La vita di Leopardi e il pensiero filosofico

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Categoria:Letteratura Italiana
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Testo

L’infanzia e la prima formazione (1798-1808)
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798. È il primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Le sprovvedute speculazioni finanziarie di Monaldo hanno condotto la famiglia al limite del fallimento, così che dal 1803 la gestione del patrimonio passa nelle mani della moglie. Solida e arcigna, Adelaide riuscirà a restaurare condizioni economiche dignitose a prezzo di umilianti sacrifici imposti al marito e ai figli. La durezza distante della madre inciderà profondamente su Giacomo. Un anno dopo Giacomo, nasce il secondogenito, Carlo, e, nel 1800, Paolina. Degli altri sette fratelli nati in seguito sarebbe sopravvissuto solamente l’ultimo, Pierfrancesco. La formazione culturale dei tre fratelli maggiori è affidata a precettori casalinghi, secondo l’uso nobiliare del tempo. Si tratta di ecclesiastici, che condividono il gretto classicismo di Monaldo e soddisfano le esigenze religiose della bigotta Adelaide. Già a dieci anni Giacomo è in grado di scrivere composizioni in latino, oltre che in italiano, nonché piccole trattazioni filosofiche. Queste prime prove vengono lette in pubbliche riunioni presso il palazzo Leopardi, dove Monaldo si compiace di tenere in vita una qualche attività culturale. Più importante dell’insegnamento dei precettori è però, fin dall’infanzia, il rapporto diretto di Giacomo con la ricchissima biblioteca paterna (circa quindicimila volumi). Oltre che un gran numero di testi di erudizione e di cultura classica e religiosa, questa conserva una buona rappresentanza di testi letterari, italiani e stranieri, anche recenti, nonché molti dei principali autori dell’Illuminismo francese. Benché attestato su solide posizioni reazionarie, Monaldo si compiace di esibire una cultura e una biblioteca aperte alle tendenze più attuali.
I «sette anni di studio matto e disperatissimo» (1809-1816)
Tra il 1809 e il 1816 si svolgono quei «sette anni di studio matto e disperatissimo» (sono parole di Leopardi), che consentiranno alla cultura di Giacomo una vastità e una sicurezza straordinarie, a prezzo però di irreparabili danni alla struttura fisica. Dedicandosi giorno e notte allo studio e alla scrittura, Giacomo si impossessa delle lingue classiche e di un’erudizione solidissima, non escluso l’ambito scientifico. Nascono le prime prove poetiche, due tragedie e altri testi creativi, nonché numerose esercitazioni nel campo dell’erudizione, della filosofia, della morale, della logica. Giacomo si fa la mano traducendo incessantemente i classici: Omero, Esiodo, gli alessandrini, Orazio, Virgilio. Del 1813 è una Storia dell’astronomia; del 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, nel quale il distacco illuministico si sposa alla sensibilità verso l’ingenuità delle culture primitive. L’impegno più continuo è dedicato però alla filologia, per la quale Giacomo si mostra assai dotato. La caduta di Murat, che pone fine anche per Recanati alla parentesi napoleonica e rivoluzionaria, gli suggerisce l’Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno (1815). Le posizioni reazionarie dell’ambiente famigliare sono piegate in direzione antitirannica, secondo un orientamento che rivela già il modo originale di vivere la propria formazione.
La «conversione letteraria» (1816)
Intorno al 1816 si colloca quella che lo stesso Leopardi definì «conversione letteraria»: all’amore per l’erudizione si sostituisce cioè una più accesa consapevolezza dei valori artistici. In realtà entra in crisi l’intero equilibrio esistenziale del giovane Giacomo, che inizia a percepire la ristrettezza culturale e l’insufficienza affettiva dell’asfittico ambiente famigliare e recanatese. I tentativi poetici acquistano un significato più intenso, e nascono i primi risultati di rilievo: l’idillio Le rimembranze e la cantica L’appressamento alla morte (un frammento della quale sarà accolto nei Canti). Il 1817 è un anno per più versi decisivo nella giovinezza leopardiana. Nel febbraio prende il via la corrispondenza con Pietro Giordani, che gli risponderà incoraggiandolo con generosità; nell’estate fissa le prime osservazioni in quel complesso diario del pensiero che formerà lo Zibaldone; nel dicembre si innamora per la prima volta: oggetto dell’amore è la cugina Gertrude Cassi Lazzari, ospite presso i Leopardi. Dall’esperienza sentimentale nascono un’elegia (che verrà accolta nei Canti con il titolo Il primo amore) e il cosiddetto Diario del primo amore. L’amicizia con Giordani e la comprensione ricevuta dall’illustre corrispondente rafforzano il desiderio di affermazione individuale già fortissimo in Giacomo e favoriscono la rottura con le posizioni cattoliche e reazionarie della famiglia e del padre: la formazione illuministica e classicistica di Leopardi inizia a organizzarsi in un sistema teorico originale e coerente. Ne nascono, nel 1818, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (con cui prende posizione sulla polemica tra classicisti e romantici) e le prime due canzoni civili (All’Italia e Sopra il monumento di Dante), che vengono pubblicate a Roma. Incoraggiato da una visita di Giordani a Recanati per conoscerlo, Giacomo tenta la fuga dalla prigionia famigliare (luglio 1819); scoperto dal padre alla vigilia della partenza, rinuncia, cadendo in un abbattimento ancora più profondo. Anche le condizioni fisiche non sono buone: una malattia agli occhi gli rende a lungo impossibile ogni applicazione, lasciandogli postumi che lo renderanno sofferente per il resto della vita.
La «conversione filosofica» e il soggiorno romano (1819-1823)
Tra il 1819 e il 1822 Leopardi vive dunque a Recanati in tensione continua con la famiglia, che vorrebbe avviarlo alla carriera ecclesiastica. Allo Zibaldone affida un gran numero di riflessioni, che segnano la sua cosiddetta «conversione filosofica», e cioè l’adesione ad una concezione materialistica e atea. La ricerca poetica si svolge lungo due filoni principali: la poesia sentimentale degli idilli (compone fra l’altro L’infinito, La sera del dì di festa e Alla luna) e la poesia impegnata delle grandi canzoni civili (fra le quali Ad Angelo Mai, Bruto minore e Ultimo canto di Saffo).
Finalmente, nel novembre del 1822 Giacomo può lasciare Recanati recandosi a Roma, ospite degli zii Antici. È una nuova delusione: i monumenti della latinità lo lasciano indifferente, la città gli spiace, i letterati gli appaiono presi solo da una meschina e provinciale passione per l’erudizione e l’"antiquaria". Ogni tentativo di ottenere un impiego fallisce, e non pochi ostacoli Giacomo incontra nelle ricerche filologiche, colpito da gelosie e invidie.
Nel maggio del 1823, dopo sei mesi, fa dunque ritorno a Recanati. Qui si getta di nuovo nell’elaborazione filosofica e nella scrittura. La messa a punto di un pensiero rigorosamente materialistico e disincantato lo porta su posizioni di combattivo pessimismo. Alla poesia dà provvisoriamente l’addio con la canzone Alla sua donna, e, nel 1824, si getta nella composizione delle Operette morali, originali prose e dialoghi filosofici, nei quali Leopardi critica con pungente ironia l’ideologia ottimistica del suo tempo e rappresenta la propria sconsolata visione della condizione umana.
Tra Milano, Bologna e Firenze (1825-1828)
Nel luglio del 1825 Leopardi lascia di nuovo Recanati, diretto a Milano. Qui l’editore Stella lo impegna in alcuni progetti editoriali (soprattutto edizioni di classici). Ne nasceranno, in particolare, un commento al Canzoniere petrarchesco (1826), nonché due antologie della letteratura italiana (una Crestomazia italiana della prosa e una della poesia, uscite nel 1827 e nel 1828). Ogni tentativo di trovare un’occupazione stabile però fallisce, o per ostacoli oggettivi (come opposizioni politiche) o per rifiuti da parte dell’interessato (che rinuncia a possibili benefici ecclesiastici nonché a incarichi di insegnamento presso università straniere). Con l’assegno dello Stella e con l’aiuto di lezioni private, vive tra Milano e Bologna. A Milano visita il vecchio Monti: a Bologna frequenta Giordani e si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi. Al conte bolognese Carlo Pepoli dedica un’Epistola che interrompe eccezionalmente il silenzio poetico di questi anni.
Intanto alcune Operette escono sulla «Nuova Antologia», la rivista dei moderati fiorentini ruotanti attorno a Pietro Vieusseux; ma Leopardi declina l’invito a collaborare. Frequenta però il salotto Vieusseux a partire dall’estate del 1826, quando si stabilisce a Firenze dopo aver trascorso l’inverno a Recanati, in cerca di un clima più mite di quello di Bologna o di Milano. A Firenze incontra più volte Manzoni e conosce Capponi, Niccolini, Montani, Tommaseo, Poerio, Colletta. Dall’ambiente fiorentino cattolico-moderato lo separano però tanto le posizioni ideologiche quanto le posizioni artistiche (Leopardi è su posizioni antiromantiche). Nel giugno del 1827 vengono pubblicate a Milano dall’editore Stella le Operette morali. Nello stesso momento si conclude la stampa della prima edizione dei Promessi sposi, che Leopardi legge, riportandone un’impressione positiva. Sul finire del 1827, avvicinandosi l’inverno, Leopardi si trasferisce a Pisa, città che lo incanta per il clima, per l’aspetto ridente, per l’accoglienza generosa. Questo momento rasserenato favorisce il ritorno alla scrittura poetica: nell’aprile del 1828 scrive Il risorgimento e A Silvia, aprendo la stagione del ciclo pisano-recanatese (la terminologia tradizionale definisce questi testi, con espressione fuorviante, "grandi idilli").
L’ultimo soggiorno a Recanati (1828-1830)
Dopo un breve ritorno a Firenze per l’estate, nel novembre 1828 Leopardi è costretto a ripiegare su Recanati, mancandogli ormai l’assegno dello Stella e dunque la possibilità di mantenersi.
A Recanati Leopardi resta fino all’aprile del 1830, sedici mesi di insopportabile depressione, ma anche di alacre attività progettuale e creativa. In particolare nella seconda metà della permanenza a casa, Leopardi compone altri quattro grandi canti (Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Spera di vincere con le Operette morali i mille scudi del premio bandito dall’Accademia della Crusca; ma gli è preferita la Storia d’Italia di Carlo Botta. Gli amici toscani mettono allora a sua disposizione una somma sufficiente a vivere a Firenze per un anno, e Pietro Colletta gliela offre garbatamente. Leopardi accetta e nell’aprile del 1830 lascia Recanati. Non vi tornerà più.
Tra Firenze e Roma (1830-1832)
Nel maggio 1830 è a Firenze, dove ritrova i vecchi conoscenti e stringe amicizia con il filologo svizzero Luigi De Sinner, cui affida i propri scritti filologici. Incontra per la seconda volta Stendhal. Si consolida intanto la sua amicizia con il giovane scrittore napoletano Antonio Ranieri, e nel novembre va a vivere con lui. Intanto ha conosciuto l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti (1805-1885), della quale si innamora. Per lei scrive (tra il 1832 e il 1835) alcune canzoni che segnano uno dei momenti più originali e alti della sua nuova produzione poetica (Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia, che formano il cosiddetto "ciclo di Aspasia", dal soprannome assegnato alla destinataria).
Nel 1831 esce a Firenze la prima edizione dei Canti, dedicata Agli amici suoi di Toscana. Passa poi, tra il 1831 e l’anno seguente, alcuni mesi con Ranieri a Roma. Nel 1832, di nuovo a Firenze, scrive gli ultimi due dialoghi delle Operette e, nel dicembre, consegna l’ultimo appunto allo Zibaldone, che conta ormai quasi cinquemila pagine.
A Napoli: l’ultimo periodo della vita di Leopardi (1833-1837)
Nell’ottobre 1833 Leopardi e Ranieri si trasferiscono infine a Napoli. Le condizioni di salute di Leopardi peggiorano progressivamente; ma il suo desiderio di intervenire nella vita culturale contemporanea è più forte che mai: il contatto con l’ambiente fiorentino e poi con quello napoletano, dove prevale una tendenza spiritualistica, acuisce la sua ostilità verso ogni forma dell’ideologia borghese. In particolare severa è la sua critica al mito del progresso e alla fiducia nella scienza e nella tecnica. Sulla vita sociale si concentrano i Pensieri, dettati a Ranieri tra il 1831 e il 1835. Ai moti liberali del 1820-21 e del 1831 è dedicata la spietata analisi allegorica dei Paralipomeni della Batracomiomachia, il poemetto in ottave composto a partire dal 1831.Contro la fiducia nel progresso si scaglia l’ironica Palinodia al marchese Gino Capponi (1835). Contro gli spiritualisti napoletani è diretta la satira di I nuovi credenti (1835).
Il progetto di un’edizione completa delle opere in cinque volumi presso l’editore Starita di Napoli fallisce per l’intervento della censura, che sequestra i primi due volumi usciti (fra cui, nel 1835, la seconda edizione, ampliata, dei Canti). L’ipotesi di un’edizione parigina a cura del De Sinner naufraga anch’essa; così che l’edizione delle opere approvate dall’autore uscirà postuma solamente nel 1845, a Firenze, per cura di Ranieri.
Tra il 1836 e il 1837 Leopardi, Ranieri e la sorella di questi, Paolina, vivono fra Torre del Greco e Torre Annunziata, ai piedi del Vesuvio, anche per sfuggire all’epidemia di colera che si è intanto abbattuta su Napoli. Leopardi compone in questo periodo gli ultimi due canti (Il tramonto della luna e La ginestra o il fiore del deserto).
Tornato a Napoli nel febbraio, si aggrava ancora e infine muore, mentre infuria il colera, il 14 giugno 1837.
La poetica: dalla poesia sentimentale alla poesia-pensiero
Il primo pronunciamento pubblico di Leopardi in fatto di poetica è il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Leopardi lo inviò, ventenne, nel marzo 1818 all’editore milanese Stella quale risposta a un articolo di Ludovico di Breme stampato sullo «Spettatore». Lo scritto leopardiano non venne pubblicato, così come non lo erano state, due anni prima, due sue lettere di argomento affine alla «Biblioteca italiana», sulla quale si stava svolgendo quella polemica tra classicisti e romantici che occupa il biennio 1816-1818, soprattutto a Milano.
Il rifiuto del Romanticismo nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica riguarda innanzitutto il rapporto tra poesia e sensi. I romantici, denuncia Leopardi, vogliono portare la poesia «dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale». I romantici recidono cioè il legame tra poesia e natura; ma esso è l’unica ragion d’essere della poesia. In tal modo essi prendono atto del distacco della civiltà dalla natura e della contrapposizione tra ragione e natura, ma rinnegano il fondamento e la funzione della poesia, che consistono appunto nel mantenimento di un legame forte con la natura a dispetto della ragione e della civiltà.
Leopardi propone invece una poesia capace di servirsi innanzitutto dei sensi per provocare sul lettore un effetto forte; e rivendica così la propria formazione sensistica. L’origine di ogni emozione artistica è nel rapporto con la natura, più facile e diretto per gli antichi e difficile e artificioso per i moderni. La poesia ha anzi la funzione di ristabilire sul piano dell’immaginazione quel rapporto primitivo e diretto (sentimentale) con la natura che la civiltà e la ragione vanno distruggendo sul piano dell’intelletto: «il poeta non inganna l’intelletto, ma solamente la immaginazione degli uomini». Non essendo ai moderni più possibile quel rapporto fantastico e immaginativo con la natura che agli antichi era ancora aperto, l’unica strada che resta ai moderni per ristabilire un contatto con la natura è lo studio degli scrittori antichi e l’imitazione dei loro procedimenti.
Il classicismo leopardiano si fonda innanzitutto su questa condanna del presente. La modernità è segnata dal distacco dalla natura, dal prevalere della riflessione e della ragione sull’immaginazione e sulle illusioni. La poesia deve garantire il bisogno antropologico di illudersi, di immaginare, di fantasticare, di sentire con forza primitiva il rapporto con la natura e con l’esistenza. Il classicismo leopardiano ha dunque una ragione e uno scopo ben diversi da quelli degli altri classicisti italiani. Non a caso, ben presto Leopardi prenderà le distanze da Monti, caposcuola indiscusso del classicismo, e perfino da Parini, pure profondamente ammirato: il loro classicismo gli apparirà troppo segnato dalla civiltà, troppo perfetto e levigato, troppo artefatto, e dunque poco naturale e spontaneo.
Come per i romantici, che pure attacca, la poesia deve avere per Leopardi una funzione sociale. Ma ben diversa è la prospettiva secondo cui tale funzione deve esercitarsi. Per i romantici italiani si tratta di superare il distacco tra mondo della letteratura e mondo della prassi, di investire cioè anche la letteratura del generale bisogno di rinnovamento che attraversa le strutture della società, o, anche, di mettere la letteratura al servizio di una prospettiva complessiva di cambiamento, facendone uno strumento di progetto, di trasformazione e, al limite, di propaganda. La realizzazione di questo programma implica il coinvolgimento del pubblico, che deve essere conquistato per mezzo di nuovi mezzi espressivi (quelle «spuntonate romantiche» denunciate da Leopardi). Per Leopardi la prospettiva sociale ha invece un significato più profondo. Non si tratta di favorire un modello di cambiamento, né di venire incontro ai nuovi bisogni della società moderna. Al contrario, si tratta di tenere desti dei modi di sentire caratteristici dell’uomo e ben sviluppati nel mondo antico (l’immaginazione, i valori nobili, le virtù), che rischiano invece di atrofizzarsi nel mondo moderno.
Dell’Illuminismo, dunque, Leopardi recupera e potenzia la componente sensistica. Da Vico invece riprende la corrispondenza tra prospettiva storico-individuale e dimensione artistica, cioè tra fasi dell’evoluzione civile dei popoli e della maturazione personale degli individui, da una parte, e modi di essere della letteratura e dell’arte, dall’altra: la massima affermazione della poesia corrisponde al potere dell’immaginazione nell’infanzia di ciascuno e dell’umanità. Presso gli antichi questa affermazione si è realizzata con la più alta riuscita artistica, dato che la maturità degli individui non li privava del tutto dell’immaginazione, e consegnava loro una efficacissima facoltà di rappresentarla nell’arte. Nella modernità, il fanciullo sperimenta questa facoltà di sentire poetico, quasi rivivendo brevemente una condizione antica; ma poi la maturità lo allontana inesorabilmente da tale condizione. Ai poeti compete di rievocare, attraverso la memoria, questa fase, corrispondente a un’esperienza individuale e a una forma antica di civiltà.
Come la fedeltà al razionalismo settecentesco contrappone naturalmente Leopardi al prevalente spiritualismo cattolico del Romanticismo italiano, così la sua sfiducia nel progresso e nel senso della storia (cioè il suo radicale antistoricismo) lo allontana dal progressismo moderato e spesso provvidenzialistico dei romantici italiani e dalla loro fiducia nella storia.
Il classicismo leopardiano non ha nulla di tradizionalista e di riduttivo; e d’altra parte la distanza dai romantici italiani non esclude significativi punti d’incontro con la cultura del grande Romanticismo europeo, da Hölderlin a Heine, da Coleridge ad August von Schlegel. Si ritrovano infatti anche in Leopardi alcuni importanti aspetti dell’immaginario romantico, quale la scissione io-mondo e la tensione tra uomo e natura (e tra natura e civiltà) ed inoltre i temi dell’angoscia, del dolore, dell’infinito, del mistero, uniti all’atteggiamento agonistico e al motivo del "canto" lirico. Leopardi resta tuttavia irriducibile al Romanticismo per l’ideologia materialista, per il rifiuto dell’irrazionalismo in tutte le sue forme, per la poetica originalmente classicistica.
La funzione sociale riconosciuta da Leopardi alla poesia si esprime a seconda delle concrete condizioni storiche e individuali: l’esaltazione della virtù civile e del patriottismo (valori antichi e "primitivi") è applicata alle necessità di riscatto nazionale fin dalla canzone All’Italia (del 1818, come il Discorso); l’esperienza esistenziale diviene l’oggetto cui si dedicano, già a partire dal 1819, gli «idilli» (Infinito in testa). Quello leopardiano è dunque fin dall’origine, e già a livello teorico, tutt’altro che un classicismo libresco e letterario, fondandosi al contrario su un bisogno di concretezza e su un’istanza polemica verso il presente.
Il bisogno di concretezza riguarda anche la poesia: essa deve corrispondere all’aspirazione umana al piacere servendosi di specifiche tecniche. Data la presenza innata dell’immaginazione nell’uomo e data la tendenza costitutiva dell’immaginazione alla indeterminatezza, la poesia deve perseguire una espressività a sua volta indeterminata. Ecco allora la ricerca leopardiana di vocaboli capaci di aprire prospettive polisemiche; ed ecco la riflessione sulla specificità della lingua poetica, concepita in opposizione alla lingua della ragione, cioè della filosofia.
L’immaginazione si esercita soprattutto nella direzione della memoria e in quella del desiderio. Perciò la poesia deve essere in grado, al tempo stesso, di utilizzare la prospettiva del ricordo e di dare voce alla tensione verso il piacere, costituendone già una forma di soddisfacimento. È nella prospettiva di questa seconda esigenza che Leopardi attribuisce alla poesia il compito di accrescere la vitalità, provocando sensazioni gagliarde e appassionate.
L’evoluzione del pensiero filosofico di Leopardi segna anche i modi della sua poetica, a partire dai suoi termini portanti: natura, civiltà, illusioni, ragione. A partire soprattutto dal 1823, la crisi del "sistema della natura e delle illusioni" determina un nuovo orientamento di fondo: la caratterizzazione negativa della natura e la riconsiderazione problematica della civiltà implicano il venir meno della fiducia nella poesia e nelle sue capacità di ridare voce alle grandi illusioni positive della natura primitiva. Ne consegue il rifiuto, almeno provvisorio, della poesia e l’adesione a una letteratura tutta volta alla distruzione delle illusioni, cioè, in qualche modo, tutta antipoetica. La prosa delle Operette morali prende il posto degli idilli; nell’unico testo poetico tra il 1824 e il 1827, l’Epistola al conte Carlo Pepoli (1826), si trova l’esaltazione del vero contro le illusioni.
La rinascita della poesia a partire dal 1828 non rinuncia ad alcuni dei termini-chiave della poetica giovanile: la prospettiva della memoria dà anzi in questa fase i suoi risultati più alti (da A Silvia a Le ricordanze); e la ricerca del vago e dell’indefinito non cessa di costituire una specificità della scrittura poetica leopardiana. Viene però meno la contrapposizione tra poesia e filosofia, e la concretezza dell’esperienza è coinvolta anche nelle sue esigenze ragionative e nel suo bisogno di significato: la rappresentazione delle illusioni e il giudizio filosofico su di esse e sul loro destino storico-individuale non possono più andare disgiunti. Resiste perciò, e fino alle prove ultime (alle canzoni sepolcrali, al ciclo di Aspasia e a La ginestra), la grande messa in scena della memoria, delle passioni, dei desideri personali e collettivi; ma accompagnata a un continuo controcanto riflessivo, a una esigenza di pensiero. Illusioni e critica delle illusioni convivono ormai in una poetica che fonde poesia e filosofia, riconoscimento del bisogno di armonia e di bellezza e denuncia dei caratteri mistificati e illusori delle sue incarnazioni storiche. In tali condizioni, però, muta il compito sociale della poesia: essa non deve più restaurare la forza delle illusioni, ma stabilire il vero e comunicarlo agli uomini. La condanna che la filosofia moderna ha inflitto alla poesia, emarginandone l’immaginazione, diviene la sua ragione di forza: la poesia moderna sarà filosofica.
Il pensiero filosofico di Leopardi
La prima riflessione filosofica: il problema della felicità e il pessimismo storico (1817-1818)
La seconda fase: materialismo e pessimismo cosmico (1819-1823)
Una fase intermedia: una saggezza distaccata e scettica (1823-1827)
L’ultima fase: la rinascita dell’impegno civile e l’importanza della dimensione sociale (1827-1837)
La prima riflessione filosofica: il problema della felicità e il pessimismo storico (1817-1818)
I termini nei quali Leopardi organizza la propria prima riflessione filosofica, intorno al 1817-18, sono quelli tipici di certo Illuminismo settecentesco. È in particolare percepibile l’influenza di Rousseau. Leopardi affronta subito il nodo problematico che resterà poi sempre al fondo del suo pensiero, l’infelicità umana. In questa prima fase del suo pensiero, l’infelicità non dipende dalla natura. La natura è infatti considerata un’entità positiva e benefica; non tanto perché essa assegni all’uomo una condizione realmente felice, ma perché produce solide e generose illusioni, che rendono l’uomo capace di virtù e di grandezza. La civiltà umana ha però distrutto le illusioni che rendevano la vita sopportabile e l’abbellivano, e ha mostrato agli occhi dell’uomo l’arido vero della condizione sulla terra. L’uomo non era destinato a essere felice sulla terra, ma le illusioni lo proteggevano dal rendersene conto, e potevano fargli credere che la felicità fosse comunque raggiungibile, e sul punto di essere raggiunta: la civiltà ha distrutto le illusioni e abbandonato l’uomo a un’infelicità sempre più consapevole e insopportabile.
L’infelicità dell’uomo non è dunque un dato essenziale, ontologico, costitutivo, ma storico: gli antichi erano ancora capaci di grandi illusioni, mentre i moderni le hanno perdute quasi completamente. Si parla perciò, per questa prima fase del pensiero leopardiano, di pessimismo storico: perché l’infelicità umana è ritenuta il frutto di una condizione storica. In questa prospettiva, Leopardi giudica l’Italia del proprio tempo un caso-limite di allontanamento dalle illusioni antiche, in quanto sono impossibili tutti quei rimedi contro la noia e contro il senso di vanità che costituiscono il modo migliore per eludere l’infelicità: l’azione è negata, negato l’impegno politico e civile, negata ogni prospettiva di coinvolgimento in azioni gagliarde e nobili.
Vi sono tuttavia ancora, anche per i moderni, dei margini per recuperare le grandi illusioni degli antichi. Ciò è possibile innanzitutto attraverso l’azione e l’eroismo (esaltati nella canzone All’Italia); e in particolare attraverso il rischio e il disprezzo della vita in nome di una sfida al destino che serve a misurare il valore delle cose (è il tema della canzone A un vincitore nel pallone). L’ispirazione civile di alcune canzoni di questo periodo (e fino al 1821-22) testimonia il perdurare di una fiducia nella recuperabilità dei grandi valori del mondo antico. La condanna del presente riguarda l’avvilimento dei valori civili durante la Restaurazione e l’instaurazione di criteri educativi innaturali, in quanto mortificanti le ragioni della corporalità, decisive invece per la felicità umana (si inserisce qui la dolorosa esperienza della propria infelicità fisica).
La seconda fase: materialismo e pessimismo cosmico (1819-1823)
Tra il 1819 e il 1823 questo “sistema della natura e delle illusioni” entra progressivamente in crisi a causa del modificarsi dei vari elementi che lo sorreggono. Già nel 1819 traballa e viene meno l’adesione di Leopardi al cattolicesimo; ed egli abbraccia definitivamente il sensismo illuministico, meglio confacente alla direzione della propria ricerca: le idee dipendono dalle sensazioni e il comportamento umano è diretto al procacciamento dell’utile. L’esito sfortunato dei moti rivoluzionari carbonari del 1821 riduce la fiducia nel valore liberatorio dell’impegno civile e nella sua praticabilità ed efficacia nel presente. Infine l’esperienza romana, tra la fine del 1822 e l’inizio del 1823, delude la speranza che fuori di Recanati le possibilità di vita autentica e felice siano più alte.
Negli anni tra il 1819 e il 1823 Leopardi acquisisce fra l’altro un punto di vista rigorosamente materialistico, ispirato al meccanicismo settecentesco. È respinta ogni ipotesi sull’esistenza di elementi spirituali (a partire dall’anima umana). «Il corpo è l’uomo», conclude Leopardi; dunque «il corpo pensa», è «materia pensante». L’applicazione del sensismo è condotta con inflessibile consequenzialità. La causa dell’infelicità umana è indicata nel rapporto tra il bisogno dell’individuo di essere felice e le possibilità di soddisfacimento oggettivo. Nasce a questo proposito quella che Leopardi chiama «teoria del piacere». L’uomo aspira naturalmente al piacere. Ma il piacere desiderato è sempre superiore al piacere effettivamente conseguito e conseguibile. Il desiderio è anzi in se stesso illimitato, e perciò destinato comunque a non essere soddisfatto. Deluso dagli insufficienti appagamenti reali, l’uomo ne cerca di illusori, sperando sempre di raggiungere la felicità nel futuro, oppure accontentandosi di raggiungerla solo nell’immaginazione.
Queste riflessioni comportano una ridefinizione del concetto stesso di natura. Già nella fase precedente, la natura era considerata incapace di garantire ai viventi la felicità; ma le illusioni da essa create per difendere l’uomo dalla coscienza del vero bastavano tuttavia a farla considerare quale madre benevola, facendo ricadere sull’uomo l’accusa di aver voluto conoscere ciò che doveva restargli per sempre ignoto. Ora la responsabilità dell’infelicità umana è fatta invece ricadere per intero sulla natura, che determina la tendenza umana al piacere e infonde negli uomini l’amor proprio e il bisogno di felicità, senza poter poi in alcun modo soddisfare tale bisogno; e anzi facendo della vita umana un insieme di delusioni, di sofferenze e di noia, con l’unico scopo di procedere verso la morte.
Ora non sono più le condizioni storiche a essere indicate quale causa dell’infelicità, ma le condizioni esistenziali dell’uomo. Si parla perciò, per questa seconda fase del pensiero leopardiano, di “pessimismo cosmico”. Infatti è la vita stessa, nella sua organizzazione universale, a essere orientata solamente alla perpetuazione dell’esistenza, senza che il desiderio di piacere degli individui venga tenuto in alcuna considerazione.
Il procedere della civiltà è ancora considerato quale un movimento opposto alla natura. Ma alla condanna della civiltà si sostituisce ora una considerazione complessa e ambivalente di essa, positiva e negativa al tempo stesso.
Da una parte la civiltà è l’arma attraverso la quale l’uomo ha smascherato la verità della propria condizione, recuperando così, se non la possibilità di essere felice, almeno la dignità della coscienza. Ciò è vero però solo per quelle fasi della storia umana e per quelle forme di pensiero che hanno avuto il coraggio di sondare senza mistificazioni e infingimenti la verità della condizione dell’uomo sulla terra. Ne consegue un’esaltazione del razionalismo europeo che va dal Rinascimento al Settecento, culminando nell’Illuminismo; e una condanna di ogni forma di religione (e del Cristianesimo), e in particolare del Medioevo (elemento non secondario di distanza rispetto ai romantici). Le tendenze prevalenti durante la Restaurazione rappresentano dunque agli occhi di Leopardi un doppio regresso: la fiducia nel progresso come processo inevitabile e la ripresa religiosa spiritualistica convergono nel vanificare la spregiudicatezza razionalista dell’Illuminismo.
D’altra parte però la civiltà, sottraendo l’uomo al dominio delle forze naturali e delle illusioni, lo ha reso più egoista e più fragile, segnando ogni momento della vita con il marchio dell’artificialità e dell’inautenticità. Le società moderne vedono una lotta disperata per l’affermazione individuale, una lotta di tutti contro tutti che Leopardi rappresenta nei termini ereditati dalla riflessione politica di Hobbes e di Machiavelli. L’interesse per i meccanismi sociali fu acutissimo in Leopardi, che meditava di scrivere un Manuale di filosofia pratica ricavandolo dai pensieri dello Zibaldone, e che tanto nelle Operette morali quanto nei Pensieri dedica non poco spazio della propria riflessione ai rapporti interpersonali nelle società moderne (con una spietata denuncia che risente dei grandi moralisti, dal filosofo greco Epitteto, ai francesi Montaigne e La Rochefoucauld).
Ad allargare la portata del pessimismo leopardiano, facendogli superare una pura e semplice connotazione storica, concorse anche la scoperta, avvenuta soprattutto a partire dal 1823, del pessimismo antico, che «mise in crisi il mito dell’antichità felice, tutta azione, illusioni e poesia» (Timpanaro).
Una fase intermedia: una saggezza distaccata e scettica (1823-1827)
Tra il 1823 e il 1827 la riflessione leopardiana trova un approdo provvisorio in una specie di saggezza distaccata e scettica, ispirata soprattutto al pensiero greco ellenistico. Leopardi rinuncia alla scrittura poetica; espone nelle Operette morali (in gran parte nate nel 1824) i risultati pessimistici e disincantati della propria filosofia, colpendo attraverso il sarcasmo le illusioni dei suoi contemporanei. Questo distacco (atarassia) dissacratorio è anche la conseguenza di un nodo ancora irrisolto, all’interno del «sistema» leopardiano. Tale nodo riguarda appunto il giudizio sulla civiltà. Leopardi non si stanca di investigare stili di vita e modi di pensare degli antichi e dei moderni, di osservare il comportamento sociale degli uomini e di riflettervi sopra.
L’ultima fase: la rinascita dell’impegno civile e l’importanza della dimensione sociale (1827-1837)
Sollecitato anche dal contatto con l’ambiente liberale moderato dei cattolici fiorentini, Leopardi giunge a elaborare uno sviluppo ulteriore, e sostanzialmente definitivo, del proprio pensiero. In questa ultima fase, che si definisce con nettezza soprattutto a partire dal 1830 e occupa gli ultimi anni, torna in primo piano l’esigenza dell’impegno civile, da cui scaturisce la proposta di una nuova funzione intellettuale.
A partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio delle Operette (scritto nel 1827) si assiste a una valorizzazione del momento sociale dell’esperienza umana. Ciò consente fra l’altro di rispondere una volta per tutte alla questione del suicidio, frequentemente affrontata da Leopardi: esso costituisce una viltà e un errore, in sostanza, perché provoca dolore nei superstiti, rendendo loro più insopportabile la vita. Lo sforzo degli esseri umani deve invece essere rivolto a soccorrersi scambievolmente. Da questa intensa pietà per il genere umano deriva la possibilità di ricostruire una morale, fondata non su astrazioni ma sul sentimento della fraternità sociale. Bene è ciò che giova; male, ciò che nuoce (secondo una formula dello Zibaldone). Da questo punto di vista, la contraddizione che Leopardi aveva finora cercato tra civiltà e natura, è infine additata dentro la civiltà. A questa compete di conquistare la coscienza del vero; e il vero coincide con il riconoscere il male della condizione umana. Compiere questa denuncia è un dovere sociale. Tutte le volte che la società va in questa direzione, è connotabile positivamente; negli altri casi, negativamente.
A questo punto il pensiero leopardiano assume i connotati di un progetto di civiltà. Sulla coscienza del vero deve infatti basarsi un nuovo modo di vivere da parte degli uomini: consapevoli del male comune e del nemico comune (la natura), essi devono allearsi per ridurre il più possibile il dolore di tutti gli uomini e accrescere la pur esigua porzione di felicità consentita dal loro stato fisico-biologico.
Promuovendo l’intera umanità a soggetto di questa lotta contro i limiti naturali, Leopardi trasferisce a tutti gli uomini, senza distinzione alcuna, i valori del titanismo di Alfieri, nati quale opposizione aristocratica di un eroe singolo alla massa del volgo. Sta qui innanzitutto la democraticità del pensiero leopardiano ultimo. Ed è su questa base concettuale che si muovono tanto la ricerca artistica degli ultimi anni (con al centro i Paralipomeni e La ginestra), quanto l’impegno intellettuale e civile nella Firenze dei cattolici moderati e nella Napoli degli spiritualisti. Quanto più il presente sembrava negare ogni ipotesi di socialità fraterna fondata sul vero, tanto più Leopardi si protendeva a intravvederne i modi e la possibilità.
Romanticismo
Il termine “Romanticismo”
Le poetiche del Romanticismo europeo: la tendenza al simbolismo e quella al realismo
Il Romanticismo in Germania
Il Romanticismo in Inghilterra
Il Romanticismo in Francia
Il Romanticismo in Spagna, in Russia e negli Stati Uniti d’America
I caratteri del Romanticismo italiano
Il sistema dei generi letterari e il pubblico

Il termine “Romanticismo”
Il termine è documentato per la prima volta in inglese: è l’aggettivo romantic usato già nel Seicento per indicare in senso spregiativo la materia avventurosa e amorosa degli antichi romances, ossia i romanzi cavallereschi. Nel Settecento l’aggettivo perse tale accezione negativa e designò il gusto per l’evasione fantastica dal reale, per il “lontano”, per la natura selvaggia, per il fantastico, per il soprannaturale, per il mistero, ecc.Il termine inglese fu poi tradotto in Francia con pittoresque (pittoresco) e romanesque (romanzesco) e in seguito con romantique, per sottolineare soprattutto il rapporto sentimentale con la natura e il paesaggio; in quest’ultimo senso esso risulta già impiegato da Rousseau. In Italia l’aggettivo romantico — dal francese romantique — entra in uso solo a partire dal 1814.
Il sostantivo italiano Romanticismo, impiegato per designare il movimento letterario, deriva invece dal tedesco. Infatti in Germania Friedrich Schlegel, già nel 1798, fissò l’uso del termine Romantik per distinguere la poesia inquieta, drammatica, propria dei moderni, da quella armoniosa e composta, propria degli antichi. La parola tedesca verrà tradotta poi, per esprimere la nuova sensibilità romantica, con il termine Romanticism in Inghilterra, con Romantisme in Francia, con Romanticismo in Italia.
Al di fuori del linguaggio letterario e artistico, il sostantivo e l’aggettivo vengono usati oggi comunemente per indicare “sentimentalismo”, predisposizione all’amore delicato e magari sdolcinato, sensibilità d’animo.
Le poetiche del Romanticismo europeo: la tendenza al simbolismo e quella al realismo
Alla base delle poetiche romantiche c’è il senso della scissione, della lontananza dal significato, dalla pienezza, dall’armonia. Questa lontananza viene percepita come caratteristica della modernità e contrapposta all’armonia classica del passato. Viene vissuta come scacco, come conseguenza di una perdita che non è possibile colmare con l’imitazione e con il rispetto delle regole, come volevano i sostenitori del classicismo.
Tuttavia il sentimento della scissione non si esaurisce in un rimpianto. A livello teorico si assiste anzi alla rivendicazione del valore della poesia moderna rispetto a quella antica e della superiorità della poesia romantica rispetto a quella classica. È vero che l’arte classica degli antichi esprimeva in modo naturale, ingenuo, immediato la natura perché era natura, mentre la poesia romantica, che nasce dalla civiltà e dalla cultura, deve cercare la natura fuori di sé, nel campo delle idee. Ma è anche vero che proprio questa tensione verso l’infinito, tipica della poesia romantica, costituisce il suo riscatto o addirittura ne determina la possibilità di superiorità rispetto all’arte classica. Affidandosi al genio, alla spinta soggettiva che infrange ogni regola, e obbedendo solo alla propria spontaneità creatrice, il poeta romantico può esprimere idealmente il mondo della natura, quale gli si presenta attraverso il rimpianto e la forza dei sentimenti. Questa posizione, sostenuta inizialmente da Friedrich Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1800), influenza tutto il dibattito successivo. È appunto Schiller a elaborare la distinzione fra poesia “ingenua”, che nascerebbe dall’intesa con la natura e sarebbe perciò tipica della poesia classica, e poesia “sentimentale”, che nasce invece dal distacco della natura ed è propria dei moderni costretti al “sentimento” del rimpianto. Tale distinzione è poi ripresa da Friedrich Schlegel, che a sua volta contrappone la poesia “oggettiva” (quella “ingenua” degli antichi) e la poesia “interessante” (quella dei moderni).
Sulla rivista «Athenäum» (1798-1800) lo stesso Friedrich Schlegel definisce la poesia romantica “progressista”, perché, pur essendo consapevole della impossibilità di una piena realizzazione, essa è tuttavia proiettata in un divenire incessante, in una tensione continua verso l’assoluto. Si tratta di una tensione che può esprimersi sia in posizioni profetiche e in un atteggiamento mistico-religioso (tipico della figura del poeta-vate), sia, invece, in modi “umoristici” o “ironici”: in questo secondo caso, prevalgono la coscienza dei limiti della tensione all’assoluto e il senso di quella finitezza che pure si vorrebbe trascendere.
Le due modalità (esistenziale-ontologica oppure storico-realistica) si determinano anche nel modo con cui le varie poetiche romantiche affrontano la questione del limite dell’uomo e della scissione (scissione fra io e mondo e scissione fra io e natura). Se si sottolinea il momento della finitezza storica e della dimensione sociale, prevalgono le poetiche realistiche, razionalistiche e “ironiche”, come accade in Francia (Stendhal, Balzac) e soprattutto in Italia con il Romanticismo lombardo ed esemplarmente con Manzoni; se si sottolinea la tensione all’infinito e all’assoluto e il privilegio della poesia di cogliere, per via intuitiva e magica, l’universale naturale o religioso, prevalgono poetiche di tipo irrazionalistico e simbolistico, come accade nella poesia lirica tedesca e inglese (Simbolo e allegoria nel Romanticismo).
Il Romanticismo in Germania
Il Romanticismo tedesco nacque dal “gruppo di Jena”, intorno alla rivista «Athenäum», recuperando motivi già avviati dal movimento dello Sturm und Drang. Esso fu attivo dal 1798 al 1805. Ne fecero parte, oltre ai fratelli Schlegel, i poeti Novalis e Tieck; vi ebbero un ruolo significativo i filosofi Fichte e Schelling e lo scrittore e teorico della letteratura Wachenroder. Da questo gruppo vennero elaborate le idee fondamentali sull’arte che influenzarono tutta Europa: basti pensare al successo, anche in Italia, delle lezioni Sull’arte e sulla letteratura drammatica di A.W. Schlegel. Anche le poetiche simboliche furono promosse da questo gruppo e in particolare da Novalis.
Un secondo gruppo romantico agì ad Heidelberg e a Berlino dall’inizio dell’Ottocento sino al 1815.Ne fecero parte Clemens Brentano, Adalbert von Chamisso, Ludwig vonArnim, Heinrich von Kleist ed Ernest Th.Hoffmann. Fra gli autori di questo gruppo prevalevano posizioni politiche nazionalistiche e reazionarie, il culto del Medioevo, l’interesse per le tradizioni popolari del popolo tedesco (di qui la raccolta di Fiabe dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm).Un terzo gruppo (la cosiddetta “scuola sveva”) fu attivo dal Congresso di Vienna agli anni Quaranta, con un progressivo ripiegamento su tematiche intimistiche, piccolo-borghesi, quotidiane. È questo il periodo Biedermeier, così chiamato dal nome di un personaggio inventato dai poeti tedeschi Kussmaul e Eichrodt.
Il Romanticismo in Inghilterra
In Inghilterra il movimento nacque nel 1798 con le Lyrical Ballads[1] di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge e con il programma teorico scritto da Wordsworth nella seconda edizione dell’opera, uscita due anni dopo. L’intento è di unire immagini e toni fiabeschi, magici, sovrannaturali a temi quotidiani. Questa prima generazione di poeti romantici inglesi prende anche il nome di “poeti dei laghi”, dai laghi di Cumberland dove essi amavano soggiornare.
Una seconda generazione di poeti romantici inglesi emerge dopo il 1810: si tratta di George Byron, Percy Bysshe Shelley, John Keats. Essi cantano la tendenza alla fuga e alla ribellione, la bellezza mediterranea, la perdita della serenità classica, il rifiuto della società borghese. Il byronismo diventa una moda europea: indica un modo di vivere da eroe ribelle, senza compromessi. Va ricordato che in Inghilterra, a partire dagli anni Dieci, nasce anche il romanzo storico di Walter Scott.
Il Romanticismo in Francia
In Francia il Romanticismo era stato preannunciato all’inizio del secolo da François-René de Chateaubriand, che aveva esaltato la religione cattolica in Le Génie du Christianisme[2] (1802) e creato un prototipo di eroe romantico nel malinconico e solitario protagonista di René (1805), racconto autobiografico. Ma l’inizio del dibattito sul Romanticismo data dalla pubblicazione a Londra, ma in francese, di De l’Allemagne[3] (1813), di Madame de Staël. Le resistenze ad accogliere la nuova poetica furono ovviamente molto forti: la patria dell’Illuminismo, difendendosi dalle idee romantiche tedesche, difendeva la propria identità nazionale (tanto più, poi, nel momento in cui Francia e Germania erano in guerra fra loro). Per questo il Romanticismo si affermò in Francia relativamente tardi: si impose solo a partire dalla prefazione al dramma storico Cromwell scritta nel 1827 da Victor Hugo. In essa si individua il gusto dell’uomo moderno nell’amore per la storia, per i contrasti, per le forti contraddizioni, per la mescolanza di comico e di tragico, per il grottesco. L’autore assunto a modello è Shakespeare. Un’altra tendenza presente in Hugo e tipica del Romanticismo francese è l’interesse per l’esotico, che si afferma tanto nei quadri del pittore Delacroix, quanto nell’opera di Hugo Les Orientales[4] (1829).Hugo fu anche autore di romanzi storici.Poeti romantici furono invece Alphonse de Lamartine e Alfred de Vigny. Rientrano nel clima del realismo romantico i più grandi romanzieri di questa età: Stendhal e Honoré de Balzac.
Il Romanticismo in Spagna, in Russia e negli Stati Uniti d’America
In Spagna il Romanticismo si divide in due filoni, nei quali si possono riconoscere le due diverse modalità artistiche che, a partire dalla fine degli anni Venti, caratterizzano il movimento a livello europeo: da un lato il filone storico-nazionale, che fece capo al poeta e drammaturgo Angel de Saavedra, duca de Rivas; dall’altro quello soggettivo e byroniano, di cui fu massimo esponente il poeta José de Espronceda.
A partire dai primi decenni dell’Ottocento entrano a far parte del circuito culturale europeo anche la Russia e gli Stati Uniti d’America.
In Russia i romantici sono su posizioni liberali e dunque in conflitto con il potere zarista. La figura del ribelle assume le caratteristiche dell’eroe byroniano soprattutto in Michail Lermontov (esemplari, in questo senso, le sue opere Il demone e Un eroe del nostro tempo). Più misurata l’opera di Aleksandr Pus_kin, che scrive un notissimo romanzo storico, La figlia del capitano, e che anche quando rappresenta, influenzato da Byron, un tipico eroe romantico, Evgenij Onegin, nell’opera omonima, non si discosta mai troppo da un’esigenza di classico realismo.
Negli Stati Uniti prevale la narrativa fantastica con Edgar Allan Poe e in parte anche con Nathaniel Hawthorne ed Herman Melville.
I caratteri del Romanticismo italiano
Nei paragrafi 6 e 8 si sono illustrate le due diverse modalità in cui si esprimono lo spirito romantico e la coscienza della scissione valori-realtà, uomo-mondo e uomo-natura che lo caratterizza: la modalità esistenziale-ontologica, che privilegia poetiche di tipo simbolistico, e quella storico-realistica, che sceglie la strada di misurare l’“ideale” con il “reale” e preferisce il romanzo e il dramma storico, la novella in versi e il romanzo sociale. In Italia e in Francia prevale la seconda modalità. Nel nostro paese essa è a tal punto dominante che Romanticismo e poetica del “vero” (o del realismo) finiscono per coincidere. Ciò non significa che non venga avvertita la scissione di cui si parlava: gli eroi di Manzoni, da Adelchi a padre Cristoforo, la sentono anzi profondamente. Ma si cerca di risolverla calando l’“ideale” nel “reale” e dunque considerando i modi con cui modificare quest’ultimo. L’intreccio fra Romanticismo e Risorgimento conferisce insomma alla nostra letteratura romantica una prospettiva civile, costruttiva, patriottica che la induce non alla rottura con il passato, come in Germania, ma a recuperare molti aspetti della tradizione illuministica e a “conciliarli” (di qui il titolo della rivista «Il Conciliatore») con la poetica romantica.
La città-guida della cultura romantica italiana è Milano, che era stata anche la patria dell’Illuminismo di Parini e della rivista «Il Caffè». E infatti Parini e Foscolo, Pietro Verri e Beccaria continuano a essere considerati maestri, senza laceranti rotture. I nuovi temi che i giovani romantici propongono — il gusto per il Medioevo, il ritorno alla religione cristiana, la polemica anticlassicistica, l’interesse per il popolo e per la storia — fanno parte del clima romantico europeo e sono comunque largamente estranei alla cultura illuministica. Ma dell’Illuminismo viene ripresa in Italia l’istanza razionalistica, pragmatica e moralistica, che induce a respingere l’irrazionalismo, il misticismo, le poetiche simbolistiche che si erano affermate in Germania. È questo il quadro in cui si svolge la polemica fra classicisti e romantici in Italia.
In questo quadro, largamente determinato dagli scrittori lombardi che esordiscono fra il 1816 e il 1830, un posto a parte ha Giacomo Leopardi, che proviene dalla periferica Recanati. Il suo gusto e la sua cultura possono sembrare “arretrati” perché si ispirano al classicismo e al materialismo illuministico; e infatti egli si schiera risolutamente contro il Romanticismo della scuola lombarda, e contro l’idealismo e lo spiritualismo religioso del movimento romantico nel suo complesso. Leopardi partecipa tuttavia dell’immaginario romantico e condivide alcuni aspetti della modalità che abbiamo chiamato esistenziale-ontologica: punta sul momento negativo della scissione uomo-mondo e uomo-natura, sul tema dell’angoscia e dell’infinito, sulle ragioni eterne del dolore umano. E tuttavia la sua poesia non può essere identificata pienamente con tale modalità, quale storicamente si era imposta nella poesia romantica tedesca, giacché egli respinge, in nome di un atteggiamento illuministico e classicistico, la poetica del simbolismo, l’irrazionalismo, la fuga dalla realtà sociale (Simbolo e allegoria nell’età del Romanticismo.) A modo suo anche Leopardi — come Manzoni, seppure in forme da lui molto diverse — persegue una personale mediazione fra Settecento e Ottocento, fra Illuminismo e nuovo immaginario romantico. La cifra specifica del Romanticismo italiano, la sua peculiarità storica, consiste dunque in questa capacità di conciliazione. Ciò non significa che “il Romanticismo italiano non esiste”, come qualcuno ha sostenuto; significa piuttosto che il Romanticismo italiano vive la scissione romantica ideale-reale, io-mondo con caratteri propri, derivanti sia dal ritardo economico-sociale e politico del nostro paese, sia soprattutto dallo stretto rapporto che gli scrittori romantici stabiliscono con le esigenze civili e morali e con l’impegno politico del processo risorgimentale.
Il sistema dei generi letterari e il pubblico
Con il Romanticismo il genere cessa di essere una categoria normativa che determina la modalità di scrittura in modo precettistico e condiziona anche il giudizio di valore. Il carattere epico o lirico di un’opera non dipende più dalla forma che essa assume, ma dallo spirito che la anima. I generi diventano entità relative, non più assolute, anche perché vengono ora studiati nel loro sviluppo storico, dunque nel loro graduale modificarsi in relazione all’evolversi della civiltà umana. Il genere viene concepito cioè come una forma sperimentale, da inventare ogni volta di nuovo. Nel nuovo canone poetico che si diffonde con il Romanticismo gli autori fondamentali a cui ispirarsi sono Dante e Shakespeare, le opere dei quali (la Commedia e i drammi) non obbediscono a regole precise o a norme precostituite e comunque non hanno dato vita a generi letterari assunti in epoche successive come modelli.
Questo ridimensionamento dell’importanza del genere e questo carattere sperimentale sono dovuti anche all’affermazione del romanzo, che mescola fra loro stili diversi e si sottrae a qualsiasi modello precostituito.
Il romanzo e la lirica sono i due generi principali del periodo. Ciò non è casuale, ma dipende dal fatto che proprio in questi due generi si esprimono le due modalità letterarie dell’immaginario romantico: quella storico-realistica e quella esistenziale-ontologica. La prima si realizza soprattutto nel romanzo storico e nel romanzo sociale, la seconda soprattutto nella poesia lirica. Beninteso, in età romantica è attiva anche la poesia realistica e si sviluppano forme di romanzo fantastico e gotico: è possibile, cioè, che la modalità realistica si esprima anche nella lirica e viceversa quella esistenziale, psicologica, fantastica nel romanzo. È un dato di fatto però che le poetiche simbolistiche tendono a privilegiare la poesia lirica più pura e assoluta e più vicina al modello della musica, mentre quelle realistiche puntano piuttosto sul romanzo storico e sul romanzo sociale. Anzi, è a partire dall’età romantica che la poesia lirica comincia a diventare sinonimo di poesia: e infatti ancor oggi, quando si parla genericamente di poesia, non si pensa tanto alla poesia epica o a quella satirica, quanto al canto lirico. Ed è sempre a partire dall’età romantica che il romanzo si identifica o con il romanzo storico o, ancor più, con il romanzo di costume contemporaneo, in cui si rappresentano realisticamente fatti e avvenimenti del presente.Bisogna inoltre aggiungere che lo spazio della lirica tende a diventare sempre più puro e assoluto anche per una esigenza di difesa dalla “romanzizzazione” dei generi imposta dal romanzo: quest’ultimo infatti finisce per influenzare le altre forme di espressione letteraria e per invadere, talora, anche le composizioni in versi, sottoponendole ai propri moduli narrativi, ironici, realistici.
È significativo che il maggior filosofo dell’età romantica, Hegel, veda nell’elemento lirico il carattere tipico dell’arte romantica e nello stesso tempo descriva il romanzo come conflitto fra la poesia dell’anima e la prosa del mondo, fra ideale e reale, fra il soggetto e la società. Da un lato la lirica rappresenta la scissione già avvenuta: il centro della poesia lirica è l’individuo che canta se stesso, la propria interiorità, i propri sentimenti, in modo assoluto, vale a dire senza più relazioni con l’azione sociale e con la realtà esterna; dall’altro il romanzo rappresenta invece la scissione in atto, e cioè il conflitto problematico fra io e mondo, fra anima e società. La lirica insomma nasce dall’isolamento, dalla perdita dei rapporti sociali, dalla tendenza all’assoluto, all’infinito e alla musica; il romanzo invece rappresenta una contraddizione concreta e dunque anche la realtà complessiva in cui agisce l’individuo: da questo punto di vista il romanzo, secondo Hegel, è la forma moderna e borghese dell’epica.
Il rinnovamento del genere lirico riguarda anche la forma. Il componimento poetico tende a divenire breve e a sottrarsi alle forme chiuse tradizionali: tende cioè a trasformarsi in un “canto” che esprime liberamente i moti dell’anima. Il maggior poeta lirico italiano, Giacomo Leopardi, intitola appunto Canti le sue poesie, e supera progressivamente la forma chiusa, adottando l’endecasillabo sciolto rilanciato da Parini, da Monti e da Foscolo o l’alternanza, nella canzone libera, fra endecasillabo e settenario sottratta a ogni norma prestabilita. Con lui, anche la forma diventa soggettiva, come Hegel aveva appunto teorizzato. Il futuro della lirica italiana sarà influenzato assai più da tale libertà metrica che dal rispetto della forma chiusa, che caratterizza invece le odi civili e gli Inni sacri di Manzoni.
Ma il grande fenomeno nuovo del secolo è il trionfo del romanzo. Trionfo della borghesia e trionfo del romanzo sono fenomeni complementari. Il romanzo presuppone la società di massa, un pubblico ampio di lettori, a cui rivolgersi con un linguaggio medio, al di fuori dei modelli precostituiti dalla tradizione letteraria, la quale presupponeva come destinatario un’esigua élite. Esso si presenta dunque come genere antiletterario che pone in discussione la distinzione fra livelli di stili diversi e la corrispondenza fra piano stilistico e piano tematico, l’una e l’altra tipiche dei generi letterari precedenti (nei quali un certo tema esigeva un certo stile): nel romanzo infatti si possono trattare tutti i temi immaginabili e si possono usare tutti gli stili, dai più raffinati ai più bassi e popolari. Anzi, proprio questa mescolanza di temi e di stili è una delle caratteristiche salienti del nuovo genere. Il romanzo inoltre si rivolge a lettori comuni, che non assumono un punto di vista letterario ma che possono identificarsi emotivamente nella vicenda narrata: mira dunque a coinvolgere il lettore in un “patto narrativo”, fondato da un lato sulla “rinuncia all’incredulità” e dall’altro sulla realtà dell’esperienza vissuta che accomuna autore e destinatario.
Il trionfo del romanzo contribuisce a indebolire gli altri generi, facendone addirittura sparire alcuni, e a “romanzizzarli”, introducendo in essi temi e soluzioni stilistiche e linguistiche tipicamente romanzeschi. Il poema epico scompare del tutto; la tragedia, che resiste nei primi decenni del secolo soprattutto nella forma del dramma storico, si estingue quasi completamente dopo il 1848. Nella poesia, se si eccettua la lirica pura, compaiono caratteri epico-narrativi nella ballata (o romanza) e del tutto narrativi nella novella in versi. L’ibridazione o contaminazione di generi diversi è insomma una delle caratteristiche del periodo: trionfa nel romanzo, ma agisce anche in quasi tutti gli altri generi.
Nei primi decenni dell’Ottocento resiste ancora la tragedia. Nella sua forma classica è praticata da Foscolo e dal giovane Leopardi. I romantici preferiscono invece il dramma storico (in cui si cimenta lo stesso Manzoni); rifiutano le regole classiche e le unità aristoteliche di luogo e di tempo; si ispirano a Shakespeare, che, dopo l’esaltazione fattane da Schlegel nelle Lezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica (1808), diventa costante punto di riferimento della drammaturgia romantica, in Germania non meno che in Francia e in Italia. In Germania, per iniziativa di A.W. Schlegel e di Tieck, viene tradotta tutta la sua produzione; più tardi la stessa operazione è compiuta in italiano da Giulio Carcano. In Francia, già Madame de Staèl aveva anticipato il culto di Shakespeare; poi Stendhal con Racine e Shakespeare (1823) e soprattutto Victor Hugo, nella prefazione al Cromwell (1828) — il primo vero manifesto romantico in Francia — ne fanno il principale punto di riferimento della nuova sensibilità.
Si diffonde insomma un nuovo canone letterario. Gli autori canonici cessano di essere Virgilio per il poema epico, Orazio per la satira, Petrarca per la lirica, Racine per la tragedia. Oltre a Shakespeare, al loro posto compaiono — grazie, in Italia, anche alla mediazione di Vico — Omero e Dante, considerati poeti primitivi, pieni di passione e di generosa barbarie, e rappresentanti di un intero popolo alle sue origini (il popolo greco e quello italiano).
Il trionfo del romanzo e la “romanzizzazione” degli altri generi presuppongono un nuovo rapporto con i lettori e un ampliamento del pubblico. In particolare i romantici italiani, essendo strettamente collegati a un movimento politico e ideologico di riscatto nazionale, pongono una particolare attenzione a conquistare fasce nuove di lettori e sostengono per questo forme di arte realistica e popolare. Si crea per la prima volta in Italia un pubblico di massa: le quasi 60.000 copie vendute dei Promessi sposi fra il 1827 e il 1840 rivelano l’esistenza di un destinatario diffuso, vario e articolato quale mai era stato possibile registrare precedentemente nel nostro paese.
La presenza di un pubblico più vasto si nota anche nella critica letteraria. Essa cessa di rivolgersi a un piccolo gruppo di eruditi e diventa militante. Il processo era già avviato nella seconda metà del Settecento, ma ora si sviluppa su scala più ampia: i critici scrivono sui giornali, mirano a imporre un gusto, a svolgere un’azione di mediazione fra autore e pubblico che influenzi le scelte dei lettori e li educhi in senso ideologico e politico. Per questo praticano la critica letteraria anche uomini politici come Mazzini, Gioberti, Cattaneo. Inoltre la critica romantica respinge un metodo di analisi di tipo retorico, basato su considerazioni di carattere linguistico o stilistico e acquisisce un metodo storicistico: studia gli autori in rapporto alla società. Questa linea, inaugurata da Foscolo, favorisce la nascita della storiografia letteraria, che lega in modo unitario vicende letterarie e vicende politiche, civili e ideologiche di un popolo. Essa arriva infatti sino a Luigi Settembrini e a Francesco De Sanctis, che, subito dopo l’Unità, scrivono le prime organiche storie letterarie del nostro paese.
Presenza di un largo pubblico non significa che tutti i generi letterari siano egualmente seguiti. L’attenzione della maggior parte dei lettori si dirige soprattutto a certi generi letterari, come il romanzo storico, la memorialistica (basti pensare qui al successo di Le mie prigioni di Silvio Pellico), la novella in versi e la pamphettistica, che acquistano una diffusione di massa. Grande successo ha poi il melodramma, che è l’arte più popolare del secolo, e dunque quella che ha maggiore influenza sul costume e sulla coscienza civile.
[1] Ballate liriche
[2] Il genio del Cristianesimo
[3] La Germania
[4] Le Orientali

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