Parini e Alfieri

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Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

La poesia didattica e satirica
Nella seconda metà del settecento furono numerosi i poemetti di carattere didattico, che nello schema e nei modi espressivi si richiamavano tutti al poemetto didattico, sul modello delle Georgiche virigiliane. Ora però il poemetto didattico che era stato un genere tipiacamente letterario e idillico, aquisto spesso una carica se non proprio ideologica per lo meno tematica, nel senso che l'autore mirava a diffondere, in modi letterari e perciò accessibili ad un publico di non specialisti, nozioni scientifiche o filosofiche. Questa letteratura didattica, per illuministica che fosse, si rivolgeva sempre ad un publico ristretto, incline ad accettare il nuovo, ma solo a patto che fosse filtrato attraverso la tradizione. Questo genere costituì allora un settore della nostra attività lettereria assai largo e vivo, che contribuì a diffondere fra un certo publico, le nozioni e i meti dell'immunismo; servì a dare, sia pure entro limiti ristretti e ambigui, l'esempio di una letteratura non arcadica, influendo sull'arricchimento e la modi ficazione della nostra lingua poetica.

Giuseppe Parini
Nacque nel 1729 a Bosisio, sul lago di Busiano. A Milano dal 1738 seguì il curriculum solito degli studi di grammatica, retorica, fisica, teologia.
Nel 1741, la prozia che l'aveva ospitato morì, lasciandoli una modesta eredità a condizione che prendesse gli ordini. Nel 1759 ordinato sacerdote, diventò precettore dei figli del duca Servelloni. Intanto aveva publicato una raccolta di versi che lo aveva fatto conoscere e accogliere nell'accademia dei trasformati, dove entrò a contatto con la società e la cultura milanese. Nel sessantatre lasciò casa Servelloni, nell'anno seguente ebbe affidata dal conte Imbonati, la cura del figlio Carlo. Intanto la stampa del Mattino del 63 e del Mezzogiorno nel 65 avevano attirato su di lui l'attenzione del mondo culturale e politico, tanto che il governo gli affidò nel 1768 la direzione della Gazzetta di Milano e della cattedra di belle lettere a Brera. Fu tra i primi componenti della Società Patriottica, accademia ufficiale istituita dall'Austria nel 1776. Il Parini così come il Verri e il Beccaria fu incorporatonell'amministrazione austriaca anche se non fu mai soddisfastto degli incarichi ricevuti. Venuti nel 96 i francesi, il contegno del Parini fu simile a quello di altri spiriti illuminati italiani: operoso senza troppi entusiasmi nelle nuove istituzioni costituite dai francesi, sempre più ospile poi, a mano a mano che l'Italia veniva incorporata di fatto nello stato fracese. Nel 1799, mentre gli austro-russi, sconfitti i francesi rientravano a Milano, il Parini morì.

Alcune poesie...
Nel 1752 con la falsa data di Londra il Parini pubblicò un primo volumetto di versi, intitolato "Alcune poesie di Ripano e Eupilino", diviso in due parti, poesie serie e poesie giocose, i cui esiti non sono molto interessanti, ma sono un tirocinio che lo educava all'opera seguente
Dall'Arcadia al sensismo
Quando Parini entra nel mondo culturale milanese Rousseau aveva composto il discorso sulle scienze e le arti "Origine dell'ineguaglianza fra gli uomini" fsi publicava la Grande Enciclopedia. In Italia si pubblicava "La frusta letteraria", "Il caffè", "Dei delitti e delle pene", mentre si sviluppava con decisione sempre più ferma l'opera riformista di Maria Teresa d'Austria e iniziava il ciclo di riforme illuminate, che modificarono profondamente la struttura dello stato milanese e favorirono lo sviluppo di quella cultura. A questa cultura il Parini partecipò attivamente entrando in polemica letteraria col padre Bandiera contro il purismo arcaizzande della lingua letteraria e col padre Branda a difesa del dialetto milanese.
I frutti maggiori di questi contatti furono il "Dialogo sopra la nobiltà" e "Il discorso sopra la poesia".
Nel "Dialogo sopra la nobiltà" il Parini immagina che un nobile e un poeta, morti, si trovino sepolti nella stessa tomba: dapprima il nobile parla all'altro in tono arrogante, ma il poeta lo convince che la presunta superiorità dei nobili è un pregiudizio senza fondamento razionale e che i nobili e ignobili sono uguali per natura. Il nobile che morto respira l'aria della verità capisce la lezione; il poeta invece riconosce che la nobiltà del sangue è accentuata dalla sola vera nobiltà, quella dell'animo non ereditata, ma acquisita con una lunga assidua opera di educazione. Questa operetta chiarisce che se Parini non aderì mai ma interamente all'illuminismo fu sempre fautore convinto delle tesi egualitarie.
Nel discorso sopra la poesia, Parini assegna alla poesia un suo posto nell'economia della vita spirituale, mostrandola come un'attività naturale e perciò universale, la cui giustificazione va cercata in lei stessa. L'arte, imitazione della natura, ha la virtù di muovere in noi sensazioni e impressioni, come la natura, ma spoglie di quel dolore che spesso le accompagna in natura. La poesia dunque non è ancella della ragione, ma attività umana autonoma ed essenziale, il cui linguaggio fantastico è tanto naturale quanto quello logico della prosa, entrambe espressioni di due diverse condizioni dello spirito. Da questi concetti il Parini deduce che l'arte è utile per se medesima, per la sua capacità di mettere in moto la nostra sensibilità, indipendentemente da ogni altra utilità secondaria che possa derivare da lei.

Le prime odi
Dall’adesione del Parini a un temperato illuminismo e alla poetica sensistica derivò il carattere nuovo, modernamente e polemicamente civile, della sua poesia più impegnata:ricordiamo le “Odi”, “La Vita Rustica”, “La Salubrità Dell’Aria”, “l’Impostura”, “l’Educazione”, “Sull’Innesto Del Vaiolo”, “il Bisogno”, “Sull’Evirazione Dei Cantori”. La modernità di queste liriche è già nel tema, in quanto esse svolgono temi allora vivi e dibattuti con foga; ma, l’interesse maggiore è nella serietà in cui questi temi sono svolti: l’ode sulla “salubrità dell’aria”, che facilmente poteva riuscire arcadica, diventa un’ode civile in quanto l’esaltazione dell’aria salubre dei campi diventa esaltazione della loro funzione sociale, mentre la denunzia dell’aria viziata di Milano è denunzia civile della cupidigia e dell’egoismo che ne sono la causa. La poetica del Parini di questi anni può essere sintetizzata nei versi finali di questa ode, lì dove dice chela sua fantasia è felice solo quando “l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto”, che pare riecheggiare la poetica oraziana del “miscere utile dulci”: il termine “utile” denotava non una utilità astratta di precetti morali validi per tutti i tempi, ma insegnamenti precisi, valevoli per quell’età, nati dal seno dei suoi problemi. La “salubrità dell’aria” e alcune parti di altre odi, per la novità pungente dei temi e del loro svolgimento, per il realismo sobrio eppure potente del linguaggio poetico sono fra i più alti esiti della lirica italiana contemporanea.

“Il Giorno”: il “Mattino” e il “Mezzogiorno”
Il poema, pubblicato nelle prime due parti tra il 1763 e il 1765, doveva constare di tre parti che descrivessero intera la giornata di un giovane nobile, il “giovin signore”; la terza parte, però, fu sdoppiata in due parti (il “Vespro notte”) intorno alle quali il Parini lavorò tutta la vita, senza mai pubblicarle, e continuando a correggere instancabilmente le prime due parti, delle quali restano più manoscritti con varianti numerose e spesso importanti. Il “Mattino” e il “Mezzogiorno” sono coeve delle prime odi e ne condividono l’ispirazione, l’ideologia e la poetica; le altre due parti e le nuove stesure del mattino e del mezzogiorno appartengono a un’altra fase dell’ideologia e della poetica del Parini.
Il giorno è un poemetto didattico-satirico, nel quale il Parini finge di dare ammaestramenti di vita e di comportamento sociale a un giovin signore, ma approfitta di tale finzione per dipingere satiricamente e sferzare la nobiltà del suo tempo, colpendone soprattutto il costume del cicisbeismo, la possibilità cioè e quasi il diritto per una dama della nobiltà di avere un “cavalier servente” che, accettato dal marito, le tenesse compagnia in casa e fuori, sostituendo il marito impegnato in un uguale “servizio” presso qualche altra dama. Ma, assieme al cicisbeismo, di cui il Parini svelava le conseguenze dannose per la vita familiare e l’educazione dei figli, è colpito nel poemetto tutto il costume di vita nobiliare: soprattutto si insiste su quello che gli illuministi lombardi chiamavano “l’ozio economico”, vale a dire l’inutilità sociale di una classe che consumava senza produrre, vivendo della lavoro altrui. A svolgere il suo tema, il Parini immaginò di essere precettore di “amabil rito”, cioè di costumi signorili, a un giovin signore, al quale insegnava come dovesse passare le sue ore, dal risveglio a mattino inoltrato fino alla sera, accompagnandolo alla toilette, alla visita e al pranzo in casa della dama “altrui pudica sposa a te sì cara”, al “corso”, cioè al passeggio, alle visite agli amici, al ricevimento presso qualche altra famiglia aristocratica, al gioco che di solito chiudeva a notte fonda, la laboriosa giornata. Il “Giorno” fu una presa di posizione di fronte ai problemi vivi del tempo, un impegno seriamente umano che condizionò la forma del poema. L’ideologia del Parini è qui assai precisa: egli respinge dell’illuminismo francese le basi filosofiche e gli sviluppi verso il sensismo, il materialismo, l’ateismo, nonché lo spirito di divulgazione e il senso dell’importanza della scienza. Il Parini respingeva le punte più avanzate dell’illuminismo e lo svuotava degli spiriti più vivaci e degli aspetti più innovatori (culto della scienza, senso “democratico” della cultura, valore della divulgazione scientifica), mentre la vecchia boria nazionalistica lo portava ad esaltare, di fronte a queste nuove “mode” straniere, la tradizione nazionale italiana. Solo un punto il Parini accettò con fermezza decisa e sul quale imperniò il suo poema: la polemica egualitaria contro il diritto di nascita, creando una satira di costume storicizzata e concreta contro l’aristocrazia, per una nuova classe borghese che già esisteva in concreto. Individuando le cause sociali, collocò nello sfondo, dietro il lusso aggraziato di quella società nobiliare, immagini crude di violenza e di pena: le conquiste sanguinose del Perù e del Messico, il servo costretto all’elemosina per aver reagito al morso della cagnetta, la “vergine cuccia delle grazie alunne”, i mendicanti affollati con le loro piaghe intorno al palazzo patrizio a respirare l’odore dei civi, lo sforzo di una società operosa, “dannata” al lavoro, a permettere l’ozio di colui che “da tutti servito, a nullo serve”. Tuttavia, pur arrivando a queste punte alte di sdegno morale, il Parini non fu un rivoluzionario, ma un riformista, che aspettava l’eliminazione dei mali sociali da un’opera illuminata di governo e che sognava una società di agricoltori e di artigiani, dignitosamente operosi, fra i quali ci fosse posto per un’aristocrazia dell’intelletto e dello spirito, aperta ai valori dell’arte e della scienza, dell’elegante e del bello. La sua concezione della vita non negava e non escludeva quegli aspetti, ma li voleva congiunti al riconoscimento di altri valori. Il Parini non fu rivoluzionario nemmeno per ciò che concerne l’arte; egli mirò ad un equilibrio complesso, che fondesse gli spiriti didattici e satirici con una raffinata eleganza letteraria e inserisse la polemica contemporanea e il realismo quotidiano nella tradizione letteraria, anticipando la poetica più tardi espressa dallo Chenier: su pensieri nuovi comporre versi antichi. Per questo egli continuò a variare e ad abbellire la materia didattica satirica con riposi di “pura” poesia, inserendo favole come quelle sull’origine della cipria, sulla lite di Amore e Imene, sull’origine del piacere. La sua lingua è fortemente composita: il fondo è letterario tradizionale, ma possono esservi gruppi di vocaboli che mirano, secondo la poetica del sensismo, a suggerire sensazioni vivaci e che quando non sono attinti dal lessico scientifico, sono perlomeno estranei al linguaggio poetico consueto. Il Parini si serve inoltre di latinismi, che egli piega sapientemente a nuove sfumature o che accosta ai sostantivi secondo il precetto graziano della “callida iunctura” (accorto accoppiamento): i “queruli” recinti delle scuole, a dire dei lamenti dei fanciulli che vi venivano puniti, i “papaveri tenaci” a dire che legano col sonno, le “oziose lane” delle coperte sotto cui volentieri si indugia.

Dopo il primo “Giorno”
La cultura lombarda tra il 1760 e il 1760, assai vicina a Maria Teresa, si allontanò con gli anni dal governo austriaco e dalle riforme di Giuseppe II, sentendole promosse da interessi estranei all’Italia e alle sue esigenze. Il punto in cui maggiormente gli italiani si sentirono lontani dal sovrano fu lo spirito dirigistico che egli pretendeva di introdurre nella vita culturale e il peso eccessivo, a loro giudizio, che egli dava alle scienze, a detrimento delle lettere. Ciò parve grave al poeta Parini, letterato nutrito in Arcadia e non staccatosi mai del tutto dalla tradizione letteraria. Per questo egli si trovava a suo agio nell’Accademia dei Trasformati – cauta rinnovatrice del costume, ma attenta conservatrice di tutti i valori letterari – e nutrì diffidenza se non antipatia per la nuova cultura, tutta scienza ed economia, sprezzante non solo della “cattiva letteratura”, ma di tutta la letteratura. È naturale allora che il Parini si staccasse a poco a poco se non da certi caratteri di fondo dell’illuminismo (il desiderio di una letteratura civile, l’egualitarismo, l’umanitarismo) perlomeno dalle forme che l’assolutismo illuminato e la cultura che gli era legata assumevano a Milano. Intanto, l’Accademia dei Trasformati era venuta meno, la società patriottica vivacchiava, sabotata dagli stessi soci: al Parini non restava che chiudersi in sé, per elaborare una poesia che non rinnegava gli spiriti essenziali della sua prima stagione poetica, ma li collocava in una luce nuova, ponendo l’accento non più sugli aspetti sociali e polemici, ma su quelli individuali e morali.

Il “Vespro” e la “Notte”
Sono la continuazione delle prime due parti del “Giorno” e accompagnano il giovin signore e la dama durante il pomeriggio, la sera, la notte.
Il “Vespro” compiuto incorpora in sé due ampi passi che il poeta tolse dal “Mezzogiorno”; la “Notte” è incompiuta.
Il tono generale dell’opera è, a grandi linee, lo stesso. Il poeta descrive le occupazioni della coppia con una ironia più o meno scoperta; la satira di quella vita futile nasce dal tono altisonante con cui sono descritte operazioni di modesto rilievo, oppure dal confronto fra quella povera vita e quella assai più intensa, anche se più rozza, degli avi; ora dall’eleganza verbale, ora dallo sdegno morale che squarcia ogni tanto il levigato tessuto linguistico. Tuttavia queste ultime due parti sono cosa diversa dalle prime due, perché mancano o sono scarsi i fermenti civili e sociali, i riferimenti concreti e attuali, il legame con la cultura che si rinnovava. Ora, il Parini non si sforza più di indagare le ragioni sociali di quella condizione di vita: la dipinge, la condanna anche, ma con una riprovazione tutta morale, espressione di una coscienza risentita, non di una partecipazione attiva ad una cultura operosa. E ne dipinge perciò più certe umane debolezze proprie di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che concreti vizi storici legati a una classe. Il “Giorno”, in altre parole, è in questa sua edizione, satira di costume che può essere anche aspra, ma è cosa del tutto diversa da una mordente satira sociale. L’impasto linguistico delle prime due parti si modifica col prevalere degli elementi di maggiore raffinatezza formale. La lingua dunque fu ritoccata in direzione di un classicismo più osservante della tradizione; inoltre, furono inseriti passi nuovi che modificarono alquanto il tono ideologico del poema. Notevole soprattutto l’aggiunta, nel “Mattino”, di un lungo passo sui ritratti degli avi del giovin signore: quegli avi vengono descritti ora quali medici, ingegneri, professori, cittadini utili alla loro città e la nobiltà viene negata, non più radicalmente, nella sua natura, nelle sue origini, come era stato nel “Dialogo sopra la nobiltà” e in certi passi del primo “Giorno”, ma solo nella sua degenerazione attuale a opera di questi ultimi effeminati discendenti.

Le ultime “Odi”
Dal 1784, anno in cui scrisse “La caduta” al 1799, anno della sua morte,il Parini compose numerose odi, come “Il pericolo”(per una signora veneziana di cui si era quasi innamorato), “Il dono” ( per una signora che gli aveva donato un esemplare delle tragedie alfieriane), “Il messaggio”( per una signora che essendo il poeta malato aveva mandato un servo a chiedere notizie), “Sul vestire alla ghigliottina” (contro la moda, venuta dalla Francia, di un abito detto “alla ghigliottina”), “Alla Musa” (per un marchese, già suo allievo, che dopo il matrimonio non componeva più versi.
I temi non sono più di polemica sociale o civile, piuttosto queste odi cantano le sue malinconie, la commozione per il bello e per il buono, l’attenzione a costruire, attraverso l’idealizzazione di sé, un modello umano universale: in queste odi vi è tutta la persona del poeta, figura ideale di cittadino e di poeta contrapposta polemicamente al mondo circostante. Ora il poeta più che partecipare ad un moto di idee, mira a cantare se stesso: nello stesso modonon cerca più la parola o il giro di frase che mordano la realtà, ma si sforza di trovare la parola, la frase, lo stile che dicano quella sua grandezza solitaria.
Il Parini costituì nella letteratura del suo tempo un’esperienza significativa, riflettendo a modo suo, secondo le proprie esigenze particolari tutti gli impulsi contrastanti della sua epoca: la sua opera ci appare lo specchio più limpido della cultura lombarda a cavallo tra Illuminismo e Neoclassicismo, protesa verso riforme radicali e pure timorosa degli eccessi, inquieta e ancora non cosciente della propria inquietudine, aspirante ad una letteratura nuova fondata sul vero e sull’utile, eppure incapace di realizzarla appieno: un’età di fermenti e di contraddizioni che il Parini si sforzò di comporre in unità e che espresse in un’opera di alta letterarietà, tutta percorsa, specialmente nella sua prima fase, da spunti e fremiti rinnovatori.

La polemica sulla tragedia
La nascita di un teatro tragico italiano fu aspirazione costante del Settecento, in quanto si avvertiva la mancanza di un genere che le convenzioni letterarie ponevano tra i più alti accanto al poema.
Nell'età dell'Arcadia, si definì il modello di una tragedia che si ispirasse a quella francese di Racine e Corneille,ma fosse meno aperta alla galanteria e gli intrighi amorosi, escludesse i fatti atroci, eliminasse nunzi e cori, fondesse nel dialogo la narrazione degli antefatti, possedesse caratteri cosìdetti sollevati o eroici.
Le tragedie di Alfieri nacquero in anni dei quali, mentre dalla Francia continuavano a venire successi teatrali, si cominciava a scoprire la grandezza "barbara" ed estranea ai moduli classici di Shakespeare e sorgeva in Germania il teatro tempestoso e anarchico del movimento Sturm und Dranger.
La tragedia alfieriana nasceva dunque in un clima culturale e sentimentale che non era più quello di chi ne aveva auspicato la nascita (Arcadia) ed è questa una prima considerazione chere tener presente per capire quelle opere e l'impressione che destanno.

Vittorio Alfieri
Naque ad Asti nel 1749 ed ebbe una vita in parte avventurosa, che racconto in un autobiografia, cominciata nel '90 "Vita".
Qui egli divise la sua stori interiore in più "epoche", accentuando gli aspetti negativi delle prime, facendo della sua vita una vicenda eroica, in cui il protagonista lottasse contro un destino e una società ostili, per affermare vittoriosamente se stesso.
Parlò così di "nove anni di vegetazione", ricchi di fatterelli puerili, a cui seguono "otto anni di ineducazione", trascorsi nell'accademi militare di Torino; liberatosi dall'accademia cominciarono dieci anni circa di "viaggi e dissolutezze", durante i quali, viaggiò disperatamente l'Italia Europa passando furiosamente da un paese all'altro, da un amore all'altro, deluso da uno e dagli altri.
Nel 1773 mise casa "con lusso bestiale" a Torino, poi si dimise dall'esercito e nel 1775 rotta una relazione con una signora- "L'odiosamata"-che lo aveva tenuto a lungo irretito, si diede allo studio con la stessa furia con la quale si era dato prima ai viaggi.
Mentre continuava questa nuova vita di studi e lavoro, conobbe nel 1777 a Firenze quella che doveva diventare"la sua donna", Luisa Stolberg contessa d'Albany moglie di Carlo Emanuele Stuart pretendente al trono d'Inghilerra, in urto con il marito e praticamente separata da lui. La relazione diede un corso definitivo alla sua vita: nel 1778 donò tutti i suoi beni alla sorella, "spiemontizzandosi" in cambio di un vitalizio annuo; seguì in varie dimore la Stolberg, finchè non gli fu possibile convivere con lei; si stabilì per parecchi anni a Firenze e a Siena per apprendervi il toscano che, per lui piemontese, abituato a ldialetto o al francese, era stato fino allora una lingua imparata sui libri; stese e pubblicò le tragedie assime ad altre opere minori.
Nel 1786 si stabilì con la Stolberg a Parigi; quando qualche anno dopo scoppiò la Rivoluzione, Alfieri cantore in tutte le sue opere della libertà, in un primo momento ne fu entusiasta e compose un ode a "Parigi sbastigliata", celebrando la caduta della Bastiglia; ma il procedere della rivoluzione, che proseguendo nel suo corso logico si avviava a forme democratiche, ferì l'Alfieri , il quale, con la passionalità che gli era propria fuggì da Parigi, divenne nemico acerrimo della rivoluzione e cominciò,dopo la venuta dei francesi in Itlaia nel 1796, un opera acremente antifrancese, il "Misogallo".
Si stabilì a Firenze e lì visse fino alla morte avvenuta a soli 54 anni nel 1803.

La storia interiore
"La Vita"cioè la biografia che il poeta compose nel '90, quando ormai aveva steso la maggior parte delle sue opere, può aiutare a comprendere la personalità dell'Alfieri purchè se ne faccia un uso discreto, sapendo che essa non è una relazione obbiettiva di fatti, ma nemmeno un loro travisamento voluto, ma un interpretazione che l'uomo dava di se' e della sua opera, ripercorrendo le tappe della propria vicenda biografica con il senno di poi.
L'Alfieri, ne avesse o no coscenza, ci si presenta come un specie di quell'Emilio, in cui il Rousseau aveva incarnato la sua teoria dell'educazione e della formazione dell' uomo: anche per Alfieri quanto gli era venuto dagli uomini e dalla società era male, quanto gli era stato dato dal Creatore era bene.
Se era diventato un "liber uomo" e un grande poeta è perchè aveva saputo districare in sè, liberandoli dalle pastoie di una falsa educazione e dalle convenzioni sociali, i germi della libertà e della dignità interiore, l'aspirazione a cose nobili e grandi, l'anelito alla poesia, ciò che egli diceva con una frase comprensiva "il forte sentire". Per le stesse ragioni accentuò le sue dissipatezze, che, però, avevano avuto una loro nobiltà, se erano segno della ricerca inquieta di un qualcosa che egli non sapeva ancora individuare, ma che pure avvertiva.
Da ciò quei viaggi disperati, nei quali corre verso una città o un paese lontano, come se solo lì possa trovar pace e poi subito se ne disgusta e fugge via; da ciò certi gesti retorici, come il non voler conoscere Metastasio per averlo visto nei giardini imperiali di Schonbrun piegare il ginocchio, come era suo dovere di cortigiano, dinanzi a Maria Teresa; da ciò i gidudizi taglienti e il disprezzo profondo per la Prussia di Federico II e la Russia di Caterina II, e la simpatia invece per paesi "liberi" come l'Olanda e l'Inghilterra; da ciò certe pause di commozione di fronte alla poesia o di fronte a paesaggi solitari e selvaggi.
Da ciò, infine, la lotta eroica e ridicola contro se stesso: quel fuggire di colpo dalla donna amata, il ritornare a Torino, chiudersi in casa e tagliarsi i capelli per essere costretto a restarvi, e farsi legare dal servo alla sedia, finchè la solitudine, la lontananza e lo studio non gli avessero fatto dimenticare la donna e lo avessero abituato al lavoro, incatenadolo per sempre alla sua attività di poeta.
Dopo di che, trovata la Stolberg, la sua vita avrà finlmente uno scopo e non gli resterà che comporre tragedie, in attesa di quella fama a cuida anni spasmodicamente ambiva.

Alfieri e il Settecento
Si comprende facilmente come questa storia sia parsa estranea al suo tempo, tanto che si è parlato dell'Alfieri come di una figura "atipica" del Settecento, quasi un specie di errore ella natura, che lo avrebbe fatto nascere in anticipo a confondere le idee ai critici. In realtà, quella storia si inscrive tutta nell'ambito del secondo Settecento italiano e europeo, età di violente e numerose contraddizioni, a meno che non si voglia svilire l'età riducendola al fenomeno di un gretto e arido intellettualismo, dimenticando fenomeni quali il Sensismo, Rousseau, lo Sturm und Drang, l'Ossianismo, etc..
Alfieri fu uomo del Settecento, ma nei modi che gli erano concessi dalla sua nascita e dal suo carattere.
La chiusa., gretta Torino non era la la Milano degli Asburgo; e se a Milano un conte Verri o un marchese Beccaria potevano inserirsi nella vita pubblica, anche se dopo molte lotte, a Torino un conte Alfieri, avviato da fanciullo alla carriera delle armi non poteva ritrovare se stesso se non con una ribellione violenta, che lo mettesse in urto aperto con tutto il suo mondo.
Perciò, per acquistare la propria libertà, dovette "spiemontizzarsi", tagliando tutti i ponti con un paese in cui un nobile non poteva nemmeno viaggiare fuori dal regno senza il permesso del Re, ricostruendosi una nuova vita, così come dovette ricostruirsi una nuova lingua.
Spiemontizzarsi significò anche sradicarsi dal contesto sociale e per questo l'Alfieri partecipò del cosmopolitismo proprio del tempo e fu in fondo anche lui uno dei tanti, che in quel secolo si sentirono e si dissero, come suona il titolo di una commedia goldoniana"Avventurieri onorati" uomini che non avevano radici in alcun paese e in alcuna classe sociale e potevano stabilirsi a Firenze come a Parigi, ma non avevano sotto i piedi un terreno loro, come non avevano intorno a sè un ambiente solidale nel quale si sentissero inseriti correttemente.
Anche la cultura dell'Alfieri è del Settecento, non del Settecento riformista che credeva nella possibilità di riforme graduali conducenti alla felicità,ma dell Settecento radicaliggiante che con Rosseau e con gli Sturm und Dranger si ribellava all'ordine costituito e più che additare rimedi o suggerire vie da seguire, invitava distruggere per poter riedificare. La parabola dell'Alfieri, dalla predicazione della libertà all'entusiasmo per la rivoluzione e poi all'abborrimento di questa è tipicamente settecentesca e ha i suoi riscontri precisi in quasi tutti i nostri illuministi, milanesi o npoletani che fossero, economisti o scrittori.
Si potrebbe dire perciò che i miti illuministici della ribellione al passato, dell'anelito a un avvenire diverso e migliore, della liberazione dai ceppi vincolanti, trovarono in Alfieri- per le vicednde della sua vita e l natura del suo carattere- una formulazione estremista e radicale che lo portò a battersi contro altri miti dello stesso Illuminismo, quali la forza della ragione- alla quale l'Alfieri contrappose il sentimento- la potenza dei lumi- ai quali contrappose un violento individualismo-, la speranza nell'avvenire, alla quale contrappose un ritorno nostalgico ad un passato, mitizzazione di una libertà che il poeta voleva ricreare nel presente o nel futuro per sè e per gli altri. Ancora più chiara appare questa posizione alfieriana se si pensa che egli fu sì un libertario deciso ed estremista, ma non un "democratico": "La Vita" si apre con l'affermazione dei vantaggi che gli erano venuti dall'essere nato nobile e se egli fu fustigatore implacabile della nobiltà del suo tempo lo fu non per gli spiriti egualitari che anbimavano il Parini, ma solo perchè soffriva di vederla decaduta dalla sua funzione,per esempio ciuò che più lo offese nella rivoluzione francese fu il trionfo della "plebe" disprezzata con un orgoglio nobiliare che non si smentì mai; quando nel trattato "Della tirannide" parlava positivamente di "popolo"intendeva solo "quella massa di cittadini, o contadini più o meno agiati, che posseggono propri lor fondi o arte, e che hanno moglie e figli e parenti:non mai quella più numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile, classe di nulla tenenti, della infima plebe" è questa una posizione tutta aristocratica o "aristocratico-borghese", di cui si può misurare il significato oslo se la si paragoni con altre degli stessi anni, come quella del Parini, che con amara ironia aveva parlato della fatica a cui è "dannato l'umil vulgo", uomini che,incapaci di godere dei doni del piacere, vanno "quasi bovi al suol curvati": un posizione tutta diversa piena di spirti egualitari, di pietà e comprensione per il vulgo, di sdegno morale per le ingiustizie sociali.

La solitudine tragica
Questi spiriti aristocratici, e in sostanza antidemocratici e antiegualitari, spiegano tanti aspetti dell'Alfieri.
Nobile e orgoglioso dell sua nascita, ma spredezzante della nobiltà attuale; senza un città allam quale si sentisse veramente legato; sensibile agli interessi del popolo (terzo stato) ma ben lontano dal condividerne i miti borghesi e mercantili; sdegnosamente sprezzante della plebe; nutrito di cultura Settecentesca, ma insofferente di ogni giogo e nemico quindi di quell'assoutismo riformatore che costituì la grande esperienza del Settecento illuminista l'Alfieri non poteva che rinchiudersi un una solitudion orgogliosa, idoleggiando se stesso, disprezzando il suo secolo, "il vil secolo", risognando un passato eroico, auspicando un futuro degno di quel passato.
Alfieri non comprese il suo tempo e non si accorse dell'importanza delle opere che si venivano compiedo e della grandezza degli uomini che lo circondavano: corucciato e ansioso egli si chiude in se stesso. nella cerchia ristrettissim della su donna o di due tre amici;scopre il valore poetico della solitudine e scrive rime nelle quali disegn paesaggi di un fascino solitario e orrido; sbalza i ritratti di sè nei quali appare malinconico e "pallido in volto più che un re sul trono";intanto impaziente e acceso, sogna la gloria e si getta nella composizione delle sue tragedie, come se da esse dipendesse la sorte del mondo, convinto che l'opera d'arte sia o possa essere un succedanio dell'azione, un operare generoso se itempi vietano altre opere.
Una volta descrisse il grande scrittore ideale, pensò senza dubbio a se stesso, delineando uno dei suoi molti autoritratti: "é quest'impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova pace nè loco; un reputar sempre nulla il già fatto e tutto il dafarsi, senza mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità o di esser primo tra gli ottimi, o di non essere nulla".E così, con questo desiderio infiammato di essere primo fra gli ottimi, distaccato dai suoi contemporanei, in una solitudine tragica, egli compose febbrilmente, in poco più di un decennio, tutta la sua opera letteraria, essendo, senza saperlo e volerlo, anche lui una voce dell'Illuminismo
I trattati politici
Della tirannide
Tesi di fondo del trattato è che ogni e qualsiasi forma di governo sia una tirannide più o meno larvata e più o meno pericolosa:tirannide è ovviamente il governo di uno solo, anche se "illuminato", più pericoloso, anzi,proprio perchè con i suoi "lumi" e le sue riforme si presenta in vesti lusinghiere, che possono mascherare meglio la natura liberticida. Ma di fronte al governo di uno solo, l'A. non seppe delineare in concreto, (cioè in termini di politica e di trattazione politica) un regime repubblicano e si limitò a vagheggiare una repubblica ideale, ma in realtà, in opposizione al tirannonon sapeva concepire che l' "eroe", l'individuo d'eccezione, che non si piega al giogo, è insensibile alle lusinghe e al timore, si erge di fronte all'altro in una sua solitudine libertaria e giunge al tirannicidio, non tanto attraverso congiure o colpi di stato collettivi, quanto nella forma estrema ed individualistica del gesto solitario. Il trattato è dunque espressione non di una teoria o di un pensiero politico, ma di uno stato d'animo, di quella insofferenza orgogliosa, propria dell'Alfieri, per ogni vincolo che limitasse la sua libera espansione, e denota l'incapacità di adattarsi organicamente ad una forma qualsiasi di regime politico o di struttura sociale. Non è un caso se più tardi, dopo una fiammata di entusiasmo si ribellò contro la Rivoluzione francese e se, dopo aver celebrato in 4 odi (America libera) la liberazione e la creazione degli Stati Uniti d'America, in una quinta ode osservò che quel moto era dovuto non ad un bisogno generoso di libertà, ma a ragioni economiche, alla difesa di quel commercio che l'A odiava, come odiava ogni fatto economico.

Del principe e delle lettere
La stessa delineazione di eroe solitario si trova anche in questa opera, dove l'A respinge sdegnosamente ogni forma di mecenatismo, un mezzo, da parte del principe, di comprarsi coscienze e penne, da parte dello scrittore, di vendere se stesso; dichiara impossibile la convivenza del principe , cioè del tiranno, col il "libero scrittore"; esalta la missione di questo, alfiere e apostolo di libertà, professante un'attività superiore a tutte le altre attività umane, creatore di opere che sono anch'esse un'azione, se " il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte." Così il poeta diviene, più che un maestro, un apostolo e del sonetto conclusivo del "Misogallo", l'Alfieri sognò che gli Italiani, armati contro i Francesi, salutassero in lui il Creatore, con la sua opera di poeta, di una nuova splendida età.

Panegirico di Plinio a Traiano
Lo scrittore immagina di rifare il panegirico che Plinio aveva composto in lode di Traiano, ma dicendo lui quello che lo scrittore latino avrebbe detto se fosse stato di scrivere liberamente, consigliando Traiano a deporre il potere per restituire ai Romani la loro libertà.
I trattati politici sono espressione dell'individualismo esasperato dell'Alfieri, celebrazione di uno scrittore-eroe che, in un mondo di servi, si erge lui solo contro i tiranni ecceso di "furore eroico", con la sua opera crea nuove età, simili per bellezza alle grandi età passate.

LE TRAGEDIE
Questo mondo di solitudine tragica, di tensione intellettuale e sentimentale, di politicità astratta, trovò espressione piena nelle 19 tragedie che egli compose, inserendosi nel desiderio, comune al suo secolo, di una tragedia italiana, e pur costruendosi un modulo tutto suo. Punto di partenza fu la tragedia che si era costituita in Italia e in Francia dopo la scoperta della poetica di Aristotele: 5 atti, argomento tolto dalla mitologia, dalla storia antica e più raramente da quella medievale e dalla Bibbia; pochi personaggi; rispetto delle unità di azione di tempo e di luogo. L'Alfieri accentuò i tratti essenziali di questo schema, sfrondandolo di quegli episodi accessori e di quelle concessioni alla galanteria e al pubblico femminile che, introdotti dai francesi, erano stati imitati dagli italiani. Egli abolisce anche i "confidenti", cioè quei personaggi "consultori o spettatori", che erano stati escogitati per spiegare l'antefatto attraverso colloqui con i protagonisti; diminuisce il numero dei personaggi; concentra l'azione su un solo affetto; incentra l'interesse su uno, al massimo due personaggi: tiranno ed eroe di libertà. La sua tragedia è una lucida, implacabile affermazione di libertà e di passione. Questa però non fu una tragedia nel senso tradizionale della parola, ma un fatto individuale, lirico, che non ha avuto continuatori. Essa è una specie di opera epico-lirica, nella quale l'eroe lotta contro forse nemiche e perlopiù soggiace a esse o al destino, forza cupa e inenuttabile che grava sugli uomini; ma anche quando soggiace, con la sua stessa sconfitta o con l'autonegazione di sè -con il suicidio che frequentemente chiude il dramma Alfieriano-, afferma la propria libera volontà e la propria vittoria sui suoi vincitori. Il più delle volte questo conflitto si presenta in termini politici, poichè Alfieri indentificava la servitù civile come massimo ostacolo al libero espandersi della personalità umana. L'eroe è sdradicato da ogni concreto contesto storico-sociale, a per nemico il tiranno e la tragedia spesso nasce dallo scontro di due forze o di due volontà ugualmente robuste; per questo l'argomento è desunto spesso dalla storia greco-romana che una lunga tradizione letteraria aveva saltato come storia di libertà. Non per nulla per gli scrittori preferiti dell'Alfieri c'era Plutarco, creatore anche lui di eroi dalle proporzioni miticamente esaltate. E' stato notato però che anche il tiranno ha spesso in queste tragedie una sua grandezza che affascina.

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