Il Barocco in Italia e in Europa

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Testo

STATUS DELL’INTELLETTUALE
A partire dal periodo della Controriforma, è sempre più rara la figura del letterato che riesce a vivere del proprio lavoro: messi in difficoltà dall’onnipresente censura della Chiesa, gli scrittori devono mettersi al servizio del potere civile (la corte) o ecclesiastico (la chiesa).
Ma sia la carriera ecclesiastica sia la sistemazione presso una corte sono problematiche: la Chiesa ha bisogno di propagandisti, di teologi, di predicatori; le corti di diplomatici, di giuristi, di uomini d’arme.
E’perciò sempre più difficile che un intellettuale ottenga posti di prestigio per soli meriti letterari, con la conseguenza che, a partire dagli ultimi decenni del ‘500, il numero dei letterati “indipendenti” si riduce: al loro interno cresce la presenza dei nobili, e tra i nobili sono in aumento gli appartenenti al clero.
Quest’ultimo dato è particolarmente significativo se si tiene conto che un intellettuale non può più scegliere lo stato ecclesiastico per soli motivi di convenienza, contando sul fatto di mantenere intatta la sua libertà di ricerca e di studio.
Ora la Chiesa forma i suoi chierici direttamente, li sottopone a un controllo inflessibile, li irreggimenta nel quadro di una politica culturale finalizzata a difendere l’ortodossia e imporre i valori morali e religiosi della Controriforma. L’ordine religioso che meglio rappresenta questa subordinazione del lavoro intellettuale alle finalità della Chiesa è la Compagnia di Gesù. I collegi dei gesuiti, diffusi in tutto il mondo cattolico, diventano ben presto la scuola prediletta dall’aristocrazia e dai borghesi in cerca di promozione sociale, e i membri dell’Ordine, grazie al loro qualificato impegno pedagogico, hanno accesso agli ambienti del potere come precettori di principi e confessori di sovrani. I gesuiti sono gli intellettuali più preparati di cui dispone la Chiesa della Controriforma, attivi in ogni campo della cultura (letteratura, politica, scienza…), in più sono fedeli custodi dell’ortodossia e abilissimi nel ricondurre i risultati più avanzati del pensiero laico all’interno della cultura ecclesiastica.
Ma anche nelle corti la condizione dell’intellettuale non è migliore né più gratificante.
Se è vero che la corte è ancora l’unico ambiente in cui un letterato può trovare sicurezza economica e protezione, è anche vero che tra ‘500 e ‘600 essa si va trasformando da luogo di promozione della cultura in angusto centro di vita politica e amministrativa, in cui l’attività letteraria sta perdendo sempre più molto del suo prestigio.
Perciò non sono in grado di accogliere tutti gli intellettuali che vi vorrebbero entrare, e in più offrono ai pochi che riescono ad esservi ammessi una posizione dequalificata: alla figura del “perfetto cortigiano” che nella corte umanistico-rinascimentale realizzava pienamente le sue aspirazioni culturali e trattava alla pari col principe, si sostituisce ora quella del “segretario”, specializzato nel compilare lettere e nell’eseguire ordini. Così la corte diventa luogo di inevitabili frustrazioni, dominato da un clima di servilismo, competizione e dissimulazione, tipico dell’epoca. A questa situazione gli scrittori reagiscono in vari modi: per esempio Marino, approdato alla corte di Luigi XIII, dice di se stesso “ Io servo, ma non mi posso vergognare della mia servitù, poiché servo ad uno dei primi re del mondo”.
I LUOGHI DELLA PRODUZIONE
I centri culturali in cui nasce e si elabora la produzione letteraria italiana del 1600 sono la chiesa e la corte (vedi in STATUS DELL’INTELLETTUALE), ma la novità del tempo sono le accademie (letterarie e scientifiche).
Esse si presentano come luoghi protetti, isolati dalle lacerazioni e dai conflitti sociali, in cui i letterati trovano occasioni di incontro e confronto, riconoscimenti, possibilità di far stampare e diffondere le loro opere. Si modellano sulla struttura delle corti per la minuziosità dei regolamenti e dei rituali, e, come le corti, sono rigidamente separate dal mondo circostante; al loro interno la letteratura è concepita come un esercizio per iniziati e le conversazioni tendono ad ignorare i problemi concreti del presente per affrontare tematiche libresche, che interessano solo la ristretta cerchia dei letterati.
Questa lontananza dalla realtà è frutto, ancora una volta, del rigido controllo esercitato dal potere civile ed ecclesiastico.
Discorso a parte meritano le accademie scientifiche, che si propongono di tenere vivi lo studio e la ricerca al di fuori delle università arroccate nella difesa delle vecchia cultura aristotelica. Da ricordare l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603, che sostiene le ricerche di Galileo fino a quando le autorità ecclesiastiche decidono di chiuderla; l’Accademia del Cimento, nata a Firenze nel 1657, che raccoglie i più importanti allievi di Galileo fino a quando è costretta a chiudere dieci anni dopo la sua fondazione.
Dal punto di vista geografico, i centri culturali più importanti in Italia sono:
- Roma, capitale del cattolicesimo e dello Stato della Chiesa. Gli intellettuali che da tutta la penisola affluiscono verso Roma richiamati dalla committenza del papa, delle famiglie patrizie, degli ordini religiosi, devono far professione di ortodossi e dimostrarsi disposti a mettersi al servizio della politica culturale della Chiesa.
- dopo Roma il centro culturale più attivo è la repubblica di Venezia, principale polo editoriale italiano e, l’anti-Roma per la sua capacità di indipendenza politica dalla Spagna e dal Papato. La situazione cambia nel corso del 1600, quando una grave crisi economica obbliga la città a rinchiudersi in se stessa, e l’attività culturale si orienta quasi esclusivamente verso il teatro.
PUBBLICO
Da quanto scritto sopra, deriva che la letteratura barocca è ancora rivolta ad un’élite, in particolar modo agli uomini di corte e poi all’ambito ecclesiastico e delle accademie. Solo marginalmente si rivolge ad un pubblico esterno agli ambiti appena individuati.

LINGUA
Nel ‘600 si impone il volgare toscano come lingua dell’uso letterario scritto, ma contemporaneamente dall’assenza di una lingua nazionale omogeneamente diffusa in ambito geografico e sociale.
L’imporsi del toscano per l’uso letterario (anche nel settore scientifico, filosofico e giuridico) riguarda solo una ristretta élite intellettuale. Nel 1583 nasce a Firenze l’Accademia della Crusca che nel 1621 stampa il suo vocabolario (tuttora esempio di codificazione di una lingua moderna) scegliendo come modello di lingua addirittura il fiorentino parlato.
Nell’uso orale quotidiano, gli stessi letterati, le cancellerie degli stati e, a maggior ragione, gli illetterati fanno ancora largo uso del dialetto locale (in alcuni casi solo il dialetto).
Il latino permane come lingua della Chiesa e dell’insegnamento superiore.
Il dialetto viene talora impiegato nell’uso scritto con finalità d’arte

FINALITA’
Secondo i poeti e i teorici barocchi che rifiutano la concezione pedagogica dell’arte dominante nel passato, quello della “meraviglia” è il fine principale della poesia. E’ lo stesso Marino, massimo esponente del barocco italiano, ad affermare che il fin dell’arte è meraviglia.
Il fine della meraviglia il poeta lo raggiunge grazie alla facoltà dell’ingegno o acutezza (= capacità di istituire relazioni sorprendenti tra elementi del reale lontani tra loro) e per il mezzo concreto del concettismo, cioè espressioni argute, metafore artificiose e audaci, sperimentalismo linguistico.
La “poetica della meraviglia” consiste:
• nel timore d'incorrere nelle condanne dell'Inquisizione con una poesia impegnata
• nel ritenere che la poesia non abbia altro fine che il diletto
• nell'evitare qualunque riproduzione diretta della natura (considerata la maggior nemica dell'arte)
• nell'usare lo strumento della metafora fino all'eccesso (es. posta una metafora di fondo, rosa-regina dei fiori, attribuire alla rosa tutte le qualità proprie di una regina).
La poesia diventa così un gioco intellettualistico, bizzarro, ricercato, astruso, spesso volutamente oscuro.
GENERI LETTERARI
I generi letterari del Barocco che continuano la tradizione cinquecentesca sono la lirica e il teatro; rappresentano invece un’assoluta novità il poema eroicomico(solo in Italia), il trattato scientifico e il romanzo picaresco (solo in Spagna).
LA LETTERATURA BAROCCA IN ITALIA
Il termine barocco compare in Italia nel XVI secolo con una connotazione negativa che si riferisce ad un modo di ragionare minuzioso, nato dal contrasto tra l’apparente logicità del ragionamento e l’inconsistenza dei contenuti (Croce, filosofo del Novecento, considera il Barocco una letteratura priva di contenuti interessanti).
Nel Settecento il termine acquista una connotazione polemica e indica il “cattivo gusto”, volto a stupire il lettore o lo spettatore con bizzarri effetti verbali o figurativi.
La produzione letteraria di questo periodo assume connotati nuovi, e si allontana dal modello del Classicismo pur riconoscendone il valore.
Essa è influenzata dalle nuove scoperte scientifiche, grazie alle quali si ha una visione nuova dell’Universo che genera la consapevolezza di una straordinaria modernità e del fascino della scoperta, ma anche un senso d’angoscia.
L’angoscia e l’ansia della modernità percorrono in modo sistematico le arti e la scrittura, che non si possono più accontentare di imitare i canoni e i testi codificati.
Ne deriva quindi una posizione di netto anticlassicismo: il bello e l’armonioso, idoli dell’estetica rinascimentale, si rovesciano nei loro opposti, aprendo il varco all’ingresso massiccio dello strano e dello stravagante, o addirittura del brutto, del deforme e del mostruoso.
Si sviluppa un gusto per il bizzarro attraverso il quale il poeta vuole stupire il pubblico mediante la sperimentazione di nuove forme e linguaggi mai toccati dalla letteratura.
……………………………………

LA LIRICA BAROCCA ITALIANA
Sullo sfondo degli sconvolgimenti culturali che percorrono la società del Seicento, i generi poetici subiscono una profonda trasformazione: i canoni del classicismo rinascimentale vengono messi in discussione e si scatena un diffuso desiderio di novità e di sperimentazione. La lirica abbandona il modello petrarchesco per cimentarsi con temi e modi sorprendenti, bizzarri, estranei alla tradizione poetica.
I temi privilegiati della lirica (e dell’arte barocca) sono
-l’Eros spinto fino alla morbosità
-la morte, spesso attraversata da una componente macabra
-la coscienza della fragilità umana (in latino la vanitas), che alimenta il culto per le rovine e la passione per l’archeologia ( rovine dell’antica Roma)
- gli aspetti della realtà inusuali e bizzarri (per esempio gli insetti)
- la donna, celebrata però nei dettagli della sua persona (capelli, labbra, immagine riflessa) o in un atteggiamento quotidiano e prosaico(mentre cuce, mentre si guarda allo specchio, mentre si pettina o si leva dal letto). Nella lirica barocca compaiono poi figure di donne assolutamente inedite: “la bella mendica”, ovvero la mendicante, con la sua bellezza nascosta fra gli stracci e il sudiciume; la donna con gli occhiali, la donna gobba, la donna con le pulci, la schiava di colore, oppure la donna malvagia e ingannatrice.
Fondamentale la cura riservata alla forma: il linguaggio è molto raffinato e di altissimo livello poetico, rafforzato dall’utilizzo di una straordinaria vastità di figure retoriche, in particolare metafore e iperboli.

MARINISMO
La lirica italiana del Seicento è dominata dalla figura e dall'opera di Giambattista Marino,il maggior rappresentante della poesia barocca.
La sua concezione di poesia è incentrata su un uso intensivo delle antitesi e di tutti i giochi di rispondenze foniche, sulle descrizioni sfoggiate e sulla musicalità del verso, ed ha avuto ai suoi tempi una fortuna immensa, paragonabile solo a quella del Petrarca prima di lui.
Largamente imitato oltre che in Italia, è stato il punto di riferimento della poetica barocca e indicato come la fonte o il simbolo del “malgusto” barocco.
Il "marinismo", che coinvolse poeti di ogni parte d’Italia per tutta la durata del secolo, è caratterizzato dal rifiuto del classicismo e del petrarchismo cinquecentesco, dall' amore per la sperimentazione e per la novità, dall’esibizione di “ingegno" e "argutezza" nel quadro della poetica barocca della "meraviglia".
Nella ricerca di immagini e temi estranei alla tradizione poetica i poeti marinisti cantano da angoli di visuale inediti e sorprendenti la figura femminile e la tematica amorosa, gli aspetti singolari e bizzarri del mondo della natura, e danno voce allo stupore e allo smarrimento di fronte alle rivoluzioni del pensiero filosofico e scientifico evocando l'immagine della morte e l'illusorietà delle apparenze e delle immagini del mondo.
Con l’espressione “marinisti”si intende denunciare la scarsa originalità, la tendenza all'imitazione pedissequa, la monotonia dei temi, l'eccesso di retorica e la vuota magniloquenza che, secondo un giudizio critico drasticamente negativo, caratterizzano (salvo poche eccezioni) il complesso della lirica concettista del XVII secolo (per concettismo si intese il metodo della letteratura barocca che rifiuta il livello linguistico comune, attiva gli aspetti sensuali e immaginativi del linguaggio, lo impreziosisce e ne esaspera l’artificiosità per ottenere effetti nuovi e sorprendenti in grado di creare meraviglia; nasce da qui il piacere dell’estetico).
Marino cerca di stupire il lettore dimostrandosi capace di mettere in versi gli argomenti più improbabili e bizzarri.
Sarebbe tuttavia riduttivo identificare con questi casi limite l'intera esperienza del marinismo: accanto alle esasperazioni e alle stravaganze, emergono dal complesso della lirica concettista non pochi casi di autentica poesia, di seria e profonda meditazione, soprattutto quando questi scrittori si confrontano con i grandi temi della morte e del tempo (è il caso di Ciro di Pers, forse il maggiore fra i marinisti) o illusorietà del reale (il caso di Girolamo Preti) . In più, l'intera produzione dei marinisti ha avuto il merito di offrire un repertorio immenso di materiali e di soluzioni espressive, al quale attingeranno senza risparmio le future generazioni di letterati che, pur deprecando il "cattivo gusto" della poesia barocca, non potranno fare a meno.
Antologia di liriche barocche
Questo sonetto è di Giambattista Marino, massimo esponete della lirica barocca italiana, che verrà preso come modello per altri autori del suo periodo.
Questo scrittore ha una personalità molto forte e trasgressiva ma è anche un soggetto molto colto. Ciò lo si vede quando utilizza un lessico forbito, ricco di numerosi latinismi ed espressioni poetiche. Amava sfoggiare la sua erudizione ed abilità linguistica nell’improvvisare sonetti, seguendo tutte le regole richieste per quest’ultimo, con una discreta riuscita. I suoi componimenti sono saturi di metafore (caratteristica, questa, tipicamente barocca) ma anche di iperboli, perifrasi, anastrofi; per costruire le metafore fa riferimento al mondo naturale generalmente inutilizzato, come sole, fiori di cui mai si era parlato prima, pietre preziose che richiedono un’ampia conoscenza in merito, animali mai presi in considerazione, etc.
Oltre a ciò, bisogna dire che, questo compositore, per stendere i suoi sonetti, si basa sul criterio del concettismo, che riprende il “gongorismo” spagnolo, cioè la stesura di componimenti che si basano su un’unica idea, che viene continuamente ripetuta variando solo le figure retoriche.
Da questa ossessiva cura per la forma a scapito dei contenuti deriva, probabilmente, il giudizio negativo del filosofo Benedetto Croce, secondo il quale il Barocco sarebbe un periodo di una “letteratura senza poesia”,
Il tema trattato nella lirica è l’amore, celebrato per mezzo di una caratterista della donna, i capelli, “[…]parte con globi d’or[…]” (v.7), che fanno innamorare l’autore. Ci troviamo davanti ad un testo ricco di figure retoriche con la prevalenza di metafore e anastrofi, che complicano notevolmente la comprensione del testo.
Nella prima strofa troviamo metafore come “[…]il mio bel sol[…]” (v. 2) che indica la donna, della quale vengono descritti i capelli biondi come l’oro dei raggi solari; perifrasi come “[…]luce al dì nascente[…]” (v. 3) per dire alba, mentre nella seconda strofa incontriamo l’enjambement nei versi 7-8; si possono isolare altre metafore come: “[…]in nembo[…]” che rinvia ai capelli ricci, “[…]globi d’or[…]” (v. 7) cioè boccoli dorati, “[…]mille laccioli ed ami[…]” (v. 11) indicando le trappole che Amore posiziona per far innamorare l’autore, “[…]i rami lucenti de la selva aurea sua[…]” (v. 9 - 10) descrive i capelli lucenti della chioma bionda della ragazza. L’ultima strofa brulica di metafore che esaltano la lucentezza e lo splendore dei capelli biondi che sono talmente belli che Amore li segue incantato come succede al girasole con il sole.
La lingua utilizzata è di alto livello, la cui comprensione è resa difficoltosa, anche, dalla presenza di numerosi latinismi come “aura” (v. 1), “crin” (v. 1), “piovea” (v. 6), “omeri” (v. 6), “serpente” (v. 7), “aurea” (v. 10), “tendea” (v. 11), “aurati” (v. 13), “stami” (v.14). Troviamo la personificazione di Amore e l’utilizzo della parola “seno” ,nel verso 8, come richiamo erotico.
Nella lirica viene ripreso un argomento già utilizzato in precedenza da un poeta trecentesco, Francesco Petrarca, nella poesia “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”, e ciò fa emergere la cultura di Marino.
Questo testo nonostante tratti l’amore per una donna, è molto fredda come composizione, priva di sentimenti, la donna viene esaltata solo in un dettaglio del suo corpo. Questa scelta probabilmente è dovuta alla necessità da parte dell’autore di sottrarsi alla censura ecclesiastica.
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Orologio da rote
di Ciro di Pers
Parafrasi letterale
Parafrasi discorsiva
Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: Sempre si more.
Mentre il metallo concavo percuote
voce funesta mi risuona al core
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
Perch’io non speri mai riposo o pace
questo che sembra in un timpano e tromba
mi sfida ogn’or contro a l’età vorace
e con que’ colpi onde ‘l metal rimbomba
affretta il corso al secolo fugace
e, perché s’apra, ogn’or picchia a la tomba.
Ordigno mobile di rote dentate
lacera il giorno e divide in ore
e di fuor, a chi le sa legger,
ha scritto con note fosche; Sempre si more.
Mentre il martello concavo percuote
mi risuona al core voce funesta
né il tenore rio del fato si puote
spiegar meglio che con voce di bronzo.
Perch’io non speri mai riposo o pace
questo che sembra in un timpano e tromba
ogn’or mi sfida contro a l’età vorace
e con que’ colpi onde ‘l metal rimbomba
affretta il corso al secolo fugace
e ogn’or picchia a la tomba
perché s’apra.
Questo meccanismo che si muove con route dentate
lacera il giorno e spezza le ore
e fuori, per chi sa leggere, ha scritto con parole scure: Sempre si muore.
Mentre il martelletto colpisce la campana
risuona nel mio cuore una voce fatale
né l’andamento malvagio del destino si può
spiegar meglio che con questo suono metallico
Affinché non speri mai nel riposo e nella pace
questo (orologio) che mi sembra contemporaneamente tamburo e tromba
mi spinge a lottare ogni ora contro il tempo che passa velocemente
e con quei colpi (di martello) a causa dei quali il metallo rimbomba
rende più veloce lo scorrere già rapido della vita
e in ogni momento bussa alla tomba perché si spalanchi.
La lirica sopra riportata è stata composta da Ciro di Pers, illustre sconosciuto, membro di una nobile famiglia friulana, appartenente all’ordine di Gerusalemme.
Seguace del Marino quanto alla cura della forma e al concettismo, utilizza un lessico di alto livello e molto colto, anche se meno ostico di quello dello stesso Marino.
Il componimento tratta il tema dell’inesorabile scorrere del tempo ed è fonte di angoscia per le persone, perché la morte avanza. Non troviamo più alcuna traccia della gioia di vivere tipica della letteratura umanistico- rinascimentale ma è un modo di vivere ansioso, cupo, straziante.
Tutto ciò lo si coglie nelle continue ripetizioni del tempo che scorre veloce (esempio di concettismo): “[…]lacera il giorno e lo divide in ore[…]” (v. 2), “[…]Sempre si more[…]” (v. 4), le strofe brulicano di esempi e parole che sottolineano questo stato d’animo di terrore.
Nel testo abbiamo la presenza di numerose metafore come “[…]lacera[…]” (v. 2) che indica lo squarciare il tempo, renderlo in brandelli, “[…]risuona al core[…]” (v. 6) qui si intende il risuonare dei rintocchi delle campane che colpiscono l’animo del poeta che ha paura del tempo che scorre e lo avvicina alla morte, “[…]età vorace[…]” (v. 11) cioè il tempo che scorre molto veloce, “[…]al secolo fugace[…]” (v. 13) denotiamo con questa figura retorica l’ansia per la fine della vita, aumentata dal passare rapido delle ore e “[…]picchia a la tomba[…]” (v. 14) naturalmente non picchia realmente sulle tombe per aprirle ma indica la morte che arriva. Poi abbiamo alcune perifrasi: “[…]Mobile ordigno di dentate rote[…]” (v. 1) descrizione dell’orologio, “[…]metallo concavo[…]” (v. 5) che indica la campana. Altre figure retoriche che Ciro di Pers ci propone sono l’iperbato nei versi 7-8, la presenza di numerose anastrofi, vedi versi 3-4, 11, etc. Presenta anche esempi di iperbole come “[…]lacera[…]”(v.2).
La lingua è ricca di numerose figure retorica, in prevalenza metafore e anastrofi. Numerosi anche i latinismi come “ordigno” (v. 1), “rote” (v. 1), “more” (v. 4), “core” (v. 6), “fato” (v. 7), “si puote” (v. 7), “rio tenore” (v. 8), “vorace” (v. 11), “fugace” (v. 13). Il testo presenta numerosi esempi di parole tipicamente poetiche, cioè parole tronche come “fuor” (v. 3), “spiegar” (v. 7), “or” (v. 11).
Ciro di Pers utilizza parole che sottolineano il passare veloce del tempo e la corsa di quest’ultimo verso la morte, col risultato di creare un clima cupo ma non ancora macabro.
Probabilmente, questo modo di vedere le cose, viene influenzato dal panorama che lo scrittore vede ogni giorno. Egli vive nel Friuli, in un castello cupo contornato da montagne e decentrato rispetto alle zone di maggior vivacità cioè Napoli e Roma.
L’utilizzo dell’orologio meccanico, poi, non è una scelta casuale, ma diventa simbolo della nuova visione del mondo e della rivoluzione scientifica che caratterizza il 1600.
Nel terzo verso abbiamo una citazione da parte di Ciro di Pers della “Divina Commedia” di Dante Alighieri. Difatti con “fosche note” riprende i versi iniziali del terzo canto dell’Inferno dove Dante dice
“[…]Queste parole di colore oscuro / vid’io scritte al sommo d’una porta;[…]”
In questo componimento, a differenza di quello di Marino, la lirica non è fredda ma esprime dei sentimenti che percorrono l’animo dello scrittore e lo turbano. La censura, che imperversa in Italia, non può dir nulla nei confronti di questo componimento perché tratta della morte che si avvicina, anche se, in maniera priva di speranza verso una vita nell’aldilà, quindi la descrizione della fine della vita in maniera totalmente laica.
A una zanzara
di G. Maia Materdona
Parafrasi letterale
Parafrasi discorsiva
Animato rumor, tromba vagante,
che solo per ferir talor ti posi,
turbamento de l’ombre e de’ riposi,
fremito alato e mormorio volante;
per ciel notturno animaletto errante,
pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi;
invan ti sforzi tu ch’io non riposi:
basta a non riposar l’esser amante.
Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza
vattene; e incontro a lei quanto più sai
desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.

D’aver punta vantar sì ti potrai
colei, ch’Amor con sua dorata frezza
pungere ed impiagar non poté mai.
Rumor animato, tromba vagante,
che ti posi talor solo per ferir,
(tu sei) turbamento de l’ombre e de’ riposi,
(tu sei) fremito alato e mormorio volante;
animaletto errante per il ciel notturno,
pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi;
tu ti sforzi invan ch’io non riposi:
l’essere amante basta a non riposare.
vattene a chi non ama, vattene a chi mi sprezza; e desta il suono, arma gli aghi,
usa fierezza
quanto più sai incontro a lei
sì ti potrai vantar d’aver punta
colei, ch’Amor non poté mai pungere ed impiagar con sua frezza dorata.
Rumore in movimento, tromba vagante,
che ti fermi solo per pungere,
tu che disturbi le notti e il sonno
fremito dotato di ali, mormorio volante;(zanzara)
insetto errabondo nei cieli della notte,
trattieni i tuoi mormorii aspri e noiosi;
tu ti sforzi invano per non farmi dormire:
quando essere innamorato è sufficiente per passare le notti in bianco
Vattene da chi non ama, vattene da chi disprezza il mio amore; fai rumore, affila il pungiglione
e usa crudeltà
al massimo delle tue capacità, contro di lei.
così ti potrai vantare di avere ferito la donna, che amore non è mai riuscito a pungere né ferire con la sua freccia dorata.
Questo sonetto è di Gianfrancesco Maia Materdona, nato in provincia di Lecce e fu un sacerdote.
La tematica del sonetto non è la zanzara e i fastidi dolorosi che essa procura, bensì le sofferenze provocate da un amore non ricambiato di cui l’autore desidera vendicarsi.
Dunque la zanzara è pretesto per parlare d’amore: l’autore, infatti, non era libero di mettere in mostra i suoi sentimenti, essendo un sacerdote e per di più nel periodo della contro riforma.
Il tema dell’amore non ricambiato è stato spesso usato da Petrarca, con la differenza è che il poeta trecentesco ne poteva scrivere apertamente, senza usare insetti dietro i quali nascondersi.
Il paragone della sofferenza provocata dalla zanzara e di quella provocata dall’amore rende il sonetto più ironico e giocoso, oltre inusuale ed originalissimo, nel solco dello spirito barocco
A rendere complicato il testo ci pensano le figure retoriche:
Cinque perifrasi ( i primi 5 versi) per indicare la zanzara.
Numerose le metafore come “ tromba vagante” cioè il muso della zanzara e “sussurri aspri e noiosi” (verso 6) per intendere il ronzio fastidioso della zanzara o nei versi 13-14 “ch’Amor con sua dorata frezza pungere ed impiagar non poté mai” per dire che la donna non è mai riuscita ad innamorarsi, nella quale è presente anche una personificazione “Amor”(verso 13).
Molto importante è la presenza del chiasmo nei versi 9-10 “vattene(A) a chi non ama(B), a chi mi sprezza (B) vattene (A)” con schema ABBA.
Numerose anche le iperboli.
Queste figure retoriche rendono il linguaggio molto colto, aiutate anche da latinismi che consentono all’artista di esibire la propria abilità allo scopo di “meravigliare”.
Per la sua donna specchiatesi
di Girolamo Preti
Parafrasi letterale
Parafrasi discorsiva
Mentre in cristallo rilucente e schietto
il bel volto costei vagheggia e mira
armando il cor d’orgoglio, il ciglio d’ira,
del suo bel, del mio mal prenda diletto.
Vaga del vago e lusinghiero aspetto
dice: - Ben con ragion colui sospira! –
Sembrano a lei, che sue bellezze ammira,
oro il crin, rose il labro, e gigli il petto.
Ah, quel cristallo è mentitor fallace,
che scopre un raggio sol del bello eterno,
anzi un’ombra d’error vana e fugace!
Vedrai, se miri il tuo sembiante interno,
cui ritragge il mio cor, specchio verace,
angue il crin, tosco il labro, il petto inferno.
Mentre costei vagheggia e mira
il bel volto in cristallo rilucente e schietto
prende dal mio mal diletto, del suo bel,
armando il cor d’orgoglio, il ciglio d’ira.
Vaga del vago aspetto e lusinghiero
dice: - Ben con ragion colui sospira! –
che sue bellezze ammira, sembrano a lei
il crin oro, il labro rose, e il petto gigli.
Ah, quel cristallo è mentitor fallace,
che scopre un sol raggio del bello eterno,
anzi un’ombra d’error vana e fugace!
Se miri il tuo sembiante interno,
cui ritragge il mio cor, specchio verace, vedrai
il crin angue, il labro tosco, il petto inferno.
Mentre lei ammira e guarda
il suo bel volto nello specchio luminoso e limpido
si rallegra del mio dolore dovuto alla sua bellezza,
armando d’orgoglio l suo cuore e d’ira il suo sguardo.
Innamorata del suo bel l’aspetto degno di ammirazione
dice: - ha ragione lui ad essere innamorato di me! -
Mentre lei contempla la sua bellezza,
i suoi capelli le sembrano d’oro, le sue labbra rose, e il seno dei gigli.
Ah, quello specchio è un bugiardo mentitore,
perché mostra solo un momento della bellezza eterna,
anzi, mostra un’ombra vana e fuggevole!
Se guardi dentro il tuo animo
In cui si rispecchia il mio cuore, tu, specchio veritiero, vedrai
i capelli di lei come serpenti, la sua bocca veleno, il suo seno un inferno.
L’autore di questa lirica è Girolamo Preti, bolognese di nascita, probabilmente borghese, anche lui seguace di Marino.
La poesia tratta della donna amata, la cui bellezza viene celebrata tramite la visione del suo riflesso nello specchio. Questo è un tema tipico della lirica barocca, in questa maniera si esalta una sola caratteristica della figura femminile e in questo caso la sua immagine vista nello specchio.
Il riflesso della realtà nello specchio può essere accostato alla tematica del “sogno”, tipica della poesia spagnola e anche di molta produzione teatrale di Shakespeare: il sogno come il riflesso, non riportando fedelmente la realtà, finiscono per offrire al poeta una via di fuga da una realtà insostenibile.
Altra tematica è trascorrere inesorabile del tempo […]che scopre un raggio sol del bello eterno
anzi un’ombra d’error vana e fugace![…], che tutto trasforma e deforma.
Il poeta utilizza numerose figure retoriche come la sineddoche “[…]cristallo[…]” (v. 1) cioè l’utilizzo del materiale di cui è fatto l’oggetto che si vuole indicare, in questo caso lo specchio, abbiamo anche una perifrasi con la quale il poeta vuole rievocare lo specchio “[…]Mentre il cristallo rilucente e schietto[…]” (v. 1), numerose metafore: “[…]armando il cor[…]” (v. 3), “[…]il ciglio d’ira[…] (v. 3), “[…]oro il cin, rose il labro, e gigli il petto[…]” (v. 8); “[…]angue il crin, tosco il labro, il petto inferno[…]” (v. 14). Nel componimento troviamo anche la figura retorica dell’iperbole cioè “[…]mentitor fallace[…]” cioè abbiamo la ripetizioni di due termine diversi con uguale significato che come hanno come scopo di sottolineare che lo specchio è bugiardo.
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All’incenerite ossa d’umano cadavere di A. Basso
Parafrasi letterale
Parafrasi discorsiva
Sostenner, tempo è già, membra e figura
Queste d’umano frale ossa insensate,
che vòlte in polve fûr pria formate,
mostran di noi vil fasto esser natura.

Pasto a lui diede il mondo, indi pastura
di fère ei fu da se medesmo, ahi, nate!
In tenebre riposa or lunga etate
chi poca ebbe qua giù di luce usura.
Ma qual riposo è ‘l suo se, reso informe,
fatto d’aspri contrari atro suggetto,
varia in lui la materia ognor più forme?

O di mortal cagion continuo effetto!
Viviam, lassi, poche ore; e di noi l’orme
Serbare al cener nostro anco è disdetto.
Tempo è già, queste ossa insensate
sostenner membra e figura d’uman frale,
che vòlte in polve fûr formate pria,
(esse) mostran di noi natura esser vil fasto.
Il mondo diede pasto a lui,
indi ei fu pastura di fère,ahi, nate da se medesmo!
Or, chi ebbe poca
usura di luce qua giù,
riposa in tenebre, lunga etate.
Ma qual riposo è ‘l suo se,
reso informe,
fatto atro suggetto d’aspri contrari,
la materia varia in lui
ognor più forme?
O effetto continuo di cagion mortal!
(noi) viviam, lassi, poche ore; e è anco disdetto serbare al nostro cener
l’orme di noi.
al nostro cener
Un tempo, queste ossa prive di senso facevano da sostegno al corpo e al volto di un essere umano fragile,
ed esse, trasformatesi in quella stessa polvere con la quale erano state composte all’origine
mettono in luce come la nostra natura sia vuota apparenza.
La natura ha fornito il cibo a vermi, ahi me, generati da lui
stesso!
Ora, colui che ebbe poca possibilità di godere la luce sulla terra,
riposa nelle tenebre per lungo tempo.
Ma che tipo di riposo è il suo se, , deformato il suo corpo,
diventato uno spaventoso oggetto di sgradevoli conflitti,
la materia di cui è costituito cambia assume continuamente diverse forme?
O effetto eterno di una causa mortale!
Noi viviamo infelici per poche ore; è non ci è neanche permesso di conservare nel nostro cadavere
le impronte del nostro aspetto
Il poeta barocco di questo sonetto si chiama Antonio Basso, medico, nato nei primi anni del Seicento, a Napoli.
Essendo un poeta seicentesco affronta anche lui tematiche caratteristiche del barocco, come ad esempio il tema della precarietà della vita, del tempo che scorre inesorabilmente e porta gli uomini sempre più vicini al disfacimento organico del corpo.
Questa è una visione della morte molto terrena e di certo non divina, anche se c’è un accenno alla Bibbia “…che vòlte in polve fûr pria formate…”(verso 3)
Nonostante la tematica lugubre e orrorifica, il linguaggio permane molto raffinato e poetico, insieme a una straordinaria ricchezza di figure retoriche.
Nel primo verso troviamo subito una Sineddoche “…membra e figura…” ovvero l’uso di uno o più termini che indicano una parte anziché usarne uno che indichi il tutto.
Nel secondo verso la figura retorica più utilizzata nel barocco cioè la metafora “…ossa insensate…” .
Un’altra metafora la possiamo trovare nel settimo verso “…in tenebre riposa…” e nel verso seguente (verso 8) “…di luce usura…”.
Tra l’altro queste due metafore fanno parte di un antitesi ovvero la contrapposizione di due elementi luce/tenebre che corrispondono a vita/morte.
Questo sonetto è caratterizzato anche da molte iperboli (esagerazioni):
• “…fère…” (verso 6), delle piccole larve vengono chiamate “bestie”,
• “…poca…” (verso 8), riferito a luce,
• “…poche ore…” (verso 13), nonostante la vita, di solito, duri anni e non ore.
È altre figure retoriche:
­ una perifrasi (versi 5 e 6) “[…]Pasto a lui diede il mondo, indi pastura
di fère ei fu da se medesmo, ahi, nate![…]”
­ una metonimia (verso 14) “…cener nostro…”
La comprensione è resa più complessa per la presenza di parole ancora latineggianti come:
“frale”(verso2), “fûr” (verso3), “pria” (verso3), “vil” (verso4), “indi” (verso 5), “suggetto” (verso 10), “anco” (verso14).
Il tempo che passa viene simboleggiato soprattutto da clessidre, meridiane e da orologi a ruote come abbiamo visto nella poesia di Ciro di Pers “Orologio da rote”.
Questa lugubre poesia nasce, quindi, dal pensiero di una vita troppo breve e infelice “viviam, lassi, poche ore”(verso 13) causato dalla rivoluzione scientifica e filosofica, in particolare dalla teoria eliocentrica, a causa della quale con la scoperta che la terra non è al centro dell’universo, gli uomini si rendono conto di non essere l’unica creazione di Dio e nemmeno la più importante. La mentalità si colora di pessimismo, la paura l’angoscia e il disorientamento fanno sopravvivere una sola certezza: la morte e la corruzione fisica del corpo (non l’aldilà!).
Questa angoscia fa sì che persone molto colte come i poeti del barocco descrivano la morte in maniera così macabra.
Il tema del macabro, proposto per la prima volta in queste poesie, avrà uno sviluppo alla fine del Settecento con la letteratura Gotica.
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ANTIMARINISMO
In opposizione all'enfasi e alla fastosità del marinismo alcuni poeti, chiamati per questo “antimarinisti”, rivendicano la necessità del ritorno a una poesia più razionale, semplice, lineare, classica; principale esponente di questa tendenza è Gabriello Chiabrera.
Riso di bella donna
di Gabriello Chiabrera
Parafrasi
Belle rose porporine,
che tra spine
sull’aurora non aprite;
ma, ministre degli amori,
bei tesori
di bei denti custodite:
dite, rose preziose,
amorose;
dite, ond’ è, che s’io m’affiso
nel bel sguardo vivo ardente,
voi repente
disciogliete un bel sorriso?
È ciò forse per aita
di mia vita,
che non regge alle vostr’ire?
O pur è perché voi siete
tutte liete ,
me mirando in sul morire?
Belle rose, o feritate,
o pietate,
del sì far la cagion sia,
io vo’ dire in nuovi modi
vostre lodi,
ma ridete tuttavia.
Se bel rio, se bell’auretta
tra l’erbetta
sul mattin mormorando erra;
se di fiori un praticello
si fa bello;
noi diciam: ride la terra.
Quando avvien che un zefiretto
per diletto
bagni il piè nell’onde chiare
sicché l’acqua in sull’arena
scherzi appena;
noi diciam che ride il mare.
Se giammai tra fior vermigli,
se tra gigli
veste l’alba un aureo velo;
e su rote di zaffiro
move in giro;
noi diciam che ride il cielo.
Ben è ver, quando è giocondo
ride il mondo,
ride il cielo quando è gioioso:
ben è ver; ma non san poi
come voi
fare un riso grazioso.
Belle rose color di porpora
che non sbocciate tra le spine
quando sorge il sole,
ma, come ancelle dell’amore,
custodite splendidi tesori, tra i bei denti:
dite, belle rose preziose
e piene d’amore,
dite il motivo per il quale
se io fisso il mio sguardo nei vostri occhi,
improvvisamente
voi vi aprite in un bel sorriso?

Ciò forse per dare aiuto
alla mia vita
che non sopporta il vostro cruccio?
O forse perché voi siete felici
quando guardate
me che sto morendo d’amore per voi?
Belle rose, che la vostra crudeltà
o la pietà
siano la ragione di questo vostro comportamento,
io voglio cantare in maniera diversa
le vostre lodi,
ma voi continuate a sorridere.
Se un bel ruscelletto, se una piacevole brezza
tra l’erbetta
di mattina spira mormorando;
se un prato
si arricchisce di fiori;
noi diciamo che la terra ride.
Quando succede che un venticello
per divertimento
con il suo soffio sfiora l’acqua del ruscelletto
in modo da incresparne la superficie e bagnare la terra
noi diciamo che il mare ride.
Se qualche volta tra fiori rossi
e gigli
l’alba si riveste di un velo dorato;
e si muove su orbite di colore azzurro
noi diciamo
che il cielo ride.
È proprio vero, quando è contento
il mondo ride,
quando il cielo è sereno ride:
è proprio vero; ma
né il mondo né il cielo
sanno sorridere come fate voi.
Celebre è questa canzonetta del Chiabrera, che testimonia l’antimarinismo del 1600.
di gusto barocco misurato e disciplinato, ricca d’immagini e metafore preziose.
L’attenzione del poeta è concentrata sull’andamento ritmico determinato dall’uso di versi brevi, rimati in modo da creare un effetto di facile e aggraziata cantabilità: infatti la musicalità del verso è la novità di Chiabrera, che sarà particolarmente apprezzata alla fine del secolo dai membri dell’accademia Settecentesca dell’Arcadia.
La poesia, che usa un linguaggio più semplice, meno di quello del Marino, dal punto di vista del contenuto si rivela ancora tipicamente seicentesca: siamo di fronte ancora alla celebrazione di un dettaglio della figura femminile (la bocca) e domina la metafora.
IL POEMA EROICOMICO
Fonti:
Dal testo alla storia dalla storia al testo vol. C;
www.wikipedia.it - www.progettobabele.it - http://xoomer.alice.it
Il poema eroicomico è un genere letterario che nasce come nuovo prodotto letterario nel 1600 in Italia.. Si tratta di una produzione in versi che ha per oggetto la narrazione parodistica di vicende belliche.
La crisi del poema eroico (o epico)
Tutte le opere di genere eroico successive alla grande produzione rinascimentale (l‘ultimo grande poema eroico ancora ispirato al modello classico è “La Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, pubblicato nel 1581 dopo svariate revisioni) hanno caratteristiche analoghe che rivelano l’evidente crisi della produzione epico-cavalleresca: ripetitività di temi e trame, sciattezza dello stile, assenza di innovazione e di originalità.
Il poema epico classico viene messo in discussione: l'interesse per la ragione e la scienza porta a una reinterpretazione delle arti, e soprattutto della poesia, che vengono valutate non tanto per la loro "bellezza" intrinseca quanto per la capacità di trasmettere messaggi socialmente utili.
Da questo contesto nasce si diffonde rapidamente il genere eroicomico che trae origine da spinte di carattere poetico e storico-culturale: talora infatti negli stessi poemi eroici compaiono apprezzati passi comici o satirici, talora i medesimi autori tentano di produrre opere sia eroiche sia eroicomiche, come Alessandro Tassoni.
Il poema eroicomico assume lo stesso metro del poema eroico, l'ottava, e ne riprende i temi, stravolgendoli però nel ridicolo.
Un esempio è la celebre Secchia rapita (1621) che Alessandro Tassoni ha composto ricollegandosi al “Morgante” di Pulci, creando un capolavoro del nuovo genere.
Il successo di questo tipo di poemi nel Seicento affonda le proprie radici nel gusto della sperimentazione, dell’innovazione, della mescolanza di stili, temi e linguaggi, e soprattutto nella funzione di sfogo della parodia in un’epoca caratterizzata da un rigido controllo della vita culturale e letteraria.
Alessandro Tassoni – La vita e le opere
Tassoni nacque da nobile famiglia a Modena nel 1565. Fin dalla gioventù mostrò un carattere inquieto e insofferente nei confronti della rigida organizzazione gerarchica della società controriformista e, in particolare, del dominio spagnolo. Frequentò le università di Bologna, Ferrara e Pisa. Tra il 1603 e il 1608 esordì in ambito letterario con una raccolta di riflessioni e aforismi in nove libri, in cui affrontò molteplici temi e argomenti e sostenne con decisione la superiorità dei moderni sugli antichi, avviata con il rifiuto del classicismo e dell’aristotelismo. Nel frattempo stese le “Rime” che continuò ad ampliare tutta la vita, testi poetici in parte di impronta marinista. Nel 1609 pubblicò “Considerazioni sopra le Rime del Petrarca” in cui polemizzò vivacemente con i petrarchisti, con particolare riguardo all’amore cortese e platonico ritenuto inconcepibile nella realtà seicentesca, con toni che anticipano quelli del poema eroicomico.Nel 1618 lo scrittore, attratto dalla politica indipendente della corte sabauda, si trasferì a Torino, al servizio del cardinale Maurizio di Savoia e scrisse due “Filippiche” che attaccavano Filippo III di Spagna e incitavano i principi italiani a ribellarsi contro la dominazione straniera. Nel 1622 a Parigi fu pubblicata la sua opera “La secchia Rapita”, parodia dei mediocri poemi eroici del tempo. Tassoni morì a Modena nel 1635.
“La secchia rapita”
“La secchia rapita” è costituita da dodici canti in ottave. Il poema fu composto tra il 1614 e il 1615 in dieci canti, cui ne furono aggiunti altri due nel 1618; la prima edizione uscì a Parigi verso la fine del 1621, ma con la data 1622, subì ritocchi ordinati dalla Congregazione dell’Indice e la versione definitiva fu ripubblicata nel 1624.
L’argomento è storico, ma si tratta – come dice l’autore nella prefazione – di “un poema di nuova spezie inventata dal Tassone che contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su l’istoria della guerra che passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo dell’imperador Federico secondo”.
La vicenda è ambientata nell’Italia del XIII secolo e riguarda la guerra tra Modenesi (chiamati Gemignani in virtù del loro santo patrono) e Bolognesi (Petroniani), in seguito al furto di una vecchia secchia di legno compiuto durante una scorribanda da alcuni Modenesi.
Ecco il passo dell’opera che evidenzia la comicità nella descrizione di come i Modenesi si preparano alla guerra:
“Chi si mise una scarpa e una pianella,
e chi una gamba sola avea calzata,
chi si vesel a rovescio la gonella,
chi cambiò la camicia con l’amata;
fu chi prese per targa una padella
e un secchio in testa in cambio di celata,
e chi con un roncone e la corazza
corse bravando e minacciando in piazza”
Dopo inutili tentativi diplomatici per porre fine alla contesa, la guerra divampa coinvolgendo, oltre a re Enzo, figlio di Federico II l’imperatore, l’intero Olimpo. Con re Enzo insieme ai Modenesi combattono la valorosa guerriera Renoppia e il vile Conte di Culagna, le cui particolari imprese (familiari, amorose e guerresche) occupano gran parte della seconda metà del poema. Infine la pace vede i Modenesi tenersi la secchia e i Bolognesi re Enzo come prigioniero.
Se i singoli fatti storici (di portata ben limitata) sono storicamente provati, l’autore si prende la libertà di invertirne l’ordine: il furto della secchia, che nel poema dà avvio alla guerra, avvenne in realtà un secolo dopo i fatti che nel poema concludono il conflitto.
Lo scopo perseguito è chiaramente il “diletto”, non l’elevazione morale o religiosa del lettore. Lo stesso Tassoni disse di aver composto questo poema “per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e buffonesco; immaginando che, se ambedue dilettavano separati, avrebbono dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà tanto i dotti quanto gli indotti (gli ignoranti) avessero potuto cavarne gusto”.
Le caratteristiche del poema
Pur fedele nella struttura al poema epico, “La secchia rapita” ne costituisce una beffarda parodia, perché sostituisce ai personaggi eroici il loro opposto. Protagoniste non sono figure femminili idealizzate come Clorinda nella Gerusalemme Liberata, ma Renoppia, sorda da un orecchio, e ai paladini come Orlando e Rinaldo si sostituisce il Conte di Culagna, ridicolo, spaccone e vile.
Particolarmente riuscita appare la parodia degli dèi cari ai classicisti, come nel passo che ha per protagonista Alcìde (ovvero Ercole) sull’Olimpo, in cui il semidio che agita la mazza viene paragonato a una guardia svizzera ubriaca.
Tutti i personaggi del poema sono ben disegnati. Efficacissimo, in particolare, è il ritratto del protagonista, il buffonesco antieroe Conte di Culagna (più sotto il passo che lo descrive).
Il plurilinguismo che mescola un lessico basso a termini ed espressioni alte, ma collocate in un contesto tale da diventare ridicole o grottesche, è la chiave della comicità e della satira del Tassoni rivolta contro singoli individui (il Conte di Culagna rappresenta il conte modenese Alessandro Brusantini, realmente esistito e detestato dal poeta), ma anche contro vizi e difetti tipici degli italiani del tempo, come la codardia e la vanagloria. Sullo sfondo del poema, seppure in modo prudente, sono evidenziati i mali dell’Italia: il predominio spagnolo, la mancanza di ideali e di valori etici, il campanilismo e la mania delle guerre fratricide. Tuttavia Tassoni tocca solo di sfuggita questi temi e preferisce divertire il lettore con l’abilità di tratteggio delle caricature, l’uso delle iperboli, la scelta spassosa dei termini, senza escludere il ricorso a metafore di impronta marinista ma in chiave umoristica.
Nel poema non mancano alcune ottave riuscite dal punto di vista poetico, quando Tassoni descrive Modena, la sua città:
“Modana siede in una gran pianura
che da la parte d’austro e d’occidente
cerchia di balze e di scoscese mura
del selvoso Apennin la schiena algente;
Apennin ch’ivi tanto a l’aria pura
S’alza a veder nel mare il sol cadente,
che su la fronte sua cinta di gielo
par che s’incurvi e che riposi il cielo”.
Alla contaminazione tra poesia epica e poesia comico-realistica Tassoni aggiunge ancora una serie di altri “ingredienti”: episodi cavallereschi, lirici, idilliaci e parodie mitologiche con una immensa varietà di materiali e di stili.
Nell’intero poema avviene regolarmente l’opposto di quel che il personaggio o il lettore si aspetta. Il passaggio dalla causa all’effetto, da un oggetto all’altro, da una scena alla successiva, da un atteggiamento stilistico al suo opposto, è posto all’insegna dell’imprevedibilità, dell’animazione e della sorpresa continua.
Tassoni si vanta di aver scoperto la relatività di tutti i linguaggi: eroico, comico, lirico, burlesco, dotto, cavalleresco. In altre parole ognuno è libero di trattare qualunque argomento nel modo che ritiene più opportuno. Ne risulta che l’opera di Tassoni oscilla tra parodia del poema eroico, satira delle misere condizioni dell’Italia e invettiva personale (nel Medio Evo della “Secchia” circolano amici e nemici viventi dell’autore).
" Presentazione del conte di Culagna "
Parafrasi
e 'l primo ch'apparisse a la campagna
fu il conte de la Rocca di Culagna.
Quest'era un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone,
onde i fanciulli dietro di lontano
gli soleano gridar: - Viva Martano. -
Avea ducento scrocchi in una schiera,
mangiati da la fame e pidocchiosi;
ma egli dicea ch'eran duo mila e ch'era
una falange d'uomini famosi:
dipinto avea un pavon ne la bandiera
con ricami di seta e d'or pomposi:
l'armatura d'argento e molto adorna;
e in testa un gran cimier di piume e corna.
E il primo che apparì per la sfilata dell’esercito
fu il conte della rocca di Culagna.
Questi era un cavaliere bravo e galante,
filosofo, poeta e bigotto;
fuori dai pericoli appariva come un eroe,
ma quando nel pericolo un vile.
Spesso diceva di aver ucciso qualche gigante
e poi si scopriva che era un tacchino;
perciò i fanciulli da lontano
erano soliti gridargli dietro “viva Martano!”
Aveva inseguito duecento uomini,
morti di fame e pidocchiosi;
ma egli diceva ch'erano duemila, e ch'erano
uomini famosi.
Sulla bandiera aveva dipinto un pavone
con ricami d'oro e di seta molto appariscenti;
l'armatura d'argento, e molto addobbata;
e in testa un grand’ elmo di piume e corna.
“Un’impresa del conte di Culagna”
Parafrasi
Il conte in fretta mangia e si diparte,
ché non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov'eran genti sparte
chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch'egli apporta.
Egli cinto d'un largo e folto cerchio
narra fandonie fuor d'ogni superchio.
E tanto s'infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch'eccoti l'antimonio lo combatte
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch'avvelenato more.
Il Coltra e 'l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno,
e i medici correan con gli orinali
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti co i messali
gl'erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere .
Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso;
avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era già lasso:
quand'ecco un'improvisa cacarola
che con tanto furor proruppe a basso,
che l'ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.
- O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando sentí l'odore;
questo è un velen mortifero ch'appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s'egli in piazza resta,
appesterà questa città in poche ore. -
Cosí dicea, ma tanta era la calca,
ch'ebbe a perirvi il medico Cavalca.
Come a Montecavallo i Cardinali
vanno per la lumaca a concistoro
stretti da innumerabili mortali
per forza d'urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.
Ma poiché l'ambracane uscí del vaso
e 'l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co' guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch'un prete allor quivi comparse,
ch'avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e 'l confessò in compendio.
Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto,
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto:
quivi il posaro in mezzo de la sala,
chiamaro i servi, e ognun s'era nascosto;
fuor ch'una vecchia, che v'accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.
Il Conte mangia in fretta e se ne va,
perché non vorrebbe vedere la che muore.
Va in piazza dove c'era gente sparpagliata
qua e là, a casaccio.
Non appena lo videro, tutti
si diressero verso lui per sentire quali novità porti;
egli, così attorniato da una folta e numerosa cerchia di persone.
narra fandonie oltre ogni limite.
E tanto s'arrabbia e si dibatte
in quel discorso vuoto,
che all'improvviso il purgante comincia a fare effetto
e gli mette sottosopra l'intestino.
La folla rimane stupefatta:
egli vomitando, mezzo morto
di paura, e chiamando il prete,
dice a tutti che sta morendo avvelenato.
Il Coltra e il Galiano, entrambi farmacisti,
accorrevano con un antiveleno e un calmante
e i medici con i vasi da notte
per vedere di che tipo fosse il veleno.
Gli erano intorno 100 barbieri e preti con i libri di preghiera, e gli aprivano le vesti sul petto,
tutti lo esortavano a non avere paura
e a recitare devotamente il Miserere.
Chi gli ficcava dell'olio o della triaca in bocca,
chi burro e grasso liquefatto
Il conte aveva quasi perduto la parola
ed era già sfinito a causa di tutti questi medicamenti,
quand'ecco un'improvvisa cagarella
con tanto furore uscì dal di dietro,
che l'ambra grigia uscì fuori dai pantaloni
e scivolò lungo le gambe fino ai talloni.
-Oh Mio Dio che cos'è questa puzza?-
disse un barbiere quando sentì l'odore:
-questo è un veleno mortifero che appesta,
non ho mai sentito puzza maggiore.
Portatelo via, perché se egli rimane in piazza,
appesterà la città in poche ore.-
Così diceva: ma tanta era la ressa della folla
che il medico Cavalca finì col morire.
Come quando i cardinali
si recano al concistoro in Quirinale,
passando per una scala a chiocciola
in mezzo a un mucchio di gente a forza di spinte e in modo indecoroso,
così i medici e i farmacisti che si trovavano lì
non riuscivano a trovare una strada per uscire,
urtati e spinti, senza ordine e criterio.
Ma dopo che quell’ambra grigia fuoriuscì dal vaso
e il suo odore puzzolente si sparse intorno,
tutti si tapparono il naso
e cominciarono ad arretrare:
e il Conte era rimasto solo
se non che apparì in piazza un prete,
che aveva perduto il naso in un incendio
e quindi non sentiva l'odore; egli confessò sommariamente il conte.
Dopo aver ricevuto la confessione, il conte venne sistemato sopra una lunga scala a pioli
e mentre la gente faceva ala intorno a quella scia nauseante
due facchini lo portarono a casa.
Giunti, lo posarono in mezzo alla sala e
chiamarono i servi, ma ognuno di loro s'era nascosto,
tranne una vecchia che arrivò velocemente
calzando uno zoccolo e una scarpetta.
LA TRATTATISTICA
Genere dominante già nell’età umanistico-rinascimentale, la trattatistica presenta una ricca produzione anche nell’età della Controriforma.
Occupa un posto di assoluto rilievo la trattatistica scientifica: la cosa è facilmente comprensibile se si pensa allo sviluppo delle scienze nel Seicento e all’attività di Galileo in particolare.
I conflitti politici che derivano dalle lotte religiose, la formazione degli Stati assoluti, la censura ecclesiastica alimentano la trattatistica politica, nella quale vengono esaminati i problemi che la vita di una Stato moderno pone (la cosiddetta “ragion di Stato”) e con particolare interesse il problema dei rapporti tra attività politica ed esigenze morali.. Quest’ultimo problema era stato risolto da Machiavelli con l’affermazione dell’autonomia dell’attività dalla morale; ma questa soluzione in età controriformistica viene aspramente rifiutata e criticata, con opere che analizzano la storia per “aprire gli occhi” sulle astuzie e sulle nequizie del potere.
Altra area della trattatistica è quella dedicata a problemi morali e religiosi: in Italia la riflessione morale non poteva che inquadrarsi in una prospettiva religiosa cattolica.
GALILEO
Galileo nasce a Pisa nel 1564. Inizia a studiare medicina, ma presto si interessa allo studio della matematica.
In poco tempo diventa un famoso professore e pubblica anche opere di ingegneria e fisica: IL TRATTATO ALL’ARCHITTETURA MILITARE e il TRATTATO DELLA SFERA.
Tra il 1616 e il 1632 pubblica le sue opere più importanti in un periodo in cui i contrasti tra religione e scienza sono ancora molto forti: nel 1623 il SAGGIATORE, e nel 1632 il DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO.
A causa di queste opere e delle idee in esse contenute, Galileo viene processato e condannato come eretico dalla Chiesa nel 1633; successivamente è costretto ad abiurare.
Muore nel 1642 nella Villa di Arcetri dopo aver vissuto gli ultimi anni in solitudine.
Il Saggiatore
E' stato scritto nel 1623 ed è dedicato al pontefice Urbano VIII. La sua nascita è legata alla comparsa di tre comete nella costellazione dello Scorpione nel 1618.
Essendo malato agli occhi, Galileo fa compiere le osservazioni con il telescopio al gesuita Orazio Grassi, il quale sostiene una tesi di compromesso tra geocentrismo ed eliocentrismo: afferma che i pianeti ruotano intorno al sole, ma esso ruota intorno alla terra. Galileo, invece, crede che le comete siano fenomeni di riflessione ottica, mentre in realtà sono dei veri e propri corpi celesti.
Nel 1619 un allievo di Galileo riprende le sue tesi durante un discorso all’Accademia fiorentina, e critica l’atteggiamento scientifico dell’intero ordine dei gesuiti compreso Orazio Grassi.
Quest’ultimo confuta le idee di Galileo e a queste lo scienziato risponderà con IL SAGGIATORE, una delle sue più importanti opere.
La contestazione di Galileo si basa sulla mancanza nel testo di Grassi del metodo di osservazione scientifica che il Grassi aveva omesso preoccupato dell’autorità ecclesiastiche.
È nel SAGGIATORE che compare la metafora “del libro dell’Universo”, libro scritto in lingua matematica, libro impossibile da capire se non si conosce questo tipo di scrittura.
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
L’idea di un’opera sulla struttura dell’Universo risale ai primi anni del Seicento, ma questo progetto rimane a lungo in sospeso a causa delle dispute in cui Galileo si viene a trovare, come quella citata nel Saggiatore con Grassi e la condanna del copernicanesimo.
Con l’elezione del pontefice Urbano VIII nel 1623 sembra che le cose vadano per il meglio. Il successo che IL SAGGIATORE porta a Galileo, spinge Galileo a progettare concretamente una nuova opera, che non sarà soltanto l’esposizione del sistema copernicano ma un confronto tra questo e il sistema tolemaico.
L’opera è finita nel 1632 dopo una complessa e lunga elaborazione: non è infatti un saggio di tipo tradizionale (testo argomentativo in prosa latina, che vede la proposizione di una tesi con le opportune argomentazioni a favore e le contro-argomentazioni da smontare), bensì “un dialogo”, per di più in volgare, che si svolge in 4 giornate, a Venezia nella casa del nobile veneziano Giovanfrancesco Sagredo, tra quest’ultimo, il nobile fiorentino Filippo Salviati (entrambi personaggi storici) e l’aristotelico Simplicio, personaggio di invenzione letteraria, sclerotizzato nella sua cultura libresca, nemico di ogni novità.
Al di là del valore scientifico dell’opera, l’opera è soprattutto una fondamentale battaglia contro una mentalità e una metodologia. Il Dialogo non è un libro di astronomia né di fisica, è innanzitutto un libro di critica.

Il significato letterario della produzione galileiana
Va innanzitutto sottolineata l’importanza storica della scelta del volgare come lingua della scienza al posto del latino, ancora ampiamente usato.
A Galileo spetta il merito di aver “inventato” il linguaggio scientifico: la lingua da lui usata attinge da un lato al modo di parlare del mondo delle arti e della tecnica (che usavano espressioni e termini in volgare disprezzati dagli accademici perché non legittimati da testi latini), e dall’altro alla tradizione letteraria.
Fra i motivi di questa scelta è da ricordare prima di tutto l’ormai assoluta insofferenza di Galileo nei confronti delle usanze universitarie; poi c’è da tener conto dell’entusiasmo “didattico” di Galileo, della sua fiducia nella scienza come via verso la verità, del suo furore di proselitismo che lui vuole esercitare sugli uomini che hanno ingegno aperto, non sulla corporazione dei dotti. Si può dunque affermare che, scegliendo l'italiano, Galileo infranga le convenzioni della divulgazione scientifica, ed è il segnale esplicito che la scienza nuova necessita anche di una lingua rinnovata (la stessa rottura che all'inizio del '500 Machiavelli aveva compiuto con il Principe nella trattatistica politica).
Da qui emerge la consapevolezza in Galileo di scegliere un preciso pubblico cui rivolgere le sua opere: lui stesso scriveva “io scrivo in vulgare perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere”
Altro fattore di rilievo nell’opera letteraria di Galileo è la sostituzione del trattato tradizionale con il discorso e il dialogo.
C’è un nesso preciso tra il suo metodo scientifico e sperimentale e l’adozione di una specifica forma letteraria: il metodo galileiano rifiuta l’esposizione di verità o di convinzioni già raggiunte, esige invece una discussione in cui nemmeno il maestro sia chiuso in schemi prefabbricati né risparmiato da dubbi. Il dialogo è appunto confronto di opinioni.
Inoltre la forma dialogata favorisce la comprensione di argomenti particolarmente complessi, proprio come quelli affrontati da Galileo, presso un pubblico spesso impreparato.
Anche da qui (oltre cha dall’uso del volgare) emerge la finalità divulgativa dell’opera di Galileo.
LETTERA A DON BENEDETTO CASTELLI (1613)
Questa Lettera, del 21 dicembre 1613, fa parte delle Lettere copernicane di Galileo, nelle quali lo scienziato difende il sistema copernicano.
Per comprenderne l’importanza vanno contestualizzate: nel suo soggiorno padovano (1592-1610), Galileo ha scoperto l’isocronismo del pendolo, ha formulato la legge della caduta dei gravi, ha collegato le sue ricerche anche a precise esigenze pratiche (strumenti per l’irrigazione, progettazione del compasso geometrico e militare), ha perfezionato il cannocchiale astronomico che gli ha permesso osservazioni e scoperte che nel 1610 espone in una sua opera (il Sidereus Nuncius), conquistandosi così una fama europea. Tali scoperte però mettevano in discussione la tradizionale cosmologia aristotelica e davano inizio ad una serie di polemiche. In questo clima si colloca questa lettera, che ebbe larga diffusione, suscitò accesi dibattiti e provocò nel 1615 la denuncia all’Inquisizione.
La tesi di fondo della lettera è la seguente. Sia la Natura con le sue leggi, sia le Sacre Scritture derivano da Dio e quindi, appunto perché provengono da un’unica fonte non possono essere in contraddizione. Il problema consiste nella corretta interpretazione delle Scritture: proprio su questi criteri di interpretazione e sui rapporti tra testi sacri e verità scientifica consiste la novità “eretica” di Galileo.

Questa la struttura argomentativa della lettera:
dal Verbo divino derivano

sia le sacre Scritture sia la natura

esse, per farsi comprendere dal volgo, essa è immutabile e del tutto dicono svariate cose difformi dal vero osservante le leggi divine (es.: l’antropomorfismo di Dio…)
esse devono essere quindi interpretate dai dotti essa non si cura che le sue ragioni siano comprese dal volgo

i dotti, però, talora sbagliano attenendosi al non necessita quindi di
puro senso letterale delle Scritture interpretazione e deve essere
anteposta al senso letterale
delle Scritture
inoltre inoltre
le Scritture si propongono espressamente di Dio stesso, come ci ha dotati
istruire gli uomini su questioni sovrannaturali di sensi e intelletto, così ci
che non possono essere appurate se non per fornisce dati precisi per
Rivelazione comprendere le leggi della Natura
mentre trascurano completamente molte
questioni naturali (es.: i pianeti non sono
neppure nominati)
pertanto
i passi in cui le Sacre Scritture trattano di fenomeni naturali
non possono costituire argomento valido per negare le leggi naturali
(errano perciò quanti le invocano a questo fine)
viceversa saranno i dotti a dover trovare
l’esatta interpretazione dei passi delle Scritture
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IL TEATRO (in Italia)
Nei decenni a cavallo tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, il teatro inizia ad essere rappresentato in spazi appositamente creati per tale funzione.
L’Italia è il centro propulsore della nascita del teatro: infatti è proprio in Italia che nasce il prototipo della moderna sala teatrale e nascono le prime compagnie formate da attori professionisti, che hanno come principale attività quella di produrre spettacoli e di mostrarli a un pubblico a pagamento.
Queste novità segnano la nascita del teatro moderno.
In Italia nasce il Melodramma: genere comparso negli ultimi anni del Cinquecento, destinato a caratterizzare tutto il secolo successivo.
È stato proprio un gruppo di dotti fiorentini, riuniti nella Camerata de' Bardi, a creare questo nuovo genere basandosi sulle principali caratteristiche della tragedia greca e studiando accuratamente i classici, riservando particolare attenzione allo studio della poesia, della letteratura, dell’astrologia, del teatro e soprattutto della musica antica.
Il Melodramma ha un accompagnamento musicale e resta per i primi decenni del secolo un intrattenimento delle corti, per poi diffondersi nei nuovi teatri pubblici italiani e diffondersi quindi in tutta Europa.
Accanto al Melodramma, si sviluppa un altro genere che caratterizzerà tutto il 1600 in Italia: la Commedia dell’Arte.
Il termine “Arte” è da intendere nel senso di corporazione o associazione professionale: queste compagnie spesso coincidevano con nuclei familiari che vivevano esclusivamente di teatro. Una particolarità di queste opere è l’improvvisazione degli attori sulla scena, mentre si basano su intrecci esposti in forma narrativa, detti "canovacci" o "scenari", a seconda che fossero più o meno dettagliati.
Grazie all'improvvisazione degli attori, la commedia dell'arte viene anche chiamata "a soggetto" o "all'improvviso". Come traccia per l'improvvisazione gli attori usavano i FORMULARI, che contenevano numerosi esempi di battute adatte ad ogni situazione che si poteva verificare sul palcoscenico come esplosioni d'ira, dichiarazione, soliloqui...per questo motivo ogni spettacolo finiva per assumere caratteri propri e peculiari. Nelle diverse commedie si ricorreva a "tipi" e a ruoli fissi: per esempio, il professore saccente è rappresentato dal dottor Balanzone dell'Università di Bologna e il vecchio avaro dal veneziano Pantalon de’ Bisognosi.
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LA LETTERATURA EUROPEA DEL 1600
Se in Italia, la letteratura barocca assume un significato negativo in quanto ritenuta povera di contenuti e di messaggi, negli stati europei, non essendoci l’azione repressiva della Controriforma, la letteratura del Seicento presenta grandissimi autori, come Shakespeare, Molière, Cervantes.
Tutte le produzioni europee del Seicento esprimono la tendenza a sfuggire ad uno stato di insoddisfazione e insieme il bisogno di abbandono, di oblìo, di evasione verso forme illusorie.
Le nuove scoperte scientifiche in campo matematico e astronomico aprono all’uomo nuovi orizzonti, ma nello stesso tempo tolgono la certezza e l’equilibrio su cui si fondava da secoli la visione di un mondo ordinato di cui egli era il centro; questo genera un nuovo senso di entusiasmo, ma allo stesso tempo, di sgomento per l’incertezza della vita. L’uomo si sente insicuro e perso nella vastità ancora indefinita del cosmo. La realtà che lo circonda sfugge al suo controllo, perché immensa, complicata e misteriosa: per rappresentarla deve ricorrere a metafore e allegorie.
Le esperienze della letteratura europea del XVII secolo che meglio rispecchiano questo fenomeno, si manifestano in Spagna (gongorismo e concettismo), e in Inghilterra (concettismo) e in Francia (preziosismo).
LA LIRICA IN SPAGNA
Se il 1600 come secolo storico della Spagna è sinonimo di decadenza e arretratezza, ben diverso è il 1600 letterario, che si è soliti definire il “siglo de oro”
La posizione dell’intellettuale spagnolo, sempre più isolato all’interno di una società che va progressivamente rafforzando i confini tra le classi sociali, e la percezione sempre più drammatica della distanza che intercorre tra la realtà concreta della vita di ogni giorno e i valori della morale e della bellezza, spingono poeti come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo a trasportare nell’operazione creativa tutto il peso del “desengano” (delusione) che sperimentano come uomini di fronte alla realtà concreta delle cose.
IL GONGORISMO (detto anche Culteranismo o Cultismo = poesia per i colti)
E’ una corrente letteraria barocca molto ricercata e sofisticata , che sostituisce alla rappresentazione concreta degli oggetti la suggestione di metafore insolite.
La “meraviglia”, concetto cardine della poetica barocca, viene perseguita conferendo al linguaggio, estremamente raffinato e colto, la forza di sollecitare i sensi e la fantasia attraverso l’uso massiccio delle metafore, riferimenti mitologici, figure retoriche ricercate, immagini mitiche. La metafora rappresenta un mezzo ideale per esprimere una realtà dove gli oggetti hanno perso la loro definitiva natura e si presentano continuamente sotto diverse, ingannevoli apparenze.
Luis de Gòngora (1561-1627) è il fautore di questa corrente letteraria.
Gòngora crea una poesia che ricava dalla ricchezza della lingua una corrispondente rappresentazione del mondo, una poesia sistematicamente tesa a stupire i sentimenti e soprattutto l’intelligenza. Egli impiega le più complesse figure retoriche: dalla metafora più condensata e inedita dell’iperbato, la sinestesia (combinazione di sensazioni diverse), fino alla più curiosa delle assonanze e delle allitterazioni.
Sul catafalco per le esequie del re don Filippo III
Questo funebre trono sì lucente
che nonostante i suoi molti splendori
fragrante lutto copre con la densa
nube d’aromi che stillò l’Oriente;
avaro, con giusta fermezza nega
mentre pesante opprime senza offesa
poca ma regal polvere, l’immensa
potestà d’uno scettro, d’un tridente.
Legge dei due mondi, freno dei due mari,
sovrano che in Africa diè castelli
alle sue bandiere e al suo Dio altari
Questo sonetto fu scritto per commemorare la morte del re di Spagna Filippo III. Gòngora si sofferma a descrivere l’apparato funebre allestito per il sovrano, e lo fa con un testo che è un vero modello della complessità dello stile e delle immagini, specchio della densità del ragionamento, a cui il poeta spagnolo aspira. Dietro il fasto e la celebrazione della grandezza di Filippo, si dispiega una disincantata meditazione sulla vanità del mondo e una spietata messa a nudo delle illusioni coltivate dagli uomini.
IL CONCETTISMO
Il “concetto” è l’elemento cardine di questa corrente letteraria: è un artificio retorico che consiste nel combinare immagini tra loro molto diverse o contrapposte (es. morte-vita, buio-luce, anima-corpo ecc.) e nell’accostare cose tra loro molto distanti, ma tra le quali il poeta, per una sorta di illuminazione mentale, coglie, con sottile intelligenza, analogie nascoste e mai osservate prima, anche se spesso bizzarre, con uso esasperato delle metafore e delle antitesi.
Il Concettismo si collega ad un poeta come Francisco de Quevedo (1580-1645) che è forse l’ingegno più vigoroso e complesso della letteratura spagnola ed è considerato una delle figure più significative del barocco europeo.
Amore costante al di là della morte
Gli occhi miei potrà chiudere l’estrema
Ombra che a me verrà col bianco giorno;
e l’anima slegar dal sui soggiorno
un’ora dei miei affanni più sollecita;
ma non da questa parte sulla sponda
lascerà la memoria dove ardeva_
nuotar sa la mia fiamma in gelida onda.
e andar contro la legge più severa.
Un’ anima che ha avuto un dio per carcere
vene che a tanto fuoco han dato umore,
midollo che è gloriosamente arso,
il corpo lasceranno, non l ‘ardore;
anche in cenere, avranno un sentimento;
saran terra, ma terra innamorata.
La vecchia metafora dell’ ardore dell’ amore attraversa questo sonetto e diventa qualcosa di materiale: un fuoco che brucia fino ad identificarsi quasi con la consumazione che distrugge il corpo dopo la morte ; cosi l ‘idea dell’ amore che dura dopo la morte si coniuga con un senso incombente della morte, sentita nella sua materialità, come disfacimento.
Di fronte a Gongora che gioca su una preziosa elaborazione del materiale verbale , il concettismo di Quevedo punta a un‘espressione più severa , in cui prevale il lavoro intellettuale sui concetti.
LA LIRICA IN INGHILTERRA
L’Inghilterra, scossa dalle tensioni che porteranno alle due rivoluzioni e all’istituzione della monarchia costituzionale, offre con la poesia di John Donne (1572-1631) una delle esperienze di punta della letteratura barocca.
Le sue opere sono caratterizzate dal concettismo: egli esula dal petrarchismo e usa una molteplicità di linguaggi, sovente innovativi, inconsueti e simbolici che gli assicurano la comprensione del mondo e del suo rapporto con il divino.
Anche William Shakespeare, con i Sonetti, infrange i tradizionali modelli petrarchisti e inserisce una concentrazione metaforica che rappresenta una delle manifestazioni più tipiche del Barocco.
Shakespeare attinge alla lealtà del gioco, mentre ad esempio Donne, suo coetaneo, appare chiuso in duro pessimismo esistenziale, in una tensione mistica verso Dio.
Il Canzoniere Shakesperiano consta di 154 sonetti che, nel loro complesso, alterano profondamente i modelli della tradizione lirica e della poesia d’amore.
Gli amori del poeta sono un giovane uomo, figura angelica e sublimata, e una donna, sensuale e persino demoniaca, che non di rado si intrecciano scambiandosi i ruoli.
Malgrado la complessità del rapporto che si stabilisce fra i tre personaggi (il poeta, il giovane e la donna), il ragazzo diviene il baricentro verso cui si raccoglie il linguaggio della tradizione lirica, mentre la donna si caratterizza per la sistematica negazione del modo consueto di rappresentare la figura femminile (non a caso è una “donna bruna”, a cui non si possono applicare le consuete metafore della rosa e del giglio).
Il vero protagonista dei Sonetti è il poeta in lotta contro l’insidia del tempo e della ricerca di una fuggevole bellezza, quella incarnata del giovane, che svanirà e non potrà essere surrogata. Il discorso si fa intensamente metaforico, specchio di una riflessione lacerata sull’esistenza, in cui il tempo minaccia il poeta, la bellezza dell’amato, le risorse stesse della poesia, che non può esistere se non come aspirazione alla bellezza.
L’ambiguità è tale che la persona amata potrebbe essere addirittura un uomo, il che renderebbe più insidioso e allusivo tutto il dettato della poesia.
Contempla in me quell’epoca dell’anno
Contempla in me quell’ epoca dell’anno
Quando foglie ingiallite, poche o nessuna, pendono
Da quei rami tremanti contro il freddo,
nudi cori in rovina, ove dolci cantarono gli uccelli.
Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno,
quale dopo il tramonto svanisce all’occidente,
subito avvolto dalla notte nera,
gemella della morte, che tutto sigilla nel riposo.
Tu vedi in me il languire di quel fuoco,
che aleggia sulle ceneri della proprio giovinezza,
come sul letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che già fu il suo alimento.
Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte,
a degnamente amare chi presto ti verrà meno.
I temi trattati sono il fluire inesorabile del tempo, il precisare della vita verso la vecchiaia e la morte inoltre è un tema rincorrente nei sonetti di Shakespeare. In questo sonetto il poeta si immedesima in un vecchio vicino alla morte e lo unisce a un ardente dichiarazione d’amore, un sentimento reso più bruciante dal senso della precarietà dell’esistenza.
La forza di questa poesia è nella sua capacità di condensare i sentimenti in immagini di ricchezza metaforica. Si vede quella della prima quartina: la vecchiaia si trasfigura nell’autunno, i rami spogli evocano l’idea del coro di un’abbazia in rovina, gli uccelli rimandano al canto del poeta, ormai sorretto da un corpo in rovina coma la vegetazione.
LA LIRICA IN FRANCIA
In Francia il Seicento, segnato dalla fine delle guerre civili, il regno di Enrico IV, la reggenza, Luigi XIII, i due cardinali, fino alla presa del potere assoluto da parte di Luigi XIV, non è certo un'epoca pacifica né pacificata. La letteratura acquista un senso malinconico e tragico della vita. La produzione religiosa francese del XVII secolo è sterminata, come del resto quella dei maggiori paesi europei del tempo. Domina il barocchismo oratorio e retorico.
Le cose migliori vengono da un altro fronte. Sono gli scrittori barocchisti satirici e burleschi. Sullo sfondo sta l'atteggiamento ideologico ispirato alla contestazione e allo scetticismo, quello dei libertini eruditi, gli intellettuali che avevano compreso l’inadeguatezza degli schemi del passato in un’età di profonde trasformazioni e che, dopo un periodo insanguinato di guerre e persecuzioni religiose, criticano l’ortodossia religiosa e l’assolutismo politico.
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Il “preziosismo” è una corrente letteraria barocca analoga al marinismo italiano che si sviluppa in Francia nei salotti mondano-letterari, segna un ritorno ai miti dell’amore cortese, cavalleresco o platonico
Queste composizioni sono caratterizzate da una lingua ricercata, tutta iperboli, sfumature, metafore, paradossi, antitesi, giochi di parole.
I “preziosi” contribuirono ad arricchire e ad affinare la lingua, ad attirare l’attenzione sui problemi di espressione e sulla psicologia.
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IL TEATRO in EUROPA
Il teatro si sviluppa anche in altri paesi europei, come la Francia, la Spagna e l'Inghilterra.
In Francia, la produzione teatrale secentesca oscilla tra il gusto barocco e la tendenza alla ripresa del classicismo. L'autore più rappresentativo della prima metà del secolo è Pierre Corneille, che nelle proprie tragedie celebra il trionfo del libero arbitrio umano, riprendendo la teoria dei Gesuiti.
Nei primi 30 anni del regno di Luigi XIV si affermano Jean Racine e Molière, che realizzano gli esiti più alti del teatro tragico e comico francese.
In Spagna tra la fine del '500 e l'inizio del '600 si affermano alcune personalità di rilievo come Lope de Vega, che con le proprie opere va incontro ai gusti del pubblico popolare cui si rivolge, e Tirso de Molina, noto soprattutto per essere l'inventore del personaggio del Don Giovanni.
La personalità più importante del teatro spagnolo del '600 è però quella di Pedro Calderon de la Barca, autore raffinatissimo di testi in cui filosofia e allegoria prevalgono sulla realtà.
In Inghilterra, durante gli ultimi venti anni del regno di Elisabetta I, si assiste ad una notevole fioritura letteraria che trova la sua più alta realizzazione nel teatro di William Shakespeare.
Gli autori inglesi si ispirano alle tragedie di Seneca, in cui dominano i temi della figura del tiranno, della violenza e della sopraffazione.
IL TEATRO INGLESE
Anche in Inghilterra le tematiche teatrali rispecchiano la visione di un mondo dove l’essere umano non è più al centro dell’universo, avverte l’incertezza e la fugacità della vita e di conseguenza vive e agisce tra sogno e realtà. Uno dei maggiori artefici della rappresentazione teatrale di questi temi è William Shakespeare.
WILLIAM SHAKESPEARE – Vita e opere
Nacque nell'aprile del 1564 (fu battezzato il 26, ma per tradizione la nascita si celebra il 23, giorno di San Giorgio patrono della nazione) a Stratford-upon-Avon.Nacque Studiò probabilmente alla Grammar School di Stradford, ma poco sappiamo dei suoi primi anni di vita se non che a diciotto anni, nel novembre del 1582 si sposò. Nel 1592 Shakespeare si trasferì a Londra in cerca di fortuna. I primi anni trascorsi nella capitale sono quelli in assoluto più misteriosi per quel che riguarda la biografia dell'autore, ma probabilmente egli lavorò come attore in diverse compagnie teatrali, di cui divenne in seguito socio. Dopo il 1599, grazie ai favori della Corte, egli godette di prosperità e successo dividendo le sue energie tra la composizione di drammi e di sonetti.. Morì il 23 aprile del 1616.
L'opera shakespeariana è caratterizzata da una varietà ed una complessità di storie, personaggi, ambientazioni, temi, generi senza paragoni e che hanno giustamente reso il suo autore il più celebrato genio letterario di tutti i tempi.
IL TEATRO FRANCESE
In Francia, con Pierre Corneille e Jean Racine viene restaurata la tragedia classica, che prevede ora aperture alla contemporaneità e il tema della passione amorosa come centro motore del dramma, soprattutto nelle opere di Racine. La tragedia viene pensata per un pubblico di aristocratici e letterati riuniti attorno alla figura di un monarca assoluto. La monarchia impone al teatro l’obbligo di fornire modelli morali: il tema dominante è quello della passione, che viene punito per la sua ribellione all’ordine razionale, il quale coincide con quello morale. L’intreccio è semplice, concentrato su pochi personaggi e un unico tema; il luogo teatrale prevede una sola scena e la durata della vicenda rappresentata coincide con il tempo reale.
La commedia francese ha come grandissimo autore Molière. Egli, attore e capocomico, è il primo artista in grado di utilizzare anche in modo letterario gli elementi della commedia dell’arte, traducendoli in testi scritti e dando vita ad una drammaturgia che va oltre la rappresentazione teatrale. Con la Commedia dell’Arte la rappresentazione diventa un vero e proprio mestiere: gli attori recitano per passione ma anche soprattutto per guadagnare. Per far sì che il teatro diventi realmente un lavoro, occorre un’organizzazione. Nascono così le “compagnie”: gli attori si legano tra di loro mediante un contratto, nominano un capogruppo e definiscono i ruoli e le parti.
MOLIÈRE
Jean-Baptiste Poquelin, che assunse il nome d’arte di Molière, nacque a Parigi nel 1622. Inizialmente studiò diritto, ma in seguito si unì ad una famiglia di attori, con i quale recitò tragedie di scarso successo. Nel 1658, la compagnia fu invitata alla corte di Luigi XIV, dove Molière venne molto apprezzato. Da questo momento divenne il commediografo di corte, incaricato di progettare spettacoli rivolti ad un pubblico elegante. La produzione di Molière comprende commedie sia in versi, sia in prosa. La tubercolosi lo mise nelle mani dei medici, contro i quali si scatenò ne “Il malato immaginario”; mentre recitava in questa commedia, nel 1673, si sentì male e morì.
Molière rivoluzionò la commedia moderna arricchendo la psicologia dei personaggi. Nella commedia antica e rinascimentale i “caratteri” erano fissi e convenzionali, nella Commedia dell’Arte si concentravano nelle maschere, mentre nella commedia di Molière acquistano una vitalità e un aspetto umano nuovi. Molière comprende che il compito del commediografo è quello di far ridere, la sua grandezza si identifica nel fatto di aver saputo offrire un ritratto amaro e al tempo stesso spassoso di una società. Nella sua visione negativa della vita inserisce dunque situazioni divertenti.
IL TEATRO SPAGNOLO
La produzione teatrale spagnola nel Seicento è molto ricca.
L’autore più rilevante è Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681), autore di “La vita è un sogno” e di “El gran teatro del mundo”. Per lui la vita vera è in tutto e per tutto simile al teatro: ognuno recita la parte che gli è stata assegnata dal destino.
Questa tematica è uno degli aspetti più ricorrenti della drammaturgia barocca: la metafora barocca fa del mondo un gran teatro e della vita un’illusionistica messa in scena.
La sua produzione è caratterizzata da spettacolarità, astrazione, simbologia, sfarzo nella messinscena : egli fonde il concettismo barocco in una rappresentazione allegorica, scenografica e drammatica.
Altri importanti scrittori di teatro sono Lope Felix de Vega e il commediografo Tirso de Molina.
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IL ROMANZO
Il romanzo in prosa nasce in Spagna nel XVI secolo.
È un componimento narrativo, basato su vicende realistiche o fantastiche di uno o più personaggi.
Esso si sviluppa come genere letterario autonomo dalla lenta trasformazione del poema cavalleresco, già presente nella letteratura europea del passato; in Spagna, in particolare, nasce il romanzo picaresco
Il termine deriva da “picaro” ( imbroglione), che indicava il vagabondo, o il furfante tenuto ai margini della società.
I romanzi picareschi raccontavano vicende di questi uomini in modo comico o realistico.
Il mondo di questi romanzi è un mondo sempre negativo, la cui descrizione avviene nella forma della parodia.
Lo stravolgimento del genere cavalleresco e la parodia, sono la base del primo romanzo moderno: “ il Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes.
IL “DON CHISCIOTTE”
STRUTTURA
Il “Don Chisciotte” raccoglie in sé tutti i modelli sia della lirica amorosa sia del poema cavalleresco.
L’opera è divisa in due parti scritte e pubblicate in tempi diversi:
* 1° parte, 1605, racconta le avventure del Don Chisciotte e il suo ritorno a casa quasi in fin di vita
* 2° parte, 1615, ricomincia l’avventura di Don Chisciotte che è vittima delle beffe e delle “invenzioni” altrui.
CONTENUTO
Tratta la storia di un uomo di infime condizioni, appassionato lettore di cavalleria, che a furia di leggere tali opere perde il senno, perché questi argomenti letterari si trasformano nella sua fantasia come una vera e propria realtà. Egli decide di diventare un cavaliere errante cambiando nome; si dà l’appellativo di Don Chisciotte, prendendo uno scudiero ( Sancio Panza), un destriero e iniziando a viaggiare in cerca di avventure.
Il suo obiettivo è difendere i deboli, soccorrere le vedove, proteggere le donzelle, tra cui la sua dama, conquistare la gloria e sconfiggere i cattivi e i mostri.
CONTESTO STORICO
Il contesto in cui è inserito il romanzo è tipicamente barocco: al rimpianto per i valori del passato si sovrappone la consapevolezza della loro inconsistenza, in una realtà divenuta sfuggente, ambigua, priva di centro e di certezze. Ciò è dato dalle scoperte scientifiche e dalla crisi del 1600 ( guerra e peste).
Don Chisciotte è il simbolo di coloro che si ostinano a rimanere fedeli a un sogno o a un’idea nonostante la continua frustrazione e disillusione da parte della realtà.
È il simbolo di ciò perché fa valere ancora gli ideali cavallereschi in un orizzonte in cui le strutture che li sostenevano sono ormai crollate e non c’è più nulla di sicuro o stabile su cui fare riferimento.

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