Marziale e la Roma del suo tempo

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Testo

Tesina di latino. Marziale e la Roma del suo periodo

Satira: specchio del periodo storico.
Analisi della situazione culturale romana e rapporto con gli epigrammi di Marziale
Denaro: obiettivo principale di vita.
Attualizzazione del concetto di periodo decadente.
La satira nel mondo attuale.

Davvero nauseante il quadro della vita quotidiana in Roma tra il I e il II secolo.
La società era effettivamente in crisi. All’idealismo, allo spiritualismo – e non solo letterali – del secolo precedente, si andava via via sostituendo il più crudo realismo, e non solo in letteratura, ma anche e soprattutto nella vita pratica.
Sembra quasi che di quella lotta eterna fra bene e male, fra spirito e materia, si toccasse allora il vertice, e che il vizio insorgesse, in uno sforzo supremo contro la virtù, per soffocarla, distruggerla per sempre.
Una crisi quella della società del I e II secolo, ch’era, però, il sintomo di un fermento.
Era quindi fatale che in quel periodo d’assenza di grandi , comuni ideali, gli scrittori, spesso partecipi loro stessi di tutti i vizi della società in cui vivevano – ed è il caso forse di Petronio – si soffermassero generalmente, e talvolta con sadica compiacenza, a esaminare, a descrivere fin nei minimi particolari gli aspetti esteriori della vita di quella società, più che romana, cosmopolita.
Ricatti, adulteri, stupri, violenze, aborti, omosessualità, veleni, vendette, prodigalità, avarizia, avidità di ricchezze, falsificazioni di testamenti, adescamenti, raggiri, cacce all’eredità, sfogo dei sensi, spettacoli immorali, delazioni, processi, condanne, esili, servilismo, sete di lusso, di sfarzo.
A ciò si aggiungano, perché finivano per avere spesso vasta risonanza anche fra i semplici cittadini, gli intrighi di corte, che durante quel secolo ebbero un crescendo spaventoso, fino a culminare nei fratricidi, nei matricidi.
Conseguentemente, la vita cittadina era dominata, almeno apparentemente, da gruppi di persone, che noi definiremmo feccia della città. Non che fossero essi a regolare davvero lo svolgersi della vita quotidiana; ma certo, il loro esempio, le loro intimidazioni, la loro stessa presenza turbavano la vita sociale, in maniera abbastanza grave. Si trattava di bellimbusti, perditempo, crapuloni, simulatori, dissimulatori, falsificatori, adulteri, adultere, ruffiani, ruffiane, arricchiti, parassiti, clienti, depravati, prostitute, prostituti, ubriaconi, assassini, declamatori, falsi poeti, pseudofilosofi, tutori ladri, delatori, avvelenatrici.
Bastava quindi che qualche poeta o scrittore, anziché perdersi nelle vacuità delle declamationes o nelle astruserie del tipo di poesia sciocca e insulsa, che cominciava a imporsi, osservasse con un po’ d’attenzione i frequentatori dei portici, delle taverne, del foro, delle palestre, delle terme, dei bagni, del Campo Marzio, o si aggirasse per qualcuna delle vie più battute della gente di malaffare, perché scoprisse una serie impressionante di tipi da ritrarre, e una quantità veramente grande di argomenti da trattare.
E quando ciò avvenne, si ebbe appunto, sulla scia della satira precedente, ma senza quel po’ di idealismo che questa aveva vivificato, un tipo di letteratura, che potrebbe definirsi realismo, se su di essa, in gran parte almeno, non avessero esercitato il loro influsso il moralismo delle scuole filosofiche e di retorica, i canoni delle stesse declamationes, e perfino le diatribe cinico – stoiche.
E si ebbe in Roma, questo tipo di letteratura, ad opera di poeti e scrittori, che si potrebbero chiamare volentieri realisti, o almeno oggettivi, se si potesse non sorprenderli mai ora a censurare, ora a filosofeggiare, ora a ironizzare, ora a declamare, ora a sorridere.
Persio, Petronio, Giovenale, Marziale, sono i pilastri di questa nuova letteratura, la quale, quanto più è lontana dalla bonaria, paterna satira oraziana, tanto maggiormente denunzia la corruzione dell’età che rappresenta.
E non c’è dubbio che, nel I sec. d.C., la vita sociale in Roma fosse radicalmente mutata e in peggio.
D’altra parte, nemmeno ai poeti, era stato possibile trarre spesso argomento dai fatti quotidiani della città, dai problemi minuti, dagli episodi di depravazione e dissolutezza; o perché avevano preferito isolarsi dalla vita politica vera e propria, polarizzando il loro interesse intorno a se stessi ( è il caso dei poetae novi ), o intorno alle speculazioni filosofiche ( è il caso di Lucrezio ); o perché,

anche quando avevano voluto restare, sia pure come semplici spettatori, ai margini della vita politica, avevano subito, direttamente o indirettamente, il fascino della grande Roma e del suo Impero, da una parte, o, spinti dal desiderio della novitas e della gloria letteraria, si erano dedicati a trapiantare nelle lettere romane i modi della superiore letteratura greca ed ellenistica, dall’altra: come appunto capitò a Virgilio, a Orazio, a Ovidio, a Properzio.
Si sarebbe anzi tentati di dire che la satira di Orazio, generalmente così bonaria e paterna, non è poi tutta cosparsa di quell’italum acetum, che, anche se sotto altre forme, o in altri generi letterari aveva pur suggerito, soprattutto nei versi fescennini, nell’atellana, nei mimi, nei posteriori ludi floreali, nella commedia, e forse nella stessa censura di Catone, molti brani improntati, senza dubbio, dello spirito satirico più violento e mordace. Che se questo spirito satirico è effettivamente una delle più spiccate caratteristiche della stirpe italica, perché non tentare, proprio in base ai suoi più svariati prodotti artistico – letterali, d’individuare lo sviluppo sociale, politico e culturale di quella stirpe medesima?
Si potrebbe così vedere in Orazio, l’uomo, in fondo, dell’aurea mediocritas, il maggior rappresentante dell’equilibrio e nella vita sociale e nell’arte che la ritraeva, nel senso che la sua satira fu lontana da ogni traccia di risentimento e da ogni punta di eccesso, e quindi più veramente degna di quel nome; e considerare, invece, la satira e l’epigrammatica del periodo successivo, come un ritorno, anche se in veste letterariamente più perfetta e culturalmente più elaborata, alla crudezza delle primitive manifestazioni satiriche, in un linguaggio che s’andava anch’esso via via sempre più riaccostando, spontaneamente, però, a quello d’ogni giorno, sostanzialmente identico al linguaggio che aveva dato vita a quelle primitive forme satiriche.
Si potrebbe, infine, concludere che, anche nel caso della letteratura romana, resta valido il principio che l’arte, in tutte le sue manifestazioni, è lo specchio dei tempi; e che, dove c’è satira, c’è lo spirito genuinamente italico, romano.
“ Satura – affermò Quintiliano – tota nostra est “
Nel I sec. d. C., le condizioni politiche si mutarono profondamente, soprattutto ad opera dei successori di Augusto. Ma anche l’accresciuto benessere, che ne controbilanciava la diminuita importanza politica, di quella ch’era stata la classe dirigente; i lunghi periodi di pace, o l’assenza almeno delle lotte di parte, finirono per determinare un cambiamento sostanziale negli usi e nei costumi dei cittadini.
A ciò si aggiungano l’arricchimento di gente nuova al lusso, al denaro, ai piaceri della vita; la potenza sempre crescente dei liberti; il rilassamento dei costumi; l’esempio, quasi mai salutare, della corte e degli uomini ad essa legati; i favoritismi d’ogni genere; l’assenza di ogni scrupolo; la sete del denaro: e si avrà un quadro abbastanza preciso della società romana di quel periodo.
Una frase di Seneca, felice nella sua concisione, ma terribile nell’amaro significato, illumina, direttamente, sugli effetti della ricchezza presso gli uomini di quell’età, ma fa anche immaginare, indirettamente, gli ideali di quegli stessi uomini: “ Il denaro cade su certa gente, come in una cloaca “. E il denaro, purtroppo, era l’obiettivo principale di quanti in Roma operavano e agivano. Dal denaro era dominata tutta la vita; il denaro desideravano tutte le categorie di cittadini: dall’umile cliente alla più liberale cortigiana, dal modesto operaio all’amasio più degenerato. Era quindi fatale che, in assenza di altri ideali, proprio alle manifestazioni di corruzione, provocate dal denaro e dalla frenesia del piacere, si rivolgessero i poeti dell’epoca.
Alcuni, con intenti evidentemente morali e filosofici, come Persio, si fecero declamatori austeri e rigidi maestri di una morale stoica, propria di eletti, più che di gente comune; altri, mossi da sdegno e da ira, amarono, come Giovenale, rifugiarsi nel mondo dei morti, per bollare e sferzare a sangue i viziosi contemporanei, con una rappresentazione del vizio tanto cruda, da non cederla, per certi rispetti, agli scrittori più realisti di tutti i tempi; altri, come Petronio, raffinati cultori o imitatori perfetti del vizio, questo dipinsero con ironico compiacimento, liberi, sì, da ogni “ sciocco pregiudizio e finta severità “, ma succubi, al tempo stesso, del desiderio di originalità e di distaccata, fredda superiorità; altri – è il caso di Marziale – lontani da ogni moda filosofica, alieni da ogni sdegno, liberi da ogni sete di vendetta, rappresentarono, spesso col sorriso sulle labbra, il vizio e la virtù, il bene e il male.
Tutti, però, direttamente o indirettamente, volutamente o no, con intenti didascalici o meno, fecero della satira. Chè quello stesso sorriso di Marziale, quando non è – e non lo è quasi mai – riso aperto di compiacimento e di soddisfazione, non esclude la satira, anzi l’avvalora, la rafforza. Anche se questa, come osserva Terzaghi, dobbiamo spesso trarla dal contenuto stesso dell’epigramma, “ come il succo di un frutto “. Alle volte è il poeta stesso a offrircene il destro: come quando si riallaccia, più o meno velatamente, a motivi già propri delle favole di Esopo e di Fedro vedi le due bisacce e la rana e il bue ); o quando fa argomento dei suoi epigrammi motivi, sì, d’indubbia attualità – quali la caccia ai testamenti -, la ricerca della dote, l’avarizia - , ma già trattati nella satira precedente, da Orazio soprattutto, e nelle diatribe cinico-stoiche. Altre volte, invece, e molto più spesso, dobbiamo noi stessi rintracciarla, in una parola, in una frase, in una chiusura.
Tuttavia , sarebbe un falsare, un alterare arbitrariamente e l’opera e la natura del Poeta, che fu sempre vigile e attento osservatore della realtà, anche se non sempre ne fu disgustato, il volerlo sorprendere sempre in atteggiamento di censore, di moralista, di maestro. Chè non è poi tanto raro il caso in cui Marziale, se non proprio approva, almeno ammira l’abilità di certi mestieranti, abilità a lui negata e dalla natura e dalle circostanze, eppure spesso vagheggiata. Anzi, proprio quest’aspetto del suo animo ci assicura della genuinità della sua poesia, e ci rivela un lato caratteristico della sua umanità; di un uomo medio, s’intende. Di un uomo, cioè, che – ad esempio – la ricchezza desidera e brama, ma vorrebbe ottenerla per via di favori e protezione, di adulazione e servilismo, senza degradarsi nel vizio manifesto e sfacciato, quasi che l’adulazione e il servilismo non fossero, però, essi stessi da bollare, sul piano morale, come gli altri vizi.
E che dire di quel dipingere le oscenità, spesso a freddo, senza cioè la spinta del senso o della passione, qualsiasi essa fosse, ma solo per farsi leggere da quegli uomini, che in mezzo a quelle oscenità vivevano? Unica attenuante, sembra, a questo proposito, la moda del secolo. Né d’altra parte, Marziale fu il solo, nella letteratura latina, a trattare argomenti licenziosi, e a offrire al lettore quadri di un realismo talvolta nauseante.
Da Plauto a Catullo, da Virgilio a Orazio, da Ovidio allo stesso Augusto , da Properzio a Giovenale, da Petronio ad apuleio, da Ausonio allo stesso S. Girolamo, le pagine della letteratura di Roma si vanno sempre più infittendo, di generazione in generazione, di situazioni pornografiche, o semplicemente realistiche. Colpa, quindi, più che di Marziale, della società stessa in cui egli viveva, e che i libri del Poeta non solo divorava, ma anche, si potrebbe dire, essa stessa compilava. Colpevole inspiegabilmente ed esclusivamente sarebbe il Poeta, s’egli s’atteggiasse a maestro di corruzione e di licenziosità. Ma egli vuole soltanto ritrarre la realtà che lo circonda: “Hominem pagina nostra sapit “ affinchè, nelle sue pagine, gli uomini possano rispecchiarsi e riconoscersi per quello che sono: “ Adgnoscat mores vita legatque suos “. Né potremmo noi negare che egli, così operando, si sia trovato sullo stesso piano morale di Seneca prima, di Tacito poi; Con il vantaggio, su costoro, di non aver mai indossato la maschera del moralista, e di aver aderito, con maggior spontaneità, allo spirito tutto romano del famoso castigat ridendo mores.
Va però tenuto presente anche il fatto che Marziale, consapevole di usare un linguaggio procace, proprio all’inizio del primo libro scrive testualmente: “ Domanderei scusa per il crudo realismo delle parole, ch’è poi il linguaggio proprio degli epigrammi, se l’esempio fosse partito da me. Ma proprio così scrive Catullo, così Marso, così Pedone, così Getulico, così ogni autore molto letto “. Parole queste, che basterebbero da sole, se non a farci scusare del tutto il Poeta, almeno a rassicurarci della fondamentale onestà del suo animo. Ma quello che più ancora preme osservare è il fatto ch’egli solo, fra tutti. Ha sentito il bisogno di far quella premessa; così che noi possiamo, con una certa tranquillità, ritenere valida la sua famosa, ma tanto discussa affermazione: lasciva est nobis pagina, vita proba, o almeno riscontrare in lui, uomo di quel secolo, un certo senso morale, che da più parti, invece, gli vorrebbe essere ancora negato. D’altra parte, la licenziosità, la scurrilità, l’oscenità, si vanno via via sempre più estendendo col procedere dei libri. E anche questo dovrebbe dimostrarci che il Poeta, la cui arte è raccomandata esclusivamente a quelle oscenità, su queste cose osò insistere, solo quando s’avvide che i suoi libri andavano a ruba. Chè certo, se non avesse trovato editori, e, più ancora, non avesse riscosso tanto favore dal pubblico dei lettori, Marziale, che poetava anche per vivere, non avrebbe, probabilmente, continuato per quella via.
Infine, non troppo raramente il Poeta, pur nella licenziosità dell’espressione, dà consigli di onestà e di moralità; consigli che noi stessi, a distanza di quasi venti secoli, potremmo, in gran parte almeno, sottoscrivere.
In conclusione, avremmo certamente tacciato il Poeta di ipocrisia, o almeno di reticenza, se egli, volendo rappresentare la vita quotidiana di quella società, avesse usato perifrasi e vocaboli, oltrechè inefficaci, in completa dissonanza con la vita di quel secolo, di cui è ben nota la passione per gli spettacoli del circo, per le feste floreali, per i Saturnali, per i mimi e le mime.
Come credo che chiameremmo o reticenti o irresponsabili, quei medici, di manzoniana memoria, che continuassero a parlarci, in caso di peste, non di peste, ma di febbri pestilenziali.
Un linguaggio simile potremmo tollerare, solo se rivolto, per umana compassione, a un malato, ormai inguaribile.
Ma era forse tale, la società romana del I e II secolo d. C.? O non cominciavano già ad avvertirsi in essa i primi sintomi di una rigenerazione, della rigenerazione operata dal cristianesimo?
Non passeranno ancora molti decenni, e contro quella stessa società, che quella vita non solo amava vivere, ma anche rappresentare sulle scene, lancerà la sua potente invettiva la singolare eloquenza di Tertulliano.
Con ciò , tuttavia, non si intende fare di Marziale il medico della società dei suoi tempi; ma bisogna ammettere che egli ne fu certamente il più obiettivo anatomista. Che i libri di anatomia, poi, non tutti possano o sappiano leggere, è tutt’altro discorso.

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