la congiura dei pisoni

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LA CONGIURA DEI PISONI

Un principe malvagio come Nerone non poteva non avere nemici. Molti erano quelli che lo adulavano, ma moltissimi erano coloro che lo odiavano. Non tutti gli odi certamente erano conseguenza dell'iniqua condotta dell'imperatore. Qualcuno, animato dall'ideale repubblicano, lo odiava in quanto tiranno, qualche altro, perché danneggiato nelle sostanze, odiava il prodigo principe; chi l'odiava per oltraggi patiti, e chi per insoddisfatte ambizioni, chi perché si vedeva sacrificato ad altri negli onori, e chi perché col suo ingegno aveva suscitato invidia nell'animo dell'imperatore. Fin dal 62 il malcontento serpeggiava a Roma e fin da allora forse cominciarono ad esser tessute le prime fila della congiura che doveva esser scoperta nei. 65.
Ne facevano parte senatori, cavalieri, ufficiali delle coorti pretorie. Il capo era Caio Calpurnio Pisone, di illustre famiglia, ricco, generoso, di bell'aspetto; primeggiavano tra i congiurati il senatore Plauzio Laterano, console designato, Fenio Rufo, prefetto del pretorio, geloso del collega
Tigellino, Subio Flavio, tribuno dei pretoriani, ed Anneo Lucano, il più grande poeta del tempo.

Lucano era nato a Cordova, nel 39 da un fratello di Seneca; venuto a Roma in tenerissima età, era cresciuto alla scuola dei più famosi maestri e presto si era fatto notare per la vivacità del suo ingegno, per un poema Iliaca sulla caduta di Troia, e per un carme, Catachtonion. Da Atene, dov'era andato a perfezionarsi, era stato richiamato a Roma da Nerone, che lo aveva nominato àugure e questore e lo aveva ammesso nel ristretto numero dei suoi amici; nel 60 lo aveva perfino incoronato nel teatro di Pompeo. Ben presto però era venuto in odio all'imperatore, che per rivalità aveva, a quanto si dice, proibito al poeta di recitare versi o difendere cause. Ostacolato nella sua carriera e nelle sue legittime ambizioni, Lucano era entrato nella congiura di Pisone e in essa, ci dice Tacito, odia vivida intulit.
Secondo un biografo, il poeta aveva promesso ai compagni che avrebbe colpito per primo il principe; una simile promessa aveva fatta pure il senatore Flavio Scovino che per uccidere il tiranno aveva sottratto da un tempio un pugnale. Ma né l'uno né l'altro ebbero il tempo e la gioia di vibrare il colpo. Perché nel 65 la congiura fu scoperta.

Era a conoscenza della congiura una liberta di nome Epicari. Questa, trovandosi in Campania, tentò di fare entrare nella congiura un ufficiale della flotta di Miseno, che, avendo avuto parte nell'assassinio di Agrippina e non essendo stato da Nerone adeguatamente ricompensato, non nascondeva il suo malcontento. Ma costui, sperando di esser premiato dall'imperatore, denunziò Epicari la quale venne immediatamente arrestata, ma, messa a confronto col delatore, lo confuse. Lo stato di arresto della liberta fu tuttavia mantenuto, ma poiché nessun nome era stato fatto dalla donna all'ufficiale, non fu possibile alla polizia neroniana di ottenere alcun risultato nelle sue attivissime indagini.
Fu il liberto Milico, cui il senatore Scevino aveva dato da arrotare il pugnale col quale durante i giochi circensi voleva colpire il tiranno, che denunziò la congiura. Flavio Scevino fu arrestato, ma interrogato, negò. Siccome il giorno prima Scevino era stato visto a colloquio con Antonio Natale, anche questi venne chiamato e subì un lungo e stringente interrogatorio sulle cose dette durante quel colloquio. Scevino e Natale caddero in parecchie contraddizioni; Natale, minacciato di tortura, fece i nomi di Pisone e di Seneca; Flavio Scevino, sapute le rivelazioni fatte da Natale, credendo ormai scoperta la congiura, fece altri nomi, fra i quali quelli di Quinziano, Sessio Senecione e Lucano. Arrestati tutti e tre ed allettati ognuno dalla promessa del condono, i primi due fecero i nomi dei loro migliori amici. Mentre Lucano accusò sua madre innocente.

Il numero e la qualità dei congiurati spaventò non poco Nerone. Temendo per la vita e per il trono, si affidò alla custodia della sua fedele guardia germanica ed arruolò nuovi soldati. Guardie furono messe nei templi, fu raddoppiata la sorveglianza alla reggia, le vie furono percorse giorno e notte da ronde armate e gli arresti continuarono. Agli arresti seguivano gli interrogatori e le torture e a queste le condanne. Qualcuno dei congiurati tentò di negare, poi di commuovere ed infine, condannato alla pena capitale, vi andò incontro lamentandosi. Esempio di grande debolezza d'animo diede Fenio Rufo. Gli altri ufficiali delle coorti pretorie diedero invece lezione di fermezza al loro indegno capo. Uno di essi, il tribuno Subio Flavo, scagliò in faccia a Nerone queste parole : "Io ti odio: nessun soldato mi superò in fedeltà fino a che tu la meritavi; ma cominciai ad odiarti quando diventasti matricida, auriga, commediante e incendiario". Insomma non erano solo i cristiani a morire con fierezza e con il sorriso sulle labbra, ma anche i "pagani" romani.
Epicari, messa alla tortura, continuò a negare e non si lasciò sfuggire dalla bocca alcun nome; infine con una fascia che le avvolgeva il seno si strozzò da sola.
Calpurnio Pisone non si lasciò prendere: quando seppe che i soldati venivano per arrestarlo, si tagliò le vene e morì dissanguato. Era il suicidio di moda.
Plauzio Laterano invece fu tradotto davanti al tribunale imperiale e messo a morte senza che potesse salutare l'ultima volta i suoi cari.
Ad Anneo Lucano, la cui madre Acilia non venne molestata, fu dato da Nerone l'ordine di morire; il giovane poeta si tagliò le vene dei polsi ed aspettò tranquillamente la morte.
Sentendo che le estremità gli si raffreddavano per l'abbondante perdita di sangue, cominciò a recitare un suo carme, in cui descriveva la morte simile di un guerriero, e così cantando passò all'altro mondo.
Seneca era a conoscenza della congiura senza esservi coinvolto, ma Nerone prestò fede
alla denuncia di Antonio Natale e volle che il suo antico maestro morisse. Non gli fu neppure concesso di far testamento. Il filosofo, che alcuni avevano rimproverato di predicare, senza praticarla, la virtù, confermò con il contegno tenuto durante gli ultimi momenti della sua vita quel che aveva scritto nel De constantia sapientis, che cioè le ingiurie della sorte e gli oltraggi dei vili non valgono a turbare le anime generose. Altri storici riferiscono però che Seneca piagnucolando implorò più volte il suo ex allievo, di lasciarlo vivere.
Al pari del nipote Lucano e di Plauzio si tagliò le vene dei polsi; ma il sangue non usciva in abbondanza per cui egli si fece recidere le vene delle gambe; poi chiamò i suoi servi e dettò loro un discorso. Tardando la morte a sopraggiungere, bevve, secondo l'esempio di Scorate, la cicuta; da ultimo per mettere fine alla vita che non voleva andarsene si fece portare nel bagno dove cessò di vivere soffocato dai caldi vapori.
La moglie del filosofo, la buona e fedele Paolina, che gli era stata di conforto dopo che si era ritirato dalla vita politica, volle seguire il marito. Condotta per ordine di Seneca in un'altra stanza, essa si fece tagliare le vene; ma, saputo questo, Nerone ordinò che non fosse lasciata morire. Le sue ferite vennero fasciate e la virtuosa donna visse ed ereditò una parte dei beni del filosofo.

Morte simile a Seneca fece il console Vestine, marito di Statilia Messalina. Egli non faceva parte della congiura, ma Nerone era innamorato di sua moglie e per poterla sposare doveva sbarazzarsi del marito. Ordinò quindi che fosse ucciso. Vestine venne arrestato e chiuso nella stessa sua stanza; quivi gli vennero recise le vene, poi il disgraziato fu messo in un bagno caldo.
A queste seguirono altre condanne che colpirono personaggi invisi all'imperatore: Rufrio Crispino, già marito di Poppea, fu cacciato da Roma; la medesima sorte toccò al retore Virginio Flavio, al filosofo Mozonrio Rufo e a parecchi altri che vennero confinati nelle isole egee.
Premi vistosi ebbe il liberto Milico; Gervasio Proculo, che aveva denunziato Fenio Rufo, e Antonio Natale, vennero graziati; il Senato decretò ringraziamenti agli dei, stabilì che i giochi fossero celebrati con maggior numero di corse, che il mese di aprile, durante a quale era stata scoperta la congiura, prendesse il nome di Nerone e, infine, che fosse eretto un tempio alla Salvezza.

Ma non era tutto finito: altri processi ed altre condanne vide l'anno 66. Caio Cassio venne esiliato; Lucio Giunio Silano confinato in Apulia venne trucidato dai soldati; pure all'esilio fu condannato P. Gallo, amico di Fenio Rufo; Giulio Vetere, messo sotto processo, si diede la morte e con lui perirono la suocera Vestia e la figlia Pollitta, vedova di Rubellio Plauto che era perito vittima, quattro anni prima, di Tigellino. Morirono di lì a poco Anneo Mela, padre di Lucano, Rufrio Crispino, Ceriale Anicio e P. Anteio. Ostorio Scapula, che si era distinto nella Britannia, trovandosi in Liguria, ebbe l'ordine di darsi la morte. Egli si fece reciderete vene, poi, uscendo poco sangue dalle ferite, con l'aiuto d'un servo si diede una pugnalata alla gola.

Famosa è rimasta la fine di Caio Petronio, cui Tacito dedica due capitoli (18 e 19) degli Annali: "La sua giornata era un continuo dormire; di notte attendeva ai bisogni della vita e ai divertimenti. Giunto con l'ignavia a quella notorietà che ad altri è procurata dal lavoro, egli non era, a giudizio degli uomini, un crapulone e un dissoluto come sono tanti consumatori delle proprie sostanze, ma un voluttuoso raffinato, e i suoi atti e le sue parole tanto più avevano piacevole sembianza di semplicità quanto più mostravano di trascuratezza e di abbandono. Proconsole della Bitinia e poi console, diede prova di fermezza e di capacità. Tornato in seguito ad una vita che era o voleva sembrare depravata, ricevuto tra i non molti favoriti di Nerone, fu nella corte dell'imperatore l'arbitro del buon gusto, il regolatore di tutto ciò che nello sfarzo fosse leggiadria e finezza. Tigellino lo odiò avendo in lui visto il rivale, un rivale più esperto nell'arte della voluttà. Egli pertanto eccitò la crudeltà, quel sentimento cioè che era più forte nell'animo del principe, e accusò Petronio di amicizia con Scevino. Fu corrotto uno schiavo perché facesse da delatore, fu proibita la difesa; la maggior parte dei servi venne arrestata. Era l'imperatore in quei giorni partito per la Campania; Petronio, che lo seguiva, ebbe a Cuma l'ordine di fermarsi. Ma egli non fu trattenuto dal timore o dalla speranza né, d'altro canto, volle morire precipitosamente. Si tagliò le vene, poi le legò, indi di nuovo le riaprì: e si intrattenne con gli amici a parlare giovialmente di cose né gravi né grandi che restassero ad esempio della sua fermezza; né rimase ad ascoltare sentenze di filosofi o precetti sull'immortalità dell'anima, ma canzonette e facili poesie. Premiò alcuni schiavi, altri ne punì. Volle pranzare e dormire affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse naturale, Nei suoi codicilli non adulò Nerone o Tigellino come soleva fare la maggior parte dei condannati alla pena capitale, ma sotto i nomi di giovinastri e di cortigiane egli scrisse il racconto delle turpitudini imperiali fino alle ultime vergogne. Poi sigillò e mandò lo scritto a Nerone e ruppe l'anello perché non servisse in seguito a far delle vittime".(Tacito, Annali).

Fra i processi del 66 degni di ricordo sono quelli contro Barea Sorano e Trasea Peto. Barea Sorano era stato proconsole in Asia, ed era stato accusato di amicizia con Plauzio e di non aver punito i cittadini di Pergamo, i quali avevano cercato d'impedire che Acrato portasse via dalla città quadri e statue per abbellire il nuovo palazzo dell'imperatore. A Barea Sorano venne dato l'ordine di morire e lo stesso ordine fu dato alla figlia Servilia, moglie di un esiliato, che era stata accusata di aver chiesto agli indovini quale esito avrebbe avuto il processo del padre.
Più gravi erano le accuse che si facevano a Trasea Peto. Egli era un senatore e fra tanti adulatori era il solo che osasse mostrare la sua avversione all'imperatore. Quando il pretore Antistio era stato processato per ingiurie a Nerone, egli con il suo intervento era riuscito a render mite la condanna: invece che a morte Antistio era stato condannato all'esilio. Dopo l'assassinio di Agrippina, durante la lettura dell'epistola di Seneca, in segno di protesta si era allontanato dalla Curia; non era intervenuto quando erano stati resi onori divini a Poppea, né si era fatto vedere ai funerali dell'imperatrice, morta l'anno avanti. Non per questi motivi soltanto era inviso a Nerone; Trasea Peto, padovano, aveva cantato e fatto l'attore nei teatri della sua città, era quindi dall'imperatore considerato come suo rivale e questa era una colpa gravissima.
Quando Nerone tornò dalla Campania a Trasea Peto fu impedito di andare incontro al principe. Da quel dì la sua sorte fu segnata. Un giorno di quell'anno 66 furono visti picchetti armati nelle basiliche, ronde di soldati nelle vie e nelle piazze e due coorti pretorie intorno al tempio di Venere Genitrice. Qui era radunato il Senato. Ai senatori un questore lesse una lettera di Nerone in cui fra le altre cose l'imperatore muoveva rimprovero ai padri di poca assiduità alle sedute senatoriali. La lettera era un pretesto. Finita la lettura, Capitone Comizione ed Espio Marcello si levarono a parlare ed accusarono Trasea Peto e il genero Elvidio Prisco. All'accusa seguì la condanna: di esilio per quest'ultimo, di morte per il primo.
Andò a portargli la sentenza un questore. Trasea Peto mostrò grande serenità: entrato nella sua camera, tra la moglie Azzia e il filosofo Demetrio, suo amico, si fece recidere le vene. Al questore è fama che dicesse: "Libiamo a Giove liberatore! O giovane, ascolta: tenga il cielo lontano il presagio, ma è tuo destino vivere in tempi pei quali è cosa utile fortificare gli animi con esempi di fermezza".

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