Le Georgiche: exursus su Virgilio

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Testo

Virgilio o Vergilio
(Publio Marone)
P oeta latino (Andes [od. Pietole], presso Mantova, 70 - Brindisi 19 a.C.). Nato da un modesto proprietario terriero che accresceva le sue magre risorse, secondo le diverse fonti, con l'attività di vasaio o di apicoltore o di corriere privato al servizio di Magio, un signore di cui avrebbe sposato la figlia Magia Polla, ebbe un'accurata educazione prima a Cremona, dove compì gli studi di grammatica, poi a Milano, dove iniziò l'apprendimento della retorica. Per la scarsa vocazione alla carriera forense, quando si recò a Roma alla scuola del retore Elpidio vi rimase per breve tempo e, abbandonate le vuote ampollosità dei declamatori, come egli stesso dice, andò a Napoli, cercando nella filosofia dell'epicureo Sirone (da poco era stato pubblicato il poema di Lucrezio) una risoluzione dei problemi del suo spirito pensoso. Dalla dulcis Parthenope, cui rimase legato per tutta la vita, si allontanò verso il 44-43 per un soggiorno a Roma o, più probabilmente, per un ritorno al paese natio. Pare lecito dalla 1° e dalla 9° delle sue egloghe supporre che egli sia stato presente alla tragedia delle espropriazioni delle terre dei coloni di Cremona e di Mantova, in seguito alle quali anch'egli ebbe confiscato il suo podere, che in un primo tempo gli era stato conservato per intervento di Asinio Pollione. Travolto dalla comune sventura e con la nostalgia accorata della sua terra, si trasferì prima a Roma, poi nella diletta Napoli, dedicandosi interamente all'attività poetica. Cominciò con la pubblicazione delle Bucoliche(42-39), che gli procurarono grande fama, il favore di Ottaviano e di Mecenate e una casa in dono sull'Esquilino; continuò con le Georgiche(37-30), soddisfacendo le sollecitazioni di Mecenate di dare un contributo alle direttive del nuovo regime per un ritorno alla vita dei campi, e, infine, nel clima esaltante dei primordi dell'Impero e su pressante invito di Augusto, si accinse a comporre l'Eneide(29-19), il poema nazionale del popolo romano. A quest'opera non poté dare l'ultima mano e più di una quarantina di versi rimasero incompiuti, perché la morte lo colse anzitempo. Da Napoli, dove abitava in una villa avuta forse in eredità dal filosofo Sirone, volle recarsi in Grecia per approfondire la sua cultura e raccogliere materiale utile per la definitiva stesura dell'Eneide. Quivi lo trovò stanco e malaticcio Augusto, proveniente dalle province orientali, e lo indusse a ritornare in Italia. Sbarcato a Brindisi e aggravatosi anche per la fatica della traversata, poco dopo morì. Il suo corpo fu trasportato a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Sulla tomba venne posto un distico, che sarebbe stato composto da lui stesso prima di morire, in cui si ricordano gli estremi della sua vita e il contenuto delle sue opere (Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope: cecini pascua, rura, duces: Mi diede i natali Mantova, mi rapì la Calabria, ora mi ospita Napoli: cantai i pascoli, i campi, i duci). È riassunto in questo distico l'itinerario della poesia virgiliana, esclusi i componimenti di discussa attribuzione raccolti nella cosiddetta Appendix Vergiliana Ma troppo difficile sarebbe riassumere in una formula un'opera di poesia tanto ricca e, nei tre tempi nel quali è scandita, caratterizzata da una profonda coerenza e insieme da un sicuro progresso verso forme d'arte sempre più complesse e suggestive. Fino dalle Bucoliche, legate al modello teocriteo ma pervase da un sentimento pensoso del destino umano, la poesia di Virgilio assume accenti inconfondibilmente originali. Nella finzione del mondo pastorale grazia e sensualità trovano i colori sfumati di una dolce malinconia, e la rievocazione di antiche leggende, l'amore della bella natura, il senso stesso della tragedia delle guerre civili si compongono in un ritmo di trasognata ma consistente bellezza. L'uomo, collocato nel sogno giovanile delle Bucoliche fuori dalla storia, diventa poi nelle Georgiche il protagonista della tenace lotta per strappare alla natura i suoi beni. Nell'Eneide infine il tema eroico si risolve in un'affermazione dei più nobili valori dell'umanità, ripensati in un momento di sicura fiducia, ma con lucida consapevolezza dei drammi e dei lutti che avevano portato a tanta altezza. Perciò l'Eneide, scritta come il grande poema nazionale di Roma, poté, al tempo stesso, essere letta come il poema dell'umanità nella sua ascesa faticosa verso i più alti destini.
La poesia virgiliana non avrebbe tuttavia incontrato universale consenso nei secoli senza quella perfezione di stile che rende la parola esatta e pur ricca di un'affascinante allusività. Alla materia attinta da diverse fonti ed elaborata con una lucida fantasia che cerca un sostegno nella documentazione scrupolosa, Virgilio dà una forma originale, ma personalissima, che è frutto di una raffinata tecnica stilistica e di una tormentosa ricerca della dizione esatta e convincentemente espressiva. Mirabile strumento ne è il verso esametro usato con consumata e varia perizia, così da adeguarsi armonicamente al soggetto trattato nelle diverse sfumature dei motivi idillici, elegiaci, drammatici, didascalici ed epici. Il mondo del poeta, in cui si riflettono le sofferenze, le fatiche, le illusioni e le passioni dell'umana vicenda, prende in esso concretezza, ordine e splendore. Grande la fortuna di Virgilio nel mondo antico: mentre i contemporanei salutarono Virgilio come vate della stirpe e lo anteposero, come attesta Properzio, allo stesso Omero, i grammatici della tarda latinità (Donato, Servio, Macrobio) lo proposero soprattutto come maestro di retorica e di stile, trascurandone i valori poetici. Gli scrittori cristiani lo predilessero tra i classici per l'equilibrio morale e la castigatezza dell'espressione: «anima naturalmente cristiana» lo disse Tertulliano, «specchio dell'anima umana» era considerato da Fulgenzio, con cui comincia il processo di interpretazione allegorica e morale della figura e dell'opera virgiliana. Tale prospettiva divenne quasi esclusiva nel medioevo, che fece di Virgilio un mago, un taumaturgo, un profeta di Cristo, soprattutto per l'intonazione messianica della 4° egloga. La tradizione medievale si rispecchia nell'opera di Dante, per il quale Virgilio fu la guida luminosa nel regno del sapere e dell'arte, e il simbolo dell'umana ragione e perfezione. Il rapporto di simpatia spirituale col poeta dell'Eneide si continuò con Petrarca e poi nel Rinascimento, che in Virgilio scoprì l'uomo e l'artista, ritrovando in lui il maestro del canto: l'Eneide virgiliana rimase sempre un punto di riferimento per la «poetica» rinascimentale nella sua tormentata disamina sul poema epico.
— Icon. L'immagine del poeta è affidata a due mosaici databili alla seconda metà del 3° sec.: il primo, rinvenuto ad Adrumeto e conservato a Tunisi al Museo del Bardo, presenta Virgilio assiso tra due Muse, con l'Eneide tra le mani; il suo volto sembra rispondere ai tratti fisionomici indicati dalle fonti letterarie per la durezza dei lineamenti, l'ampia struttura della fronte, gli zigomi rilevati. Il secondo mosaico, opera di Monno in Treviri, offre del poeta un'effigie alquanto idealizzata. Non sono state riconosciute come attribuibili a Virgilio alcune statue-ritratto variamente interpretate. Fra le più probabili, una testa di Copenaghen (Museo Ny Carlsberg) e un'erma del Museo dei Conservatori di Roma.

Georgiche
Poema didattico di Virgilio di 2.188 esametri in quattro libri (37-30 a.C.). Dedicato a Mecenate e con titolo in greco che può tradursi La vita e i lavori dei campi, tratta dell'agricoltura in generale (l.1°), della coltivazione delle piante e, in particolare, della vite e dell'ulivo (l. 2°), dell'allevamento del bestiame, soprattutto bovino ed equino (l.3°), e della coltura delle api, seguita dal mito del pastore Aristeo e di Orfeo ed Euridice (l.4°), probabilmente in sostituzione dell'originario elogio di Cornelio Gallo, caduto in disgrazia di Augusto. In conformità alla precettistica sulla poesia didascalica molte sono le digressioni inserite nel corso della trattazione: la fatica come legge del progresso umano e i prodigi avvenuti per la morte di Cesare (l.1°); l'elogio dell'Italia, della primavera e della vita campestre (l. 2°); la battaglia dei tori per il possesso della femmina e la moria del bestiame nel Norico (l. 3°) e il giardino del vecchio di Corico (l. 4°). La materia è attinta da numerose fonti, sia greche (Esiodo, Teofrasto, Arato, Nicandro, ecc.) sia latine (Catone, Varrone e Lucrezio), ma soprattutto da un'esperienza personale formatasi con il lungo e vivo contatto con la terra e la natura. Come per altre opere importanti della letteratura latina, il fine è indubbiamente pratico, con una felice coincidenza tra il mondo fantastico e spirituale del poeta e le esigenze della politica del tempo, che richiedeva una fattiva collaborazione, onde richiamare i Romani alla necessità, sotto l'aspetto sociale non meno che etico, del ritorno alla vita dei campi. Le Georgiche sono un capolavoro di poesia, a giudizio non solo degli antichi, ma anche dei moderni, che ammirano in esse l'intera fusione del motivo tecnico con quello umano, in una limpida e vigorosa forma poetica in cui l'esattezza della terminologia si congiunge alla vivificante comprensione delle cose, degli animali, degli uomini legati alla terra e delle divine forze operanti nel seno della natura. Muovendo da un motivo limitato e da una ragione contingente, il canto si allarga a una visione ampia e universale che supera i confini dell'agricoltura e, nel riconoscimento di una legge di giustizia per quanti faticano (iustissima telius), fa del duro e ostinato lavoro (labor omnia vicit improbus) imposto ai mortali dalla divinità suprema, lo strumento della dignità umana e del suo riscatto da ogni miseria.

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