Giovanni Boccaccio

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Testo

GIOVANNI BOCCACCIO

LA VITA
Non è facile ricostruire la vita di Giovanni Boccaccio, poiché non abbiamo molti documenti sicuri, e inoltre, le poche allusioni autobiografiche sparse nelle sue opere sono spesso contraddittorie. Le date di composizione delle opere sono per la maggior parte ancora incerte. Giovanni Boccaccio nacque in Toscana nel giugno-luglio 1313 da una relazione illegittima tra Boccaccino di Chelino e una donna di cui non sappiamo nulla.
IL SOGGIORNO NAPOLETANO
Nel 1327 Boccaccino si trasferì a Napoli per dirigere la succursale partenopea della Compagnia dei Bardi, banchieri fiorentini. Boccaccio trascorse anni importantissimi per la sua formazione, compiendo importanti esperienze di cultura e di vita. Frequento l’élite mercantile fiorentina, l’aristocrazia napoletana, si dedicò ai divertimenti e agli amori ed entrò in contatto con gli intellettuali e gli artisti provenienti da tutta la penisola (Paolo dell’Abbaco, Andalò del Negro, Paolino Minorita, Barlaam). Leggeva, studiava e spesso trascriveva testi di ogni genere per averne una copia personale. Aveva una grande amore per la letteratura: classici latini (Ovidio, Livio, Valerio Massimo, Virgilio, Stazio, Seneca e Apuleio), poesia mediolatina (Alano da Lilla, Bernardo Silvestre), poesia toscana e letteratura francese. Il padre voleva fare di lui un buon uomo di affari, spingendolo verso gli studi universitari di diritto canonico: non diedero alcun frutto, ma consentirono a Giovanni di conoscere e ascoltare Cino da Pistoia, il quale ebbe probabilmente il merito di avergli fatto conoscere l’esistenza di Petrarca. Le esperienze culturali di quel periodo si riversano nella produzione letteraria, quasi tutta in volgare, orientata verso l’intrattenimento narrativo e i temi erotico-avventurosi (Caccia di Diana, Filocolo, Tiseida, elabora il mito autobiografico di Fiammetta).
IL RIENTRO A FIRENZE
Boccaccio rientrò a Firenze nel 1340-1, in seguito alle difficoltà economiche del padre, uscito dalla Compagnia dei Bardi. Il ritorno in una Firenze travagliata dalla crisi, creò a Giovanni non pochi problemi di adattamento. I versi autoironici della Comedìa delle ninfe fiorentine, e in seguito le rievocazioni nostalgiche della “ dolce vita “ napoletana nell’Elegia di Madonna Fiammetta, riflettono la durezza dell’impatto con la nuova realtà, incupita dai difficili rapporti con il padre. Il contatto con la cultura poetica toscana e con Dante fu tuttavia fecondo. 1341-2 Comedìa delle ninfe fiorentine, 1342-3 l’Amorosa Visione; influsso del Petrarca si faceva comunque sentire: Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. Questo periodo fu tanto produttivo sul piano artistico, ma probabilmente incerto su quello personale. Angosciato dalle difficoltà economiche e dal desiderio di una sistemazione più sicura, in una realtà sociale e politica sempre più difficile, egli fu prima a Ravenna presso Ostasio da Polenta (1346-7) e poi a Forlì presso Francesco Ordelaffi. Tornato a Firenze nel’48, Boccaccio assistette all’infuriare della peste, che lo colpì negli affetti familiari e nelle amicizie. Nel 1349-51 stese il Decameron, che prende le mosse proprio dagli orrori dell’epidemia e nel quale sembra riassumersi il profondo senso di precarietà di una città colpita dalla crisi economica e dal disordine politico, sociale e morale. In questi primi anni Cinquanta Boccaccio divenne progressivamente più importante e riconosciuto. Gli vennero affidati compiti politici di responsabilità e incarichi culturalmente significativi. Ebbe un incontro con Petrarca, che influenzò profondamente le scelte artistiche e culturali di Boccaccio, indirizzandolo verso gli studi classici e una produzione letteraria prevalentemente latina. Genealogie deorum gentilium (1350); De montibus (‘55-‘57); De casibus virorum illustrium (‘55); De Mulieribus claris (’61); la produzione in volgare conta due opere importanti: Trattatello in laude di Dante (’51) e il Corbaccio (1363-65). Boccaccio fece riemergere da Montecassino gli Annali di Tacito e la Metamorfosi di Apuleio; per primo si accostò al greco, e nel 1360 promosse l’assunzione del monaco calabrese Leonzio Pilato a insegnante della lingua greca. 1361 si ritirò nella sua casa a Certaldo, segno di disagi non superati e difficoltà irrisolte (ristrettezze economiche). Sono per lui anni di sconforto e di inquietudine religiosa. Dal ’65 Boccaccio riprese ad assumere incarichi pubblici. Morì a Certaldo il 21 dicembre 1375.
IL FILOCOLO – Fatica d’amore secondo il greco di Boccaccio, romanzo in prosa diviso in cinque libri, composto fra il 1336 e il 1338-9; in esso confluiscono molti elementi dell’esperienza culturale compiuta a Napoli dal giovane autore, le letture latine, mediolatine, francesi e l’incontro con la poesia toscana, soprattutto dantesca. L’opera è dedicata a Fiammetta, destinataria, ispiratrice e committente dell’opera. Sua intenzione era nobilitare un racconto molto noto, sottraendolo ad un linguaggio poco colto e rinarrandolo in una forma più consona e con maggiore dignità artistica. Biancifiore e Florio nascono lo stesso giorno e crescono e vengono educati insieme. Giunti all’adolescenza si innamorano; la loro relazione è però contrastata, vengono raccontate le loro disgrazie, i viaggi del giovane sotto lo pseudonimo di Filocolo per ritrovare l’amata, e dopo l’agnizione finale (tipica delle commedie latine), la felice unione degli amanti. Durante il racconto però ci sono continue digressioni, tese a sottolineare l’erudizione di Boccaccio. Molto importante è la sosta che Florio compie a Napoli: si imbatte in una brigata, nella quale dei giovani pongono delle “ questioni d’amore “, risolte da Fiammetta, attraverso le quali si fonda una specie di dottrina amorosa, ispirata dal DE AMORE di Andrea Cappellano e all’ARS AMATORIA di Ovidio.
COMEDIA DELLE NINFE FIORENTINE – Nota anche come Ninfale d’Ameto. Scritto in prosimetro, ed è ambientato nelle colline fiesolane. Il tema amoroso è sempre principale: l’autore si pone come un innamorato, e si rivolge agli spiriti amanti. Narra gli amori del rozzo cacciatore Ameto per la ninfa Lia e per sei ninfe che dimorano con lei: simbolo la prima della fede, le seconde le altre virtù cardinali e teologali. Tutte raccontano la propria storia; manca solo Lia, e il suo racconto rimane incompiuto: trova compimento infatti nel rapporto d’amore che la unisce ad Ameto. Compare alla fine la Venere Celeste, e le ninfe rendono il pastore capace di sostenerne l’aspetto: allegoria dell’uomo, che dai sensi sale, mediante le virtù cardinali e teologali, fino a Dio. Alla fine l’autore ammette di aver assistito alla scena stando nascosto tra alcune fronde, e fa un confronto tra la situazione positiva di Ameto, con la sua triste situazione presente, ricordando l’ambiente felice di Napoli e le difficoltà trovate a Firenze. Importante è la presenza della cornice, che sarà elemento fondamentale per la maggior opera di Boccaccio, il Decamerone.
ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA – Lungo monologo in prosa diviso in nove capitoli preceduti da un prologo. La vicenda è ambientata a Napoli, ed è narrata in prima persona da una donna appartenente alla nobiltà. Fiammetta (questo è il suo nome) dolente perché il suo Panfilo ha lasciato Napoli, si duole di essere abbandonata e tradita: infine giunge la notizia di un arrivo imminente di Panfilo, ma invano gioisce, visto che si tratta solamente di un omonimo. La vicenda non si chiude completamente, ma resta aperta sulla speranza della protagonista di poter compiere in futuro un viaggio a Firenze. Non è facile collocare quest’opera in un genere letterario ben definito: il titolo ci fanno pensare che possa essere un’elegia, ma strutturalmente è anche un romanzo, con più capitoli e numerosi personaggi. Parecchie analogie ci sono con La Vita Nuova di Dante: innamoramento in chiesa, amore che nasce dagli occhi e passa nel cuore, visioni, sogni, apparizioni.
NINFALE FIESOLANO – (1344-346) Poemetto in 473 ottave di argomento amoroso-pastorale. In quest’opera c’è la rinuncia da parte del poeta agli schemi autobiografici cui si riferiva sempre il primo Boccaccio. Africo, un giovane pastore, si innamora di Mensola, una ninfa di Diana, sui colli di Fiesole. Africo, celandosi sotto vesti femminili e avvicinandosi, riuscì ad averla con la violenza; Mensola, innamoratasi, non può comunque sposare Africo, perché andrebbe contro le regole della dea. ma Diana, scoperto questo amore, per castigo trasforma la ninfa in un corso d’acqua che porterà il nome di lei, mentre Africo per disperazione si getta in quello che porterà il suo. Questo mito ha antecedenti nella Metamorfosi di Ovidio.
DECAMERON- la composizione va collocata fra il 1349 e il 1351. Il decameron è una raccolta di novelle il cui titolo, preso dal greco antico, allude alla durata dell’azione narrata e significa “ dieci giorni “. Boccaccio infatti immagina che, per sfuggire alla peste che infuria a Firenze, sette giovani donne e tre giovani di famiglia aristocratica si incontrino nella chiesa di Santa Maria Novella e decidano, per evitare il contagio e per sottrarsi all’atmosfera di dolore che regna nella città, di rifugiarsi in campagna nella villa di uno di loro, dove trascorreranno due settimane fra canti, banchetti e danze. Per occupare più lietamente le ore del pomeriggio, essi decidono di raccontare a turno dieci novelle ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato che sono dedicati alle pratiche religiose. Il decameron risulta così composto da 100 novelle, raccontate appunto in 10 giornate, intervallate da 10 ballate, con le quali veniva chiusa la giornata, cantate a turno dai novellatori. Le novelle sono precedute da un proemio, dedicato al pubblico delle lettrici, dal quale potevano capire se la novella sarebbe stata di loro interesse, e in caso contrario, saltare alla novella successiva. Il tutto è racchiuso da una cornice, una struttura che lega insieme le novelle, che è appunto la storia fantastica dell’incontro dei dieci giovani sullo sfondo storico della peste. La cornice per Boccaccio è molto importante e svolge molte funzioni: consente all’autore di tenersi in disparte, delegando ad altri la responsabilità del narrare, e affidando a sé solo interventi polemici; dà unità e compattezza all’opera, fungendo da collegamenti fra i testi; inoltre, oltre alla figura del lettore, in questo modo c’è anche quella di un pubblico interessato e spiritoso, pronto alla battuta.
La tragedia della società del tempo colpita dalla peste rimane tuttavia lo sfondo realistico sempre presente, anzi incombente, sui cui si innesta la finzione letteraria. La convivenza dei giovani è governata da regole precise: ogni giorno viene eletto un re o una regina, i quali stabiliscono l’argomento dei racconti. Il tema delle novelle rimane però libero nella prima giornata e nella nona, per volere del re di turno. Ogni giorno infine Dioneo, uno dei giovani, quello che racconta sempre per ultimo, ha il privilegio di raccontare su un tema libero. Gli argomenti sono scelti da Boccaccio in modo da poter indagare tutti gli aspetti e le possibilità della vita umana: si inizia con i casi del destino; si continua con le avventure amorose, concluse infelicemente o felicemente; si narra poi dei bei “ motti “, delle battute di spirito che testimoniano ingegno e abilità, delle burle ai danni degli sciocchi; per giungere infine, nell’ultima giornata, all’esaltazione delle virtù cavalleresche e signorili. Importante è anche l’invenzione della “ onesta brigata “ dei dieci giovani. I loro nomi hanno spesso un carattere simbolico: Panfilo (che vuol dire tutto amore) è l’amante fortunato; Filostrato è l’amante infelice; Fiammetta, Laura, Dioneo, etc. Il loro allontanarsi dalla peste per vivere lietamente in campagna esprime quell’esaltazione della gioia di vivere e di amare che l’autore aveva posto tra i suoi obiettivi letterari. Nelle novelle, secondo le regole di questo ideale, sono criticate sia l’avarizia sia l’eccessiva prodigalità, mentre sono apprezzati il risparmio, la buona amministrazione del denaro e dei beni, la liberalità dei comportamenti. Tutto il decameron è intessuto di avventure e viaggi di mercanti, in cui si esalta l’abilità pratica e l’intelligenza. Al contrario di Dante, all’epoca del quale la società comunale e mercantile non era ancora affermata definitivamente, e di Petrarca, che esprimeva una letteratura più aristocratica e meno legata al Comune, Boccaccio rappresenta direttamente un mondo mercantile ormai dominante, che però riprende e rinnova i valori della società nobiliare precedente. La cortesia s’intreccia con i modi della vita comunale. Il tema dell’amore e della passione amorosa, per esempio, risulta svolto secondo i canoni cortesi delle gentilezza, ma è anche amore concreto, vivo, descritto com’è nella vita di tutti i giorni. Boccaccio mostra d’apprezzare l’intelligenza e l’arguzia anche spregiudicata, mentre prende in giro il presuntuoso e il credulone. Non vi è, nella sua concezione della vita, il riferimento alla provvidenza divina; l’uomo è solo con le proprie forze, dominato da istinti e passioni, preda a volte di un destino, una fortuna, che sembra farsi gioco di lui complicando fino all’inverosimile le sue peripezie. Se si considerano da questo punto di vista i numerosi tipi umani delle novelle, appaiono lontani i complessi problemi morali e religiosi di Dante o anche la sofferenza interiore di Petrarca. La letteratura di Boccaccio è orientata non più verso la trascendenza ma tutta alla comprensione dell’esistenza mondana dell’uomo. Nell’opera variano molto i registri e il lessico adoperati, a seconda che prevalga il comico o il burlesco, la riflessione morale o la materia amorosa, a seconda anche dell’ambiente, popolare o signorile, urbano o campagnolo, in cui si svolgono le vicende. Se la caratterizzazione sociale del personaggi è molto varia (si va dall’aristocrazia del sangue a quella del denaro, dagli uomini di chiesa al servo, dall’artigiano all’uomo di cultura), dal punto di vista dell’ambiente è la città la protagonista. Firenze in particolare fornisce l’ambientazione storico-geografica di molte novelle. Boccaccio è il primo grande scrittore che nel Medioevo coglie la città come uno spazio aperto e avventuroso. Con il Decameron, la città diventa il luogo narrativo per eccellenza del fantastico e dell’avventuroso.

PROEMIO- libero dalla schiavitù dell’amore, Boccaccio finalmente può riflettere sulla natura dell’amore: come ogni cosa mondana è destinato a finire con il passare del tempo.
SER CEPPARELLO DA PRATO- Per mostrare come Dio, badando soltanto alla purezza delle intenzioni, esaudisca le preghiere dell’uomo anche quando sono indirizzate ad un falso santo, Panfilo narra la storia di un uomo molto malvagio che dopo la morte viene santificato e fatto oggetto di devozione popolare. Il protagonista si trova di fronte ad un difficile problema che risolve grazie alla prontezza e alla capacità dell’ingegno, manifestate da uno strumento linguistico molto adeguato. Analisi del testo: la figura del protagonista viene costruita con inconsueta ampiezza: Ciappelletto è il malvagio topico, del tutto spregiudicato e compiaciuto dei delitti che commette. Dopo un lungo elenco dei vizi del peccatore, l’autore osa addirittura paragonarlo a Giuda. Afflitto da difficoltà finanziarie e sentendosi obbligato nei confronti di Musciatto, Ciappelletto ne accetta la proposta e si trasferisce in Borgogna; mentre svolge il suo compito, però, approfitta del fatto che nessuno lo conosce per fornire un’immagine di sé completamente opposta alla realtà. Tutto andava per il verso giusto, ma una malattia mortale colpisce Ciappelletto, e interrompe la riscossione dei crediti e pone un problema ai due fratelli usurai, che lo hanno ospitato nella loro casa. La malattia dell’ospite appare come un imbarazzante imprevisto, che li avrebbe portati alla rovina; la loro attenzione si concentra soprattutto sulla confessione, che avrebbe portato alla luce la vera natura del protagonista. Ma Ciappelletto, organizzando una beffa colossale, riesce a rovesciarla completamente grazie alla propria intelligenza. Facendo un breve esame delle sue colpe, pensa che un ultimo grave peccato non avrebbe potuto cambiare il suo rapporto con Dio. La soluzione escogitata dal protagonista si fonda sulla capacità della parola di creare illusioni, di costruire un’altra realtà. Così, durante la sua ultima confessione, Ciappelletto ricostruisce il proprio ritratto davanti al frate che lo ascolta e gli crede. Nel rispondere alle domande del confessore Ciappelletto ora nega di aver commesso un certo peccato ora si dichiara peccatore, affermando poi colpe lievi e insistenti. La situazione a questo punto si capovolge: il frate elogia le virtù di Ciappelletto, mentre questi biasima ogni minima trasgressione. Tutta questa scena ha una forte teatralità, visto che i due fratelli, sapendo tutta la verità, ascoltano la confessione da dietro la porta tra un certo divertimento e sconcerto allo stesso tempo. Il protagonista, ormai morto, non agisce più, ma esiste ancora, perché diviene oggetto di devozione perché considerato un santo.
ANDREUCCIO DA PERUGIA – un giovane mercante arriva a Napoli con 500 fiorini d’oro per acquistare cavalli. Ingenuo e inesperto commette molti errori: perde il denaro e corre per ben tre volte il rischio di perdere la vita; infine, ammaestrato dai guai, riesce con scaltrezza e rapidità a cavarsi d’impaccio. La fortuna lo riporta all’albergo sano e salvo, e più ricco di prima. Come altre novelle del Decameron, il protagonista, dopo molte peripezie si ritrova fortunosamente al punto di partenza, e magari anche con qualcosa di più in denaro, posizione sociale o esperienza. La durata della vicenda si limita ad una sola notte, nella quale ci sono alti e bassi della fortuna di Andreuccio. Inesperto ma non sciocco, fra peripezie e pericoli il giovane diviene infatti via via più riflessivo e malizioso; vive un autentico itinerario di formazione e si educa a diventare un mercante più accorto.
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA- Boccaccio interrompe il racconto delle novelle, per rispondere alle critiche che gli vengono fatte, per delineare le caratteristiche della sua opera, e per sottolineare le virtù delle donne, interlocutrici del discorso. Prima di tutto definisce il genere del Decameron e a precisarne i caratteri: la lingua volgare, la forma prosastica, l’assenza di titolo e lo stile basso. Poi elenca le accuse che gli vengono fatte, trovando per ognuna una risposta esaudente. I critici sostengono che a Boccaccio piacciono troppo le donne, che perde troppo tempo a lodarle ed a elogiarle; amare le donne però per l’autore è naturale, e confessa il suo grande amore per le donne e il suo desiderio di essere ricambiato da loro. Per far capire meglio quello che va affermando, l’autore narra in prima persona una novella. Filippo Balducci perde la moglie, e per dolore abbandona le cose del mondo, dà in elemosina tutti i suoi averi e si ritira in un eremo col figlio. Per molto tempo il figlio sente solamente parlare di Dio, dei santi e della vita eterna. Ormai grande un giorno si reca a Firenze col padre e vede per la prima volta le “ meraviglie” della città: palazzi, chiese, etc. Poi si imbatte in una brigata di donne, al ritorno da una festa di nozze. Il padre lo consiglia di non guardarle, evita di chiamarle femmine per scongiurare il destarsi del desiderio, e le definisce papere. Il giovane dichiara di non aver mai visto nulla di cosi bello, e vuole portare con sé nell’eremo una di queste papere. Inoltre Boccaccio non ha l’età per fare certe cose, ma secondo lui non è vergognoso fare ciò che hanno fatto grandissimi letterati precedenti anche nella vecchiaia (Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dante); altra accusa che gli viene fatta è che Boccaccio dovrebbe dedicarsi a qualcosa di più serio e proficuo, ma il poeta risponde anche a questa accusa dicendo che chi scrive favole sa anche procurarsi del pane e vive a lungo, e qualunque sarebbe stata la sua sorte, avrebbe sopportato le privazioni. Ultima accusa postagli dagli autori è che le storie presenti nell’opera si sono svolte in maniera diversa: al poeta non sembra degno replicare ad una tale accusa, a meno che i critici non portino prove di ciò che dicono.
LISABETTA DA MESSINA –
Quella di Lisabetta da Messina è forse la novella in cui più che in tutte le altre la passione amorosa è fonte di tragedia e in cui la protagonista femminile, tra molte donne “ amorose “ del Boccaccio, capaci di sentire i propri affetti e di difenderli fino al sacrificio, incarna l’intensità eroica di chi resiste al destino avverso solo con la forza del silenzio e del pianto. Lisabetta ama un giovane di nome Lorenzo, ma i tre fratelli di lei, ricchi mercanti di Messina, timorosi della disapprovazione pubblica che può derivare da quell’amore, uccidono con l’inganno il giovane, facendo credere alla fanciulla che egli sia partito per un viaggio d’affari. Mentre si consuma nella vana attesa del suo ritorno, Lisabetta vede una notte in sogno Lorenzo che le mostra il luogo della sua sepoltura. Ella allora di nascosto dissotterra la testa dell’amato, la mette in un vaso di basilico, e su quel vaso piange tutto il tempo. I fratelli scoprono l’accaduto, le tolgono il vaso e si trasferiscono con le loro ricchezze a Napoli, per sottrarsi al biasimo degli altri. Ma Lisabetta muore di dolore. Con questo finale povero e drammatico si consuma il dolore d’amore della fanciulla. Tutta la novella è costruita su due situazioni: l’attesa vana di Lisabetta e la follia di un amore che resiste alla morte e piange sulla testa dell’amato sotterrata in un vaso. Lisabetta vive in uno stato di soggezione assoluta ai fratelli: alle loro decisioni e alle loro azioni risponde solo con il suo amore persistente, con una disperazione impotente che trova sfogo solo nel pianto. Il silenzio della fanciulla è il segno della sua soggezione; l’espressione dei suoi sentimenti è affidata alle lacrime. Boccaccio insiste sull’elemento del pianto: è in esso che si rivela la tenacia di Lisabetta, pure indifesa e fragile. Ella commuove il lettore e Boccaccio stesso, che dà un giudizio severo sulla fuga finale dei fratelli e dedica invece parole gentili alla fanciulla. I fratelli appaiono dominati dal calcolo e dai pregiudizi; non hanno pietà, né comprensione; la loro crudele decisione è motivata da preoccupazioni sociali. Lisabetta contrappone loro la forza della sua fedeltà e del suo amore senza limiti. Il sorgere del desiderio amoroso in Lisabetta sembra inevitabile, e altrettanto inevitabile il suo indirizzarsi all’unico uomo che sembra frequentare regolarmente la casa (t Geltrude nei Promessi Sposi).
NASTAGIO DEGLI ONESTI – Storia d’amore a lieto fine: dopo un lungo corteggiamento infruttuoso, il protagonista raggiunge l’oggetto del suo desiderio cambiando tattica, mettendo l’ingegno al servizio della passione. “ La caccia infernale “: la donna è punita per la sua insensibilità amorosa e il cavaliere per il suicidio da questa provocato. Analisi del testo: l’amore del giovane Nastagio degli Onesti per la figlia di Traversari non è corrisposto. La donna si mostra insensibile al corteggiamento, nonostante questo si esprima in opere grandissime, belle e laudevoli. Un desiderio senza limiti e spese smisurate rischiano di portare Nastagio ad autodistruggersi e a dilapidare il suo patrimonio. Dei parenti lo convincono a lasciare Ravenna, per dimenticare l’amata e limitare le spese; Nastagio accetta ma si ferma a pochi chilometri dalla città. Un giorno si allontana da solo all’interno di una pineta, immerso nei suoi pensieri, non pensando al luogo nel quale si dirige. Nella pineta Nastagio vede una giovane donna inseguita da cani e da un cavaliere, che, raggiuntala, la squarta e dà in pasto il suo cuore alle bestie. A tutto ciò però il cavaliere da una spiegazione a Nastagio, che inizialmente cercò di fermare queste atrocità: innamorato senza speranza di una donna crudele, egli si è tolto la vita e ora, dannato alle pene dell’Inferno, per contrappasso ha trasformato l’amore in persecuzione implacabile della donna, punita a sua volta dalla giustizia divina per il peccato di crudeltà fatto all’amante. Finita la visione, il giovane esce dal turbamento che lo ha invaso e decide di trarre profitto da ciò che ha visto. Sceglie allora la soluzione cortese del banchetto, a cui invita molte persone, compresa la donna amata. E tutto si replica davanti ai commensali, e la Traversari si identifica con la donna sbranata e squartata, tanto da cambiare completamente i suoi sentimenti, da durezza totale a amore, arrivando a sposare Nastagio. Nella sua visione Nastagio capisce come un amore senza limiti può portare a degli effetti terribili, e non è più disposto a stare a guardare, ma decide di passare all’azione, e raggiunge il successo con un banchetto “ a sorpresa “.
FEDERICO DEGLI ALBERIGHI- il tema amoroso emerge subito dalla presentazione del personaggio: cavaliere perfetto, campione di cortesia, portato dunque a provare un sentimento d’amore intenso per una donna di elevata condizione. Ma Monna Giovanna è sposata e non ricambia in alcun modo l’innamorato; egli però dilapida quasi tutto il suo patrimonio e si ritrova costretto a lasciare la città, ove non ha più le possibilità si stare. Ritiratosi in campagna, vive grazie ad un piccolo podere e alla caccia con un magnifico falcone. Monna Giovanna resta vedova con un figlio, che simpatizza con Federigo e si incapriccia del suo falcone, tanto da ammalarsi per averlo. Così Monna Giovanna, costretta dalle circostanze, si reca dall’amante per chiedergli in dono l’animale. Ma Federigo, disperato, nella sua povertà, di non poter onorare abbastanza la donna, uccide il falcone e glielo imbandisce come vivanda. E quando Giovanna ignara se ne ciba, rivela la richiesta che intende fargli, egli si ravvede, valutando l’avversità della sua sorte e l’inutilità di tutte le sue scelte di vita. Il figlio di Monna Giovanna muore lasciando la madre ricca; lei non vorrebbe risposarsi, ma spronata dai fratelli sceglie Federigo, per la sua grandezza d’animo. Federigo in questa storia piomba nella più completa rovina economica e sociale, perdendo il “ diritto “ a vivere nella città e non potendo più esprimere le virtù che si manifestavano attraverso la spesa incontrollata e l’uso improduttivo della ricchezza; ma la vera drammaticità della storia non sta tanto nella povertà, che è affrontata da Federigo con dignità, ma nel fallimento dei suoi ideali: quando finalmente potrebbe onorare la donna amata, non ha niente da darle; e quando potrebbe accontentarla in qualcosa, si rende conto di averla usata in maniera sbagliata. Il lieto fine comunque non scioglie tutti i nodi e i protagonisti hanno subito comunque le proprie sconfitte: Giovanna perde il figlio e Federigo non conquista l’amore della donna, che sembra sposarsi solo per l’insistenza dei fratelli.
CISTI FORNAIO – la narratrice Pampinea esordisce con un preambolo moraleggiante, in cui affronta il problema della distribuzione nel mondo dei beni di Natura e Fortuna. Il caso di Cisti viene presentato come un “ peccato “ della Fortuna, che talvolta assegna un mestiere vile ad una persona d’animo nobile. Ma le qualità di un uomo d’umile condizione sono assimilabili ad oggetti preziosi, nascosti nel luogo più vile della casa. La Fortuna ha commesso dunque un errore solo apparente e nel caso di Cisti provvede a correggere la condizione di svantaggio rendendolo ricco e offrendogli l’opportunità di mostrare il suo valore, come narra la novella. Cisti è proprietario di una bottega davanti la quale ogni giorno passano Geri Spina e degli ambasciatori di Bonifacio; era intenzione di Cisti invitarli a bere del suo buon vino, ma si rende conto che era una cosa poco rispettabile addirittura pensare queste cose. Allora, nello spazio antistante la bottega, allestisce come uno spettacolo, dominato dal bianco e dall’argento, che era mirato ad invitare implicitamente Geri e i suoi compagni. Una volta riuscito nel suo intento, esclude i servi dalla fruizione del vino e addirittura da ogni contatto con esso, e poi si rifiuta addirittura di recarsi al convito cui Geri lo ha invitato. La fortuna poi offre a Cisti un’altra occasione: Geri richiede un po’ di quel vino per il convito, ma il capace recipiente che è portato dal servo all’insaputa del padrone è un insulto al valore del vino.
La novella di Cisti Fornaio, la seconda della sesta giornata, è una di quelle che meglio ci rappresentano le idee di Boccaccio sulla società comunale del Trecento. Protagonista è il fornaio Cisti, il quale, divenuto ricchissimo per abilità nel suo mestiere, vuole ora dimostrare di possedere le virtù nobili della cortesia, della liberalità e della discrezione. Il personaggio viene costruito da Boccaccio insistendo sugli oggetti concreti che gli appartengono e sullo spazio in cui egli agisce. Si crea così un contrasto tra la sua origine popolare, indicata da questi elementi, e il suo comportamento liberale e raffinato, capace cioè di quelle virtù che l’autore stesso predilige e condivide. Che tali virtù non appartenessero esclusivamente ai nobili, ma anche ai popolani delle arti maggiori, era già opinione diffusa nel Trecento. Ma che potessero essere proprio anche delle arti minori, cioè, come nel caso di Cisti, di chi esercitava un vil mestiero, un’arte assai umile, poteva apparire ai lettori del tempo sorprendente. Per questo Boccaccio, nella premessa al racconto vero e proprio, sente il bisogno di giustificare il fatto che messer Geri Spina e Cisti fornaio vengano posti sullo stesso piano di saggezza e cortesia. I personaggi appartengono a tre livelli sociali diversi: la classe dirigente nobiliare e finanziaria, il popolo minuto degli artigiani, e i servi. L’ambizione porta Cisti a ricercare la solidarietà di messer Geri, mentre il suo atteggiamento verso i servi è sprezzante. I servi allora dimostrano di non capire le regole di cortesia e il codice di valori che invece Cisti e Geri rivelano di avere in comune, pur appartenendo a ceti differenti. Tuttavia Cisti, che pure ambisce ad elevarsi socialmente, rifiuta di partecipare al banchetto offerto da Geri in onore degli ambasciatori papali; questo dimostra come in definitiva la gerarchia sociale venisse ancora intesa come rigida, se non sul piano dei valori, almeno su quello materiale e dei comportamenti.
FRATE CIPOLLA- Come nelle altre novelle della giornata, anche in questa si esaltano le capacità della parola e si elogia la vivacità dello spirito fiorentino. Frate Cipolla è presentato quasi subito come un uomo gioviale; il servo Guccio è presentato con una serie di aggettivi ritmati a assonanzati a gruppi di tre, e le sue caratteristiche sono a noi note tramite un racconto del suo corteggiamento, che si incastra nel tema narrativo principale, ovvero “ l’attesa “ di una famosa reliquia che Frate Cipolla ha promesso di mostrare la sera stessa. Proprio la negligenza del servo facilita il compito a due amici e compagni di brigata del frate, che penetrano nella stanza e sottraggono la penna e la sostituiscono con del carbone. Già preparato a beffare i fedeli, mostrando una penna di pappagallo al posto della reliquia, frate Cipolla si trova a dover organizzare una super beffa su due piedi, per giustificare l’esibizione di pezzi di carbone al suo pubblico. Il frate allora comincia ad incantare il suo uditorio con un racconto di un viaggio, e, dopo aver padronanza su di esso, propone i carboni come quelli su cui fu arso s.Lorenzo; la sostituzione fu attribuita alla volontà di Dio, e i Certaldesi versarono elemosine più generose del solito.

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