Il mito

Materie:Appunti
Categoria:Latino
Download:383
Data:21.01.2002
Numero di pagine:25
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
mito_3.zip (Dimensione: 24.27 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_il-mito.doc     119.5 Kb


Testo

IL MITO

Quando si parla di mito corriamo con la mente alle smisurate e fantastiche teogonie greche, nelle quali è raccontata ogni sorta di avventura, ma tutte le civiltà hanno le loro epopee divine e ogni mito cela più meraviglie di quelle che non traspaiono.
Anche la Grecia, prima dello sviluppo del pensiero filosofico, era dominata da una cultura prevalentemente orale, il sapere veniva raccontato e non letto, quindi quale miglior modo di insegnare se non deliziando l’ascoltatore con una storia avvincente? Per di più nel mito ci sono tutte le risposte alle domande irresolubili sulla vita,sulla forza della sessualità e sul destino ineluttabile: esso assume di conseguenza un valore religioso di esplicazione dei misteri. Questo è dunque il significato e l’importanza del mito presso tutti i popoli: vuole insegnare, divertire, dare una direttiva morale e legittimare il potere religioso.
In Grecia tuttavia attorno al VI°sec. a.C. il fenomeno del pensiero libero e razionale cambiò il volto di ogni cosa, anche del mito. Con Platone soprattutto, che non riterrà il mito una verità mistica ed inattaccabile, ma solo uno modo suggestivo di rappresentazione della verità, un metodo piacevole per esemplificare concetti altrimenti troppo complicati. Molti, nella storia della cultura, utilizzarono immagini mitiche, soprattutto i letterati che variamente vedono i classici come dei modelli, da Dante a Machiavelli, al Foscolo al Leopardi.
Quindi nel mito va vista l’origine stessa della ricerca filosofica, prima come chiaro segnale dell’interesse umano per il sapere, poi nel suo largo impiego per spiegare concetti filosofici complicati

Ci accingiamo ora a studiare la nascita della filosofia occidentale e non la nascita della filosofia in assoluto. In effetti sono proprio i Greci, gli antenati diretti della nostra cultura, che ci hanno lasciato il nome stesso di filosofia, oggi correntemente usato nelle lingue occidentali. E' anche incontestabile il fatto che essi abbiano dato un contributo importantissimo alla separazione di questa attività umana dalle altre e alla sua definizione odierna. Tuttavia, se con filosofia si vuole indicare la riflessione critica che gli uomini compiono su se stessi e sul senso del mondo naturale che li circonda e del mondo sociale artificiale che le diverse generazioni sono venute creando, è evidente che essa è presente in tutte le civiltà. Cambierà naturalmente il suo nome, avrà forse diversi rapporti con la religione o con le scienze naturali, ma essa esisterà necessariamente in qualche forma.
E' indubbiamente nella cultura greca che la filosofia ad un certo punto (all'incirca nel IV sec. a. C., dopo la morte di Socrate) venne distinguendosi chiaramente e in modo definitivo dalle altre attività umane, grazie all'opera straordinaria di Platone ed Aristotele. Ma è pure vero che anche qui essa aveva avuto un lungo periodo di gestazione e che essa venne alla luce nell'ambito di altre forme di pensiero, con le quali si era per lungo tempo accompagnata. I miti greci primitivi e le prime opere letterarie della civiltà greca davano a modo loro - nell'ambito del loro tipo di discorso, che non è quello critico e razionale - delle risposte al problema del senso del mondo, della vita e dell'azione umana. I filosofi hanno poi abbandonato queste originari modi di pensiero non razionali e non critici. Hanno però anche per molti versi ripreso nel contenuto alcune risposte, modificandole, ampliandole e soprattutto traducendole in un nuovo linguaggio astratto all'interno di nuovi contesti letterari.
Certe leggende sono romane, la maggior parte elleniche. Le due mitologie hanno sicuramente, fra di loro, molti punti di contatto, ma, prima di incontrarsi, avevano seguito strade distinte e di lunghezza differente. Il pensiero mitico greco è di gran lunga il più ricco e, in fin dei conti, imporrà le sue forme all’altro.
Alla lettera il termine mythos significa "racconto", e solitamente narra l'origine del mondo (cosmogonia) o di una stirpe, le gesta degli dei immortali e dei semidei o eroi, figli di un dio e di un mortale, ecc. Il mito è una forma espressiva tipica delle cosiddette culture primitive, profondamente diverse dalla nostra. Esso, in effetti, in tali culture, risponde a bisogni di tipo emotivo, affettivo, comunicativo e affabulativo, mentre noi abbiamo a disposizione molte forme espressive differenziate per rispondere a questi bisogni (dalla fiaba alla poesia, dalla canzone al melodramma, dalla telenovela al film d’autore).
Molti miti narrano in modo favoloso le origini dei nomi delle cose. Non solo questa spiegazione mitica, ma anche il semplice fatto di dare un nome alle cose per il pensiero arcaico significa già in parte dominarle. Questo è collegato con un atteggiamento magico nei confronti del mondo, e nei popoli primitivi il mito è narrato e cantato spesso proprio in occasione di pratiche magiche.
Del resto anche il far risalire dalle gesta degli dei e degli eroi le istituzioni e le usanze sociali e i fenomeni naturali vuol dire assicurare loro una funzione nell'ordine divino, per cui la ripetizione del racconto mitico è anche un rito, ed ha un significato di rassicurazione
Naturalmente il mito non ha un significato solo simbolico e affabulativo, ma risponde contemporaneamente anche a bisogni di tipo sociale e pratico, legati alla produzione e alla riproduzione della comunità : si accompagna, cantato, ai riti e alle feste della comunità, è cantato anche nelle cerimonie dell'iniziazione alla vita adulta, del matrimonio, dell'inizio della caccia e dei lavori agricoli, della guerra, dell'insediamento di un nuovo capo ecc.
Quindi le sue narrazioni favolose sull'origine del mondo, della stirpe, e delle potenze divine presenti nelle cose non sono semplicemente favole rassicuranti, ma contengono anche elementari informazioni tecniche, geografiche, astronomiche, sugli esseri viventi, ecc., così come prescrizioni sociali, mediche, rituali, ecc. Essendo in forma di narrazione, l'esposizione del mito (spesso cantato e accompagnato da riti e danze) naturalmente è anche opera di poesia, è spettacolo ed intrattenimento.
Ma non è dal punto di vista dei soli contenuti conoscitivi che il confronto deve essere effettuato. Si tenga conto che il modo di pensare mitico non è del tutto cancellato in nessuna delle grandi civiltà successive, nemmeno nella nostra tuttora permangono idee, metafore, valori, sentimenti, desideri inconsci, comportamenti rituali, ecc., che a vario titolo sono di tipo mitico. Per fare degli esempi significativi, nel linguaggio del calcio ricorre spesso la parola “mito”, così come i comportamenti di massa negli stadi hanno qualcosa di rituale.
In effetti il mito risponde a bisogni espressivi propri anche degli uomini cosiddetti civili, che non possono fare a meno di dare un senso alla propria vita collettiva e individuale, di cogliere il significato del mondo naturale e sociale, di esprimere le proprie aspirazioni e tensioni, ecc. attraverso immagini e simboli. E da più parti si afferma che il senso di disagio culturale e morale proprio del mondo moderno deriva anche dalla sua difficoltà di creare nuovi miti, adeguati a rispondere alle sue esigenze comunicative e affabulative, o di convivere con quelli già esistenti.
Anche il nostro rapporto con le culture mitiche è per sua natura difficile e problematico. Quando i miti sono ancora direttamente accessibili in forma orale, nei popoli primitivi contemporanei o in certe comunità marginali all'interno delle grandi civiltà, gli stessi nostri contatti con loro rischiano di modificarli. Infatti, col contatto con gli antropologi raccoglitori di miti, si modifica anche il tessuto sociale e culturale delle comunità che ne sono portatrici. Inoltre abbiamo enormi difficoltà di traduzione e interpretazione per le radicali differenze di linguaggio e di modo di vita. Quando i miti ci sono stati tramandati in forma scritta (come nel caso greco) è evidente che sono stati manipolati e in qualche misura reinterpretati all'atto della loro trascrizione, che avviene necessariamente in una fase di transizione verso una società diversa e post-mitica.

OVIDIO

Poeta latino del periodo augusteo nato a Sulmona in Abruzzo nel 43 a.C. , arrivò a Roma in età giovanile con il fratello per compiere gli studi di retorica in vista di una futura carriera politica. Si interessò invece di poesia e gli studi di retorica gli furono in seguito assai utili per la sua attività di poeta. La sua vita a Roma inizialmente fu quella di un uomo di successo, sia come poeta che come persona pubblica. Ricoprì cariche politiche, si sposò tre volte (l'ultimo matrimonio fu quello più significativo e felice) e compì numerosi viaggi in Grecia, in Sicilia in Asia e in Egitto da cui trasse una vasta conoscenza della cultura ellenistica. Conobbe inoltre i maggiori scrittori del suo tempo, Orazio, Gallo e Properzio. Ma una disgrazia lo colpì inaspettatamente l'8 d.C.: un decreto di Augusto gli impose l'esilio in Romania presso Tomi l'odierna Costanza e le sue opere furono bruciate come immorali. Nonostante le varie ipotesi, rimangono tuttora oscure le cause della sua condanna all'esilio. Ovidio è vissuto nell'età Augustea, ma era diverso dagli altri autori del suo tempo, i quali facevano parte del circolo di Mecenate e che si rapportavano, seppur in modo critico, al potere. Egli invece era un giovane bello e sereno, non si poneva problemi particolarmente impegnativi. Non aveva alcun interesse, non era un giovane impegnato. Aveva un atteggiamento del tutto relativistico nei confronti della vita. Era figlio delle nuove generazioni, niente a che vedere con l'ideale di giovane proposto dai poeti del tempo. Bello e amante della conversazione, visse di frivolezze di salotto in salotto, circondato da un numero enorme di amori. Scriveva poesie, perché diceva che gli veniva spontaneo. Abile verseggiatore, per lui la poesia era un divertimento e un modo per conquistare i salotti. Per di più aveva l'atteggiamento dell'attore, si sapeva muovere e atteggiare, non passava inosservato. Non aveva temi difficili o importanti; parlava degli obiettivi dei giovani del tempo: scelta semplice e tanti divertimenti.
Le poesie di Ovidio sono state composte per dare "spettacolo", erano cantate e recitate alla fine di una festa, in un salotto e comunque in pubblico. In questo senso Ovidio lanciò una moda: non importava tanto quello che si diceva, ma l'"audience", la spettacolarizzazione.
Ovidio amava sì il godimento, ma quello raffinato! Aveva un gusto superiore e una preziosa eleganza. Era un uomo da salotto, non da taverna. Successo, gloria, mogli, figli, adulterio.
Verrà esiliato e morirà in esilio nel 17 d.C. (scrive le Tristia per il perdono di Augusto, che non otterrà mai).

Ovidio è stato lo scrittore del mondo antico che più ha parlato di se stesso, le sue poesie sono degli autentici autoritratti. È questo il primo segno dei nuovi tempi, di una società che ormai rifrange solo se stessa, in cui i giovani sono prigionieri della propria immagine e sentono di conseguenza il bisogno di parlare con il pubblico di sé, a tutto questo Ovidio sommò la sua grande ambizione.
Anche la lettera ai posteri delle Tristia dove esplica la sua vocazione è una sua autobiografia, è una lettera encomiastica, elogiativa; qui produce la sua immagine per i posteri. È questa una prova della superficialità dell'uomo. Lui è uno specchio, una somma degli stereotipi del tempo che ha preso per se stesso.
Ovidio non sapeva neanche cosa fosse la poesia, scriveva solo versi, credeva di essere poeta per vocazione, era invece il richiamo del mondo luccicante. In verità aveva maestria nello scrivere, ma non pensava , sapeva solo godere dell'estro del momento.
Aveva un'adesione del tutto formale con il circolo di Messala Corvino, il quale si richiamava ad una forma di disimpegno intellettuale, era quindi opposto a quello di Mecenate. Frequentare circoli culturali era in verità una moda culturale.
Nell'8 d.C. Ovidio fu relegato a Tomi, nel Mar Nero, dove c'erano solo pescatori. Le relegatio era differente dall'esilio, perché non c'era né l'esproprio dei beni e la perdita della cittadinanza romana, era solo un allontanamento da Roma, per cui un rilegato poteva anche essere rimpatriato.
Lui dice che questo allontanamento fu causato da un error ed un carmen.
Il Carmen probabilmente si riferisce all'ars amatoria, che era un vero e proprio manuale del libertino, e che quindi era contro la politica di Augusto; però tale opera era stata scritta 8 anni prima (teoricamente dovrebbe essere stato allontanato da Roma molti anni prima).
Error perché probabilmente aveva a che fare con la tresca amorosa della nipote di Augusto Giulia Minore, che era figlia della moglie Giulia. Giulia minore era in amore con Decimo Giulio Silano, personaggio illustre dell'esercito, probabilmente dentro a questa tresca amorosa ci stava anche Ovidio, che non sappiamo se era il confidente di lui o di lei o se invece c'aveva messo la mano o qualcos'altro.
“METAMORFOSI”

Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV")sono l’opera più importante e impegnativa di Ovidio, il "poema delle trasformazioni", che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata. Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.
Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci). E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura.
L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua.
II poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum", un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico". Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, Ovidio pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione.
Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. II poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito.
Dominano nell'opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé.
Della trasformazione, Ovidio mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo.
La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di Ovidio, così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in Ovidio il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto.
Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l'amore è dunque 1'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli "Amores" e nell’ "Ars", bensì l'amore del mito (come già nelle "Heroides"), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre i1 loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto.
Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che Ovidio, in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.
ALTRE OPERE:Ovidio fu uno scrittore particolarmente fecondo; le sue opere sono raggruppabili all’interno di tre cicli:
OPERE ELEGIACHE:
-Amores: tre libri di elegie, che cantano l’amore del poeta per Corinna e altre donne, e raccontano avventure galanti nella cornice della frivola società romana. –Heroides: ventun lettere d’amore immaginarie, scritte da famose donne della mitologia antica ai loro amanti (tre di queste lettere sono accompagnate dalla risposta). –Ars amatoria (o Ars amandi): un “trattato” in tre libri su come conquistare l’amore femminile: si tratta di un vero e proprio codice e galateo dell’amore e della seduzione. –Remedia amoris: è l’antidoto dell’Ars amatoria; in un solo libro Ovidio spiega come evitare le insidie di Cupido, e in che modo liberarsene dopo essere caduti nel tranello d’amore. –Medicamina faciei: testo incompleto (circa 100 versi), dedicato ai cosmetici femminili.
OPERE EPICO-MITOLOGICHE: -Fasti: in sei libri (il progetto originario ne prevedeva dodici, uno per ogni mese dell’anno), vengono presentate le feste del calendario romano, spiegando le origini sia delle stesse festività sia delle leggende, delle tradizioni e delle usanze civili e religiose.
OPERE DELL’ESILIO: -Tristia: raccolta di elegie, in cinque libri, dedicate all’amare esperienza dell’esilio e scritte spesso in tono lamentoso e afflitto, nella speranza di ottenere il ritorno a Roma. –Epistulae ex ponto: vero e proprio epistolario, in quattro libri, che comprende lettere sottoforma di elegie, indirizzate ad amici e familiari; vengono affrontati gli stessi temi dell’opera precedente tra disperazione, pianti e suppliche al fine di ottenere il ritorno. -bis: poemetto di trecentoventuno versi, distici e elegiaci, su questo uccello divoratore di rettili. Il modello è l’omonimo poemetto perduto che il poeta alessandrino Callimaco scrisse contro Apollonio Rodio: anche Ovidio si scaglia contro un ignoto amico infedele, augurandogli una serie di sventure.

LO STILE
Scrittore elegante e piacevole, Ovidio si rivela artista esperto, dotato di ricchissima immaginazione, armonia stilistica, espressione chiara ed efficace, e di notevoli abilità tecniche nel costruire i versi. Soprattutto nelle Metamorfosi ha saputo creare, con fine sensibilità psicologica e poetica, una poesia di immagini varie e suggestive, talora scultoree nella loro viva rappresentazione. Un gusto scenografico per il “meraviglioso”, la capacità di moltiplicare prospettive, il divertito sorriso con cui il poeta segue le straordinarie trasformazioni che racconta, costituiscono il fascino perenne di questo poema.
Ovidio esplora i molti aspetti del desiderio e le sue conseguenze, ritrae in modo brillante e coinvolgente amanti di tutte le età e di ogni tipo, fedeli e infedeli, leciti e illeciti, felici e frustranti, giovani e vecchi. Egli mostra tollerante comprensione per le interminabili vicende e per i cambiamenti incessanti dei rapporti umani; mescola cultura, osservazione dettagliata, capacità di analisi psicologica; sa mantenere un occhio distaccato, divertito ma non indifferente. Soprattutto è capace di aprire le antiche immagini mitiche alle preoccupazioni personali e laiche di una civiltà urbana come la nostra.
E’ grazie al suo stile che le Metamorfosi sono diventate uno dei poemi più accessibili. Inoltre hanno ispirato a poeti imitazioni e traduzioni, da Chapman, Shakespeare, Ariosto ai nostri giorni.
Alla poesia più alta è possibile, con Ovidio, nell’elegia erotica, la più raffinata e maliziosa letteratura. Mai poeta latino è stato così preso, così pieno d se e dei suoi successi; e quando questi saranno interrotti dal rude colpo dell’esilio, mai voce meno dignitosa della sua si leverà ad implorare perdono. Con lui si rivela nella poesia latina un altro aspetto, che è segno dei tempi mutati: la mondanità fine a se stessa, priva di ogni ideale politico o religioso o morale, ma anche incapace di vivere profondamente le passioni da essa sfiorate.
La stupefacente facilità di versificazione lo rese per la poesia latina il modello di uno stile abbondante e impersonale. Egli imprime definitivamente alla poesia latina quella facilità elegante che sarà la delizia di tutti gli apprendisti e determinerà nei secoli futuri l’inflazione letteraria che li contraddistingue. Perciò egli si ricollega principalmente ai poeti stessi della latinità, a Catullo, a Virgilio, a Properzio, perché il suo contemporaneo mimetico, non si curava gran chè di conquistarsi una cifra fantastica e stilistica personale, ma preferiva gettarsi sugli spunti più in voga per gareggiare coi modelli in sapienza di variazioni e fecondità di svolgimenti, arrivando talvolta a polemizzare con loro.
Fra i modelli greci, egli mostrerà di prediligere quelli ellenistici, più congeniali alla sua mentalità. La sua immaginazione sfrenata, corre dietro a tutte le suggestioni, accatasta verso su verso in una successione di aggiunte si compiace di sfoggiare la propria erudizione o la propria capacità di intrecciare argomenti sopra ogni circostanza. In quest’andatura saltellante e ininterrotta, in questa specie di “carmen perpetuum”, si dissolve quasi ogni possibilità di fissare e distinguere un modello ben determinabile; si può al massimo accennare a questo o a quell’altro spunto, ma tutto poi si scioglie nel torrente in piena dell’abbondanza ovidiana. Egli non si accontenta mai di rielaborare con sobrietà un luogo di un modello, ma vuole insaccare versi e versi di una fattura sopra la suggestione altrui.

NARCISO ED ECO

Mentre spaventava i cervi per spingerli dentro le reti,
lo vide quella ninfa canora, che non sa tacere se parli,
ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni.
Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora,
benché loquace, non diversamente usava la sua bocca,
non riuscendo a rimandare di molte parole che le ultime.
Questo si doveva a Giunone, perché tutte le volte che avrebbe
potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove,
quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi
per dar modo alle ninfe di fuggire. Quando la dea se ne accorse:
«Di questa lingua che mi ha ingannato», disse, «potrai disporre
solo in parte: ridottissimo sarà l'uso che tu potrai farne».
E coi fatti confermò le minacce: solo a fine di un discorso
Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito.
Ora, quando vide Narciso vagare in campagne fuori mano,
Eco se ne infiammò e ne seguì le orme di nascosto;
e quanto più lo segue, tanto più vicino alla fiamma si brucia,
come lo zolfo che, spalmato in cima ad una fiaccola,
in un attimo divampa se si accosta alla fiamma.
Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole
e rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta,
non le permette di tentare; ma, e questo le è permesso, sta pronta
ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue stesse parole.
Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni,
aveva urlato: «C'è qualcuno?» ed Eco: «Qualcuno» risponde.
Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi,
grida a gran voce: «Vieni!»; e lei chiama chi l'ha chiamata.
Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: «Perché», chiede,
«mi sfuggi?», e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta.
Insiste e, ingannato dal rimbalzare della voce:
«Qui riuniamoci!» esclama, ed Eco che a nessun invito
mai risponderebbe più volentieri: «Uniamoci!» ripete.
E decisa a far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro
per gettargli, come sogna, le braccia al collo.
Lui fugge e fuggendo: «Togli queste mani, non abbracciarmi!»
grida. «Possa piuttosto morire che darmi a te!».
E lei nient'altro risponde che: «Darmi a te!».
Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti.
Ma l'amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto:
un tormento incessante le estenua sino alla pietà il corpo,
la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo
si dissolvono nell'aria. Non restano che voce e ossa:
la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre.
E da allora sta celata nei boschi, mai più è apparsa sui monti;
ma dovunque puoi sentirla: è il suono, che vive in lei.

Così di lei, così d'altre ninfe nate in mezzo alle onde o sui monti
s'era beffato Narciso, come prima d'una folla di giovani.
Finché una vittima del suo disprezzo non levò al cielo le mani:
«Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!».
Così disse, e la dea di Ramnunte assentì a quella giusta preghiera.
C'era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti,
che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti
o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera
o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita.
Intorno c'era un prato, che la linfa vicina nutriva,
e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo.
Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa,
s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.
Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.
Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi,
i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo,
e le guance lisce, il collo d'avorio, la bellezza
della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore,
e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso.
Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.
Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte!
Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle
intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!
Ignora ciò che vede, ma quel che vede l'infiamma
e proprio l'illusione che l'inganna eccita i suoi occhi.
Ingenuo, perché t'illudi d'afferrare un'immagine che fugge?
Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi!
Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa:
nulla ha di suo; con te venne e con te rimane;
con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi.
Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo
riescono a staccarlo di lì: disteso sull'erba velata d'ombra,
fissa con sguardo insaziabile quella forma che l'inganna
e si strugge, vittima dei suoi occhi. Poi sollevandosi un poco,
tende le braccia a quel bosco che lo circonda e dice:
«Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto?
Voi certo lo sapete, voi che a tanti offriste in soccorso un rifugio.
Ricordate nella vostra lunga esistenza, quanti sono i secoli
che si trascina, qualcuno che si sia ridotto così?
Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace
non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore.
E a mio maggior dolore, non ci separa l'immensità del mare,
o strade, monti, bastioni con le porte sbarrate:
un velo d'acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi:
ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d'acqua,
verso di me ogni volta si protende offrendomi la bocca.
Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore.
Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m'illudi, fanciullo senza uguali?
Dove vai quand'io ti cerco? E sì che la mia bellezza e la mia età
non sono da fuggire: anche delle ninfe mi hanno amato.
Con sguardo amico mi lasci sperare non so cosa;
quando ti tendo le braccia, subito le tendi anche tu;
quando sorrido, ricambi il sorriso; e ti ho visto persino piangere,
quando io piango; con un cenno rispondi ai miei segnali
e a quel che posso arguire dai movimenti della bella bocca,
mi ricambi parole che non giungono alle mie orecchie.
Io, sono io! l'ho capito, l'immagine mia non m'inganna più!
Per me stesso brucio d'amore, accendo e subisco la fiamma!
Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?
Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo!
Voto inaudito per gli amanti: voler distante chi amiamo!
Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta
da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni.
No, grave non mi è la morte, se con lei avrà fine il mio dolore;
solo vorrei che vivesse più a lungo lui, che tanto ho caro.
Ma, il cuore unito in un'anima sola, noi due ora moriremo».
Dice, e delirando torna a contemplare quella figura,
e con le sue lacrime sconvolge lo specchio d'acqua,
che increspandosi ne offusca lo splendore. Vedendola svanire:
«Dove fuggi?» esclama. «Fèrmati, infame, non abbandonare
chi ti ama! Se non posso toccarti, mi sia permesso almeno
di guardarti e nutrire così l'infelice mia passione!».
In mezzo ai lamenti, dall'orlo in alto lacera la veste
e con le palme bianche come il marmo si percuote il petto nudo.
Ai colpi il petto si colora di un tenue rossore,
come accade alla mela che, candida su una faccia,
si accende di rosso sull'altra, o come all'uva
che in grappoli cangianti si vela di porpora quando matura.
Specchiandosi nell'acqua tornata di nuovo limpida,
non resiste più e, come cera bionda al brillio
di una fiammella o la brina del mattino al tepore
del sole si sciolgono, così, sfinito d'amore,
si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma.
Del suo colorito rosa misto al candore ormai non v'è più traccia,
né del fuoco, delle forze, di ciò che prima incantava la vista,
e nemmeno il corpo è più quello che Eco aveva amato un tempo.
Ma quando lei lo vide così, malgrado la collera al ricordo,
si addolora e ogni volta che l'infelice mormora 'Ahimè',
rimandandogli la voce ripete 'Ahimè',
e quando il ragazzo con le mani si percuote le braccia,
replica lo stesso suono, quello delle percosse.
Le ultime sue parole, mentre fissava l'acqua una volta ancora,
furono: «Ahimè, fanciullo amato invano», e le stesse parole
gli rimandò il luogo; e quando disse 'Addio', Eco 'Addio' disse.
Poi reclinò il suo capo stanco sull'erba verde e la morte chiuse
quegli occhi incantati sulle fattezze del loro padrone.
E anche quando fu accolto negli Ínferi, mai smise di contemplarsi
nelle acque dello Stige. Un lungo lamento levarono le Naiadi
sue sorelle, offrendogli le chiome recise;
un lungo lamento le Driadi, ed Eco unì la sua voce alla loro.
Già approntavano il rogo, le fiaccole da agitare e il feretro:
il corpo era scomparso; al posto suo scorsero un fiore,
giallo nel mezzo e tutto circondato di petali bianchi.

PIRAMO E TISBE

«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello,
lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,
abitavano in case contigue, là dove dicono che cinse
Semiramide con mura di cotto la sua superba città.
Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli:
col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio,
se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire
non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.
Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti,
e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.
Da una sottile fessura, formatasi già al tempo
della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.
Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai
non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste
e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette
passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.
Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra,
dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:
"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore?
Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci?
Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto,
se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".
Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole,
a notte si salutarono e ognuno alla sua parte
di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.
L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte,
il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro
si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora,
dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere
i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte
e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città;
ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono
d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio
sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava,
un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.
Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare,
calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte.
Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire
dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato,
giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto:
audace la rendeva amore. Quand'ecco che, con le fauci
schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere
la sete sua nella fonte accanto una leonessa.
Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe
e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro,
ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.
La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete,
mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra
quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.
Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere
le orme inconfondibili di una belva e terreo
si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue:
"Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati.
Di noi era lei la più degna di vivere a lungo;
colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri,
e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,
divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato
voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi!
Ma è da vili chiedere la morte". Raccolse il velo
di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto;
poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:
"Imbeviti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".
E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco,
poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta
e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue,
come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende
e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto
d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.
I frutti dell'albero, spruzzati di sangue,
divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice
tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.
Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato,
lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,
impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita.
Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta,
la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.
Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra
in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno
di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare,
se una brezza leggera ne sfiora la superficie.
Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore,
in pianto disperato si percuote le membra innocenti,
si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato,
colma la ferita di lacrime, confonde il pianto
col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido,
grida: "Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato?
Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe
che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".
Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti
dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.
Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero
d'avorio privo del pugnale: "La tua, la tua mano e il tuo amore
ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma,"
disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi.
Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi
essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora.
Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori
siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo:
non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte
le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì.
E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato
d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi,
serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti
sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"
Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto,
si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.
E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori:
per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero
e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».

Esempio