Letteratura greca

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Testo

da διδασκω, la poesia didascalica doveva insegnare qualcosa, dare informazioni. Non era un poema epico, ma un poema che al posto di trasmettere valori trasmetteva insegnamenti. Esiodo è tradizionalmente considerato il primo autore di poesia didascalica (le opere e i giorni); il Rossi sostiene che questo è un equivoco di periodo ellenistico: Esiodo non voleva insegnare a coltivare i campi, ma voleva fare un poema sapienziale (il Canfora è d’accordo). L’ellenismo però lascia perdere Omero e va a prendere Esiodo dandogli la definizione di poema didascalico: cioè un’opera di contenuto scientifico in versi. Anche la filosofia era nata in versi, ma per un motivo pratico, la memorizzazione (la diffusione non era per iscritto). In età ellenistica la diffusione non era più orale, l’uso del verso per favorire la memorizzazione non aveva più senso, però il periodo ellenistico produsse una notevole quantità di poesia didascalica, classificata in 3 filoni:
1. TRADIZIONALE: argomento scientifico i versi per facilitarne la memorizzazione → non destinata ad altri dotti, ma con fine didascalico (ne abbiamo un solo esempio).
2. POESIA DIDASCALICA VERA E PROPRIA: all’argomento scientifico si sposa la capacità poetica (un esempio sono i Fenomeni di Arato).
3. poesia in cui la VERSIFICAZIONE CONTRASTA CON L’ARGOMENTO che è a-poetico. I versificatori erano indifferenti al contenuto , per dimostrare abilità tecnica, che era tanto più grande quanto meno il contenuto c’entrava con la poesia. Di questo filone abbiamo delle opere di Nicomandro:
• γεοργικά → trattato di agricoltura a cui si rifà Virgilio (abbiamo solo il titolo)
• θεριακά → descrizione di animali velenosi (soprattutto serpenti)
• αλεξιφαρμακα → trattato di farmacologia, rimedi.
Non hanno niente di poetico, sono solo sfoggio di abilità tecnica, sono terrificanti. È l’estremo approdo del tecnicismo ellenistico.
I FENOMENI DI ARATO
Arato è autore di varie opere, non si sa bene chi sia, probabilmente viene da Soci, in Cilicia. È autore dei Φαινομηνα, un trattato di astrologia (che gli antichi confondevano con l’astronomia). Si è rintracciato il testo. Arato non è un esperto della materia in sé, ma ha ripreso Eudosso di Cnido, che aveva scritto “lo specchio”, che trattava di astronomia.
È un’opera non vasta, divisa in due parti; il titolo dovrebbe riguardare solo la prima parte, la descrizione dei corpi celesti. La seconda parte sono le προγνοσεις, previsioni → le indicazioni che si hanno, come il tempo, il clima, la luce. Dato che parla di segni premonitori del futuro, è più astrologica che astronomica. È un’opera che ebbe fortuna a Roma, sopravvisse fino al medioevo come il testo di astrologia. “Lo specchio” scompare e rimane solo l’opera di Arato. Ha anche qualcosa di filosofico. Ebbe tante traduzioni in latino, fatte nei momenti di maggiore incertezza, come per esempio:
• la prima traduzione fu fatta da Varrone Atacinio, uno dei neoteroi, che però non abbiamo. I neoteroi avevano interesse per la poesia ellenistica, grazie a loro la poesia di questo tipo entra in Roma.
• La seconda traduzione si deve a Cicerone, “Aratea” = cose di Arato; non è una traduzione letterale, la fa nel suo primo periodo di produzione, prima di accorgersi cosa la poesia comportava, e cioè il distacco dalla vita pubblica, e quindi se ne distacca. Non sappiamo se rinnega anche quest’opera come le altre di poesia. Cicerone scrive durante le guerre civili: è un periodo di insicurezza.
• C’è una traduzione di Germanico, che non abbiamo.
• Nello stesso periodo la traduce anche Manilio: due opere sullo stesso argomento scritte nello stesso periodo indicano che gli uomini cercano nelle stelle la sicurezza che non trovano sulla Terra.
• Ne fa un’altra traduzione Afieno, nel IV secolo, altro periodo di incertezza.
Ci sono alcuni punti interessanti nell’opera di Arato:
• Nel proemio c’è la confessione di fede stoica → vede l’universo dominato dal logos, che coincide con Zeus → fa un inno a Zeus che secondo qualcuno assomiglia all’inno a Zeus di Cleante (successore di Zenone) → collegamento per lo stoicismo.
• Identifica la costellazione della Vergine con Δικη: non si sa se sia una versione diversa del mito usato da Esiodo, oppure un mito inventato da lui. Secondo Esiodo Δικη era prodotto di Zeus che mangia la moderazione.
Αιδώ (verecondia) → rispetto interno, vergogna nei confronti di se stesso, e νεμεσις → vendetta storica, storia che si corregge da sola abbandonano la Terra ???
Arato identifica la vergine con Δικη, e sostiene che Δικη governava sulla terra durante le prime due età, l’età dell’oro e l’età dell’argento: viene sulla terra e impone agli uomini leggi civili e sociali ??? non dice quali età ci sono dopo, ma solo che Δικη abbandona la terra e si trasforma nella costellazione della vergine. Qui Arato fa vera e propria poesia: dice che Δικη non viene rispettata, gli uomini annullano quello che lei aveva insegnato loro. Probabilmente Arato conosceva oltre la versione di Esiodo anche un’altra e la preferisce, oppure è un’idea sua, prendendo spunto da Esiodo ha trasformato il mito. In Esiodo c’erano Αιδώ e νεμεσις arriva (chi???) dopo, nell’età del ferro; in Arato c’è Δικη che abbandona la terra, e prima. È un motivo eziologico: lo fa anche per altre costellazioni, però con riferimento a miti di cui non abbiamo antecedenti, non si riferiscono ad Esiodo, sono rari, e la poesia è minore.
Il termine epigramma in origine aveva lo stesso significato di epigrafe, che vuol dire iscrizione; poi si staccano e l’epigramma diventa un genere letterario. In epoca ellenistica questo genere è importante perchè più libero, diventa una sorta di poesia “lirica” in cui si può dire di tutto, non ha vincoli neanche metrici (il metro preferito è il distico elegiaco). Il Rossi ha sostenuto che la sua grande diffusione in quest'epoca sia dovuta, oltre alla brevità, al divorzio fra poesia e musica → prima la poesia era legata alla musica, aveva un ritmo musicale, ora alla diffusione orale si sostituisce quella scritta; non si devono più seguire canoni metrici.
Prima l'epigramma era un'iscrizione vera e propria, uno dei primi fu scritto da Simonide per i caduti alle Termopili, era anche un'epigrafe, incisa davvero; anche Euripide ne aveva scritto uno.
L'epigramma, come genere autonomo, nasce nel V secolo, ma non ha ancora l'importanza che aveva in epoca ellenistica. Il primo vero epigramma, non più nel senso di iscrizione, è sulla coppa di Nestore, VIII secolo: ha un’iscrizione di tre versi, un trimetro giambico e due esametri: è strano! Non è la metrica dell'epoca ellenistica (distici elegiaci).
L'epigramma è libero come contenuto: c'è una grossa fioritura di epigrammi funerari, che però non sono nati per essere iscritti sulle tombe, ma solo come componimento sotto la finzione del funerale (Callimaco ne fa 2 per se stesso!), molti sono scritti per bambini morti giovani. Possono essere per un amico e per un personaggio storico; nasce la “moda” di farli anche per la morte di un animaletto (cagnolino, grillo, cuccioli...), → Catullo ne prenderà poi spunto: “Ciclo del passero”. Alcuni sono per amore, di solito amori infelici: una scrittrice, che ha antecedente in Saffo scrive: “canto davanti alla porta chiusa”: è un componimento d'amore, che sarà molto imitato e diventerà quasi un genere; la porta chiusa è quella di lei.
I vari tipi di epigramma possono essere:
* per critica letteraria → Callimaco: “μεγα βιβλιον, μεγα κακον” probabilmente è un epigramma.
* descrizione della natura
* ekfrasis → descrizione di qualcosa di artificiale, costruito dall'uomo, come fontane o quadri, non elementi naturali
* celebrativo → spesso si unisce con la critica letteraria, quando si celebra un poeta; uno dice “Se scrivi 2 versi, scrivi un epigramma; se ne scrivi 3 scrivi un poema epico”, si celebra un poeta amico di cui si sostiene l'opera
* politico (che spesso diventa encomiastico).
Non avendo questo genere una storia alle spalle, non c'è un iniziatore, non si potevano mettere limiti al contenuto (quindi c'è grande varietà di contenuti) e alla metrica, anche se poi verrà quasi sempre usato il distico; gli autori, così, possono esprimere loro stessi, ciò comporta una maggiore libertà rispetto ai generi precedenti e quindi piace. E' una forma di espressione “lirica” alla moderna, tutti scrivono epigrammi. Anche l'epigramma finisce per fossilizzarsi, perché gli autori si imitano a vicenda: le immagini si ripetono, si mettono in gara con il modello.
La critica moderna ha due tendenze:
1) tende a identificare tre generi, per origine e contenuto;
2) nega il raggruppamento in scuole degli epigrammi.
La prima tendenza identifica tre scuole e le raggruppa sotto una certa etichetta, in genere si parla di:
* SCOLA PELOPENNESIACA o DORICA → sono frequenti le descrizioni della natura, usa uno stile ridondante e gonfio; gli autori appartengono al Peloponneso
* SCUOLA IONICO-ALESSANDRINA → il gruppo di Alessandria era teso soprattutto ad argomenti amorosi, simposiali * o di polemica letteraria
* SCUOLA FENICIA, caratterizzata dalla ricerca più esasperata del pathos
Ma essendo la libertà una caratteristica dell'epigramma, è un po' assurdo classificarlo in scuole, questa non è una distinzione netta, alcuni sconfinano in più scuole, è una divisione tendenziale. Comunque gli argomenti non sono pubblici, ma privati: si cerca di esprimere sé stessi.
* Lirica simposiale → è diffusa nei simposi e aveva un accompagnamento musicale, poi invece, in epoca classica, l'epigramma simposiale continua ma perde importanza e non viene più cantato ma recitato; i suoi argomenti sono il vino e il piacere di stare con gli amici – vengono abbandonati gli argomenti politici dell'elegia passata, per dedicarsi ad argomenti personali. Esprime il pensiero dell’autore che non ha più valori assoluti.
Nascono le antologie, da ανθος = fiore e λογια = raccolta → raccolta di fiori, raccolta del meglio. Il primo esempio è lo Stefanos (corona di fiori) di Meleagro: paragona i vari epigrammi e gli autori del passato a un fiore e ne risulta la corona (sono 47 autori più lui).
Perchè questi autori si mettono a raccogliere non solo i propri epigrammi (gli autori ellenistici sono editori della propria opera e organizzano la loro produzione), ma anche quelli di tutti gli altri e a organizzare l'intera produzione? E perchè vanno a pescare e confrontano tanti autori diversi, raggruppandoli secondo argomento? Il Rossi ha un'idea al riguardo, che spiega la fioritura di antologie: l'antologia mette a confronto i vari autori come se volesse metterli in competizione → la nascita dell'antologia è l'equivalente libresco dell'agone poetico, che non esisteva più (o almeno non per l'epigramma), l'agone se esiste, è solo tra gli autori di poesia tradizionale, non di certo fra i dotti ellenistici. La “raccolta” non è altro che il mettere a confronto, sullo stesso genere, vari autori diversi, mettendoli in gara fra loro. Il Rossi va oltre, sostiene il fatto che Meleagro e altri mettono il proprio epigramma per ultimo nelle sezioni perchè è un modo per proclamarsi vincitori- sarebbe una forma di modestia discutibile (si mettevano per ultimi per modestia!). E' una bella spiegazione, solo sua, ma è comunque affascinante, anche perchè spiega l'antologia. Il Rossi spiega anche perché riporta solo gli epigrammi dei vari autori e non il resto della loro produzione: non si può mettere in gara il l'epigramma con l'elegia! (Infatti di Simonide avrebbe citato le elegie). La corona comunque non è quella dell'agone, ma quella simposiale.
C'è una serie di antologie oltre Meleagro, l'ultima è quella del 900 d.C. di Costantino Cefalo (l'arciprete). (pp.202-3)
- Antologia Palatina: (prende il nome da dove è stata scoperta) è molto ampia, è la più completa;
- Antologia Planudea: è ampia (ha 300 epigrammi che mancano nella prima), è comparsa verso la fine del 1200; prende nome da Planide, il monaco che l'ha scritta.
La palatina è più ampia, è composta da 16 libri di epigrammi, 3700 epigrammi e quindi 23000 versi. La Planudea ne ha di più ma, essendo stata scritta da un monaco, esclude tutti quelli amorosi, inclusi invece nella palatina. E' abbastanza noiosa perchè sono tutti uguali: quando l'epigramma diventa un genere letterario, pur con l'estrema varietà di contenuto, diventa un genere x emulare altri → si imitano tutti a vicenda e quindi finiscono col dire tutti le stesse cose.
(Se l'ipotesi del Rossi è esatta, all'agone succede il curatore di un'antologia).
LEONIDA
Nasce a Taranto ma, quando i Romani la conquistano, è costretto ad andarsene. Nonostante sia un aristocratico, conduce una vita raminga, ma non da poveraccio; frequenta la scuola peloponnesiaca e scrive epigrammi, è uno specialista in questo → canta i bassifondi come se ne facesse parte (in realtà ne sapeva poco, dato che non era povero), c'è il topos del vecchio ramingo.
Sono epigrammi scritti da un autore con determinate caratteristiche, che diventano un genere vero e proprio, con tema la vita tra le strade ..., diventa un genere specifico.
Le offerte agli dei sono proporzionate: focaccia, olive, un tozzo di pane .... vecchio pastore, mendicante... Ha una visione negativa della morte: non crede nell'eternità della propria opera, ma in una morte solitaria desolata. Chiarisce anche la sua visione della vita: tutto è vano e precario, ha una visione negativa della vita anche al di fuori della miseria → la vita è un punto che non conta nulla.
Lui di sicuro non viveva nei bassifondi come diceva, ma questo fa parte del topos del poeta povero, vecchio, infelice ed errabondo (per esempio si crede che Virgilio sia figlio di un vasaio). Apre agli altri poeti una strada nuova, un mondo a loro sconosciuto. Anche Teocrito e altri parlavano di poveretti, però ne cantavano l'amore e alcuni aspetti non realistici.
ERODA
Lo segue su questa strada anche Eroda o Eronda, che è uno scrittore di mimi, e ha scritti 6. Fu scoperto alla fine dell'800 quando era in voga il verismo: viene interpretato come verista del mondo antico (è stato poi smentito dall'Hauerbach).
Descrive un mondo a lui sconosciuto: è un mondo umile, per esempio si parla di una madre che non ne può più del figlio che salta sui tetti e ne combina di tutti i colori, finchè chiede aiuto ad un maestro che lo affronta.
Lenone
La più interessante è “Lenone”, viene presentata come un discorso giudiziario, forse ne è la presa in giro, però non rispetta alcune regole: manca la finezza, inizia subito con ανδρες δικασται, mentre invece prima ci sarebbe dovuta essere qualche parola. Lenone è un gestore di prostitute, porta in tribunale uno che non l'ha pagato; è interessante l'orgoglio con cui Lenone parla della sua ditta, dice che è antica e mai era successa una cosa del genere, che ne mina il buon nome! E' presentato in modo comico, c'è il contrasto fra il lavoro che fa e l'orgoglio che ha nel farlo.
Fu definito realista per il fatto che parla di situazioni basse, ma l'Hauerbach demolì questa credenza, anche se ci si era già accorti prima che il realismo era assurdo, non descrive con drammaticità, ma come dotto ad altri dotti: trasferisce sul “Lenone”, su un mondo che non conosce, un caso giudiziario → non c'è una critica, ma solo divertimento dato dal fatto della non abitudine del Lenone a parlare in pubblico.
Quello di Leonida è un modo ancora più basso, perchè rischiano anche di morire di fame, comunque entrambi i mondi sono estranei all'autore. Il mimo ha appena avuto dignità letteraria e può spaziare, la stessa cosa vale per l’epigramma, si possono inserire argomenti nuovi. C'è la ricerca di qualcosa di nuovo, non tentato prima (già Teocrito aveva aperto la strada parlando di umili, ma non così tanto). Leonida, scelta questa strada, ha parlato solo di questo; gli unici punti in cui si commuove sono quelli in cui descrive la morte di un bambino, che comunque è un topos: la morte giovane (già nell'Iliade gli eroi muoiono giovani) significa morire prima di aver vissuto, è vista come una cosa contro natura (infatti i funerali venivano fatti di notte per non offendere il sole).
Quella di età ellenistica è quasi tutta scomparsa, eccetto una parte di Polibio che si recupera attraverso Cicerone, però sono citazioni ridicole!! Infatti il Droysen è nei guai con la documentazione, perché c’è un vuoto di 2 secoli (III e IV, i primi 2 secoli dell'Ellenismo: non ci rimane niente, salvo minime citazioni fatte da altri autori, che però non ci servono. Sappiamo che furono storici di prestigio Eforo e Teopompo, allievi di Isocrate, che da buoni allievi di Isocrate partono da presupposti opposti di Tucidide, che predicava la non esistenza di valori assoluti. La storia è insieme di buoni e cattivi esempi; criteri di giudizio non sono l’utile o il disutile, ma il bene e il male: è una storia di tipo moralistico. E' definita mimetica: definizione che deriva dallo storico Duride di Samo (considerato il teorico), sostiene che il compito di uno storico sia quello di fare un'opera d'arte basandosi sul principio aristotelico della mimesis, imitando la realtà nel modo di riprodurla → deve essere scritta come un’opera dramatica: le vicende devono comparire al lettore come se fossero rappresentate a teatro, suscitando pathos. Questo riguarda il modo di esporre e non il contenuto. Duride passa come colui che ha affermato queste cose, noi non ce l’abbiamo. Accusò Eforo e Teopompo di non essere abbastanza mimetici. E' una storiografia che mirava ad avvincere il lettore, per colpire e dilettare il lettore. Ciò significa mettere da parte Tucidide → la sua storia era meno piacevole, ma utile. A noi sembrano mimetici, ma non possiamo giudicare.
La storiografia avrà molta importanza in Roma, dove oscilla tra quella di tipo scientifico e di tipo isocrateo, drammatica; nella parte di Livio che abbiamo risolve il problema che non capisce niente di battaglie concentrandosi sul pathos e presentando la scena come se lo spettatore l’avesse davanti agli occhi. È una componente anche di Tacito.
C'è interesse nel teorizzare quale tipo di storiografia vogliamo, avendo una tradizione alle spalle o ci si distacca (un po’ come fa Duride; il Romano però rimane più legato all’aneddoto e ad altre tendenze) o si segue la lezione di Tucidide. Comunque c’è lo studio relativo al genere in sè.
Questa storiografia è scomparsa, ci rimangono solo nomi, influenzati da Isocrate.
A parte Polibio, gli altri storici fanno storia di tipo moralistico perchè più adatto al tempo ..... . A fornire materia x gli storici è Alessandro, visto ormai come figura chiave (la morte giovane contribuisce a dargli un'aura di leggenda), il greco che “conquista il mondo” esotico, che si apre di fronte a lui. Alessandro apre un'epoca nuova e diventa un personaggio centrale.
Inizia una serie di “storici di Alessandro” (non l'abbiamo), si dividono in due filoni:
* serio = Tolomeo (scrisse una storia della conquista di Alessandro, ma con una prospettiva dovuta alla posizione dell'autore, Tolomeo è generale. Riporta la campagna militare, senza fronzoli, è una relazione veridica); Nearco: ammiraglio di Alessandro, scrive un'opera che è fra lo storico e il geografico: mentre Alessandro tornava con l'esercito via terra, Nearco torna via mare x esplorare le coste e aprire nuovi mercati. E' una relazione della navigazione di ritorno, è vista con gli occhi di un militare, quindi non ci sono abbellimenti. E' una mentalità concreta.
* Storici o pseudo: Callistene, Egesia di Magnesia, Clitarco. Sono storici che mirarono ad ingrandire la già straordinaria impresa di Alessandro, che è diventato un punto di riferimento. Oltre ad accrescere la meraviglia dell'impresa e aggiungere aneddoti inventati, questa storiografia si occupa di descrivere la meraviglia, le cose che escono dalla norma (tipiche x l'Oriente).
C'è la presenza di piante e animali mai visti, questo fa sì che ci sia una letteratura su questi. .... La spedizione offre spazio sia x ingrandire la sua figura, sia x descrivere vizi e virtù.
Egesia fa parte di questo filone dove è più importante il piacere del lettore. ......
Storie esotiche: non hanno praticamente nulla di credibile, sono ambientate in un mondo orientale; “precedono” il romanzo (c'è un'opera di Ecateo, non il logografo, ........) Scrisse un'opera sugli Egizi e sugli Iperborei: un popolo mitico, in realtà non esiste.
Evemero: è un italico; scrisse un'opera che pretendeva di essere fra geografia e storia e parlava di una presunta isola dell'Oceano Indiano (alcuni dicono che fosse Silon) ........
Questi storiografi meno seri scrivono storie romanzate.
Evemero scrisse che in quest'isola, nella piazza della capitale, c'erano incisi i nomi degli dei e veniva spiegato che in realtà questi erano nomi di grandi uomini del passato che venivano qui ricordati. Questa è una vicenda romanzata, alla quale vennero aggiunti questi elementi di fantasia, nella quale si riflette che ormai questi dei sono in crisi (sarebbe finito sotto processo x empietà qualche secolo prima).
A lui tocca di diventare l'inventore dell'evemerismo = atteggiamento razionalistico che cerca di giustificare razionalmente le religioni = trovare una spiegazione razionale della religione. Ma in realtà in Evemero non c'è nessuna intenzione di voler distruggere la religione o di voler dare una spiegazione razionale!
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POLIBIO (MANCA)
ETA’ GRECO-ROMANA
31 - Battaglia di Anzio,as con la conseguente conquista dell’Egitto
528 - Chiusura della scuola filosofica di Atene, che non produceva più molto; la chiusura ufficiale voluta dall’ imperatore è il sigillo posto alla fine di un pensiero (pagano) e rappresenta il superamento di questa mentalità. Anche l’anno di inizio è preso da un episodio preciso: lo scontro di Ottaviano contro Marcantonio. In Egitto c’è Alessandria, che costituisce in questo periodo un centro culturale; la sua conquista e il diretto contatto con Roma cambia la prospettiva: tranne Polibio, gli altri autori sono vissuti come se Roma non esistesse, in quanto considerata una copiatrice e per di più rozza; con la conquista dell’Egitto bisogna fare i conti con Roma, che nel frattempo si stava impossessando del Mediterraneo.
Così il nuovo centro del mondo diventa Roma, meta di molti autori greci.
Come chiamare questa età?
L’età precedente era quella alessandrina, caratterizzata appunto dalla figura di Alessandro. Ci si è posti però il problema su come chiamare questo periodo:
* Età imperiale; sarebbe un nome che riguarderebbe solo Roma e non la Grecia
* Età romana; sottolineerebbe solo l’aspetto politico
* Età greco-romana; Roma dal punto di vista politico e Grecia dal punto di vista culturale
PLUTARCO
Plutarco viene da Cheronea, in Beozia, luogo al quale fu molto legato: infatti lui stesso dice non sarebbe potuto venir via da lì perché se no la popolazione avrebbe subito un calo.
?? Opuscolo di Plutarco che insultava Erodoto (…)
Plutarco fu un amministratore di cui i Romani si valsero per amministrare il loro impero. Ci sono, infatti, giunte delle notizie riguardo lui che parlano della sua “dignità di console” e della sua carica di “supervisore di governatori romani (kata thn illurida)”; in’altra ci parla del suo “occuparsi della Grecia (epitrepeuein Hlladon)”: queste sono evidentemente notizie greche, dettate dall’orgoglio, che magnificano la posizione di Plutarco. Lo Zigler sostiene che esse siano la realizzazione di una crescente affermazione di Plutarco.
Le sue opere più importanti sono i Moralia e Le vite parallele; i titoli delle opere sono in latino perché furono organizzate da Planude: molto probabilmente i titoli erano in greco, ma passarono in latino quando entrarono nel mondo romano.
I MORALIA sono un ottantina di scritti, che abbracciano tematiche diverse.
Nella sua produzione c’è un opuscolo indirizzato a un amico che doveva ricoprire una carica romana, a cui dà dei consigli. “Comandi, ma sei a tua volta comandato, devi imitare gli attori e la loro drammaticità“.
C’era qualcuno, però, che se ne approfittava di questo potere; Plutarco ne parla dicendo che ha oltrepassato i limiti: lo ammonisce dicendo che è un attore che recita il testo di un altro e che è l’ultimo anello di una catena di potere. Plutarco, infatti, non coprì mai la carica di sovrintendenza di governatori.
È assurdo rifarsi a un glorioso passato che non esiste più: la situazione è diversa; sarebbe come se i bambini mettessero le scarpe dei padri, è un’azione funesta (gli elementi che fanno gonfiare il popolo vanno lasciati ai sofisti). Permane in lui l’idea di ricordare del passato solo ciò che è trasportabile nel presente: per esempio la multa a Frinico, l’amnistia dell’epoca dei Trenta,..
Una sua frase celebre, che rappresenta al meglio la situazione contemporanea, è: “Ricordati sempre del calzare romano che hai sulla testa”. con questa affermazione non vuole dire che il romano è cattivo, ma che ormai non sono più loro (i greci) a decidere: la Grecia non è più autonoma; l’esercito (il calzare) ci può schiacciare da un momento all’altro.
Plutarco ricoprì una carica importante anche al santuario di Delfi: ci credeva ancora nell’importanza del santuario. Sotto la sua spinta, infatti, Delfi riacquistò molto prestigio. Scrisse addirittura opere sulla perdita di importanza degli oracoli, e così via.
In “Iside e Osiride” cerca di rivalutare le credenze greche a cui lui è molto legato: cerca di vedere nel nuovo qualcosa di antico, di far riemergere il passato ogni volta che è possibile. Per esempio nel paragone tra Aristofane e Menandro, o nel trattato su come i giovani devono leggere i poeti.
Tutte queste opere secondarie sopra citate vanno sotto il nome di Moralia: Planude in questa organizzazione mise in primo piano le opere morali, però poi il titolo finì per estendersi a tutte le opere minori.
LE VITE PARALLELE
Comprende 50 biografie, 46 delle quali sono “accoppiate” (formando 23 coppie di vite messe a confronto), mentre le altre 4 (di Arato, Artaserse, Galba e Otone) sono separate. In queste vite, però, si è notato come Plutarco non parli di quello che dovrebbe essere il suo eroe, Epaminonda, e neanche di Scipione: questo ci fa pensare che molto probabilmente ci siamo persi la prima parte dell’opera. Potrebbe anche essere, però, che la sezione riguardante Epaminonda era talmente vasta, che si è staccata ed è rimasta indipendente.
Problema: l’opera che noi abbiamo è introdotta da un proemio, dopo il quale si inizia subito a parlare di Alessandro; però è molto strano, se non improbabile che Alessandro fosse il primo: infatti sia per questo motivo che per il fatto che non ci sono Epaminonda e Scipione, ci viene da pensare che ci siamo persi un pezzo. E allora perché la parte che noi abbiamo è preceduta da un proemio?
==> Il proemio che noi abbiamo è in realtà una seconda introduzione
==> Ci siamo persi interamente la prima parte, che era preceduta da un proemio; quello che è sopravvissuto di questa parte è stato appiccicato alla seconda, che inizia con Alessandro e che noi abbiamo.
La critica ha giudicato le vite come biografie attendibili che si chiudevano con dei confronti, molti dei quali erano forzati perché Plutarco rimase ingabbiato nell’impostazione del confronto e si trovò obbligato a farlo, anche quando sarebbe stato forzato
La critica più recente, però, non vede questi collegamenti a volte forzati come degli “accessori”, ma come elementi basilari. Per esempio Quinto Fabio Massimo è paragonato a Pericle: la tattica di uno di temporeggiare contro Annibale non fu ascoltata così come l’altro ebbe numerosi oppositori. Questo collegamento, apparentemente forzato, in realtà non lo è, perché Plutarco vede il comune tra i due: riesce a vedere qualcosa che non è immediatamente visibile e va a fondo nel personaggio.
Il Canfora sostiene che, mentre Polibio fa una previsione di Roma (prevedeva la lunga durata e ne dava le motivazioni), Plutarco fa un bilancio di tutti i campi in cui Roma si è segnalata.
Confronto tra Greci e Romani
C’è un metodo per questo confronto? Uno ha notato che nel confronto il Greco è sempre più antico sia per una questione di datazione (i personaggi greci risalgono al VI-IV sec, mentre quelli romani durante la fine della repubblica e l’inizio dell’impero), sia per una questione (conseguente a quella appena detta) di documentazione (quella greca è di gran lunga maggiore). Anche Plutarco prende posizione in questo “dibattito”, sostenendo che la civiltà greca è anteriore e originale: i Greci hanno trovato e i Romani hanno avuto già la strada aperta. L’ipotesi più probabile è che questa visione sia spontanea perché costituisce la sua mentalità.
I personaggi e gli exempla
Qualcuno ha notato che Plutarco, nel parlare dei vari personaggi, passa dal più noto al meno noto: è contestabile perché il fatto che siano recenti o meno è un dato di fatto, questo No. Plutarco vuole evidenziare quello che accomuna o divide due mentalità: l’opera ha un intento di confronto, ma anche di moralità; quest’ultimo aspetto risente dell’influenza romana degli exempla: infatti Plutarco, attraverso la sua opera, vuole dare degli esempi, dei modelli da seguire, i suoi personaggi sono degli eroi. Anche quando essi sono negativi (cosa abbastanza rara) sono utili, in quanto indicano l’esempio negativo da rifuggire.
È storia quella di Plutarco? No, perché ce lo dice lui stesso: “non scrivo storia, ma biografie”: distingue nettamente le due cose. Plutarco scrive vite di uomini, il suo intento è diverso; la storia si occupa di fatti importanti, la vita, invece, di cose apparentemente secondarie (l’indole di un uomo si vede di più nelle piccole cose di tutti i giorni piuttosto che nelle grandi battaglie). Infatti nelle biografie esclude la narrazione e la descrizione delle grandi imprese, perché ormai sono cose già conosciute e si sa dove trovarle: Plutarco si impone come scopo di trovare il vir, e non lo si trova nel modo in cui conquista, ma nella vita di tutti i giorni. Partendo dal principio che Plutarco non scrive storia, ma biografie, la storia del personaggio viene o accennata o riassunta o data per scontata. Pone attenzione non sulle azioni, ma sul modo di agire (tropos kai eqos, a volte invece di eqos usa diaqesis, atteggiamento): l’atteggiamento che un personaggio tiene in pubblico è troppo condizionato (dalla sua carica, dalla sua posizione sociale…); Plutarco ricerca l’individuo.
Attraverso la descrizione di Bruto si vede una notevole capacità di Plutarco di conferire paqos:
Topos classico, per indicare la forza d’animo dice che il dormir è limitato al minimo;
“durante una notte oscurissima”,“lucerna che dava luce fioca”, prepara l’atmosfera per l’arrivo del fantasma;
“corpo spaventoso, figura orrenda,..”, non descrive l’aspetto fisico del fantasma perché se no diminuirebbe la portata dell’apparizione;
“Bruto ebbe il coraggio di parlargli”, vuole sottolineare il coraggio di Bruto non solo in battaglia ma anche ad affrontare se stesso;
Il fantasma risponde “a bassa voce”: “io sono il tuo cattivo genio”, lui è il suo destino.
Plutarco ama molto le scene notturne, non molto considerate dalla storia perché non si combatte e perché di notte il personaggio è solo con se stesso. Nel momento anteriore la sua morte, dopo la sconfitta di Filippo, alcuni dicevano che bisognava fuggire; Bruto dice: “Bisogna fuggire con le mani, non con i piedi”: bisogna fuggire dalla sciagura, uccidendosi.
Plutarco ama molto le morti perché sono il momento in cui l’uomo si rivela in modo particolare: per questo non ama le morti in battaglia, ma quelle “normali”.
Questa attenzione nel creare l’eroe è stata definita FILANTROPIA, nel senso di “interesse per l’uomo”: scavare nella parte più intima dell’uomo per portarla alla luce.
Il Bruto di Plutarco è presente nel Giulio Cesare di Shakespeare. Oltre a un valore pedagogico, si ricava una concezione della storia intesa come successione di grandi. I suoi sono eroi romantici, che non cedono di fronte alla sventura: sanno opporsi. La sua è una galleria di eroi che ha garantito la fortuna di Plutarco soprattutto nell’800.
La definizione che il Leschi dà di Luciano è “scetticismo come concezione del mondo”. Retore, specchio del vuoto di ideali del mondo greco. Il razionale dell’ellenismo porta all’irrazionalità perché fallisce: entra il misticismo, la superstizione, la magia. È logico: la fede totale nella ragione viene delusa, la mente cerca qualcosa di irrazionale in cui credere. Luciano non è un mago, ma l’espressione del cinismo dell’epoca (oggi cinico = privo di sentimenti, invece per la filosofia è il rifiuto, il non credere). È l’uomo che guarda da un lato con cinismo, ma anche con satira. Deride tutto perché non riesce più a credere in niente. Scrive:
Dialoghi degli dei
Demolisce gli dei, ma ormai sono già morti. Non è un razionalista che vuole mostrare l’irrazionalità degli dei, perché tanto non ci crede più nessuno: è una moda dell’epoca.
Dialoghi dei morti
L’eroe è Menippo, che vive infischiandosene delle convenzioni sociali: arriva nell’Acheronte, e Caronte gli chiede l’obolo per pagare il passaggio (che mettevano in bocca ai morti), lui non ce l’ha, e allora gli dice “bè, non portarmi”, dimostrando indifferenza; poi alla fine Caronte stufo lo porta dall’altra parte. Va da Ermes, gli chiede di vedere Elena, e scopre solo un teschio: allora non c’è più differenza tra lei e Tersite, hanno combattuto una guerra per un teschio → non è egualitarismo o polemica alla guerra di Troia, ma è espressione del suo non credere più a nulla.
Luciano è una persona di cultura, e lo si nota dalle reminiscenze letterarie. È stato in contraddizione con se stesso: ha scritto un’apologia per difendersi.
Il sogno
Da questo dialogo abbiamo notizie della sua stessa vita: racconta che la sua famiglia aveva deciso di mandarlo dallo zio scultore, il primo giorno rovina il marmo e si fa anche male, viene cacciato, torna a casa e fa un sogno: riprende il sogno di Eracle in Senofonte, ripreso da , verrà trattato da Cicerone→ Eracle si trova di fronte a due donne, Aretè e Edonè, lui sceglie l’Aretè; per Eracle gli era successo veramente, Luciano lo trasforma in un sogno. Le due sono scultura e retorica, vantano i propri pregi e lui sceglie la retorica. In Senofonte è scelta etica, per lui è scelta pratica (a parte che la scultura era già eliminata perché si era fatto cacciare!), comunque è la scelta tra un mestiere creativo e uno filosofico.
Nigrino
Comincia a fare il retore, arriva anche a Roma dove scrive Nigrino: parla di un filosofo cinico che scrive in estrema povertà voluta, ideale per Luciano. Elogia Nigrino la scelta controcorrente di non approfittare delle occasioni che Roma offriva. conduce una vita povera , nei confronti del lusso, dello spreco della vita di Roma. Luciano lo esalata quasi volendo scegliere la stessa strada; peccato che poi trovi un protettore che gli trova un lavoro e diventa segretario del prefetto dell'Egitto, carica che rendeva da matti: come ha l'occasione, si inserisce nella società romana. Questo dimostra incoerenza! infatti dovrà scrivere un'apologia per difendersi dall'accusa. Basa la sua difesa sul fatto che se uno si vende per poco, allora è un venduto, ma se si vende per molto, come lavorare per l'imperatore, allora cambia tutto. Può anche essere che abbia avuto un momento di ammirazione sincera nei confronti di Nerone, e che poi abbia cambiato idea. O che abbia cambiato idea davanti alla prospettiva di uno stipendio alto. Poi la sua carriera si interrompe all'improvviso, forse è stato coinvolto nella caduta del prefetto d'Egitto. si descrive come vecchio, ma i conti non tornano: è solo il topos del povero vecchietto. Comunque ebbe una vita lunga, viaggiò molto, tornò anche a casa, continuò a svolgere contemporaneamente l'attività dell'oratore e itinerante e scrittore. Scrive dialoghi, qualcuno disapprova la sua scelta di fare dialoghi come Platone per fare una satira.
Due volte accusato
Scrive anche questo dialogo di autodifesa: immagina di essere chiamato in tribunale dalla retorica che pensa di essere tradita per il dialogo, e il dialogo arrabbiato dice di essere stato trasformato da qualcosa di serio un ridicolo. Luciano si difende e vince dicendo che prima il dialogo era noioso, almeno adesso lo leggono tutti. Capisce di aver trovato la strada giusta per il successo. Luciano nella sua vita ha praticamente preso di mira tutti.
Come si deve scrivere la storia
In quest’opera spiega come si scrive un’opera di storia. In quel periodo c’era un eccessivo fiorire di opere di storici che pretendevano di essere tutti Tucidide; Luciano non li apprezzava: ancorato a Tucidide, dice che bisogna seguirlo. Ma cerca anche qui di essere spiritoso: la gente copiava da Tucidide l’introduzione, ma non basta dire “pinco pallino scrive”, come aveva cominciato l’opera Tucidide, per scrivere come lui; per citare il nome di pinco pallino se ne inventa uno in –ano, facile, assonante, fa ridere.
Peregrino
Parla di un filosofo cinico che si fa cristiano, poi rinnega anche il cristianesimo, muore dandosi fuoco a olimpia durante le olimpiadi mescolando le origini greche (olimpiadi), con il bruciarsi, che invece è tipicamente indiano: è tutto un insieme di esperienze diverse che aveva fatto durante la vita senza trovare una vera soluzione ai problemi, senza trovare qualcosa in cui credere. Quest’opera ha ricevuto giudizi opposti:
1. il Canfora la vede come presa in giro di Peregrino di pessimo gusto, lo prende in giro per tutto, pure per il mar di mare. Basa la sua critica su Aulo Gallio, un Romano contemporaneo che parla anche lui di peregrino, ma bene, presentandolo come una persona seria in questo momento di incertezza. Il canfora difende la figura di Peregrino e attacca la posizione di Luciano.
2. il Montanari invece sostiene l’esatto opposto, cioè che ha ragione Luciano a criticarlo così. Non cita però Aulo Gallio. Il Montanari vede Peregrino come una specie di “santone”, un individuo che non è alla ricerca di una vera soluzione, non nel senso che è un imbroglione (non aveva bisogno di ricchezze) ma un esaltato, che vuole essere al centro dell’attenzione: passa da una cultura all’altra non per ricerca personale, ma per mettersi in mostra. Il Montanari non spiega poi bene perché si sia ucciso.
Il fatto che l’opera sia stata interpretata in modo diametralmente opposto fa capire come possa essere letto come critico serio della sua epoca che ha smascherato gli ipocriti, oltre alle apparenze.
Il pescatore
Attacca tutti, anche i filosofi della sua epoca. Nel Pescatore sostiene che basta gettare dall’Acropoli delle monetine di rame, si tira su la lenza e tutti i filosofi sono lì.
Assemblea degli dei
In questo dialogo immagina un concilio degli dei, nel quale interviene Apollo e si lamenta: perché tutti sono chiamati “padri” e io “il bello”?! come se fosse il bel deficiente.
Ama creare scandalo, attira l’attenzione su di sé. Si difende: dice che voleva attaccare solo i filosofi moderni: sembra che cerchi di attirare l’attenzione forzando e poi si tiri indietro.
La storia vera
È un romanzo, nel quale, secondo il procedimento già adottato in tutta la sua opera, arriva al paradosso e alla polemica con se stesso. Nell’introduzione dice che è una storia vera, e poi dice che l’unica cosa vera che dirà è che non dirà la verità. A differenza del romanzo greco tradizionale, questo non è ambientato nel lusso e nel mistero dell’oriente, ma in luoghi impossibili, come la luna, la pancia della balena. Non c’è amore a guidare la storia, ma sono avventure da un posto all’altro, irrealizzabili: in questo sono diverse dall’oriente, che era comunque verosimile come ambientazione, per lo meno esisteva sulla terra!!
Nel prologo entra in polemica con chi ha scritto i romanzi tradizionali, prima di tutto critica Ulisse di Omero, che narra cose strane: questo è indice del fatto che Omero non era più il maestro; l’Odissea viene presa in giro perché irreale, e i Feaci sono dei cretini perché ci credono. È una voluta presa di posizione: Luciano non costruisce, ma demolisce: prende in giro gli uomini di cultura a partire da Omero, gli storici, qualcuno pensa che abbia fatto allusioni anche ad Erodoto perché parla di cose che non ha mai visto né sentito da altri; forse critica anche Platone per l’uso dei miti → lui dice chiaramente che nel suo romanzo non c’è niente di vero, e il lettore non deve credere a nulla di quello che lui dice.
Parla di uno che naviga per mare con dei compagni, sorpresi da una tempesta, volano sulla luna, che è abitata e coltivata; vengono presi dagli ippogrifi, uomini che andavano sopra dei grifi: era una figura mitica, e Luciano la trasforma in cavalli? normali, mezzi di trasporto. Gli abitanti della luna guardano i loro vestiti e chiedono se sono greci → è una presa in giro del Filottete dove dice che i Greci si riconoscono dai vestiti. È in corso una guerra tra il sole e la luna, Fetonte manda contro di loro i Cavaiformiche (incroci tra cavalli e formiche). Tornano sulla terra, ma sbagliano l’atterraggio e finiscono in mare: si trovano nel ventre di una balena (Pinocchio è in debito con Luciano; forse anche Ariosto per l’avventura sulla luna, se ai suoi tempi il libro circolava in versione latina). Descrive la balena: nella pancia c’è una caverna immensa con una città di 10.000 uomini. Trovano una zattera e si fermano su un’isola. Incontrano un vecchio con cui si alleano e uccidono la balena: vanno nell’isola dei beati, posto nel quale, secondo il mito, finivano le anime dei grandi (ne parla anche Platone), non raggiungibile dall’uomo; ha le caratteristiche della terra, ma con un potenziamento, ha tutte le caratteristiche migliori: non è un’età dell’oro con la lana già colorata, ma è tipo l’isola dei Feaci, ci sono raccolti continui, è sempre primavera, con ruscelletti e fiorellini. Le persone parlano con una voce piacevole come il suono della cetra, armoniosa.
Trova Aiace, Socrate, Nestore, Licurgo, Numa, pure Annibale! C’è tutto quello che ci può essere di prezioso: pietre, unguenti. Non è un’età dell’oro dove l’uomo trova tutto ciò di cui ha bisogno senza doverlo lavorare, qui c’è tutto il lusso di cui le corti si circondavano; è tutto colorato. Solo Platone non c’era, ma si dice che è andato in quella repubblica che lui stesso si era creato → solo un pubblico colto poteva cogliere le allusioni che lui non spiega: non è un romanzo diretto alla classe media, come quelli tradizionali, ma si rivolge alle classi colte. Va a cercare Omero, e prende posizione sulla questione omerica: in quel tempo c’erano tantissime città che vantavano di essere la patria di Omero, Luciano invece gli fa dire che viene da Babilonia, che non c’entrava niente! In questo modo irride le città che si vantavano di essere la patria di Omero. Accoglie l’etimologia del nome ομερος = ostaggio, negando quella ομερος = ο μη ορων = non vedente → non era cieco. E non scrisse prima l’Odissea, come sostenevano alcuni, ma prima l’Iliade. Tersite gli fa causa per essere stato insultato, ma Omero vince perché si prende Ulisse come avvocato.
È tutta un’allusione a miti, personaggi, luoghi, autori precedenti. È un mondo incredibile che non pretende di avere nulla di verosimile: è una presa di posizione nei confronti della presunta veridicità del romanzo, che era assurdo. Il romanzo era un genere d’evasione, non aveva la pretesa di verità storica, però avevano quella patina di verosimile data dall’ambientazione in Oriente, luogo reale, dove poteva capitare qualsiasi cosa. Non crede nell’isola dei beati, presenta questo e altri luoghi e miti come inverosimili, come antitesi delle stranezze tipiche dei romanzi.
Lucio, o L’asino
Per tanto tempo è stata accreditata a Luciano, ma ora un critico dice che assomiglia troppo ad un romanzo di Lucio di Potre, che però è andata perduta, tanto che non si sa chi abbia influenzato l’altro. Probabilmente nell’altro c’è confusione tra autore e personaggio, e poi è strano che due romanzi siano tanto simili. Il romanzo infatti non risponde a regole, ma solo all’esigenza di evasione da un mondo monotono, quindi è difficile che si copino, se cercano la novità! Va bene che ci siano episodi simili, ma qui sarebbero proprio le stesse vicende! Poi è strano che un romanzo circoli con il nome del personaggio: vuol dire che non si conosceva già più l’autore. Probabilmente c’è un pasticcio di mezzo, in cui non siamo più in grado di fare ordine: sono venuti fuori due romanzi tanto simili tra loro, che non è caratteristica del romanzo che cerca l’invenzione sempre nuova. Non ci poteva neanche essere emulazione per un genere che non aveva neanche dignità letteraria. Forse è un romanzo solo che nelle trascrizioni ha acquisito varianti, minimi particolari diversi, e poi sono scomparsi i nomi degli autori. Adesso la critica pensa che non sia di Luciano, ma non siamo in grado di dirlo perché i dotti non se ne sono occupati, considerandolo un genere inferiore.
Parla di un uomo che per un errore di filtro si è trasformato in un asino; è un romanzo picaresco: c’è un’avventura dopo l’altra finchè non riesce a tornare umano mangiando delle rose. È un asino esternamente ma dentro è umano: è un uomo chiuso in un corpo non suo. Risponde alle caratteristiche dell’epoca, che non riesce a trovare valori, c’è la ricerca del soprannaturale quando la religione entra in crisi, la magia si accompagna al gusto per il mirabilia, tutto ciò che esce dalle regole deve avere un significato. Tutto ciò è irrazionale, però c’è anche il desiderio di andare oltre la natura e fare trasformazioni: è un atteggiamento tipico, ne abbiamo esempio in Ovidio nelle Metamorfosi, in Callimaco con gli Aitia. La mania per questo passaggio rimane per tutto il medioevo, con l’alchimia, dove la trasformazione dei metalli in oro nasconde anche una questione economica. È l’aspirazione dell’uomo a modificare la natura. L’interesse per la magia era un momento caratteristico del mondo antico, e corrispondeva alla crisi dei valori, la risposta che il paganesimo dà nei confronti del cristianesimo, che trova terreno fertile nella diffusione del neoplatonismo. […]
Platone aveva già parzialmente teorizzato la magia, pratica non razionale che dipende dalla stregoneria. Dall’oriente arrivavano piante con effetti allucinogeni → la distanza tra il mago e chi forniva veleni era minima, infatti spesso erano la stessa persona. Dentro gli intrugli c’erano strane erbe orientali. Il “poter uscire dal proprio corpo”con la magia le dà popolarità. Per questo Lucio può anche non essere di quest’epoca: c’è una trasformazione di apparenza, non di sostanza, che appartiene ai mirabilia; forse c’è un riferimento a platone che vede una differenza tra il mondo invisibile e l’aspetto esteriore, tra materia e spirito. Lucio cambia aspetto, ma rimane un uomo. Lucio non è colpevole, non ha un intento morale, caratteristica estranea al romanzo, nel mangiare le rose non c’è purificazione perché non c’era una colpa iniziale, è solo uno sbaglio: è una vicenda che può dar luogo a uno o più romanzi nei
momenti in cui la magia è credibile.
Nel momento in cui l'oratoria perde peso si formano due scuole:
• APOLLODOREI
• TEODOREI
I nomi derivano da due grandi retori greci, Apollodoro e Teodoro (uno era maestro di Tiberio e l'altro di Augusto), sono i capiscuola di due modi di intendere la struttura del discorso e di insegnare l'arte oratoria.
* TEODOREI → Sono asiani: per loro l'oratoria è τεχνη = ARTE (parola-fregatura tremenda), è qualcosa di non insegnabile. La natura prevale sull'insegnamento; si basa sulle qualità naturali, è un'arte che può essere migliorata, ma non è trasmissibile.
* APOLLODOREI → Sono atticisti: secondo loro l'oratoria è ειστημη = SAPERE, è qualcosa di trasmissibile. La scuola è più importante delle doti naturali. Questa scuola si preoccupa di strutturare l'orazione in sé, dividendola in:
* Προιμιον → proemio: introduzione dell'argomento
* Διηγεσις → narrazione: è il racconto con l'esposizione dei fatti
* Αποδεξις→ dimostrazione razionale: si dimostra una certa teoria, per giungere ad una tesi
Il fatto che secondo questo tipo di scuola (apollodoreo) l’oratoria è una tecnica, ha portato a questa divisione rigida, mentre i teodorei non se ne sono preoccupati perchè secondo loro si può rendere migliore l'arte oratoria, ma sono più importanti la spontaneità naturale e la foga, è un'oratoria che ricerca il pathos. Ognuno sceglieva la scuola in base a ciò per cui era portato.
I vari maestri o teorici di queste tendenze scrivono vari trattati sull'argomento, per dimostrare le proprie teorie, probabilmente erano anche retori.
L'ANONIMO DEL SUBLIME
Di questi autori abbiamo solo alcuni nomi, per esempio il nome Cecilio di Calacte, e l'opera “περί υξιους” = Sul sublime: noi li abbiamo sovrapposti, dicendo che Cecilio di Calacte è l’autore del “περί υξιους”, ma è sbagliato. L'autore di quest'opera resta anonimo. Non possono essere la stessa persona perché Cecilio di Calacte è atticista, mentre il “περί υξιους” è asiano, tende al pathos. In più nell'introduzione dell'opera, che si rivolge ad uno pseudo-alunno, c'è una critica a Cecilio, quindi non può averla scritta lui!! Probabilmente anche Cecilio di Calacte ha scritto un'opera con questo titolo, quindi si sono sovrapposte.
Si è cercato di trovare l'autore: per anni è prevalsa l'ipotesi di Rostagni, che attribuiva a Longino la paternità dell'opera, ma ora quest'ipotesi è crollata; si crede che l'opera sia dello pseudo-Longino.
E' un'opera molto interessante, sia per le fonti del sublime, sia per la definizione che dà del sublime, sia perché è l'ultima opera che affronta il problema della decadenza dell'oratoria, problema diffuso a Roma e in Grecia.
(pezzo letto dalla prof)
Il destinatario dell'opera è fittizio, lo chiama solo “carissimo”; è un'opera di propaganda per la scuola.
Definisce il sublime “Il culmine e l'apice dell'arte e della parola”, poi spiega perché deve essere raggiunto.
E' un'opera fondamentale per noi perché:
1) ci dà vari esempi di sublime, quindi possiamo confrontare il nostro giudizio con quello degli antichi;
2) è l'unica fonte che ci fa arrivare il “φαινεται μοι” di Saffo, citato come esempio.
Altro punto rivoluzionario: è la prima opera, per quanto ne sappiamo, che rivaluti il comico, condannato da Aristotele perché non produceva catarsi. Qui si dice che anche il riso è pathos, ma di gioia, può coinvolgere anche questo, anche se in modo opposto rispetto al tragico. Aristotele vedeva l'arte come strumento per l'educazione, ora invece è solo più “arte per l'arte”: può essere anche comica!
SUBLIME = “ Tutto ciò che è straordinario guida lo spettatore non alla persuasione, ma all'estasi”, questo è il contrario degli atticisti e quindi di Cecilio, che era atticista, non può certo aver scritto quest’opera! “è un fulmine che trapassa tutto, al momento giusto”.
E' interessante perchè, fra le fonti del sublime, l'autore cita la Bibbia dicendo come prova: “Dio disse luce, e luce fu” → si pensa che sia ebreo: no! E' una riflessione del multi- culturalismo, tutti conoscevano la Bibbia, non solo gli ebrei.
Fonti del sublime
Con un procedimento di usteron proteron, prima di parlare delle fonti dice che cos'è il sublime, e poi da dove emerge.
Le fonti principali sono cinque:
1) attitudine alle grandi concezioni → grandezza d'animo: è la più importante, consiste nell'uomo che concepisce grandi idee (infatti il sublime è l'eco di un animo grande);
2) passione profonda e ispirata → pathos, capacità di lasciarsi coinvolgere, commuovere e sconvolgere dal sublime che c'è già in noi;
3) speciale foggia delle figure: saper usare le figure retoriche e di pensiero (metafora...);
4) nobiltà di espressione → scelta delle parole e del modo di esprimersi. Locuzione traslata ed elaborata: Il modo di esporre non deve essere colloquiale, ma aulico e all'altezza del suo contenuto; è uno lo stile baroccheggiante, con una grande capacità di coinvolgimento.
5) collocazione delle parole → le parole devono produrre un suono nobile (questa fonte racchiude in sé tutte quelle che la precedono)
Le prime 2 sono doti naturali che una persona che vuole arrivare al sublime deve già possedere, le ultime 3 sono elementi tecnici che vengono insegnati (se no che scuola sarebbe?!).
“Il sublime è l'eco di un animo grande”: riprende la prima fonte, che è la più importante: anche senza la parola, a volte si ammira il pensiero nudo. Per esempio: il silenzio di Aiace negli Inferi, mentre Odisseo gli parla, non ha bisogno di parole, ma indica l’animo grande, sia di Aiace, perchè riesce ad esprimersi anche nel silenzio, sia di Omero, il quale ha pensato a rendere in questo modo (con il silenzio) l'animo.
Le prime due condizioni possono sussistere da sole; però non si può fare un’opera di soli silenzi: la scuola ha il compito di educare un animo grande perché questo può essere svilito se non viene usato ed adeguatamente educato con pensieri grandi. → giustifica la scuola che mette in luce e potenzia la grandezza d’animo naturale.
* Il sublime è perfetto?
No! E' la mediocrità ad essere perfetta, dato che chi non sale mai nelle “alte vette” non rischia mai la caduta, si mantiene uguale a sé stesso. C'è un principio nell'opera che noi non condividiamo: l'autore rivaluta Omero a svantaggio di Apollonio Rodio → non sopporta la grandezza tecnica non supportata dalla grandezza d'animo. Apollonio Rodio è definito “il perfetto mediocre”, mentre Omero “il sublime” per eccellenza (che comunque non può rimanere sempre tale). La critica moderna ha demolito quest'idea su Apollonio Rodio sostenendo che non c'è una mediocrità costante, ci sono pezzi in cui c'è più o meno poesia; evidentemente l'autore del “Sublime” ha confuso la perfezione tecnica, che è costante, con la mediocrità. C'è una differenza basilare fra il sublime e la mediocrità: il primo, a differenza della seconda che è perfetta, non può mantenersi costante. Tecnicamente Apollonio è perfetto, mancano i punti peggiori di altri, ma di conseguenza mancano anche i punti migliori! Omero invece ha delle vette. Nelle vette si notano maggiormente gli errori, che vanno comunque apprezzati per la grandezza.
L'autore esamina poi il sublime anche dalla parte dell'ascoltatore (è una novità!) → solitamente il sublime, per essere percepito, ha bisogno di un grande, ma anche se non siamo grandi scrittori, questo deve lasciare qualcosa in noi. Il sublime non deve dare un coinvolgimento solo momentaneo, ma duraturo nel tempo, perchè deve suscitare un eco nell'ascoltatore, che poi andrà a fondo nella questione.
Effetto del sublime
Quando un passo non dispone l'animo alla grandezza, non si tratta di sublime, perché dura solo finché lo si ascolta: il sublime produce un'aspirazione alla grandezza e fa sì che chi ascolta lo voglia oltrepassare, lascia delle sensazioni durature e in grado di suggerire aspirazioni ulteriori.
Per un uomo saggio (per natura disposto alla grandezza) e critico di letteratura (colto) la grandezza naturale è solidificata da sublime che ascolta. Ciò che non è sublime cessa il suo effetto e si limita a produrre un effetto superficiale finchè dura la lettura.
Dopo i tentativi dei korizontes di separare le due opere, è rimasta la visione di accettare che Iliade e Odissea siano entrambe state scritte da Omero. L’Iliade, che è sublime, è il prodotto della giovinezza di Omero, mentre l’Odissea è meno sublime perchè prodotto di meditazione
Decadenza dell'oratoria
E' l'ultimo che ne parla. Come Velleio Patercolo parla di decadenza della letteratura essendo esperto di oratoria, si riferisce all'oratoria. Introduce un filosofo di cui non specifica il nome: probabilmente non si riferisce ad uno in particolare, come fa per il destinatario dell’opera. Fa riferimento al nano: è qualcosa di mirabilis, bαυμαστος, cioè che esce dalla norma, quindi è interessante. L'attenzione ai nani continua fino al '600 quando alle corti si tenevano dei nani: tenevano le coppie, come per allevarli, anche se poi non funzionava perchè non è genetico. Nel '600 era indice di ricchezza; nell'antichità i nani erano chiamati pigmei e si diceva che venissero costruiti; probabilmente erano commerciati, non erano schiavi, ma chi procurava i nani era un mercante e per aumentare il prezzo parlava di un prodotto creato artificiosamente mettendolo in una gabbia. L’Anonimo dice che se è vero che queste gabbie, come impedivano la crescita, impedivano anche lo sviluppo della parola (il nano per loro era anche muto: probabilmente non sapeva il greco e quindi non parlava, il greco non si preoccupa di instaurare una conversazione con esseri usati per esibirli) così ogni schiavitù legittima (riferimento all'impero) è un impedimento all'oratoria → non c’è oratoria perché non c’è libertà. Lui invece obietta la causa morale: la pace del mondo (sa di Tacito, non perchè l'abbia letto, ma probabilmente è un'idea che si è fatta strada nel mondo antico). Attribuisce ad una corruzione morale lo spegnersi del sublime, che è grandezza d'animo: se si svilisce la grandezza d'animo, non c'è più sublime. E' un'affermazione logica.
“La Settanta” è la prima traduzione della Bibbia fatta, secondo la leggenda, da 72 saggi: ogni tribù mandava 5 dotti, che in 70 giorni avrebbero tradotto l’antico testamento in Greco. È l’unica traduzione riconosciuta dai cristiani. Questa traduzione presuppone un problema: perché è nata? La critica tradizionale sostenne che è nata non in ambiente greco, ma ebraico, perché gli ebrei non erano più in grado di leggere l’ebraico, a forza di vivere a contatto con i greci avevano oramai imparato il greco → era necessario un testo nella koinè. È una teoria che ancora molti accettano; tuttavia ce n’è una più recente, che sostiene che pensare alla 70 come un prodotto di ebrei per ebrei non tiene conto di una tradizione che ha il suo punto di riferimento in una lettera di Aristea, un ebreo, al fratello Fil? ; c’è un problema sulla datazione di questa lettera, secondo il Rossi questa lettera si rifà a Tolomeo Filadelfo, ma le opinioni sono discordi; comunque la lettera è un falso. Aristea finge di scrivere al fratello per raccontare di questa traduzione, dice che Falereo ha proposto a Tolomeo di mettere nella biblioteca anche la traduzione delle Leggi (Bibbia), Tolomeo accetta perché dice che questo testo è la legge più priva di errori perché divina.
Aristeo in realtà non è mai esistito, è una lettera nata in ambiente ebraico che dipinge una perfetta stima tra ebrei e greci, ma anche se è un falso, è comunque del periodo, e indica il desiderio dei dotti di questa cultura di conoscere tutte le altre culture. La lettera testimonierebbe un interesse vivo dei greci di conoscere la cultura giudaica, poi il fatto che parli di una legge, e che ci sia una traduzione con questo nome, non è un dettaglio trascurabile, collega Tolomeo alla 70. la nuova teoria dunque afferma che, se anche l’ambiente ebraico sfrutta questa traduzione, c’è la volontà dei greci di conoscere la loro cultura. La traduzione non è solo per gli ebrei.
Questa traduzione è un grosso problema per la critica, ci sono dei semitismi, ovvio perché è scritta nella koinè parlata dagli ebrei; si parla di Bibbia non tanto coerente con le interpolazioni(?).
È importante la scoperta dei rotoli del mar Morto (i manoscritti di Qumran), che è stata fatta circa 50 anni fa, e non sono ancora stati pubblicati → indica che c’è sotto qualcosa. Questi rotoli sarebbero la versione originale da cui deriverebbe la traduzione dei 70. però finchè non la pubblicano non possiamo sapere quali parti sono state saltate e quali aggiunte. Se non li pubblicano è perché o attestano eresie, o danno problemi di traduzione. Noi non abbiamo la 70, che non è riconosciuta dagli ebrei. Ci sono altre due traduzioni, che però non abbiamo…..
La 70 è stata prima accolta bene, poi comincia a non piacere, è la traduzione più amata dai cristiani. Porta a interpretazioni diverse, soprattutto dovute alla mancanza di termini del greco. Uno dei più importanti, che ha anche risvolti teologici, è la profezia di Isaia, citata da Marco: “la giovane donna concepirà e partorirà un figlio”. A parte il fatto che la concezione del Messia che hanno gli ebrei è diversa da quella dei cristiani: per gli ebrei infatti il messia non è un uomo particolare, ma un uomo che ad un certo punto le circostanze, in un momento diverso (o felice, sono 2 interpretazioni diverse), fanno sì che sia riconosciuto. Di potenziali “mesii” (possono anche essere più di uno) ce ne sono già stati, ma non si sono ancora verificate le circostanze perché questi vengano riconosciuti tali. Questa profezia è l’annuncio di uno di questi. Il cristianesimo parla di vergine. L’ebraico aveva 3 termini con cui indicare la donna:
• Giovane donna
• Donna
• Vergine
Isaia non usa il termine che significa vergine, ma soltanto giovane donna!! Il greco però ha solo a disposizione i termini γυνη e παρθενος, e la differenza sta nel matrimonio: la παρθενος non essendo sposata è automaticamente vergine. Ma Isaia non ha mai detto che è vergine!
È la stessa cosa per la questione del cammello che dovrebbe passare attraverso la cruna di un ago: il termine cammello in realtà aveva anche il significato di corda, che ha molto più senso. Fa ridere anche la tradizione di λογος come verbo, questo è perché è passato in latino come verbum, è già quello faceva rabbrividire.
Gli ebrei
A Roma c’era una colonia di ebrei che vivevano per i fatti loro, che non toccavano i Romani ma erano disprezzati. Erano disprezzati per la circoncisione già dai tempi di Orazio, però non interferivano con la vita romana, non la accettavano ma non la rifiutavano, non miravano a trovare proseliti; è un atteggiamento diverso da quello dei cristiani, e deriva dal fatto che si consideravano il popolo eletto, quindi tendevano a non accettare chi non era nato ebreo. Abbiamo diverse definizioni degli ebrei da parte dei Romani: secondo Cicerone erano una BARBARA SUPERSTITIO; Tacito la definisce addirittura EXITIABILIS: è più violento, Cicerone si limita a dire “propria di barbari”, nella pro flacco c’è quasi paura, avevano persuasione nelle loro parole. Giovenale ce l’aveva con tutti, anche con loro, dice che a chi non era circonciso (è la caratteristica più illuminante per distinguere gli ebrei) non insegnavano la strada, e non seguivano il codice romano ma quello di Mosè: non è vero! Gli ebrei non si sono mai rifiutati di seguire le leggi romani, semplicemente rispondevano ad una morale diversa. Si dice che i primi ebrei siano arrivati a Roma nel 63 a.C. con Pompeo; si discute se fossero davvero i primi: probabilmente c’era già qualcuno, ma dal 63 la comunità si accresce. Cesare li esonera dal servizio militare, secondo Tacito Tiberio ne spedisce 4.000 in Sardegna per combattere il banditismo (era un territorio difficile), ma è una cifra troppo alta per essere vera. Tacito dice che non sarebbe stato un grande danno se fossero morti per la malaria (malattia diffusa in Sardegna): lo dice all’indicativo, è un pensiero suo, non di Tiberio. Teodosio impedisce agli ebrei di mischiarsi con i Cristiani, e di ottenere cariche militari e civili. Non sono perseguitati, ma neanche tanto considerati. Non urtano quanto i cristiani (logico perché si ritenevano il popolo eletto).
Alcuni ebrei avevano ottenuto alte posizioni nelle comunità greche. Non erano considerati cittadini della comunità greca, ma avevano una posizione di particolare prestigio rispetto alle comunità non greche → ισης πολιτεια. Era un problema per la comunità cittadina greca → cominciavano a sentirsi troppo equiparati rispetto ai greci non greci di nascita: non era una questione razziale, ma era tipico del greco ritenersi superiore alle altre culture, si sentiva più adatto a gestire il potere. Da qui deriva la gelosia della comunità greca che ha paura di essere sorpassata.
Filone → ebreo che assorbe lo stoicismo, cerca di accordare religione e stoicismo. Caligola aveva fatto imporre una statua che lo raffigurava, volendo divinizzare la propria figura; il greco accettava la statua di Caligola; gli ebrei invece, con la loro concezione del dio unico (anche se in realtà non era un dio unico, ma il dio più forte), non accettano il dio Caligola; il governatore Flacco deve mandare l’ordine di mettere una statua di Caligola anche alla comunità ebraica, ma gli ebrei si rifiutano, e mandano a Caligola un’ambasceria con dei rappresentanti ebraici, tra cui Filone. Filone dice che per primo parlò il greco che accusava gli ebrei, poi l’ebreo (Filone), più esperto, che però non fu lasciato parlare, si offese e si consolò con il fatto che tanto sarebbero stati puniti dal Dio. Caligola infatti fece una brutta fine poco dopo, e anche Flacco. I cristiani lo inseriscono tra quelli che hanno trattato male gli ebrei e sono stati puniti. L’opera contro Flacco era nota in ambiente ebraico contro Flacco accusato di aver favorito i greci.
Apparteneva ad una delle tribù ebraiche più elevate di Gerusalemme. A Roma c’era un guaio quando con Nerone, non si sa bene perché, vennero arrestati degli attori (il libro dice sacerdoti!!) ebrei (secondo il canfora: …….)
Giuseppe Flavio venne delegato ad andare a Roma e chiedere la liberazione di questi attori, e la ottiene grazie a Poppea, che lui chiama θεοσεβης = che venera il vero dio = ebrea → ma lei non poteva assolutamente essere ebrea!! Era stata la moglie di Ottone, che era un nobile romano, ed è impossibile che sia riuscita a risalire tanto la scala sociale romana da diventare la moglie dell’imperatore, se era ebrea! Deve essere un omaggio che Giuseppe Flavio fa a Poppea per aver rispettato il dio, è un atto di omaggio a Javè, ha rispettato una religione non sua.
Mentre Giuseppe era a Roma gli Zelati stava preparando una ribellione contro i Romani, appoggiandosi alle classi più basse; quando torna a Gerusalemme trova la comunità ebraica in lotta. Lui, appartenendo alla tribù più alta, non appoggiava la rivolta, ma fu costretto a prenderne la guida come rappresentante della comunità ebraica: non solo venne coinvolto, ma fu anche costretto a guidare una ribellione che non condivideva. Il senato romano intervenne a sedare la rivolta, mandando Vespasiano: quando nel 69 viene nominato imperatore, lascia il figlio Tito a portare a termine l’impresa. Vespasiano era un generale notevole, l’esercito ebraico sconfitto si chiuse in una fortezza: di questo episodio abbiamo la relazione di Giuseppe in Antichità Giudaiche, che racconta la storia della comunità ebraica dall’antichità fino alla guerra di Gerusalemme. Dice che presi da una forma di follia si accordarono per uccidersi tutti: il primo uccide il secondo, il secondo uccide il terzo e così via, finchè non rimasero gli ultimi due, tra cui Giuseppe, che si arresero. Nella versione russa si dice chiaramente che Giuseppe imbrogliò la conta e si arrese. Portato da Vespasiano si spacciò per un profeta e gli predisse un futuro da imperatore; dato che effettivamente diventò imperatore poco dopo, Vespasiano gli credette, lo adottò (per questo si chiama Flavio) e se lo portò dietro come consigliere. Poi Vespasiano lo risparmiò nell’esercito di Tito che stava assediando Gerusalemme […]
Dice che “la τυχη è passata dalla parte dei Romani” → la τυχη è un concetto greco: Giuseppe crede in una concezione greca e conosce Polibio per dire una cosa così, conosce la cultura greca, infatti anche l’introduzione che fa è alla greca. Fa una storia degli ebrei con criteri greci.
C’è una parte che non ne vuole sapere di resistere e vuole fuggire. È una presa di posizione sociale da parte di Giuseppe, che apparteneva alla classe più elevata dei sacerdoti e non approvava il fanatismo degli zelati, né chi è passato dalla parte dei Romani. Questa posizione lo costringe a difendersi: scrive un’apologia nella quale finisce per confermare la propria fedeltà ai romani. Assume una posizione ambigua, non volutamente, vede la τυχη dalla parte dei Romani, quindi non vede bene la prima rivolta, e nemmeno la resistenza ad oltranza, e meno ancora quella dell’ultima fortezza con suicidio comune per chi era già scampato una volta. Non era opportunista, ma aveva ormai acquisito le categorie di ragionamento e accetta il dato di fatto. Di lui abbiamo anche la “Guerra giudaica” in aramaico, con traduzione in greco, per i greci e per gli ebrei: buona parte degli ebrei non sapevano più l’aramaico.
I CRISTIANI
Il canone cristiano o nuovo testamento è composto da 4 vangeli, 14 lettere di S. Paolo (in realtà una delle 14 è considerata non autentica), 7 lettere cattoliche e l’Apocalisse. Nel 363 fu deciso cosa doveva far parte del canone e cosa no, viene accettato tutto ciò che viene giudicato veritiero, ciò che non viene accettato è definito APOCRIFO: “da nascondere”. Della parte apocrifa abbiamo solo dei frammenti: alcuni vangeli, atti degli apostoli, lettere, molti apocalissi (genere molto usato dall’ebraismo).
Il concilio di “laudiceas” quindi decide quali opere sono accettabili e lascia fuori anche “ il vangelo di Gesù bambino” e altri vangeli di cui abbiamo solo frammenti ma che riguardano il resto della vita di Gesù. C’è chi sostiene infatti che i vangeli come genere letterario nascano agli exitus perchè si sviluppano intorno alla morte di Gesù tralasciandone invece la vita pubblica.
Il “Vangelo di Gesù bambino” è particolare ( è del settore della gnosis), dipinge un Gesù giovane piuttosto vendicativo. [se uno non lo riconosce lo acceca e lo ammazza]
Il canone è composto da quattro vangeli che si suddividono in 2 gruppi:
- 3 sinottici (da 3333333333”do un’occhiata insieme”) seguono la stessa tradizione.
- 1 vangelo di Giovanni.
Il vangelo di Luca è strano dal punto di vista letterario: l’ordine canonico ne decide la divisione in 2 parti, la seconda parte è negli atti degli Apostoli in cui esordisce dicendo:”nel precedente libro…”
VANGELI SINOTTICI (stessa tradizione)
Qual è il più antico?? -il più recente è sicuramente Luca-
C’era indecisione fra Marco e Matteo, oggi si dice che il più antico sia Marco. La Critica cerca la fonte comune, ci sono diverse idee:
- una versione in aramaico di Matteo;
- un vangelo trasmesso oralmente;
- l’ur vangelo (la prima edizione);
Oggi si parla di una tradizione da cui dipendono senza chiarire se sia scritta o orale a cui bisogna aggiungere i OOOOO: raccolte di sentenze di Cristo che sarebbero la fonte dei 3 vangeli.
Rispetto a Giovanni ( di tradizione diversa), cambiano alcune cose, ad esempio i sensi cronologici: i sinottici affermano che Gesù sia stato una sola volta a Gerusalemme e di un anno solo di vita pubblica, Giovanni parla di tre discese a Gerusalemme e più anni di vita pubblica (almeno 3).
MARCO
Oggi quindi si dice che il primo a scrivere sia Marco, chiamato “interprete di Pietro”:
- si è ipotizzato volesse dire seguace, fonte che si rifà a Pietro quindi affidabile in quanto Pietro è un testimone diretto;
- oggi si considera il termine in senso moderno: siccome Pietro non parlava il greco ma solo l’aramaico, Marco era il suo traduttore.
Dato che la predicazione di Pietro è rivolta soprattutto ai romani, Marco pone l’attenzione su un elemento che colpisce in modo particolare i romani per il gusto dei mirabilia: i miracoli. Il vangelo di Marco inizia con Giovanni battista, poi iniziano le predicazioni e subito dopo inserisce i miracoli.
La parola vangelo deriva dal vangelo di Marco: all’inizio la terza parola è aaaaaaaaaa.
MATTEO –non si sa chi sia-
Matteo definisce Gesù figlio di Davide, figlio di Abramo (Marco l’aveva definito figlio di Dio). Con questa definizione Marco imposta l’appartenenza di Cristo all’ambiente ebraico, utilizza 1,5 pagine per elencare le generazioni dei patriarchi, le conosce tutte ma non è un caso il numero: elenca 50 generazioni da Abramo a Cristo, lo stesso numero di generazioni che a Roma si contava fra Enea e Romolo, è un numero ormai codificato.
“Giacobbe generò Giuseppe da cui nacque Gesù”.
LUCA
Luca da un’impostazione più letteraria (è un medico), è seguace di Paolo che non è uno degli apostoli. Nè Luca né Paolo conobbero Cristo. Dice che scriverà LLLLLLL “con somma cura”, si rifà a Tucidide. Dedica l’opera a un certo Teofilo, destinatario dell’opera, allievo di Luca infatti all’inizio degli Atti degli Apostoli riprende la dedica (“Il libro precedente l’ho dedicato ad esporre tutto ciò che Gesù ha operato, o Teofilo”).
GIOVANNI (è il vangelo più bello ma anche il più difficile)
Abbiamo la prova di un testo scritto risalente al 130 d.C., sicuramente Giovanni scrive dopo il 70 perché fa riferimento alla distruzione di Gerusalemme, ma fra il 70 e il 130 ci sono 60 anni, bisogna capire presso quale delle due date dobbiamo collocarlo, su quest’argomento i sono 2 scuole di pensiero: protestante e cattolica.
L’ultima opera del canone è detta di Giovanni, ma come la quadriamo? È la stessa persona? Oggi si pensa che siano 2 Giovanni diversi: l’evangelista è chiamato Giovanni il giovane, l’autore dell’Apocalisse Giovanni il vecchio, l’impostazione culturale infatti è diversa:
- l’Apocalisse è un genere ebraico adattato al cristianesimo, scritto in greco ma che non risente del modo di procedere o di ragionare del greco
- il vangelo è più difficile e ha una forte base filosofica.
Cristiani vs Protestanti
Il cattolicesimo identifica Giovanni il giovane con l’apostolo di Cristo e il vecchio un ebreo convertito.
I protestanti identificano Giovanni il giovane con un cristiano di origine ebrea e il vecchio con l’apostolo di Cristo.
Il vangelo di Giovanni è un gioiellino filosofico, ha una tradizione diversa dai sinottici, ma se Marco conosce Pietro apostolo e Giovanni era apostolo di Gesù, perché Marco e Giovanni hanno cronologie così diverse?
Introduzione
Matteo: le generazioni
Marco: MMMMMMMMMM
Luca: introduzione letteraria
Giovanni filosofico, la traduzione in latino è brutta (quella in italiano fa schifo!)
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””””” deve essere lasciato così, il latino non ha un termine che renda bene il significato greco, può usare solo verbum o mens, in questo era più adatto mens ma Girolamo, il traduttore, usa verbum, di conseguenza la traduzione in italiano risulta verbo (quindi: “in principio era il verbo…”). In realtà dovrebbe essere:
“In principio era il ““““““““il iiiii era presso Dio e Dio era il DDDDD”: non sono due entità diverse. È un inizio complesso risente della filosofia greca.
“Questo era l’inizio presso Dio e tutto avvenne grazie a lui e senza di lui non accadde nulla”:è una visione stoico panteistica, Dio è dappertutto, è emanazione, estendersi del senza di lui non esiste nulla.
“in lui era la vita e la vita è luce degli uomini, la luce splende e la tenebra non la soffocò”: Girolamo traduce GGGGGGGGGGcomprhenderunt, in italiano viene tradotto comprendere invece di soffocare ma che senso ha “le tenebre non compresero la luce? Giovanni intende invece dire che le tenebre non avranno la meglio. (vittoria del bene sul male).
Un’impostazione di questo tipo risente di stoicismo e panteismo, è il tentativo di diffondere il vangelo non solo in ambiente ebraico ma anche ad un pubblico diverso, anche ebraico ma di forte cultura greca.
Il vangelo di Giovanni si rifà alla predicazione (IIIII anche in senso di “parola”), non fa però riferimento ai ma ad una tradizione più spiccatamente filosofica. (es. “solo chi muore in me rinasce in me”). Ci sono anche due vangeli gnostici (difficili e pesanti) basati sulla predicazione: sono come un lungo discorso di Cristo e sono comprensibili solo avendo presente il vangelo di Giovanni., non che sia gnostico ma probabilmente quelli fanno riferimento non alla nnnnnnn ma al modo di ragionare tipico del greco (lo gnosticismo tenta di dare interpretazioni razionali al cattolicesimo).
Il vangelo di Giovanni è collocato fra il 70, data che cita con la distruzione di Gerusalemme, e il 130 a cui corrisponde la datazione dei papiri che abbiamo trovato.
Qual è quella giusta??
I cristiani non considerano la cultura filosofica greca e considerano l’opera vicino al 70 come opera della vecchiaia dell’apostolo Giovanni.
I protestanti ammettono come data il 130 non considerando l’autore l’apostolo Giovanni.
Il primo vangelo che circola in forma scritta è quello di Giovanni, è logico perché ormai il greco a cui è destinata l’opera ha una cultura scritta; gli altri sono stati prima diffusi oralmente. La prima diffusione del cristianesimo è orale: predicazione; devono decidere se indirizzare la predicazione solo in ambito ebreo o no.
Cronologia
Dal vangelo di Giovanni abbiamo anche una notizia su cui generalmente si glissa: durante una discussione di Gesù con i dotti del tempio è disapprovato sia dai sacerdoti, sia dalla gente, fra questi uno dice: “come può pretendere di discutere quest’uomo che non ha ancora 50 anni?” in questo modo sposta la datazione della morte!!
Dionigi il giovane imposta la nostra datazione ma sbaglia di 3/6 anni; di certo Gesù non nasce il 25 Dicembre, questa era la data dei Saturnalia, (si son tenuti la data della festa che c’era), poi un censimento in pieno inverno e alla fine dell’anno non era pensabile, probabilmente nasce fra Marzo e Aprile.
Se il tipo dice che Gesù non aveva ancora 50 anni vuol dire che ne aveva già 40 e qualcosa, altrimenti avrebbe detto “non ha ancora 40 anni”.
33 anni è un numero discutibile anche perché è la ripetizione del numero magico 3, in più un mondo che stima tanto la vecchiaia difficilmente avrebbe dato retta ad una persona così giovane, se già si scandalizza perché non aveva 50 anni.
Problema delle 2 chiuse
Il vangelo di Giovanni ha due chiuse: il pezzo prima della prima chiusa parla della venuta di Gesù, dell’apparizione agli apostoli e a Maria Maddalena (a conferma del fatto che Gesù non fosse misogeno); dopo aver parlato a Tommaso c’è il primo epilogo:
”Gesù in presenza dei discepoli fece ancora molti altri segni che non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti affinchè crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dioe , credendo, abbiate la vita nel suo nome.”
Dopo aver detto questo aggiunge DDDDDDDDDDD in seguito… quindi ci sono altre manifestazioni e alla fine c’è un altro epilogo:
“questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose e che le ha scritte, e sappiamo che la sua testimonianza è veridica. Ci sono molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero a una a una ,penso che non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.
Il 2° epilogo ricalca il primo, è appiccicato, c’è un riferimento all’autore che non c’è nel 1°.
IIIIIII: che testimonia e ha scritto, per i cristiani è Giovanni.
Evidentemente sono due epiloghi di due vangeli diversi: probabilmente nel primo non veniva citato il pezzo della Galilea gli viene attaccato un pezzo di un altro vangelo il cui autore era un altro Giovanni.
Oppure il vangelo è uno solo e gli viene aggiunta in mezzo la prima chiusa.
I protestanti accettano il 2° epilogo ma per loro IIIIIIIInon significa apostolo ma seguace altrimenti infatti la frase non starebbe in piedi , (c’è il problema dell’aggancio), ci siamo comunque persi qualcosa in mezzo. Per i protestanti chi ha scritto è solo un seguace di Cristo.
Una donna fra gli apostoli
Una tedesca cattolica ha sostenuto (portando delle prove) che gli apostoli non fossero 12 ma 13 e che la tredicesima fosse una donna, un’apostola a cui Cristo sarebbe stato molto legato, defilata in quanto donna.- misogenia-
La Maddalena non è la prostituta, in nessun vangelo viene dato un nome alla prostituta, la Maddalena è una pia donna, la “Maddalena pentita” è una cretinata! (si è pentita di non aver fatto la prostituta?!)
Fra i vangeli apocrifi si parla della Maddalena a cui fa riferimento il Codice da Vinci, ne abbiamo pochi frammenti ma anche qui Maria Madda non è la prostituta, è della stirpe di David.
Interpretazioni (anche solo una virgola cambia il significato)
C’è una frase che i sinottici fanno dire a Gesù sulla croce al ladrone (la traduzione giusta è “criminale”!) e su questa vi sono due interpretazioni:
1) cattolici:”ti dico addio, tu stasera sarai con me in paradiso.”: il giudizio avviene subito, l’anima è subito destinata o al paradiso o all’inferno.
2) Protestanti: “ti dico addio per ora, tu sarai con me in paradiso”: per ora addio ma ci ritroveremo in paradiso.
È in ballo la questione del giudizio universale: se l’anima viene giudicata subito che senso ha il giudizio universale, se invece le anime verranno giudicate solo al giudizio universale fra la morte e il giudizio cosa c’è? Dove stanno??
Origene sostiene che sarebbe ingiusta una dannazione eterna per pochi anni di vita, quindi con il giudizio universale dopo un periodo di punizione tutte le anime vengono assunte in cielo perché un Dio del bene non può che avere un piano di bene. Questa interpretazione è stata considerata eretica ma solleva un problema pesante.
dddddddddddddddd non è un ossimoro, indica la contrapposizione, nel senso di entità spirituale; il greco per indicare il corpo usa pppp.
LETTERE
Servono per dare linee di comportamento alle comunità cristiane, ne scrive soprattutto Paolo.
Cristo dopo la morte promette una seconda venuta, le lettere servono proprio per dare un’indicazione su come prepararsi a questa venuta.
Lettera di Paolo(2 pensieri), parla del comportamento della gente in generale e dice: “melius est nubrere quam iuri” (nubere sarebbe riferito alle donne):è meglio sposarsi che bruciare di passione,è meglio sfogare legalmente l’istinto che pensare solo a quello, “matrimonium est re medium concupiscentium”. Fino al concilio di Nicea anche i preti potevano sposarsi, fu una delle cause del distacco della confessione ortodossa. Come si deve interpretare la frase di Paolo?
Lutero rivendica non tanto il diritto di sposarsi ma di poter interpretare il testo e non dover accettare un’interpretazione imposta.
ATTI degli APOSTOLI
È il secondo libro dell’opera di Luca che probabilmente ha seguito Paolo perché sa proprio di testimonianza diretta.
Già il titolo è sbagliato, dovrebbe essere “Atti dell’apostolo”: Paolo, uomo di grande cultura e abilità oratoria, gira un po’ dappertutto.
Nel corso della predicazione passa da Atene e fa un discorso, l’“Areopagitico”, in cui dice di aver visto su un’incisione che gli ateniesi erano devoti ad un dio ignoto e straniero e di essere lì per annunciarlo. Girolamo dice che non c’era scritto “deo ignoto et pelegrino”, ma “deis ignois et peregrinis”: la stele era in onore di tutti gli dei greci, anche quelli che non conoscevano.
Paolo ha una cultura alle spalle, una cultura di tipo stoico e una formazione alla greca, Girolamo non vuole farlo passare per truffatore ma ne vuole esaltare l’abilità retorica.
Gli Atti raccontano la conversione sulla via di Damasco di Paolo.
Paolo viene chiamato apostolo ma non lo era affatto, questo è uno dei motivi per cui PPPPPPPPpuò non voler dire apostolo ma semplicemente seguace.
In un primo momento la predicazione avviene solo fra gli ebrei per due motivi:
- Per scelta: essendo il cristianesimo nato in ambiente ebraico fu interpretato come un messaggio che deve essere rivolto solo agli ebrei;
- Per un motivo pratico:le comunità ebraiche si erano stanziate soprattutto sul mare(gli ebrei erano soprattutto commercianti), quindi la predicazione avviene nelle città più facilmente raggiungibili.
Successivamente dall’ambiente ebraico inizia a diffondersi, c’è un cambio di prospettiva, si diffonde anche in ambiente pagano.
[In ambito romano i primi scritti cristiani si trovano in Africa, in ambito greco si diffondono prima in oriente e poi arrivano anche a Roma.]
La diffusione si limita alle comunità in cui sono conosciuti, dove possono essere meglio accettati. È in quest’occasione che nasce il termine “pagano” in senso religioso: voleva dire abitante di un villaggio che era luogo in cui la predicazione arrivava con maggiore ritardo. Quando la predicazione esce dall’ambito greco il numero di predicatori non permette lo spreco di persone per la conversione di pochi abitanti di un villaggio, quindi gli abitanti del villaggio sono gli ultimi a sentire le predicazioni.
APOCALISSE
Il termine non significa catastrofe ma rivelazione, inizia con la rivelazione di Cristo; è un testo profetico un adattamento al nuovo messaggio cristiano, non è un testo allegorico, è solo difficile caratterizzato dal linguaggio oscuro tipico della profezia. Quest’opera è messa alla fine perché la si considera come profezia per il tempo futuro (fine del mondo), con la distruzione della bestia che è stata identificata con Roma.
Ha una struttura particolare, non è un’opera lunga, la divisione risale al Medioevo (22 Capitoli: 1-3 introduzione, 4-22,5 parte profetica, 22,6-22,18 epilogo). Questa divisione è stata contestata, è una divisione alla greca, è quella che usiamo anche noi, a noi sembra normale perché siamo abituati ma la struttura ebraica è diversa.
50 anni fa Corsini studiando Origene affronta il problema dell’Apocalisse e scopre che l’interpretazione usata fino a 50 anni fa, cioè la visione dell’Apocalisse come futura fine del mondo, in ambito cristiano parte dal IV secolo ma nei primi tre secoli era interpretata come un fatto già avvenuto. La bestia non è Roma ma Gerusalemme: la distruzione di Gerusalemme è una fine del mondo perché con Cristo è arrivata l’epoca nuova, è la visione di un ebreo convertito che vede la fine di un’epoca.
In questa prospettiva cosa vuol dire profezia? Corsini la definisce “illuminazione per capire misteri e interpretare eventi”. Questa definizione contestata da molti teologi, cambia il significato che diamo in genere a profezia; nella visione di Corsini la profezia è un’illuminazione divina che permette di spiegare ciò che è avvenuto, non è detto di quello che sarà. Anche se la spieghiamo come cosa avvenuta è possibile inserire l’idea tradizionale di profezia perché quando l’Apocalisse fu scritta Roma non era ancora caduta e se la Bestia è Gerusalemme l’opera deve essere stata scritta prima del 70.
La questione è un’altra. Noi esaminiamo l’Apocalisse alla greca, siamo abituati ad un procedimento lineare attaccandoci ad un tronco del discorso.
Corsini capisce che la letteratura ebraica non procede in modo lineare ma secondo un ragionamento a spirale che si riavvolge su se stessa. Nell’Apocalisse ci sono quattro settenari, ognuno preceduto da una prefazione che ne spiega il senso, disponendoli uno dopo l’altro non si capisce niente, ma è per il procedimento ebraico. Il primo settenario dice l’argomento, il secondo va visto sopra: riprende l’argomento ampliandolo: è un procedimento a cerchi concentrici. Noi non riuscivamo a capire perché sembrasse dire sempre la stessa cosa ma è così, non c’è bisogno di interpretazioni strambe.
I Quattro Cavalieri hanno cavalli e tinte diverse: il bianco = innocenza, rosso = guerra, nero = fame, verde = morte e inferno (morte dell’anima). Si può capire questo simbolismo uscendo dalla nostra mentalità e utilizzando il simbolismo ebraico: il nero non è la morte ma la fame poiché la gente nomade che vive di allevamento ha più presente la fame che la morte.
L’Apocalisse è il testo sacro dei testimoni di Geova: è il futuro, l’attesa di una salvezza e delle resurrezione annunciata dal Vangelo.
L’allegoria è così ampia che gli si può far dire tutto.
Come si diffonde il cristianesimo si diffondono anche le eresie. Il Vangelo di Giovanni ha punti talmente complessi che l’già l’interpretazione porta diverse prese di posizione (discorso della montagna).
Le eresie greche e latine hanno un differenza strutturale:
- L’eresia greca è teologica, di contenuto (trinità, natura umana/divina di Cristo). Il greco con il suo razionalismo esasperato cerca di affrontare questi problemi razionalmente e di dare soluzioni ai misteri.
- L’eresia romana è comportamentale per una mentalità più concreta (sono lecite le seconde nozze? Di fronte alle persecuzioni uno che cede può rientrare nella comunità cristiana?)
Eresie greche
Sabelio e Noeto: le persone della trinità non sono distinte ma sono una persona sola
Prassea: c’è un’unica persona della trinità che si è incarnata, non ci sono un padre e un figlio ma c’è solo un padre.
Ario (eresia più importante): Gesù è inferiore a Dio, è stato creato come tutte le creature, è una divinità inferiore contaminata dall’aspetto umano.
Nestorio: Dio non è mai stato un vero uomo.
Eutiche: Cristo ha una natura divina o umana.
La gnosi si pone il problema di sempre: se Dio è bene e perfezione perché esiste il male?
Gnosticismo: due divinità, Abisso è Silenzio, generano una coppia di eoni (teogonia), si arriva a trenta eoni che formano un pleone (?) Sofia crea il mondo: il mondo non è opera di Dio. Anche Cristo è un eone che deve redimere gli uomini che si dividono in spirituali per cui la salvezza è certa, carnali che non l’avranno, psichici per cui la salvezza è in forse.
La gnosis è un pasticcio assurdo. Queste eresie e la gnosi spiegano l’atteggiamento del greco che non ripudia la religione pagana diverso da quello dei romani.
Roma rifiuta la cultura pagana perché è troppo strettamente legata al potere politico, il mondo greco invece è lontano dal potere centrale e quindi non rifiuta il pagano, anzi è talmente orgoglioso della sua cultura che non se la sente di ripudiarla quindi la ingloba.
Nasce infanti la scuola catechetica di Alessandria fondata da nel 170; mentre in ambito romano nascono i primi scrittori, in Grecia il Cristianesimo ha conquistato persone colte.
Scuola Catechetica di Alessandria(ci son dei pezzi non troppo chiari)
E’ formata da persone che cercano di conciliare la cultura greca con quella cristiana arrivando però a forzature.
Clemente Alessandrino dice che siccome la cultura pagana aveva copiato dall’antico testamento era accettabile il tentativo di concilio in quanto arrivavano dalle stesse radici, è un tentativo di salvataggio della cultura classica in Clemente Alessandrino e Basilio il grande.
La Bianco sostiene che il problema è salvare Platone che rinasceva con la nuova accademia e il neoplatonismo. Clemente parlando di Platone lo definisce Mosè greco e “amico della verità divinamente ispirato”, questo è distorcere Platone. Per il cristiano la verità è quella religiosa, in Platone c’è una verità ma così è distorcere Platone.
Il salvataggio comporta una stortura ma non tanto il fatto in sé ma l’atteggiamento verso la cultura pagana. Per salvarla la Bianco ha trovato 190 citazioni di Omero: torna la base della cultura greca.
Basilio il Grande scrive un trattato rivolto ai figli della sorella che si accingevano a studiare e li invita a penetrare profondamente la cultura pagana perché la cultura pagana è pppppppppdella cristiana.
Basilio definisce lo studio un conforto: si colgono le stesse radici fra le due; arriva a dire che tutto Omero è l’elogio della virtù come verità cristiana.
Clemente definisce Cristo “il nuovo Orfeo”: Orfeo era un mago che incantava le montagne, Gesù ha la stessa forza trascinante che aveva Orfeo.
Basilio sostiene che nell’albero a cui Odisseo si fa legare per resistere alla tentazione si può vedere la croce: attaccandoci alla croce resistiamo alle tentazioni.
Odisseo riemerge come un eroe positivo non solo per i cristiani: ricerca la verità, apre le strade a interpretazioni allegoriche che ne permettono la sopravvivenza nel Medioevo.
La scuola catechetica è tipo un’università, un luogo d’incontro, di meditazione filologica, teologica di confronto delle due culture.
Origene in ambito filologico è autore degli exatla un lavoro colossale, un papiro disposto su sei colonne:
1 Antico Testamento in alfabeto ebraico;
2 Traslitterazione in caratteri greci;
3 4,5,6 traduzione scritta in modo che la riga corrisponda alla riga;
è una ricerca filologica enorme è c’è anche un commento allegorico di Origene, è logico che ci sia un’allegoria proprio per la sua natura.

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