Seneca

Materie:Riassunto
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Testo

Lucio Anneo Seneca
Nato a Cordova tra il 4 e il 2 a.C. ricevette a Roma una formazione retorica e filosofica di stampo stoico (Attalo), neopitagorico (Sozione) e cinico (Papirio Fabiano). Intraprese la carriera politica, facendo parte dell’elitè culturale e politica della capitale e si trovò in contatto con gli ultimi tre imperatori della dinastia giulio claudia: mal visto da Caligola (37-41) che, invidioso della sua fama oratorio, lo mandò quasi a morte, venne fatto esiliare in Corsica da Claudio (41-54) e verrà mandato a morte da Nerone (54-68). Nel 26 si trasferì in Egitto per curare gli attacchi d’asma e la bronchite cronica e ci stette sino al 31. Di ritorno a Roma nel 41 fu condannato all’esilio da Claudio, accusato di adulterio di Giulia Livilla figlia minore di Germanico e sorella di Caligola (era in realtà per coprire l’opposizione politica). Durante l’esilio in Corsica elaborò la sua visione filosofica. Fu richiamato dopo l’esilio a Roma da Agrippina nel 49 (moglie di Claudio) che lo volle tutore di Nerone insieme al prefetto del pretorio Afranio Burro, che accompagnò al trono e ne fece da consigliere reggendo in pratica l’impero per 5 anni. Nel 62, rendendosi conto di non aver alcun influenza su Nerone (propose la figura del principe illuminato nel De Clementia) avviato a diventare un mostro, si ritirò a vita privata. Fu poi coinvolto, forse senza esserne direttamente coinvolto, nella congiura di Pisone: Seneca si uccise nel 65 per ordine di Nerone (morte descritta da Tacito successivamente). Seneca seguì per lo più i precetti dello stoicismo e le sue concezioni furono apprezzate e riprese dai cristiani.
La vita e le opere di Seneca presentano una continua interazione: l’evoluzione dei suoi interessi è scandita dalle tappe della sua esistenza:
1. In una prima fase prevale al ricerca di perfezionamento individuale: rientrano in questo gruppo i Dialogorum libri, 12 libri che hanno il carattere di esposizione, colloquio di contenuti morali in una prospettiva amichevole e comunicativa. Ne fanno parte:
• De ira, in tre libri.
• Consoloationes, tre opere vertenti su temi morali nell’ambito del genere consolatorio derivato dall’elogio funebre:
o Ad Marciam: conforta una madre per la morte del figlio;
o Ad Polybium: rivolta al liberto di Claudio per la morte del fratello, gli permetterà di ottenere il perdono di Claudio;
o Ad Helviam Matrem: in cui consola sua madre per la lontananza durante l’esilio;
negli altri dialoghi sono trattati problemi particolari dell’etica stoica secondo uno stoicismo meno rigoroso e dogmatico rispetto a quello dei fondatori Zenone e Crisippo, più influenzato da Panezio e Posidonio entrambi esponenti dello stoicismo medio: da quest’ultimo deriva l’attenzione alla psicologia (De Brevitate Vitae, De vita beata). Il De Brevitate Vitae è dedicatao a Paolinio, probabilmente suo suocero, funzionario imperiale e ha come argomento il tempo e l’uso che il saggio dovrebbe farne.
2. In seguito inizia l’attività pubblica che segna l’apertura alla dimensione politica. Compie due opere di carattere etico politico che si riferiscono al momento dell’impegno di Seneca a fianco di Nerone: il De Beneficiis (la beneficenza come principio coesivo di una società fondata su un monarca illuminato) e il De clementia, dedicato al giovane Nerone, cercando di vincolarlo ai precetti stoici.
3. Infine nel forzato ritiro finale sviluppa una più penetrante ricerca dell’interiorità, dopo la delusione neroniana, in una problematica allargata che riguarda l’intera umanità e i posteri: si tratta di un’apertura progressiva e coerente. Sono di questo periodo le “Epistulae ad Lucilium” (Ad Lucilium espistulae morales), 124 lettere (epistolario reale) in 20 libri dove Seneca si propone come maestro spirituale per Lucilio e l’intera posterità, ponendo le basi del cammino verso la sapienza: le lettere da spontanee e brevi (come la 1° dove Seneca usa un tono rassicurante e quasi affettuoso) diventano sempre più estese e sistematiche. Lucilio è un giovane allievo di Seneca, assurto al rango equestre e a varie cariche amministrative in Sicilia, di origini Campane: anche questo dato dimostra come Seneca parta da situazioni concrete, non idealizzate. Il cammino verso la sapienza proposto deve iniziare con la riappropriazione di sé, con l’autarkeia: dominare se stessi e trovare ciò che serve e che da gioia solo in se stessi, partendo dal controllo del proprio tempo. È presentato anche il concetto di iactura temporis, la perdita del tempo che avviene senza che noi ce ne accorgiamo e l’osservazione che nessuno pone un prezzo al tempo, considerandolo bene di nessun valore mentre esse è la cosa più preziosa che abbiamo.
4. Altre opere sono quelle scientifiche dove Seneca manifesta interessi geografici-scientifici, seguendo il filosofo stoico Posidonio: ci restano solo le Naturales quaestiones dove la scienza è ramo della filosofia, non priva di spunti morali. Nell’anno 54 compì inoltre, dopo la morte di Claudio, un’opera satirica sulla morte dell’imperatore: l’”Apocolocyntosis” (o “Ludus de morte Claudii” trasformazione in zucca, prendendo spunto dalla divinizzazione degli imperatori morti), che mescola prosa e versi. Seneca scrisse anche 9 tragedie (più l’Octavia considerata non autentica in quanto in essa, che è scritta con lo stile di Seneca, lo stesso Seneca compare come personaggio) che sono le uniche tragedie superstiti della letteratura latina. Queste ripropongono temi mitici tipici delle tragedie greche e di quelle arcaiche latine, come il mito di Ercole. Le più famose sono Medea, Phaedra e Thyestes dove, pur mantenendosi sugli schemi tradizionali di tragedia, affrontò i suoi interessi filosofico – politici, come la critica alla violenza dei tiranni e lo studio dei vizi.
Seneca nella sua vita pubblica cercò di iuvare mortalem (mettendo in comune la saggezza alla quale è pervenuto, si attua con una “mutatio”, una metamorfosi che porta a giovare agli altri per i legame di comunione che si instaura fra chi è animato dalla concorde volontà di fare il bene) come imponeva lo stoicismo. Lo fece non predicando un programma filosofico astratto ma interagendo direttamente con la realtà del suo tempo. Egli riteneva impossibile rievocare gli antichi mores repubblicani: per impedire l’autocrazia è necessario spingere il principe a esercitare spontaneamente la clementia (mitezza) e il beneficium (l’azione filantropica) nei confronti dei sudditi. Tutte le sue opere diedero un contributo a rifondare il ruolo storico e morale dell’intellettuale. Se questo tentativo fallì, ebbe successo un altro obbiettivo di Seneca, quello di sanare nei suoi amici e discepoli la spaccatura tra vita pubblica e privata: Seneca offriva contemporaneamente il modello pratico di una vita tesa alla ricerca e la proposta filosofica di una via percorribile verso la tranquillità dell’anima. Per Seneca la filosofia è soprattutto un’ars vivendi, cioè teoria e pratica del vivere. Seneca semplificava la filosofia nei valori dell’etica: egli insegna ciò che mette ordine nel disordine dell’animo individuale e di conseguenza anche nella società; partendo da una rifondazione morale dei singoli individui, punta a una più estesa moralità della società. Seneca cerca anzi tutto di corregger la falsa valutazione di ciò che gli uomini ritengono bene o male, anche a causa dell’azione educativa sbagliata da parte della società. È necessario poi eliminare le passioni che non solo ostacolano la comprensione del vero bene, ma impediscono l’esercizio della ragione (occupati). È necessaria un’attenzione verso se stessi, verso l’interno: questa scelta della cura del sé era stata indicata da Socrate e fatta propria da diverse scuole filosofiche. Questa attenzione verso se stessi si realizza nel prendere atto della propria situazione di “malati”: la cura di sé, in base a una concezione greca ripresa e accentuata dagli stoici, è presentata in stretta correlazione con la teoria e pratica medica. L’elemento comune ai due campi è la concezione di pathos come stato di passività del soggetto, dove la ragione, intesa come precauzione, non è usata: è necessaria quindi la cura che porterà anche al superamento dell’egoismo. Lo sforzo di perfezionamento individualistico acquista valore civile e universale: è questo l’umanesimo senecano.
La scrittura di Seneca risente dei suoi studi retorici, con gli artifici persuasivi e lo stile estroverso (asianesimo), e della filosofia dalla quale deriva una tecnica didascalica e predicatoria, in uso nella diatriba cinico stoica. Differentemente dall’organizzazione del periodo ciceroniano, Seneca lascai libere le singole frasi, che sono di solito semplicemente accostate. Esse sono costituite di solito da poche energiche parole, dense di significato, diventando così sententiae autonome. Egli contrappone alla calma e armoniosa scrittura ciceroniana, un modo asimmetrico, esasperato: in esso ci sarebbe in riflesso della lotta dello spirito di Seneca, e il riflesso del più generale sconvolgimento della società. Gli artifici più comuni sono:
• La metafora: utilizzata particolarmente per descrivere il mondo dell’interiorità, in quanto il latino non aveva un lessico specifico ampio.
• L’anafora: che da un effetto ritmico martellante che crea tensione (aumentata dai climax).
• L’antitesi: il più ricorrente nei periodi di Seneca, serve a contrapporre l’apparenza e la verità.
• Il modello analogico: in quanto il pubblico non è abituato all’astrattezza filosofica, egli trasporta questo astratto in un campo di immagini proprie della vita quotidiana, così come viene fatto nella diatriba (es. il fiume per esprimere lo scorrere del tempo).
• L’uso del riflessivo: che esprime il ripiegarsi del soggetto su se stesso, spesso associato a un verbo con valore metaforico. Questo linguaggio dell’interiorità si rivedrà negli apologisti Cristiani.

Il pensiero di Seneca non corrisponde all’odierna filosofia in quanto privo di sistematicità, ma comunque coerente e ricco di approfondimenti e rielaborazioni.
• Politico: il compito del saggio stoico è quello di rendersi utile agli altri nella misura concessagli dalle circostanze e dalle sue capacità: se si dedica alla politica deve influire sul principe, esortandolo a esercitare il potere secondo la legge morale e la clemenza. Seneca tenne sempre presente che di fronte all’uomo stanno due res publicae: quella del mondo regolata da leggi eterne, utili e imperscrutabili, e quella contingente in cui l’uomo vive, viziata dalla corruzione degli uomini. La concezione dei rapporti si fonda sul principio di fratellanza universale del genere umano simboleggiata dall’arco a volta. Al vertice degli impegni sociali sta l’impegno nel governo dello stato che Seneca concepisce come monarchico (matrice stoia), ispirato al modello di convivenza universale. In Seneca però non si trova mai nessuna esaltazione dello Stato romano (ritenuto sempre corrotto), ma solo celebrazione di alcuni personaggi che rappresentavano le virtù tradizionali romane e stoiche. Inoltre egli ebbe un atteggiamento aristocratico, tipico del saggio stoico, che gli faceva conciliare ascesi individuale e impegno politico e che inoltre gli faceva considerare il popolo, da sempre definito “popolus” in accezione positiva, come “gente comune”. La sua azione non riguardò solo Nerone ma ebbe effetti nei confronti della nobiltà senatoria, per rassicurarla di fronte alla realtà storica avversa, e nei confronti del principe, per cercare di indirizzarne la condotta. Di fronte al principato Seneca non assunse un atteggiamento negativo e critico: ne riconosce la necettisà legittima; la sua critica si indirizza ai singoli principi (Tiberio e Caligola) per i loro vizi e per la loro incapacità di fronte al compito che filosofia stoica destina al principe. Il sovrano infatti, come un dio non soggetto a leggi, elargisce ai sudditi benefici e giustizi e proprio la sua bontà e clemenza lo rendono degno di obbedienza e rispetto. L’unico vincolo è costituito dalla legge morale che deve rispettare: questa concezione monarchica assoluta e paternalistica si poggia su una base utopistica. Tale concezione non era distante dalla realtà storica: era si chiara la direzione assolutistica che la monarchia stava assumendo ma l’avvento di Nerone faceva sperare in una monarchia equilibrata.
• Filosofo: la ricerca filosofica è incentrata sull’individuo di cui cerca di cogliere manifestazioni esteriori e gli anfratti interiori. La natura secondo Seneca ci genera buoni ma noi siamo facilmente indotti al male dalle circostanze. Ai vizi dedica molte pagine: l’uomo deve imporsi calma, riflessione, moderazione, comprensione, non freddezza; il saggio deve avere sentimenti ma non sottostare ad essi: deve usare la ragione per arrivare alla serenità e alla virtù. Non si deve mirare al piacere, come professato dagli epicurei, ma alla virtù e alla sapienza, superando perfino Dio che non deve affrontare queste difficoltà. Seneca cerca di portare aiuto soprattutto agli amici: questa componente solidaristica sembra venir meno durante l’esilio, ma anche in esso Seneca giova a pochi o tutt’al più a se stesso. Le massime attenzioni vanno infatti rivolte a noi stessi: insiste molto sul tempo sprecato per gli altri e sulla necessità di vivere con noi stessi; è in primo filosofo che introduce il tema dell’introspezione e dell’esame di coscienza nella letteratura latina. Il colloquio con se stessi porta all’otium: anche l’isolamento però non garantisce la serenità; egli è infatti colto spesso dal tedium e ciò testimonia come la perfezione della sapienza sia lontana dagli uomini e da lui, ma è già un merito disporsi alla sua ricerca. Il tema principale del De brevitate vitae è l’accettazione e l’imparare a morire. Il tempo concesso all’uomo non è scarso ma va utilizzato meglio, dedicando più tempo a noi che agli altri (il tempo è spesso rappresentato con la metafora del punti sospeso tra l’abisso del passato e del futuro, così come la morte è descritta come dietro di noi, non davanti). L’uomo deve distinguere i veri bene, affrontando prima i mali, che fanno parte dell’ordinamento naturale delle cose, superandoli. L’uomo, nel cammino della sapienza, deve adeguarsi all’ordine naturale delle cose e resistere alle tentazioni, senza farsi sopraffare da passioni e dolore. Tra i mali più esecrati c’è la morte: è inevitabile e naturale, non bisogna temerla ma abituarsi ad essa che è un adiaphoron, ovvero una cosa moralmente indifferente che noi possiamo rendere buona o cattiva. Sul destino dopo la morte egli è oscillante. Tutta la ricerca umana tende all’assoluto a Dio inteso stoicamente come logos. Da dio parte e si riconduce ogni essere: Dio è immanente, permea ogni cosa con la ratio e l’armonia. La sua volontà è il Fato (=ratio), spesso incomprensibile. Pur non risolvendo del tutto il problema tra fato e libero arbitrio, l’uomo ha un’autonomia che gli fa scegliere tra bene e male e progredire così verso dio. Lo scopo dell’educazione è proprio l’elevazione a Dio. Questo Dio è quello stoico, anche se usa spesso linguaggi religiosi per rendere più concreto il suo discorso. Non tollera però riti e superstizioni: per questo è simile all’epicureismo con il quale non condivide l’idea di Dio freddo, insensibile alle preghiere che, secondo Seneca, possono muovere Dio. Molte concezioni saranno riprese dal cristianesimo:
Analogie
Differenze
Dio
• Divinità creatrice e ordinatrice;
• Atteggiamento provvidenziale;
• Accoglimento delle preghiere;
• Elevazione a Dio per raggiungere la salvezza;
• Presenza di Dio nel mondo e nell’uomo.
• La salvezza non è dono della grazia ma frutto di sforzi umani;
• Dio è raggiungibile in questo mondo non solo nell’aldilà tramite la grazia;
• Il Dio di Seneca è immanente quello cristiano è trascendente;
Morale
• Esortazione al perfezionamento individuale;
• Esortazione all’esame di coscienza;
• Recupero veri valori;
• Solidarietà umana;
• Orrore per le atrocità, torture, guerra;
• Uguaglianza sostanziale tra uomini;
• Sulle idee umanitarie prevale l’idea di isolamento;
• Fuggire i mali e cercare i beni sono strumenti di perfezionamento individuale, non collettivo;
• L’uguaglianza tra gli uomini è legata alla natura morale non all’essere figli di Dio;
il corpo va sottomesso alle esigenze dello spirito: si ritrova in Seneca la svalutazione del corpo o meglio la dicotomia tra componente sensoriale e razionale che affonda le sue radici nell’idealismo di Platone.
Il problema educativo è centrale in Seneca: la sua vita è un’autoeducazione continua e un servizio educativo prestato agli altri. L’educazione morale dell’uomo è la premessa per l’indagine delle cose celesti. Il maestro per eccellenza è il sapiente e in alternativa, data la loro rarità, il filosofo. L’educatore deve procedere a piccoli passi, concretizzando i concetti; il discepolo deve apprendere a coltivare lo spirito e non deve farsi illusioni sul maestro, anch’esso fallibile e umano. Il perfetto sapiente non esiste ma siamo tutti sulla via del perfezionamento, in vari stadi del progresso. Il discepolo deve poi procedere da solo: l’autoeducazione è indispensabile per avvicinarsi alla sapienza. Il dialogo con i maestri deve essere filtrato scegliendo le voci più autorevoli. La cultura è il rendere proprio quanto detto da persone diverse di ogni epoca. Anche le riflessioni sulla contemporaneità sono utili. Ricorrente è il motivo stoico del cosmopolitismo: i luoghi visitati passano sotto la lente moralista di Seneca (soprattutto gli aspetti negativi di Roma). Tutte le singole patrie sono troppo strette per il sapiente, la cui vera patria è la magna res publica, il mondo.
• Scienziato:l’indagine della natura permette all’uomo di cogliere la ratio insita nel mondo e quindi di avvicinarsi a Dio. L’uomo ha però possibilità di conoscenza limitata. Vi è un continuo progresso scientifico che proseguirà inarrestabile: questa idea è il segno della modernità di Seneca rispetto all’erudizione dei contemporanei (Plinio il Vecchio, naturali s historia), che ritengono definitive le conoscenze umane. Le naturales questiones sono dedicate a Lucilio, in 7 libri, e sono l’unica opera scientifica giunta a noi. Scritta dopo il ritiro dalla politica raccoglie e descrive fenomeni atmosferici e celesti in modo dossografico, come raccolta di opinioni altrui, soprattutto stoiche (Posidonio), epicuree e platoniche. L’opera fornisce il supporto fisico al pensiero di Seneca (Fisica morale e logica erano le parti filosofiche dei sistemi antichi): questa fisica in osservanza alla posizione stoica è subordinata alla morale; la funzione della conoscenza dei fenomeni è di liberare gli uomini da falsi timori (sulla linea di Lucrezio) , di soddisfare l’esigenza del sapere e di insegnare il corretto impiego dei doni della natura.
• Tragediografo: le tragedie si ricollegano agli stessi temi delle altre opere. Il suo teatro è didascalico, e attraverso la drammatizzazione rende più incisivi i temi della predicazione. Di tutta la produzione latina tragica ci sono giunte complete solo le tragedie di Seneca che sono divenute modelli per la letteratura europea, già imitata in età rinascimentale (Shakespeare, classicismo francese). Scrisse nove tragedie mitologiche (Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamennon, Thyestes, Hercules Oetaeus) a cui si aggiunge una praetexta (Octavia), attribuita a un discepolo di Seneca: recentemente è in dubbio anche l’autenticità dell’Hercules Oetaeus. Seneca riprese i temi e i personaggi della antica tragedia greca classica del V sec. ma li permeò di spirito filosofico. Esse hanno un intento morale ed educativo (anche verso Nerone), secondo l’azione spirituale che Seneca perseguì negli scritti filosofici e politici. I personaggi degli antichi miti hanno la funzione di antiexempla, di deterrenti: fanno meditare lo spettatore sul male e lo allontanano da esso. Nonostante l’intento didascalico i personaggi non sono statici ma dinamici, a tutto tondo, perché Seneca utilizza le opere scritte dai filosofi antichi intorno alle passioni: le tragedie sono ricche di notazioni psicologiche e intuizioni moderne, tanto da far accostare Seneca alla psicanalisi freudiana. Nelle tragedie sono dominanti: il tema politico legato alla figura del tiranno rappresentato come sanguinario, sordo alla ragione, tormentato dall’ansia e dalla paura dei suoi misfatti; il tema dell’analisi psicologica della passione: secondo lo stoicismo la passione è ostacolo alla felicità, quindi va conosciuta nella sua essenza in modo da poterla combattere; con questo fine Seneca presenta la genesi lo sviluppo e lo scoppio della passione e le sue conseguenze, come in un trattato di psicopatologia (Medea, Fedra). La figura del tiranno (probabilmente un’allusione alla situazione politica attuale), attuale durante il governo di Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, è al centro di molte tragedie senecane dove si dimostra l’infelicità di una vita trascorsa nella tensione continua tra desideri smodati e paura. Il tono dominante è l’orrore, connaturato già a varie tragedie antiche (Medea, Edipio), ma estremizzato e reso a livello cosmico, dove il caos domina le vicende umane. La ragione, che l’uomo usa per difendersi dalle passioni che lo porterebbero al male, riesce nel suo intento solo quando l’uomo non è ancora pervaso dalle passioni (lat. Patior → greco pathos, malattia: questo elemento di “contagio” è in comune al significato medico di passione): ovvero tra il breve tempo che intercorre tra l’ictus (l’impulso) e l’adsensio (assenso responsabile). La passione è descritta spesso, anche nel De ira a proposito proprio dell’ira, come bestia feroce, come fiera (tramite termini come transilit e exilit, saltare oltre e fuori, o secum rapit, trascinare via). Nel teatro di Seneca dominano quindi la tensione, i toni macabri e orripilanti per dare forza drammatica in modo da sconvolgere l’ordine naturale. Predomina il nefas, in un rovesciamento dei valori positivi proclamati da Seneca filosofo. Il furor ha sempre sopravvento sulla ratio. In ogni caso su tutti, potenti e miseri, infierisce la fortuna, più spietata nei confronti dei potenti. Il conflitto tragico e gli esiti luttuosi nascono dagli odi e dai dissidi che lacerano l’interiorità degli individui: sono spesso le donne a rappresentare tale contrasto: Fedra (divorata dalla passione ma lacerata dai sensi di colpa e dalla volontà d’espiazione), Medea (dissidio tra amore per i figli e vendetta) nelle quali il phatos, già presente nei modelli euripidei, degenera.
o Phaedra: in essa emerge lo studio della passione, che diventa ingovernabile. Seneca sceglie un modello euripideo, l’Ippolito coronato, nel quale era protagonista Ippolito, mentre qui è Fedra. Fedra in assenza del marito Teseo cerca di sedurre Ippolito e, respinta, al ritorno del marito ritorce sul figlio l’accusa di averla violata: il padre maledice il figlio che morirà travolto dal suo cocchio e Fedra, alla presenza del cadavere dell’amato, confesserà e si ucciderà. Il dialogo col quale Fedra si confessa, travolta dalla passione, non è presente nella versione originale di Euripide ma è un’invenzione di Seneca.
o Medea: tragedia di Euripide, ripresa da Ennio, Ovidio (Eroide), Valerio Flacco (Argonaute) narra di Meda, figlia del re delle Colchide nelle cui terre Giasone è venuto per conquistare il vello d’oro. Medea se ne innamora, lo aiuta e scappa con lui: inseguita dal padre furioso uccide il fratello Absirto e altri nemici. Giunti a Corinto Giasone sposa la figlia del re Creonte abbandonando Medea e i figli. Ella, cacciata dalla città, uccide Creonte, sua figlia e i suoi figli davanti a Giasone. Euripide aveva cercato di proporre attenuanti a tale comportamento, mentre Seneca insiste sulle passioni e lo spirito di vendetta.

Epistola 73: il tema di questa epistola è il rapporto tra saggio e politica; per lo stoicismo l’attività politica era fondamentale. Seneca ritiene sbagliato considerare i filosofi indocili e ribelli verso la politica; essi infatti sono i più riconoscenti verso i politici in quanto questi garantiscono loro la sicurezza pubblica, la libertà, condizione senza le quali la filosofia non potrebbe essere sviluppata. La loro riconoscenza è di molto maggiore rispetto a quelli che, immersi nella politica e debitori dei governanti, si scagliano contro di loro. Infatti i politici non guardano mai chi sta più in basso ma solo chi sta più in alto, in quanto ambiziosi e invidiosi di chi li supera. Il filosofo invece, che magari ha lasciato il Foro e il Senato, (nel De Tranquillitate animi Socrate esplica, mediante la spiegazione del filosofo Atenodoro, perché i grandi stoici esortarono gli altri a fare politica senza occuparsene direttamente: Zenone, Crisippo, Cleante non fecero politica in quanto in mezzo alle ambizioni, ai calunniator, la persona è in pericolo e gli insuccessi sono maggiori dei successi; date le molte insormontabili difficoltà e preferibile il ritiro; Socrate invece ritiene che è necessario giovare alla popolazione in ogni modo e con ogni mezzo; se non è possibile fare carriera militare, per esempio, si può intraprendere quella pubblica, oppure stare solamente vicino agli altri con le parole, con l’eesempio) per occuparsi di occupazioni importanti, ama quelli che gli consentono tale sicurezza, così come ama i maestri filosofi, che gli garantiscono la saggezza. Così come un mercante che trasporta ricchezze deve ringraziare maggiormente Nettuno rispetto a uno che trasporta cose di scarso valore, così sono più grati della pace quelli che la utilizzano per fini virtuosi (i saggi), rispetto a quelli che se ne servono per i vizi. I grandi beni, che il saggio giudica gli appartengano insieme agli altri uomini, appartengono a tutti gli uomini tutti interi, non una parte per ogni uomo; perciò il saggio ringrazia coloro per i quali può usufruire di tali beni, come la libertà: ne apprezza i benefici e li ricambia, talvolta anche solo riconoscendoli. Giove allora non è più potente di un uomo virtuoso: Giove non supera l’uomo per felicità, nonostante lo superi per durata, in quanto egli disprezza i beni degli altri perché non può goderne, mentre il saggio perché non vuole. L’uomo non va verso gli dei ma è Dio che viene verso gli uomini, dentro di loro. Non c’è anima virtuosa senza l’aiuto di Dio: negli uomini sono disseminati semi divini che, se accolti virtuosamente portano ai loro principi originari, ovvero divini, se accolti inettamente portano a erbaccia.
Letture critiche “Il Tempo e la saggezza”: il tempo di Seneca non è mai puro oggetto di speculazione come in Agostino ma è vissuto nell’ansia della fugacità, nella precarietà della cose. Questo senso pervade tutte le opere. Le metafore preferite sono: il fiume, il punto e l’abisso. Il fiume è visto non solo come un movimento chiuso in se stesso ma soprattutto nella forza dei suoi effetti sugli uomini (la piena che abbatte, la corrosione che scalza o la violenza travolgente di rapio). Se il fiume simboleggia il tempo nel suo corso inarrestabile la metafora spaziale del punto ne contrae la durata sino a vanificarla; spazio e tempo formano un solo mito. L’abisso, in senso metafisico come avverrà in Agostino (mentre in Lucrezio era terminologia fisica), è spesso accompagnato dal verbo “pendeo”, sono sospeso; gli abissi sono due, quello del passato e del futuro. Da queste metafore emerge il senso di una realtà instabile, di un’esistenza perennemente insidiata. È la proiezione cosmica di una situazione politica: le famiglie senatorie, sotto Tiberio e Nerone, vivono una vita precaria che porta alla domanda “Chi garantisce il domani” che Seneca si pone non su una base astratta e moralista, ma concreta (come le minacce di Caligola, l’esilio di Claudio e la morte di Nerone). Perciò alla saggezza si chiedeva l’arte di morire più che quella di vivere. Il saggio trionfa nel tempo perché ne trasforma il valore da quantitativo a qualitativo: non è la durata che conto ma l’uso che se ne fa. Perciò il saggio non ha bisogno né del passato né del futuro, concentrandosi sul presente per realizzare la perfezione morale. Rinunciare al futuro significa togliere dall’orizzonte psichico tutti gli elementi che non dipendono da noi che ci porterebbero alla speranza intesa negativamente (solo nel Cristianesimo assumerà valore positivo). L’oggi del saggio è atemporale; avvicinandosi a Epicuro Seneca considera però il passato, se ben vissuto e libero dal rimorso, recuperabile dalla memoria: esso si estende oltre i limiti della memoria configurandosi nella storia dell’umanità. Anche il futuro, se libero dal timore e dalla speranza, è recuperato dalla previsione. L’oggi così comprende nell’atemporalità sia passato che futuro, mediante l’ucronia. L’antitesi tempo saggezza corre per tutto il De brevitate vitae traducendosi nell’antitesi tra le vittime del tempo, gli occupati, e il suo dominatore, il sapiens. Il tempo è il banco di prova della saggezza, come ciò che discrimina chi sa vivere e chi non lo sa fare.

Epistola XC: l’argomento è il compito della filosofia. Ad esso si intreccia la storia della civiltà umana da cui emerge l’idea senecana di progresso. Posidonio, che aveva introdotto lo stoicismo a Roma, affermava che le artes, a cui si deve il miglioramento umano, erano state introdotte dai filosofi: nell’età dell’oro il potere era nelle mani dei saggi, non vi erano leggi in quanto gli uomini erano incorrotti. Con l’insinuarsi della corruzione si sentì il bisogno di una legislazione: Solone, Licurgo diedero leggi per migliorare la vita. Secondo Seneca le arti sono introdotte da artigiani, grazie al loro ingegno, mentre i filosofi non hanno bisogno di tali leggi in quanto seguono la natura. La filosofia ha il compito di scoprire cose divine e umane. Ma i primi uomini non conoscevano la filosofia che si configura come la ricerca del vero.

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