonto della giovinezza (che si ripete ciclicamente nell’uomo), ma con la differenza che la luna dopo il tramonto risorge e la giovinezza dell’uomo dopo il tramonto non ritorna più, abbandonandosi anzi agli inevitabili e dolorosi traguardi della vecchiaia e della morte.
L’EPISTOLARIO: 930 lettere scritte tra il 1810 e il 1837 in cui l’autore presenta se stesso ai propri corrispondenti destinatari senza alcuno schema convenzionale retorico: la famiglia (durante i rapporti fuori Recanati, testimoniando questa corrispondenza un rapporto profondo, anche se psicologicamente complesso fra il poeta e la propria famiglia); intellettuali ed editori cui dare prova del suo ingegno (il Viesseux, direttore del circolo culturale fiorentino l’”Antologia”); amici punti di riferimento (Angelo Mai, Pietro Giordani, Antonio Ranieri).

1 attiene alla sfera economica perché ad esempio il figlio nato fuori dalla famiglia poteva insidiare il patrimonio familiare. La donna quindi non poteva mai trasgredire.
2 Movimento che esaltava la scienza.
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Esempio