Il teatro del 500

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Categoria:Letteratura

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Testo

IL TEATRO E LA CITTADINA NEL CINQUECENTO

Durante il Rinascimento il cortile del palazzo e la piazza della città tengono a raccolta il tempo della festa, i giochi, i tornei, la scena: tutto secondo un preciso rituale simbolico celebrativo, esornativo. La festa coincide solitamente con una cadenza religiosa, con il periodo del Carnevale, secondo una tradizione plurisecolare legata a ritmi e credenze popolari, che si trasformano in occasione di sovvertimento simbolico delle regole morali e di sfogo di passioni e istinti collettivi. Da questa coincidenza prendono origine le “sacre rappresentazioni”, che ebbero soprattutto nella Firenze di Lorenzo il Magnifico una straordinaria diffusione.
Nel quadro della società di corte, la festa coincide con il trionfo della città, con l’esaltazione del suo statuto politico. Casi emblematici di questa vicenda sono quelli di Urbino, dove viene rappresentata la Calandria del Bibbiena, e di Ferrara, dove fino dalla seconda metà del Quattrocento, sotto il ducato di Ercole I d’Este, il teatro aveva assunto una funzione di mediazione nel rapporto tra città e contado, tra centro e periferia. In questo contesto si collocano le numerose traduzioni dei testi latini commissionate agli scrittori di corte (vengono allestite in questo periodo le commedie I Menecmi, l’Andria e l’Anfitrione di Plauto, il commediografo latino che conobbe in questo periodo una straordinaria diffusione).
La ricca ricerca teatrale dell’Ariosto assume ai primi del Cinquecento il significato di una ripresa del genere comico ai più alti livelli letterari: il teatro è l’attività che il poeta alterna con maggiore frequenza e impegno al Furioso. Del 1508 è la rappresentazione della Cassaria, cui seguirono di lì a poco I Suppositi, il Negromante (1520), la Lena (1528): testi in prosa o in versi di chiara ispirazione classica, che vennero rappresentati con scenografie opportunamente realizzate da architetti e pittori importanti (nel 1519 i Suppositi vennero recitati a Roma davanti a Leone X con l’allestimento di Raffaello).
Nel teatro di Ariosto il confronto, la rappresentazione e l’immedesimazione con la corte sono più marcati che in altri autori. Questo atteggiamento viene comunque ricondotto all’esempio classico della commedia di Terenzio e di Plauto, senza allargare lo spettro d’azione alla metafora politica, rimanendo piuttosto nell’ambito degli intrecci amorosi e degli inganni, celebrando la civiltà estense e la dimensione ideale di Ferrara.
Le incertezze linguistiche di Ariosto, che scrive alternativamente in prosa e in endecasillabi, vengono definitivamente allontanate nelle soluzioni precise, anticlassiche, di Machiavelli. Nella Mandragola, lo stile naturalistico e boccaccesco del fiorentino colto, sostengono una materia realistica e ineccepibile sotto il profilo dell’azione, strettamente aderente alle regole classiche delle tre unità aristoteliche (luogo, tempo, azione). L’importanza di una lingua efficace e immediata venne affrontata da Machiavelli anche nel Dialogo intorno alla nostra lingua, in cui si teorizzava, nel genere teatrale della commedia, l’utilizzo della lingua viva, arricchita da inflessioni locali e gergali.

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