Persio - Le satire

Materie:Traduzione
Categoria:Latino

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Testo

Persio: Satire

PROLOGO
Non ricordo di avere bagnato le labbra
nella fonte del cavallo né di avere sognato sul Parnaso
dalla doppia cima, cosi da diventare all'improvviso
poeta; le dèe dell'Elicona e la pallida Pirene
lascio a coloro le cui immagini lambiscono
attorte edere; io, mezzo paesano,
porto da me stesso i miei versi alla sagra dei vati.
Chi suggerì al pappagallo quel suo «Salve»,
e insegnò alle gazze a tentare le nostre parole?
Maestro d'arte e largitore d'ingegno il ventre,
un artista nell'imitare voci innaturali.
Poiché se brilli speranza del danaro ingannatore,
ti potrà capitare di credere che poeti corvi
e poetesse gazze stiano cantando il nettare di Pegaso.
SATIRA PRIMA
O cure dei mortali! o quanto vuoto nelle cose!
«Chi leggerà i tuoi versi?». Dici a me? Nessuno, per Ercole.
«Nessuno?» O due o nessuno. «Vergogna, sventura». E perché?
Certo Polidarnante e le Troiane mi preferiranno Labeone!
Sciocchezze! Se la torbida Roma non apprezza qualcosa, non farti
avanti a raddrizzare nella bilancia l'ago storto, non cercare
fuori di te. Infatti a Roma chi non... Potessi
parlare... Ma sì che si può, al guardare certe teste
canute e la nostra melanconica vita e cosa facciamo
appena lasciato il gioco delle noci, quando ci diamo
arie di saccenti zii; allora, perdonate. «Non voglio».
Che farci? ma sono un burlone con la milza petulante.
Scriviamo rinchiusi, in versi o liberi da impacci
metrici, qualcosa di sublime da soffiare fuori a pieni
polmoni, che infine leggerai in pubblico, pallido, ravviato,
con la toga nuova, la sardonica di compleanno al dito, dall'alto
di un soglio, gargarizzato l'agile gola da modulati sciacqui,
pesto l'occhietto lascivo. E vedrai oscenamente agitarsi
con voce roca i corpulenti Titi se i carmi
gli penetrano nei lombi e i tremuli versi gli solleticano
le pudende. E tu, nonnetto, raccogli esche
per le altrui orecchie cui, per quanto di pelle
incallita, una volta dovrai pur dire basta?
«Perché aver studiato, se il fermento e il caprifico che ci nacquero
dentro, lacerato il fegato non possono uscire fuori?».
Di qui il pallore e la vecchiaia O costumi! A tal punto
il tuo sapere è nulla se altri non sappia che tu sai?
«Ma è bello essere additati, e sentir dire: "Eccolo, è lui!"
Ti pare trascurabile cosa servire da dettato a cento
scolaretti ricciuti?». Ecco i discendenti di Romolo chiedere
sbevazzando a pancia piena che cosa narrino i divini poemi.
Ora qualcuno con una mantellina color di giacinto sulle spalle
dice qualcosa di stantìo con balbuziente voce nasale,
e sbrodola tutte le Fìllidi e le Issìpili e quanto di lagrimevole
sia nei poeti, storpiando le parole con il palato languido.
Assentirono gli illustri ospiti: ora non sarà pago
il cenere del poeta? non sarà più lieve il cippo sulle sue ossa?
I convitati tessono elogi: ora da quell'ombra, da quel tumulo,
da quel cenere venturoso non nasceranno viole?
«Tu scherzi», dici «e troppo ti compiaci di arricciare
ironicamente il naso. O vi sarà chi ricusi citazioni al merito
sulle labbra della gente, e composte pagine degne del cedro
che non temono di incartare sgombri e spezie, non voglia tramandarle?»
Chiunque tu sia che or ora ho finto mio contraddittore,
se scrivo e per caso mi riesce qualcosa di decente
- uccello raro -, se tuttavia mi riesce qualcosa di decente,
non certo io fuggirò le lodi, non sono di fibra
di corno. Ma escludo che il fine ultimo di ciò che si fa
di buono, consista in quel tuo «Bravo!» «Bene!». Scuoti
ben bene quel «Bravo!». Che cosa non c'è lì dentro? Non c'è
l'Iliade di Accio inebriata da ellèboro, e le elegiuzze
dettate da nobili dispeptici, insomma tutto ciò che si scrive
su letti di cedro? Tu, furbo, offri una calda
pancetta di scrofa a un affamato, o un consunto mantello a un amico
intirizzito egli dici: «Amo il vero, ditemi il vero
su di me». È possibile? Vuoi che lo dica? Tu scherzi, zucca
pelata cui sporge di un piede e mezzo una pancia di maiale.
O Giano, al cui tergo nessuna cicogna ha beccato, né alcuno
ha imitato con agili mani le bianche orecchie asinine,
né mostrato tanto di lingua quanto un'assetata cagna
di Puglia! Ma voi, sangue patrizio, che dovete pur vivere
con la nuca cieca, guardatevi dalle smorfie che vi fanno alle spalle!
Ma che dice la gente? Cos'altro se non che ora alfine
i carmi scorrono con ritmo così dolce, che sulle giunture scorre
liscia l'unghia più severa? «Sa tendere il verso come
se chiuso un occhio tracciasse delle rette con il cordino rosso;
si occupi anche dei costumi, dello sfarzo, dei banchetti regali,
la Musa concede al nostro poeta di scrivere meraviglie».
Ed ecco oggi si insegna ad assumere sentimenti eroici
a gente avvezza a giocherellare con versicoli alla greca, incapace
di descrivere un bosco, di elogiare una campagna rigogliosa con le sue
ceste,
i fuochi, i maiali e le Palilie fumose per i falò di paglia,
da cui Remo, e tu, o Quinzio, che logoravi il vomere
nel solco, tu che la trepida sposa vesti da dittatore
al cospetto dei buoi; un littore riportò a casa il tuo aratro.
Bene, poeta! V'è ancora chi indugia sul venoso libro
del bacchico Accio e sulla bitorzoluta Antiope di Pacuvio,
cui pure resse il cuore luttuoso di sventure?
Quando vedi cisposi padri instillare nei figli
tali consigli, chiedi di dove provenga lo sfrigolìo
di frittura del nostro linguaggio, e questa vergogna per cui
il levigato Trossulo ti saltella con le natiche da un sedile all'altro?
Non ti vergogni di non poter allontanare da una testa canuta il pericolo
d'una condanna, a meno che tu non oda - lo desideri - un «Bravo»
che ti rianimi? «Sei un ladro», dicono a Pedio. E Pedio?
Pesa le accuse in rigorose antitesi, si fa lodare
per la dotta disposizione delle figure: «Bello, questo». Bello?
Romolo, ci sculetti anche? Mi commuoverebbe un naufrago che canta,
e gli porgerei l'elemosina? Ma sei tu che canti recando appeso
a una spalla il tuo ritratto nel naufragio. Del vero, non dell'inventato
di notte, si dorrà chi vorrà piegarmi con il suo lamento.
«Ma al ritmo prima rozzo si e aggiunta l'eleganza delle giunture:
si e appreso a chiudere i versi così: "il Berecinzio Attis";
e ancora: "il delfino che solcava il ceruleo Nereo";
e così: "sottraemmo una costola al lungo Appennino".
"Le armi e l'eroe" non vi sembra schiumoso e di spessa corteccia,
quasi un vecchio ramo soffocato da un eccesso di sughero?».
Qualcosa dunque di tenero, da leggere con la nuca rilassata?
«I rochi corni riempirono di mimallònei rimbombi
e la Bassaride pronta a strappare al superbo vitello la testa
e a guidare con tralci d'edera la lince, la Menade,
Evio, Evio ripete, ed Eco risuona duplicandosi».
Esisterebbe ciò se sopravvivesse in noi una vena dei testicoli
paterni? Questa roba slombata nuota a galla
della saliva sulle labbra, e la Menade e Attis sguazzano nel bagnato,
non inducono a percuotere il pluteo né risentono di unghie rosicchiate.
«A che serve raschiare con verità mordaci le orecchie
delicate? Attento che non si raffreddino per te le soglie dei potenti:
mi sembra già di sentire un nasale ringhio di cane».
Oh per me considera ciò una cosa innocente:
non obietto. Bravi, tutti! tutti diverrete mirabili
cose. Vi piace così? «Qui», dici, «nessuno
insudici». Dipingici due serpenti: «ragazzi, qui
è sacro, orinate fuori». Me ne vado, Lucilio morse
a sangue la città, e te, o Lupo, e te, o Mucio,
e ci si ruppe un molare. Lo scaltro Flacco punge i vizi
dell'amico inducendolo a sorridere, e accolto così nel cuore,
scherza esperto nel sospendere lagente al suo naso pulito.
E io non posso fiatare? neanche di nascosto, o con la buca
di Mida? in nessun luogo? Ma scaverò qui: o mio libretto,
ho visto coi miei occhi: chi non ha le orecchie d'asino?
Questo segreto e questo mio riso - un nulla - non te li vendo
per nessuna Iliade. O tu, chiunque sii, toccato
dal soffio dell'audace Cratino, o impallidito per lo studio dell'iracondo
Eupoli e del sommo vegliardo, guarda anche me, le mie satire,
se per caso ci trovi qualcosa di ben cotto, a cui si appassioni
un lettore dall'orecchio purgato, non chi si diverte, sudicio,
a celiare sulle pianelle dei Greci, e pensa di poter dire «Guercio»
al guercio, credendosi qualcuno, imbaldanzito dall'italico onore,
per aver infranto - edile ad Arezzo - delle mezzette fasulle,
o quello che si crede furbo se ride dei numeri sull'abaco
e dei disegni tracciati sulla sabbia, pronto alle risa
se una sfacciata meretrice tira la barba a un cinico. A costoro
assegno di mattina l'editto del pretore, dopopranzo Callìroe.
SATIRA SECONDA
Conta, o Macrino, con una pietruzza più lucida questo giorno
che ti segna sereno un altro dei tuoi anni che passano; mesci
vino puro al tuo Genio. Tu non chiedi agli dèi
con preghiere mercantili ciò che si può loro confidare
soltanto in disparte. Ma molti potenti sacrificheranno con tacito
incensiere: non garba a tutti bandire dai templi quel mormorare
e il sommesso sussurrìo delle preghiere, e vivere con richieste palesi.
«Sani pensieri, reputazione, credito»: ciò con chiarezza,
e che l'oda chi passa, ma dentro di sé e fra i denti si mormora:
«Mi morisse lo zio, che bel funerale!», oppure: «Oh se
col favore di Ercole mi risonasse sotto il rastrello un vaso
di monete d'argento! Potessi eliminare il pupillo cui seguo
prossimo erede! è anche scabbioso e gonfio d'acre
bile. Nerio seppellisce già la terza moglie!»
Per chiedere santamente ciò al mattino tuffi più volte
il capo nell'onda del Tevere ed espii nella corrente le colpe
notturne? Orsù, rispondimi - è una bazzecola che voglio sapere -,
che ne pensi di Giove? pensi di anteporlo... a chi? a chi?
per esempio a Staio? o per l'appunto esiti? Chi miglior
giudice, o chi più adatto ai fanciulli orfani?
Dunque ciò con cui tenti di forzare le orecchie di Giove,
via, dillo a Staio. «Per Giove», invocherai, «O benigno
Giove», ma Giove non invocherà se stesso? Tu pensi
che ti abbia perdonato perché, tuonando, con la sacra
folgore abbatte un leccio più presto che te e la tua casa?
O perché non giaci fulminato nei boschi sacri, per responso
di fibre di pecora e di Ergenna, luogo malauguroso da evitare,
per questo dunque Giove dovrebbe stolidamente offrirti
la barba da tirare? o v'è un compenso con il quale hai comprato
le orecchie degli dèi? forse polmoni e grasse budella?
Eccoti una nonna o una zia per parte di madre, timorata
degli dèi, ha tolto l'infante dalla culla e col dito impudico
e saliva lustrale gli purifica la fronte e le umide labbra,
esperta com'è nell'esorcizzare il malocchio; poi lo scuote
fra le mani e avvia con supplice voto la sua misera speranza
ora ai campi di Licino, ora ai palazzi di Crasso.
Lo vogliano genero il re e la regina, le ragazze se lo rubino;
dovunque avrà posato il piede fiorisca una rosa».
Ma io non ho mai raccomandato a una nutrice simili voti:
dissuàdila da essi, o Giove, anche se ti pregherà biancovestita.
Un altro chiede aiuto per i suoi nervi esauriti, e salute
in vecchiaia. Sia pure; ma i grandi vassoi e i grassi insaccati
impediscono a Giove di assecondarlo e ostacolano gli dèi.
Tu chiedi di accrescerti il patrimonio sacrificando un bue,
e invochi Mercurio esaminando le fibre: «Arricchisci la mia casa,
concedimi armenti e greggi feconde». In che modo, sciagurato,
quando sul fuoco si strugge il grasso di tante giovenche?
Tuttavia si ostina a volerla vinta con sacrifici e pingui
focacce: «Ecco già prospera il campo, s'arricchisce l'ovile,
ecco, ecco, l'ottengo!», finché disilluso e senza
speranza, sospira: «Invano ho dato fondo al mio danaro».
Se ti porto in dono crateri d'argento e sbalzati in oro
massiccio, sudi e il cuore ti batte per la gioia e ti fa
stillare il sudore dalla parte sinistra del petto.
Da qui ti venne l'idea di spalmare una tinta d'oro,
di quello da ovazioni, sui volti degli dèi, perché tra i fratelli
di bronzo, quelli che mandano sogni liberi dal catarro,
abbiano il primo posto e la barba dorata.
L'oro ha soppiantato i vasi di terracotta di Numa e i bronzi
saturnii, e rimosso le urne delle Vestali e i fittili etruschi.
O anime curve in terra e vuote di cielo!
A che giova introdurre le nostre usanze nei templi,
e trasferire agli dèi i piaceri della nostra carne scellerata?
Essa ha corrotto l'olio diluendovi per sé la cannella,
essa ha bollito la lana calabra nella deturpante porpora,
essa ci ha indotto a raschiare la perla dalla conchiglia, e a separare
le vene del metallo dalla grezza terra nella massa incandescente.
Pecca anch'essa, pecca, ma nel suo male v'è pure l'utile.
Ma voi, pontefici, ditemi: che ci fa l'oro nel santuario?
Proprio lo stesso che le bambole offerte dalle fanciulle a Venere.
Perché piuttosto non offriamo ai celesti ciò che il rampollo
cisposo del grande Messalla non potrebbe con i suoi piatti sontuosi:
un'armonia spirituale di leggi umane e divine, i santi
segreti della mente, un cuore imbevuto di onestà generosa?
Allora mi accosterò ai templi, e sacrificherò con semplice farro.
SATIRA TERZA
«Sempre la solita storia? già il chiaro mattino
entra dalle finestre e allarga con la luce le strette fessure,
e continui a russare quanto basti a smaltire il robusto
Falerno, mentre la quinta linea è toccata dall'ombra.
Ehi, che fai? Già da un pezzo la canicola infuriata cuoce
le messi inaridite e ogni gregge è al riparo d'un ampio olmo»,
dice uno degli amici. «Davvero? è cosi? presto,
qualcuno! Nessuno?» Gli si gonfia la vitrea bile:
«Mi sento scoppiare» grida quasi ragliassero gli armenti
d'Arcadia. Subito brandisce un libro, una rasata pergamena
di doppio colore, la carta, il nodoso astile.
Allora cominciano i lamenti: l'inchiostro rappreso ristagna
sulla penna, il nero di seppia sbiadisce per eccesso d'acqua,
è un continuo gemito per la cannuccia che semina gocce.
«O meschino, e ogni giorno più meschino, a ciò siamo giunti?
Ma perché piuttosto, al pari d'un tenero piccioncino
e dei figli dei ricchi non chiedi la pappa a bocconcini,
e bizzoso non ti quieti neppure alla ninnananna della balia?»
«Studiare con questa penna?». «A chi lo racconti? Perché
canticchi codeste storielle? Ci sei tu, in gioco. Il cervello
ti si scioglie in acqua. Tutti ti sprezzeranno. Risuona del difetto
a percuoterla, e risponde stonata una brocca di creta malcotta.
Sei umido e molle fango, ora bisogna affrettarsi
a plasmarti con l'instancabile ruota. Certo hai un discreto raccolto
di grano dal podere paterno, una saliera tersa e immacolata,
cos'hai da temere? - e una padella sicura abitatrice del fuoco.
Basta così? o ti si conviene far scoppiare i polmoni di vento,
perché millesimo trai il tuo ramo da una genealogia etrusca,
o perché drappeggiato nella tràbea saluti il tuo censore?
Al volgo le fàlere. Io ti conosco fin sotto la pelle.
Non ti vergogni di vivere al modo di quel dissoluto di Natta?
Ma egli è inebetito dal vizio e nelle fibre del cuore gli cresce
grasso lardo, è irresponsabile, non sa cosa perde, e se affonda
non ritorna più a gorgogliare alla superficie delle onde.
Grande padre degli dèi, quando un'atroce passione
tinta di bollente veleno sfrena la mente dei crudeli
tiranni, non punirli in altra maniera che questa:
scorgano la virtù, e si sentano marcire per averla abbandonata.
O forse più gemettero i bronzi del siculo giovenco,
o più atterri la spada che pendeva dai dorati soffitti
sulla testa porporata, di chi debba dire a se stesso: "Precipitiamo,
precipitiamo fino al fondo", e in sé impallidisca, infelice,
mentre ne è ignara la sposa che gli dorme accanto.»
Da bambino, ricordo, spesso mi ungevo gli occhi con olio,
se non volevo imparare le solenni parole di Catone morituro,
e che mio padre ascoltava sudando con gli amici condotti
fin troppo elogiate dal maestro un po' tocco di mente, con sé.
Giustamente il mio desiderio più grande consisteva nel sapere
cosa mi fruttasse un buon colpo da sei, quanto mi sottraesse
un rovinoso uno, non fallire lo stretto collo di un'anfora,
e che nessuno mi superasse nel far girare la trottola con la frusta.
Ma ormai non dovresti essere inesperto nel redarguire il malcostume,
e di ciò che insegna il sapiente Portico dipinto dei bracati
Medi, per cui la gioventù veglia insonne e rasa
le chiome, nutrita di baccelli e di grosse fette di polenta;
e a te la lettera del filosofo di Samo dai divergenti rami,
già mostrò la via che si leva sul destro lato.
Ma continui a russare, e la testa ti ciondola come slogata,
sbadiglia il vino di ieri con le mascelle sgangherate da ogni parte!
V'è qualcosa cui miri, quasi bersaglio al tuo arco?
O insegui qua e là i corvi con cocci e zolle
di terra, affidando al caso i tuoi passi e vivendo alla giornata?
Riconoscerai che si ricorre invano all'ellèboro quando la pelle
già ammalata si gonfia: prevenite il morbo mentre
arriva. A che serve promettere a Cratero mari e monti?
Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose;
ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo
assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta,
la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l'utilita
della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare
alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi,
e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.
Apprendi, e non invidiare l'odore delle molte giare
nella ricca dispensa d'un avvocato che ha difeso i grassi Umbri
e le spezie e i prosciutti, ricordo di qualche cliente della Marsica,
e i pesci in salamoia non ancora affondati dalla sommità del barile.
Ma ora qualcuno della razza dei centurioni di lezzo caprigno,
potrà dire: «Per me, quello che so mi basta,
non mi curo di essere un Arcesilao o uno di quei disgraziati
Soloni con la testa bassa e gli occhi fissi a terra,
che sembrano masticare i loro brontolii e rabbiosi silenzi;
con il labbro sporgente pare che ci pesino le parole,
rimuginando le allucinazioni di quel vecchio infermo, "nulla
nasce dal nulla, nulla può tornare nel nulla".
Per questo sei pallido? per ciò qualcuno non mangia?»
A questo la gente ride e i giovani muscolosi
arricciando il naso ripetono tremule risate.
«Guarda bene, il cuore mi palpita per non so che, e il respiro
mi esala pesante dalla gola ammalata, guarda, per cortesia».
Chi parla così al medico, che gli prescrive il riposo a letto,
se la terza notte constata che il polso gli batte normale,
chiederà a una casa più ricca, con una bottiglia mezzana,
del vino leggero di Sorrento da bere prima del bagno.
«Ehi, amico, sei pallido!» «Non è niente». «Ma guarda qui,
sia quel che sia, la pelle, senza che l'avverta, ti si gonfia
giallastra». «Sei più pallido tu, non farmi il tutore;
quello l'ho sepolto: resti tu». «Via, tacerò».
E lui, gonfio di cibo, con il ventre sbiancato, si bagna,
mentre la gola espira faticosamente fiati sulfurei.
Ma tra i calici lo coglie un tremore che gli scuote via dalle mani
un bicchiere di vino caldo, i denti gli battono scoperti,
grassi bocconi gli cadono dalle labbra molli.
Di lì a poco le trombe, le candele, e infine quel signorino
felice sul catafalco, spalmato di grasso balsamo di amomo,
protende tese le rigide gambe verso la porta.
Ma Phanno recato a spalla i Quiriti, fatti ieri,
con il pileo in testa. «Toccami il polso, baggiano, poggiami
la destra sul petto: non brucio; toccami la punta dei piedi
e delle mani, non è mica gelata». Ma se per caso vedi del denaro,
o la splendida figlia del tuo vicino ti sorride languidamente, il cuore
ti sobbalza come dovrebbe? Se ti portano irta verdura
in un gelido piatto, e pane di farina passata a uno staccio
grossolano, proviamo se mangi! Ti viene subito un'ulcera
purulenta nella tenera bocca, invisibile, ma guai se la irrita
una bietola plebea. Agghiacci quando la sbiancante paura
ti drizza i peli del corpo; o il sangue ti bolle, come
per sottoposta fiamma, ti scintillano gli occhi e dici e fai cose
che lo stesso folle Oreste giurerebbe degne di un folle.
SATIRA QUARTA
«Ti occupi di politica?» - immagina che queste parole le dica
il barbuto maestro che mori per una pozione di funesta cicuta -,
«E fidando su che? Dimmelo, o pupillo del grande Pericle.
Certo l'ingegno e l'esperienza ti giunsero veloci, prima
che ti spuntasse la barba, incallito già nelle cose da dire
o da tacere. E allora quando il popolino è in tumulto e ferve
dalla bile, ti basta l'animo per imporre silenzio alla turba
infiammata con un maestoso gesto della mano. Che dici, poi?
"Quiriti, ciò, per esempio, non è giusto; questo e male,
preferibile quello". Infatti sai pesare la giustizia
sui piatti dell'incerta bilancia; distingui la linea retta
anche se passa tra curve, o il regolo inganna per un piede
storto, e sai marchiare il vizio col nero theta.
Ma perché dunque tu che di bello hai solo, inutilmente,
l'epidermide, non cessi di scodinzolare precoce per il volgo che ti
blandisce,
tu, più adatto a sorbire l'ellèboro puro di Anticira?
Qual è per te il sommo bene? Vivere sempre
fra unte casseruole e curarti la pelle con assidui bagni
di sole? Attento, una qualsiasi vecchia risponderebbe ugualmente.
Va', e sbuffa pure: "Sono il bellissimo figlio
di Dinomaca"; - e sia, purché riconosca non meno assennata
la cenciosa Bauci quando offre gridando il basilico
a uno schiavo discinto.» Nessuno cerca di scendere in sé,
ma ognuno guarda nella bisaccia sulle spalle di chi lo precede!
Poniamo che tu abbia chiesto: «Conosci i poderi di Vettidio?»;
«Di chi?» «Quel riccone che a Curi ara tanta terra
quanta non ne sorvolerebbe un nibbio»; «Parli di quello sciagurato
in ira agli dèi, che quando attacca il giogo agli archi
dei crocicchi, non volendo sturare una bottiglia di vino vecchio,
piagnucola: "Alla salute", mordendo una cipolla non sbucciata cosparsa
di sale, e mentre i servi festeggiano una pentola di farro,
succhia la feccia stracciosa d'un aceto svanito?»
Ma se unto riposi e ti lasci trafiggere la pelle dal sole,
uno sconosciuto dà di gomito al vicino e sputa acre:
«Bella moda sarchiare il pene e l'intimità
dei lombi e mettere bene in mostra fradice vulve!
Mentre ti pettini il tappetino delle gote profumate al balano,
perché il gorgoglione ti sporge dagli inguini depilato?
Anche se cinque palestriti si mettano a svellere i tuoi fittoni,
e con una pinza ricurva stanchino le tue natiche infrollite,
tuttavia non v'è aratro che domi codeste erbacce».
Bersagliamo, e a vicenda offriamo le gambe alle frecce degli altri.
Viviamo così, lo sappiamo. Sotto i tuoi fianchi
s'apre un'oscura ferita, ma la copre una larga cintura
d'oro. Da' ad intendere a parole ciò che preferisci,
e inganna i tuoi nervi, se puoi. «Se il vicinato mi definisce
egregio, non dovrei credergli?» Ma se impallidisci, briccone,
alla vista del denaro, e fai tutto ciò che garba al tuo pene,
e flagelli lasciandovi i segni l'amaro pozzo, avrai
offerto invano alla folla le orecchie credulone. Rifiuta
ciò che non sei, la gente riprenda i suoi doni. Rientra
in te: saprai qual breve scorta di virtù possiedi.
SATIRA QUINTA
È costume dei poeti chiedere cento voci, cento
bocche, e desiderare cento lingue per i loro versi,
si tratti di un dramma che reciti a bocca aperta
il tragedo atteggiato a cordoglio, o delle ferite di un Parto
che si svelle il ferro dall'inguine. «A che miri con ciò? Che bocconi
di robusta poesia ingurgiti, perché ti servano cento
gole? I magniloquenti raccolgano nebbie sull'Elicona, se c'è
ancora qualcuno per cui dovrà bollire
la pentola di Progne o quella di Tieste, vivanda frequente di
quell'insulso
Glicone. Ma tu non comprimi l'aria con l'ansante mantice
mentre il metallo fonde sul fuoco, né brontoli cupo
gracchiando fra te e te non so che cosa di solenne,
né tendi le gote rigonfie sino a farle scoppiare.
Usi le parole comuni, esperto nei costrutti energici,
nell'eleganza misurata, nello strigliare i vizi spettrali
e trafiggere la colpa con libero gioco. Trai
da qui il tuo dire, lascia a Micene le sue mense
di teste e piedi, attieniti ai pasti plebei».
Davvero non voglio che le mie pagine si gonfino di funebri
ciance buone soltanto ad emettere fumo.
Parliamo in disparte fra noi: ti offro ora, per esortazione
della Camena, il mio cuore da scrutare. Mi piace mostrarti,
Cornuto, dolce amico, quanta parte della mia anima
ti appartenga. Percuoti tu, accorto nel distinguere
ciò che suona pieno dall'intonaco d'una lingua dipinta.
Per questo si ardirei chiedere cento lingue,
per esprimere con voce chiara con quale profondità ti ho accolto
nei meandri del petto, e perché le parole rivelino quanto
d'ineffabile si celi nelle intime fibre del mio cuore.
Appena la porpora, custode dell'adolescenza, mi abbandonò timoroso
e il ciondolo infantile fu appeso in dono ai succinti Lari,
quando i piacevoli compagni e il fascio di pieghe della toga
ormai bianca mi permisero di guardare impunemente
tutta la Suburra, e il cammino è incerto e l'errore inconsapevole
della vita conduce le trepide menti nella biforcazione dei crocicchi,
io m'affidai a te. Tu accogli la mia giovane
età, o Cornuto, nel tuo seno socratico. Allora il regolo,
con benefico inganno, al solo avvicinarsi corregge le storte
abitudini, la ragione incalza il talento che vuole essere
vinto, e sotto il tuo pollice assume un industre sembiante.
Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te,
e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte;
comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo,
riposiamo dai faticosi impegni con una casta mensa.
Invero non dubitare di ciò, per norma sicura concordano
i nostri giorni, guidati da un'unica stella: o la Parca,
tenace nel vero, tiene le nostre vite sospese
sull'equilibrata Bilancia, o l'ora scoccata degli amici
fedeli divide i concordi destini di noi due fra i Gemelli
e col favore di Giove vinciamo insieme il malefico Saturno:
non so quale,, ma certo un astro mi conforma a te.
Mille le specie degli uomini, e diversi gli usi della vita;
ognuno vuole il suo, né si vive d'un solo desiderio.
Questi, sotto il sole d'oriente, scambia con merci
italiche il rugoso pepe e i granelli di cumino che inducono
il pallore; questi, sazio, preferisce ingrassare in un sonno
vinoso; un'altro si compiace del Campo; un'altro lo rovinano
i dadi; quello è sfatto dalle donne; ma quando la pietrosa
gotta li avrà colpiti alle giunture, rami secchi
d'un vecchio faggio, ormai tardi piangeranno la vita
trascorsa in grevi giorni e in luce palustre.
Tu invece ti compiaci di impallidire sulle notturne carte;
coltivi i giovani, purifichi le loro orecchie per seminarvi
la messe di Cleante; apprendete di qui, ragazzi e vecchi,
il preciso fine dell'animo, il viatico alla infelice canizie!
«Domani sarà lo stesso». «Domani? quasi mi facessi
un grande regalo». Ma quando è venuto il giorno seguente,
il domani di ieri è già consumato: altri domani
rapiranno questi giorni, e sempre resterà una piccola
riserva di domani. Per quanto vicina a te e sotto
lo stesso timone, invano inseguirai la ruota che gira,
se corri come ruota posteriore e sull'altro asse.
V'è bisogno di libertà, ma non di quella per cui
qualunque Publio della tribù Velina se la sia meritata,
ottiene con la tesserina un po' di farro scabbioso. Ahi,
sterili di verità coloro che una giravolta trasforma in Quiriti!
Ecco Dama, stalliere da due soldi, cisposo per il cattivo
vino, bugiardo anche per un pugno di foraggio: il padrone
lo gira, e dalla giravolta di un attimo esce un Marco Dama:
cribbio! Se garantisce Marco rifiuteresti un prestito? Impallidisci
per un verdetto di Marco? ha parlato Marco: è così; firma
e sigilla gli atti, o Marco. Questa è vera libertà,
ce la dona il pìleo. «O chi altro è libero se non chi può vivere
a suo piacimento? Se posso vivere come voglio, non sono
più libero di Bruto?» «Concludi male», disse allora
uno stoico, lavatosi l'orecchio con abrasivo aceto:
«il resto lo accetto, ma togli quel posso e quel voglio».
«Dopo che grazie alla bacchetta mi allontanai dal pretore, mio
padrone, perché non dovrebbe essermi lecito ogni
desiderio, eccetto quelli vietati dal codice di Masurio?»
Ascolta, ma prima ti cadano dal naso l'ira e le grinzose
smorfie mentre ti estirpo dall'animo i pregiudizi delle nonne.
Non è il pretore che può dare agli stolti il delicato senso
del dovere e permettere loro la pratica d'una vita travolgente:
più presto adatteresti la sambuca a quel pezzo di facchino.
Ti contrasta la ragione, sussurrandoti in segreto che non è lecito
accingerti a ciò che, nel farlo, puoi solo guastare.
La legge di natura, comune a tutti gli uomini, ingiunge
l'ignoranza che non può nulla, osservi almeno i divieti.
Se diluisci l'ellèboro, non sai fermare al punto giusto
l'ago della bilancia: te lo vieta l'arte medica.
Se un contadino con gli zoccoli pretende di comandare una nave e non sa
nemmeno qual è Lucifero, Melicerta griderebbe che il pudore
e scomparso dal mondo. L'arte della vita ti ha insegnato a camminare
con passo diritto, e sai distinguere l'apparente dal vero,
affinché non batta falsa una moneta d'oro che ha sotto
il rame? E le cose da perseguire e a vicenda quelle da evitare
le hai segnate, le prime con il bianco di creta, le altre con il carbone?
Sei moderato nei desideri, in una casa modesta, dolce
con gli amici? Secondo il bisogno stringi o apri i sacchi
del tuo grano? Riusciresti a non chinarti per raccattare una moneta
piantata
nel fango senza ingoiare d'un sorso l'acquolina mercuriale?
«Possiedo le qualità che dici». Se avrai parlato sinceramente,
sarai libero e sapiente, con il favore dei pretori e di Giove.
Se invece tu che eri poc'anzi della nostra farina,
sei sempre della stessa pelle, e sotto un limpido volto
conservi nel cuore corrotto la natura dell'astuta volpe,
riprendo ciò che ti avevo concesso prima e ritraggo
la fune. La ragione ti è stata avara: se stendi un dito,
sbagli. Eppure che c'è di più esiguo? Con nessuna quantità
d'incenso otterrai che agli stolti aderisca mezz'oncia, un'inezia,
di bene. Non si possono mescolare saggezza e stoltezza. Se per il resto
sei un terrazziere, non potrai danzare, anche per tre sole
battute, il satiro di Batillo. «Ma io sono libero!» Da che
lo deduci, soggetto a tante schiavitù? Conosci soltanto
il padrone che ti libera con la bacchetta? Se ti gridano: «Ragazzo,
portami le striglie al bagno di Crispino. Muoviti, bighellone!»,
l'aspro comando non ti scuote, e nulla di esterno penetra
ad agitarti i nervi. Ma se i padroni ti nascono nel fegato malato,
come scamperai con minore pena di colui che la frusta
e il timore del padrone spingono a portargli le striglie? È mattina
e pigro continui a russare. «Àlzati», dice l'Avarizia,
«su, àlzati». Rifiuti. Insiste: «Àlzati». «Non posso».
«Àlzati». «A che fare?» «E lo chiedi? reca saperde dal Ponto,
castorio, stoppa, ebano, incenso, e vino di Cos
che scivola in gola, scarica per primo il pepe nuovo
dal cammello assetato. Traffica, spergiura». «Ma Giove sentirà».
«Via, gonzo, passerai allegro il tempo a bucare
con un dito una lustra saliera se cerchi di vivere d'accordo
con Giove!». Vestito alla svelta carichi il sacco e il barile sui servi.
Nulla impedisce che su un vasto battello divori
l'Egeo; ma pronta la Baldoria ti chiama in disparte
e ammonisce: «Dove ti precipiti, folle, dove? Che cosa
ti salta in mente? Nel petto infiammato ti si gonfia con tanta
maschia energia la bile che un'urna di cicuta non la placherebbe?
Tu attraversare il mare? tu mangiare su un banco,
appoggiato ad attorte gomene e a un orcio che odora
di rosatello di Veio guastato dalla cattiva pece?
Che cerchi? che il denaro accresciuto qui modestamente con l'interesse
del cinque per cento, ti frutti con avido sudore l'undici?
Gòditela; prendiamo a volo le dolcezze, la vita allegra
ci appartiene; cenere e ombra e favola diverrai.
Vivi memore della morte; l'ora fugge, l'istante
in cui ti parlo è già passato». Ora che fai?
Due ami opposti ti lacerano. Quale seguirai? Occorre
che a vicenda li subisca con alterno ossequio, e a vicenda
li sfugga. Né tu potrai dire, una volta resistito
all'incalzante comando, che hai rifiutato di obbedire: «Ormai ho spezzato
i legami»; infatti anche una cagna dibattendosi strappa
la catena, ma fuggendo, con il collo ne trascina un lungo frammento.
«Davo, presto, voglio che mi creda, intendo finirla
coi tormenti passati» - ma Cherestrato dice questo mordendosi
le unghie a sangue -. «O dovrei disonorare parenti così
a modo? con la mia sinistra fama dovrei frantumare
le sostanze paterne dinanzi a una turpe casa, mentre
canto ubriaco, con la fiaccola spenta bagnando ben bene
la porta di Crìside? "Bravo, ragazzo, rinsavisci. Sacrifica
un'agnella agli dèi redentori". «Ma piangerà, Davo, se la lascio?»
«Scherzi, si scaglierà su di te, ragazzo, a colpi delle sue rosse
pianelle, non trepidare e non cercare di rodere la fitta rete,
ora feroce e violento; ma se ti chiamasse, "Subito", diresti».
«Che fare dunque, non andarci neanche ora
se mi chiami e sia lei a supplicarmi?». «Se uscisti di lì interamente,
neanche ora». È qui, è qui l'oggetto della ricerca,
non nella verga agitata da uno stolto littore.
forse padrone di sé l'adulatore che l'inamidata Ambizione
porta in giro con la bocca spalancata? «Vigila e getta
ceci abbondanti al popolo che tumultua affinché anche
da vecchi, seduti al sole, ricordino le nostre Florali».
Cosa di più bello? Ma al ricorrere dei giorni di Erode, quando
le lucerne cinte di viole sulle unte finestre emanano
una grassa fumea e sguazza la coda del tonno
in cerchio nel rosso catino e la bianca brocca e ricolma
di vino, muovi silenzioso le labbra e impallidisci al sabato
dei circoncisi. Allora i neri fantasmi e i pericoli che derivano
dall'infrangersi dell'uovo, e i giganteschi galli, e la guercia
sacerdotessa
con il sistro, introducono in te gli dèi che gonfiano il corpo
se al mattino non gusti i tre capi d'aglio prescritti.
Ma prova a dire ciò fra i centurioni che soffrono di varici.
Subito l'enorme Puliennio scoppia in una grossolana risata
e per meno di cento assi ti offre all'asta cento Greci.
SATIRA SESTA
Già i primi freddi ti hanno condotto al focolare sabino,
o Basso? già le severe corde della lira vibrano
sotto il tuo plettro? Mirabile artefice, adatti
il virile suono delle antiche voci ai ritmi della cetra
latina, poi, straordinario vecchio, susciti giovanili
scherzi e giochi sulle corde con pollice onesto. Per me
s'intiepidisce la spiaggia ligure e l'inverno del mio mare
dove gli scogli formano un ampio fianco e il lido s'inarca
in un profondo seno. «Visitate il porto di Luni, o cittadini,
ne vale la pena!» A ciò esorta l'anima di Ennio,
dopo avere sognato russando di trasformarsi da pavone
pitagorico in Quinto Meònide. Qui non mi curo della gente,
né di cosa minacci al bestiame l'infausto scirocco,
né dell'angolo di terra del vicino perché più fecondo; e anche
se tutti quelli di nascita peggiore arricchissero, rifiuterei
d'intristirmi per questo, curvo di vecchiaia, di cenare di magro,
di toccare con il naso il sigillo d'una bottiglia di vino scipìto.
Divergano altri da ciò; l'oroscopo produce gemelli
di indole opposta. Uno soltanto nel giorno del compleanno
furbastro acquista della salsa e ci condisce l'asciutta insalata,
spruzzando da sé nel piatto il pepe al pari di cosa
sacra; l'altro, un ragazzo generoso, ha denti capaci
di finirsi un patrimonio. Io godrò del mio, ma senza
strafare: non imbandirò dei rombi ai liberti, non sarò pronto
a distinguere il delicato sapore delle torde. Vivi della tua messe,
e macina il granaio, lo puoi; che temi? Èrpica, e il nuovo
raccolto è già in erba. Ma il dovere ti chiama: un amico
rovinato da un naufragio si afferra ai càlabri scogli. Tutto
il suo e i voti inascoltati li ha inghiottiti lo Ionio. Egli
giace sul lido con i grandi dei strappati dalla poppa,
il fianco delle nave lacerata in balìa degli smerghi. Spezza
una parte viva del tuo, dònala al misero, affinché
non vaghi dipinto sulla tavoletta azzurra. Ma il tuo erede trascurerà
il banchetto funebre, adirato perché decurtasti il patrimonio;
darà all'urna le tue ossa senza profumi, deciso
a ignorare se il cinnamo non olezzi e se il ceraso guasti la cannella.
«Allora indenne intacchi il capitale?» E Bestio incalza
i maestri greci: «Così è: di quando è venuto
a Roma, con le spezie e i datteri, codesto nostro gusto
effeminato, persino i falciatori guastano la polenta con denso
grasso». Temerai tutto ciò dopo morto? Ma tu, mio erede,
chiunque sarai, ascoltami un po' in disparte dalla gente:
caro, non sai? è giunto l'alloro di Cesare per una straordinaria
vittoria sulla gioventù germanica e già si spazza la fredda
cenere dalle are, e Cesonia dà in appalto armi
da appendere sulle porte, clamidi regali, parrucche bionde
per i prigionieri, carri da guerra, enormi statue del Reno.
Allora per gli dèi e per il genio del condottiero a celebrarne le egregie
imprese compiute, offro cento paia di gladiatori.
Chi me lo vieta? Pròvati! Guai se non lo consenti!
Elargisco olio, pane e carne al popolino: me lo proibisci?
Dimmelo con chiarezza. «Il tuo campo vicino non è così
dissodato da permetterti ...». Via, se non mi resta nessuna zia,
cugina, pronipote di zio paterno, se la zia da parte
di madre fu sterile, e da parte della nonna non resta nessuno,
me ne vado a Boville o al poggio di Virbio, e subito trovo
per erede Manio. «Un figlio di ignoti» Chiedimi chi era
il mio quadrisnonno: non subito, ma lo dirò; aggiungine uno,
ancora uno: è già un figlio di ignoti, e questo
Manio per parentela mi diventa all'incirca fratello della bisnonna.
Tu che mi precedi perché mi chiedi la fiaccola mentre
corro? Per te sono il dio Mercurio, vengo giù io, proprio
come lo dipingono. Rilutti? Desideri goderti i resti?
Manca qualcosa alla somma: l'ho intaccata per me; ma per te
è intera, di qualsiasi entità. Evita di chiedere la sorte
dell'eredità lasciatami un tempo da Tadio, e non dire: «Poni
i beni paterni, aggiungi gli interessi, detrai le spese,
che resta?». Che resta? Via, ragazzo, metti più olio
sui cavoli! Nei giorni di festa dovrei cucinarmi dell'ortica
e una mezza testa di porco affumicata appesa per un'orecchia,
affinché quel nipote sazio di fegati d'oca,
quando la sua uretra capricciosa si stancherà di inguini vagabondi,
minga in una vulva patrizia? e di me non resterebbe che lo scheletro
e a lui tremolerebbe d'adipe il ventre macellaio?
Vendi l'anima al lucro, commercia, fruga instancabile
ogni parte del mondo, non vi sia nessuno più abile
nel battere la mano sui grassi Cappàdoci esposti sul tavolato;
raddoppia il patrimonio. «L'ho gia fatto, tre, quattro e dieci
volte mi torna fra le pieghe: segna dove fermarmi».
Si è trovato, o Crisippo, chi e capace di stabilire la misura del tuo
mucchio.

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