Tito Livio

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Testo

TITO LIVIO

Nacque a Padova, città dei Veneti, appartenente alla Gallia cisalpina ma con civitas sine suffragio. Livio diventò Romano a pieno diritto. Si recò a Roma per studiare. Scrisse varie opere che non abbiamo, come Dialoghi ecc. È famoso come uomo di cultura; Ottaviano gli affidò il nipote Claudio, che divenne poi imperatore.
È importantissima la sua opera storica, “AB URBE CONDITA” la più vasta opera di storia Romana mai scritta. Per essere un vero storico gli manca l’esperienza politica; non essendo di Roma non ha fatto servizio militare, e questo fatto si nota nelle descrizioni delle battaglie, totalmente incomprensibili. Probabilmente il titolo all’opera non l’ha mai dato, ma è chiamata così perché riprende la storia Romana in blocco, dalle origini. Noi non l’abbiamo interamente.

Progetto dell’opera
Ufficialmente sono 142 libri, numero che però non significa nulla: probabilmente aveva in programma di arrivare fino a 150, che invece funziona. Si discute sull’anno in cui l’opera si chiude: con ogni probabilità è il 9, ma a.C. o d.C.??? entrambe sono date importanti: il 9 a.C. è la data della morte do Druso, mentre il 9 d.C. è l’anno della battaglia di Teutoburgo, il disastro in cui Q. Varo perse 3 legioni combattendo contro i Germani. Livio morì nel 17 quindi poté vedere i risultati di tutti e due gli avvenimenti.
• Il 9 d.C. è più accreditato, ha lo svantaggio di essere una sconfitta però è importante perché Livio potrebbe averne visto le conseguenze: Augusto lascia scritto nel testamento di non tentare ulteriori ampliamenti territoriali dell’impero, e questo determina la politica Romana successiva.
• Il 9 a.C. è la data della morte di Druso. Augusto si sposò 3 volte; la sua famiglia si vantava di essere tanto morigerata, ma ogni membro si è sposato e divorziato più volte. Aveva infatti la necessità di avere figli maschi per lasciare successori. Dei suoi 3 matrimoni:
- il primo non gli diede figli;
- il secondo gli diede una figlia, Giulia, che a sua volta ebbe un’altra figlia, Giulia, che gli diede un sacco di problemi: la sposò 7 volte;
- nel terzo sposa Livia, che era già sposata con Claudio al quale aveva dato figli sani; e al momento del divorzio era già incinta. Ottaviano adotta il primo figlio avuto da Claudio, Tiberio; quello di cui era incinta era Druso e Augusto ebbe molta attenzione per lui: sembrava avere le caratteristiche per diventare un buon imperatore. Tiberio invece non sembrava voler diventare imperatore, e Tacito gli fa dire nel suo discorso iniziale: “Non so cosa dire”: era negato per i rapporti umani. Druso invece sembrava migliore; augusto lo fece sposare con Giulia (fu uno dei 7), quindi era ben inserito nella famiglia. Però morì il 9 a.C.: lasciò 2 figli, Germanico e Claudio. Alla sua morte le speranze di augusto crollarono: dovette puntare su Tiberio, lo fece divorziare e sposare anche lui con Giulia, ma questo matrimonio durò poco. Aveva già figli maschi, quindi eredi diretti, ma Augusto gli impose nel testamento di nominare suo successore Germanico. Tiberio, offeso, si chiuse nella villa di Capri. La morte di Druso rappresenta quindi un problema di successione; comunque dove l’opera si è fermata è un momento di difficoltà. È possibile che si sia fermato al 9 a.C. e avesse in programma altri 8 libri per arrivare al 9 d.C.; otto libri però sono pochi perché la storia viene dilatata man mano che ci si avvicina all’epoca contemporanea, sulla quale si ha maggiore documentazione.
Il problema del progetto finale dell’opera è dunque ancora aperto.

Struttura e pubblicazione
142 libri sono una grandissima quantità, e sono difficili da sistemare in una biblioteca, anche perché erano scritti su papiri arrotolati e infilati in cilindri, che sprecavano moltissimo spazio: l’opera di Livio cominciò subito ad essere riassunta in EPITOMI dai quali furono stilate le PERIOCHE, cioè degli indici: noi abbiamo gli indici, ma abbiamo perso gli epitomi. Dei 142 libri abbiamo i libri dall’1 al 10, dal 21 al 45 tranne gran parte del 32 e del 33. Considerando i libri che abbiamo, probabilmente la pubblicazione dell’opera avvenne per decadi. All’inizio del 6° libro però c’è un’introduzione, che fa pensare ad una pubblicazione ogni 5 libri, ma la mancanza di 10 libri netti (11-20) e l’assenza di proemi al 25 e al 35 propende per i 10. È possibile che i primi 10 siano stati pubblicati in 2 rate, mentre gli altri sono stati pubblicati 10 per volte; il 21 infatti inizia con un proemio. Non abbiamo il 15 ma i libri 11-20 sono tutti dedicati alle guerre puniche, quindi è probabile che siano stati pubblicati in una volta sola. Non si spiega perché l’ultimo sia il 142, che non è divisibile per 10!
• Libri 1-10: conquista dell’Italia (500 anni circa)
• Libri 11-20: conseguenze di Taranto: Pirro e prima guerra punica (2 guerre)
• Libri 10-30: seconda guerra punica (una guerra sola).
Del resto abbiamo solo indici e pochi pezzi riportati. Si può notare la dilatazione della storia man mano che ci si avvicina all’epoca contemporanea.

Temi
Di tutta l’opera ci è praticamente rimasta solo la parte bella, che illustra lo splendore della repubblica e la fondazione del mos maiorum. Le virtutes vengono progressivamente meno a partire dalla conquista del Mediterraneo. Livio è stato accusato di essere un elogiatore acritico di Roma che non capisce niente di Roma e cerca di fare una specie di poema epico: questa è un’accusa infondata perché non si può giudicare l’intera opera se non la si possiede. Livio mirava a dimostrare la differenza fra quel periodo e quello attuale secondo principi morali., come Sallustio.
Proemio
Probabilmente fu scritto alla fine dei primi 5 o 10 libri; è basilare per comprendere tutta l’opera. L’inizio è in esametro: dà un tono epico alla prosa, è cosciente di costruire un grande monumento a Roma. All’inizio fa riferimento a chi prende la storia antica per abbellirla e cerca di superare la bruttezza del latino arcaico. Poi fa riferimento alla propria opera: non è modesto, ma sa che è monumentale e riprende Roma dall’inizio. Dice che se il suo nome verrà offuscato si consolerà sapendo che sono più bravi di lui: è un assurdo. Esprime la grandezza dell’impero dicendo che ricorderà le imprese del popolo più grande della terra. Con “res” indica sia la storia del popolo Romano sia la relazione di questa storia. Livio dice che è in difficoltà (laboro) per la sua stessa grandezza; Roma è in difficoltà perché è troppo grande, e come l’impero aumenta, è sempre più difficile reggerlo. Poi dà anche un’altra spiegazione: Livio come storico distingue il PRINCEPS dal PREVALENTIS, le sue forze si stanno logorando per la grandezza e la vecchiaia. Fa inoltre un’osservazione più rigorosa: non scrive l’opera per fare un monumento a Roma, ma per una motivazione personale: la situazione da un lungo periodo è peggiorata, e ripercorrere il mos maiorum lo aiuta a distogliere la mente da tutte queste sciagure. C’è una particolare insistenza sulla durata eccessiva di questi anni. È inoltre timoroso per la propria opera: è pericoloso toccare il periodo contemporaneo! rischia di non essere obiettivo per timore; se invece parla delle cose antiche è più tranquillo. I miti sono adatti all’epica; la sua opera è un MONUMENTUM (da moneo), è qualcosa di eterno, immutabile. Il problema è che la tradizione riporta quasi solo leggende per quanto riguarda il periodo più antico, e Livio non vuole né confermarle né respingerle: le riporta soltanto. Hanno grande valore e importanza per la cultura. Per esempio, riportando la relazione fra Rea Silvia e Marte, dice che Rea Silvia ha dichiarato di essere stata con Marte o perché ne era convinta o per paura: non afferma né nega nessuna delle due versioni, le riporta semplicemente. Anche per quanto riguarda la lupa riporta sia la versione dell’animale sia quella della prostituta, senza insistere particolarmente su nessuna delle due (probabilmente non crede a nessuna delle due). Riguardo l’assunzione in cielo di Romolo, dice che ci furono alcuni che dessero che Romolo era morto e poi fecero sparire il corpo: non dà forza a questa versione per non mettere in discussione la divinità del Dio Quirino! Livio dice poi una frase pesante: se anche popoli di poca importanza vogliono avere un Dio come origine, possiamo averlo anche noi e gli altri lo devono accettare. L’importante è vedere lo stile di vita degli antichi che ci hanno portato fino a qui, le differenze rispetto ai costumi di ora. Fa un’affermazione più pessimistica: la disciplina degli antichi si è allentata sempre di più fino a cadere del tutto (climax); ora (haec tempora) la virtus non c’è più. Ora non possiamo più né sopportare i nostri vizi né accettare i rimedi; non abbiamo la forza di correggerli. Questo pezzo non è piaciuto ad Augusto. Augusto puntava sulla restaurazione della virtus, del mos maiorum. Uno studio recente ha cercato gli avvenimenti a cui si sta facendo riferimento. Qui però c’è un’eco di delusione nei confronti di Augusto, o perché sperava che facesse qualcosa di più, o perché capisce che il mos maiorum ormai è finito per sempre (Livio ci era legato anche perché proveniva da una zona periferica, più conservatrice). Verso la fine comincia l’elogio dell’opera. Ribadisce l’importanza di avere tutti i fatti davanti. La storia ha due scopi: quello moralistico (storia magistra vitae) e quello scientifico (storia possesso per sempre, qualcosa da consultare). Poi comincia l’elogio vero e proprio: se anche Roma è in difficoltà, nessuno stato ha raggiunto una grandezza tale, nessuno fu sacro (purezza del mos maiorum). E nessuno si è mantenuto così puro così a lungo. L’ingresso a Roma dell’avarizia e della lussuria coincide con la conquista del Mediterraneo: troppe ricchezze sono arrivate a Roma; la sua è una visione moralistica: è la corruzione che ha rovinato tutto. Ma questi lamenti per ora sono lontani. La sua religio lo aiuta a chiedere l’aiuto degli Dei: chiede un esito felice. Operis è la stessa parola che ha usato all’inizio: c’è la coscienza di aver cominciato un’opera monumentale, e può averlo fatto solo avendo capito che un’epoca, quella della repubblica era finita, pertanto la può studiare.

Livio fonda il mos maiorum con exempla.
Camillo
Arrivano i Galli a Roma, portando costumi e modi di combattere diversi, i Romani si spaventano e Roma, senza mura, viene presa. Per mandarli via, i Romani devono pagare un riscatto; i Galli cercavano solo ricchezze, non conquiste. È stata una delle più grandi vergogne per i Romani, e la riscattarono con il mito di Camillo. Camillo era già esaltato per l’assedio di Veio, durato 10 anni per copiare l’assedio di Troia, che aprì la strada per la conquista dell’Etruria. Inoltre fu il generale che fu eletto come restauratore di Roma: arriva da solo in mezzo alla città piena di Galli, butta una spada su una bilancia e dice “non con l’oro ma con la spada…” la situazione è assurda perché, se proprio fosse riuscito ad arrivare di nascosto, i Galli l’avrebbero deriso e fatto a pezzi; è solo il modo dei Romani per riscattare la vergogna. Il pezzo di Camillo viene particolarmente esaltato; si è notato che c’è una ciclicità di 365 anni (anno stoico) fra Romolo, Camillo e Augusto, tre patres patriae. Il numero è un po’ troppo giusto (coincide con il numero dei giorni in un anno) però è interessante come spiegazione. Questa ciclicità non comprende tutti i patres patriae (per esempio manca Cicerone); però Camillo è stato molto importante e forse anche per questo anno stoico Livio gli ha dato ancora più importanza. La teoria stoica sostiene che ci sono degli sviluppi prefissati degli eventi: si arriva al “grande anno” in cui tutto si annulla e si ricomincia da capo.

Fonti
Le principali fonti seguite da Livio sono:
• La storia scritta da Polibio
• Altri storici greci (Timeo di Taurimeno)
• Per le origini, Pittore e Alimento e altre opere greche
• Cellio Antipatro, Sisenna, Sallustio.
Polibio sostiene che per essere un buono storico è necessario:
1. Consultare e confrontare documenti
2. Essere stato sul posto a vedere se i documenti hanno senso
3. Avere esperienza politica (Cicerone aveva aggiunto che però bisognava non essere coinvolto in politica al momento).
Livio non ha sicuramente la terza: è di Padova, solo durante la sua vita ottiene la cittadinanza Romana e non era nell’esercito. Non ci risulta che sia stato nei luoghi di cui parla, anche perché sono troppi. Per di più, la condizione più importante è il confronto tra i documenti e Livio non l’ha fatto. Costruisce una storiografia fatta su altre storiografie; ha scelto gli autori più congeniali a lui o per l’obiettività, o per l’impostazione che condivideva, oppure semplicemente i più facili da raggiungere. Quando ci sono tante voci discordanti, se la discrepanza fra la voce principale e queste altre è forte, le riporta, senza dire chi le afferma, e le accenna solo senza discutere né conciliarle. Per quanto riguarda gli eventi più antichi, per i quali non c’erano documenti, usa gli annales dei pontefici, che erano molto semplici. Riferendosi a questi eventi, utilizza la formula “si dice”: per i Romani la mitologia è una parte di Roma, fonti storiche non ce n’erano né c’erano mai state. Sceglie sempre la versione più credibile o quella che gli piace di più e riporta le altre. Dove invece le fonti erano più di una e oltre a fonti libresche ce n’erano altri tipi, come iscrizioni, non se ne preoccupa, ma sceglie sempre la fonte di base: per esempio nella narrazione delle guerre puniche segue in tutto e per tutto la versione di Polibio.

I Romani e gli altri personaggi
Nella parte che abbiamo Roma è vista sub specie aeternitatis: nasce così e così rimane, i personaggi sono tutti incarnazione del mos maiorum. Fonda un mos maiorum per illustrare la virtus che si incarna nei personaggi. I personaggi sono molto stilizzati, simbolo di una virtus. Non è interessato ad una ricostruzione realistica, ma fissa solo le virtutes, richiamate da Augusto nella sua politica imperiale. Come i personaggi non hanno una loro fisionomia, i popoli non hanno differenze nella caratterizzazione (in questo caso aveva le fonti di Catone, "Origines"). Non viene detto chi erano, cosa i Romani hanno preso da loro, punti forti e deboli (anche per mancanza di fonti), ma sono tutti una stilizzazione del nemico. Nell’episodio di Camillo, una frase di esaltazione delle truppe dice: “come potete temere un nemico che non è altro se non PERPETUA MATERIA VIRTUTI VESTRAE”: materia su cui esercitare la vostra virtù. I nemici sono dunque nient’altro che uno strumento che permette alla virtus di realizzarsi: non c’è differenza fra un popolo e l’altro. L’unico personaggio approfondito è il vecchio re sannita che arriva quando i Romani sono stati chiusi alle porte caudine, e parla alla romana (o li uccidiamo, o li lasciamo, umiliarli non ha senso…), in fondo ha la stessa caratterizzazione di un Romano: non c’è caratterizzazione del capo come non c’è del nemico.
Livio si chiede anche se Alessandro Magno è superiore o inferiore ai nostri generali: dimostra che rispetto ad Alessandro i nostri generali non hanno nulla da invidiare in quanto a tecnica, e in più hanno la virtus. Non si sono mai scontrati, ma se si fossero scontrati i Romani avrebbero vinto. In realtà non ha senso confrontare personaggi di tempi e luoghi diversi, è solo il modo di costruirsi il proprio mito su quello di altri.
Un personaggio su cui si sofferma a lungo è Annibale. Rappresentò un grandissimo pericolo per l’Italia. L’esercito Romano era superiore per coesione; Roma lotta per sopravvivere, gioca in casa ma il suo terreno viene distrutto, subisce tante sconfitte. Quello che i Romani avevano sempre fatto, cioè fare propria la tattica del nemico, sarà possibile solo con Scipione. Livio dà credito alla leggenda di Annibale bambino (9 anni: il solito numero magico) che giura odio eterno ai Romani, maledetti da Didone. La guerra punica rappresenta un punto focale della storia di Roma previsto dal passato. Non dà importanza al fatto che è impossibile che due grandi potenze coesistano, e che una potenza navale non può diventare terrestre, quindi Roma sulla terra deve vincere: nell’antichità le motivazioni di una guerra erano più morali, etiche: le guerre puniche si combattono per la vendetta di Didone.
Profilo di Annibale
Annibale comanda e combatte, tira i soldati, ha il coraggio dell’incoscienza ma non è incosciente. Non è né stanco d’animo né debilitato nelle forze. Mangia, ma non per piacere. Dorme, solo dopo aver fatto quello che deve fare, per terra, coperto da un mantello, in mezzo ai soldati di guardia. Il suo vestito non si distingue INTER EQUALES: fra i coetanei o, meglio, fra i pari grado (non è il capo assoluto); invece si notano le sue armi e i cavalli, adatti a combattere. Ma a tutte queste virtutes vengono contrapposti i suoi numerosi vizi: crudeltà, perfidia, no verità, non ha rispetto per gli Dei né lealtà per i giuramenti. A grandi virtù corrispondono grandi vizi; le virtù sono quelle fisiche di un soldato perfetto (forza questa grande perfezione perché i Romani hanno perso tanto contro di lui), mentre i vizi sono in ambito morale e religioso: non crede in nulla, è l’esatto contrario delle virtutes Romane. A Roma una persona sleale si diceva avesse “fides punica”: lui ne ha ancora di più. L’elogio è funzionale a Roma, ma rinforza il concetto che Roma è prediletta dagli Dei: un uomo così non può prendere il posto della grande Roma. Annibale ha dei limiti anche nel senso che ha sbagliato a non entrare a Roma subito dopo Canne.

Rapporto fra Livio e Augusto
Sembra che Livio, nella parte che abbiamo, aderisca con entusiasmo al progetto di restaurazione di Augusto; però alcuni punti nel proemio rivelano delusione. Livio frequentava la casa di Augusto (fu precettore del nipote), deve per forza avere avuto rapporti diretti con l’imperatore. Una leggenda dice che un uomo venne dalla Spagna fino a Roma per vedere Livio: dopo averlo visto tornò a casa senza vedere altro perché gli bastava aver visto Livio. Questa leggenda indica la fama che Livio raggiunse già in vita: quindi i rapporti con Augusto non furono certo solo negativi. Da Augusto Livio veniva chiamato Pompeianus: questo soprannome però indica semplicemente il forte conservatorismo, non l’opposizione ad Augusto; comunque se Cesare aveva adottato una politica di equilibrio, quella di Augusto era già più conservatrice.

Stile
Asinio Pollione riferendosi a Livio parla di PATAVINITAS:
• Livio è di Padova: lo rimprovera di non usare un latino romano puro ma con un influsso di Padova. Però da una ricerca è risultato che solo due forme in tutta l’opera che abbiamo potrebbero essere considerate tali.
• Livio nella prima parte usa molti arcaismi: forse la patavinitas non si riferisce allo stile ma all’animo, al modo conservatore di affrontare la realtà; ma perché allora dice “patavinitas”? non ci risulta che Padova fosse più conservatrice di altre città!
L’ipotesi più probabile è la prima: si tratta di un fattore linguistico. Noi abbiamo solo un terzo dell’intera opera, ed è possibile che nella seconda parte ce ne fossero di più.
Quintiliano in una lettera definisce lo stile di Livio “LACTEA UBERTAS”: letteralmente “ricchezza lattea”, che non vuol dire niente. Indica che lo stile è ricco, abbondante, denso e nutriente come il latte, ma non per questo scorre lento! Quintiliano lo separa dagli altri storici: se la BREVITAS era la caratteristica di Sallustio, Livio è il più ciceroniano degli storici, è quello che risponde di più all’idea di opus oratoriae maximum. Ha una particolare abilità nel descrivere le battaglie: non essendo pratico dell’arte militare, descrive 3 / 4 episodi che diventano esemplari per la battaglia stessa. Forza il pathos per rendere l’atmosfera. Per esempio nella descrizione della battaglia di Canne c’è un pezzo in cui un console è seduto su un sasso coperto di sangue. Uno storico avrebbe descritto l’antitesi tra quello che volevano fare i due consoli (uno voleva temporeggiare, l’altro vincere subito), lui invece descrive l’antitesi fra i caratteri, non l’aspetto politico.
Il Conte ha dimostrato che Livio è l’esempio tipico del latino scritto: è stupido, perché non abbiamo esempi di latino parlato! È ingiusto anche il nostro giudizio sul fatto che a Livio manchi il senso del divenire, e che non veda la storia come conseguenza degli eventi: non avendo tutta la produzione non sappiamo come sviluppi il proemio.
Livio ha una passione per i discorsi diretti; gioca anche sul discorso indiretto per far vedere interamente l’anima del personaggio. Spesso forma l’oggettiva con il verbo composto ma senza il verbo essere: non è un’infinitiva con esse sottinteso, ma un participio predicativo. Se manca il verbo reggente possono essere sottintesi o il verbo essere o il verbo di prima. Usa il participio futuro per la finale (grecismo usato anche da Cicerone). Spesso il participio presente ha valore di participio futuro (tipico degli storici). A volte forma il congiuntivo perfetto dall’infinito futuro: foret al posto di esset; ma non ha sfumature di significato diverse! È frequente la variatio.

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