Il fato, Cicerone

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Testo

“IL FATO” Cicerone

>I 1> ... perché riguarda i costumi, che i Greci chiamano #etica#, mentre noi siamo soliti denominare tale partizione come filosofia dei costumi, ma a chi si prefigge di elevare la lingua latina si addice di definirla filosofia morale. Bisogna inoltre spiegare l'essenza e la natura delle proposizioni, che i Greci chiamano #assiomi#; stabilire quale significato abbiano quando si esprimono sul futuro e su ciò che è possibile o che non lo è, rappresenta un problema complesso, che i filosofi definiscono #sul possibile#: nel suo insieme costituisce la #logica#, che io chiamo arte del ragionamento. Negli altri libri #Sulla natura degli dèi#, come pure nei libri che ho pubblicato #Sulla divinazione#, ho adottato un criterio ben preciso: il discorso si svolgeva sistematicamente attraverso argomentazioni prima a favore e poi contrarie, perché con maggior facilità ciascuno comprovasse la tesi che gli pareva più verosimile; nella presente dissertazione sul fato, una circostanza mi ha invece impedito di attenermi a tale criterio. >2> Ero infatti nella mia tenuta di Pozzuoli e nei dintorni si trovava pure il nostro Irzio, console designato, persona a me legata da saldissimi vincoli d'amicizia e dedita agli stessi studi in cui sono cresciuto fin dall'infanzia: trascorrevamo insieme molto tempo, esaminando in particolare le misure che miravano alla pace e alla concordia tra i cittadini. Dopo la morte di Cesare sembrava infatti che si cercassero pretesti per nuovi disordini e ritenevamo di dover porre rimedio a una situazione del genere, per cui quasi tutti i nostri discorsi venivano spesi su tali argomenti. Era accaduto spesso in altre circostanze, ma ne discutemmo in particolare un giorno ben preciso, in cui avevamo più tempo del solito e meno visitatori; non appena Irzio giunse da me, prima trattammo degli argomenti che erano quotidianamente al centro dei nostri interessi e, starei per dire, d'obbligo per noi: la pace e la tranquillità pubblica.
>II 3> Dopo aver parlato di ciò, mi disse: «Allora, siccome non hai certo abbandonato, spero, gli esercizi oratori, ma li hai senz'altro posposti alla filosofia, potrei forse sentire un saggio della tua eloquenza?». «Ma certo: è tua facoltà», risposi, «tanto l'ascoltare quanto l'intervenire. Sì, è come tu ritieni: non ho abbandonato quegli studi oratori grazie ai quali ho infiammato anche te - ma già ardevi d'entusiasmo quando ti accolsi -, né i miei interessi attuali diminuiscono le capacità espressive, anzi le potenziano. Con il genere di filosofia che seguiamo, l'oratore ha infatti un'intima affinità: dall'Accademia prende a prestito la sottigliezza dell'argomentazione e in cambio restituisce alla filosofia la dovizia dell'arte oratoria e gli ornamenti retorici. Perciò», continuai, «dal momento che padroneggiamo entrambi i campi, oggi lascio a te la scelta, se preferisci trattare dell'uno o dell'altro». Allora Irzio: «È una cortesia squisita da parte tua», disse, «com'è tipico di ogni tuo gesto: la tua benevolenza non ha mai opposto un rifiuto ai miei desideri. >4> Allora, considerando che le vostre finezze retoriche mi sono note e che ti abbiamo ascoltato più volte e ancora ti ascolteremo impegnato in esse, e poiché le #Discussioni di Tuscolo# dimostrano che hai adottato la tecnica degli Accademici di disquisire e respingere ogni tesi proposta, vorrei suggerire un tema, per ascoltare il tuo parere, se non ti spiace». «Potrebbe forse spiacermi», ribattei, «ciò che a te sarà gradito? Allora mi ascolterai tenendo presente che parla un Romano, un uomo che timidamente si affaccia a questo genere di disputa e che ritorna a tali studi dopo un lungo intervallo di tempo». «Ti ascolterò discettare», disse, «nello stesso modo in cui leggo i tuoi scritti. Inizia dunque. Sediamoci qui».
>III 5> ... in alcuni dei quali, come nel caso del poeta Antipatro, delle persone nate nel giorno del solstizio d'inverno, dei fratelli che si ammalano contemporaneamente, dell'urina, delle unghie e di tutti i rimanenti esempi del genere, vale la solidarietà naturale, che io non nego, ma non vi è alcun influsso del fato; in altri casi possono invece verificarsi alcune circostanze fortuite, ad esempio per quel naufrago, oppure per Icadio o Dafita; sembra che anche Posidonio - sia detto con buona pace del maestro - abbia escogitato qualche esempio fittizio: palesi assurdità. Ebbene? Se il fato di Dafita era che dovesse cadere da cavallo e così morire, doveva forse cadere da quel determinato cavallo che, non essendo affatto un cavallo, di esso non aveva altro che il nome? E poi, era proprio la piccola quadriga incisa sull'elsa della spada quella da cui, secondo gli avvertimenti, Filippo doveva guardarsi? Quasi fosse stato ucciso dall'elsa! Che importanza ha, poi, se quel naufrago, che non ha nemmeno nome, è caduto in un ruscello? Eppure il nostro autore scrive che a costui era stata predetta una morte nell'acqua. E neanche nel caso del predone Icadio, insomma, vedo alcun intervento del fato: Posidonio non scrive infatti che qualcosa era stato predetto a Icadio. >6> Cosa c'è di straordinario dunque, se dalla volta della grotta gli è caduto un masso sulle gambe? Penso che, se anche Icadio non fosse stato in quell'istante nella grotta, il masso sarebbe comunque caduto. O non si concede affatto la possibilità di una circostanza fortuita, oppure la vicenda di Icadio ha potuto aver luogo per caso. Allora mi domando - e la questione riguarderà un campo ben ampio: se il fato non avesse un nome, una natura, un'essenza e se la maggior parte degli eventi, o addirittura tutti, si determinassero in modo fortuito, arbitrario o casuale, avrebbero forse uno svolgimento diverso rispetto ad ora? Che scopo ha dunque insistere sul concetto di fato, quando, anche senza ricorrervi, si può far risalire l'ordine universale alla natura o al caso?
>IV 7> Ma congediamo con buona grazia, com'è giusto, Posidonio e ritorniamo ai lacci di Crisippo: rispondiamogli, come primo punto, sulla questione della solidarietà naturale, quindi tratteremo i restanti problemi. Abbiamo dinnanzi agli occhi quali differenze intercorrano tra le nature dei vari luoghi: gli uni sono salubri, gli altri malsani; in alcune zone ci sono abitanti che sono ricchi di linfa e che, oserei dire, ne hanno in eccesso, mentre in altre si trovano persone disseccate e inaridite; molti altri fattori, poi, concorrono a differenziare nettamente luoghi e luoghi. Ad Atene l'aria è fine, motivo per cui gli Attici sono considerati anche più fini d'intelletto; a Tebe invece è densa, perciò i Tebani sono grossi e robusti. Eppure, quell'aria fine non sarà la causa per cui si diventa discepoli di Zenone o di Arcesila o di Teofrasto, né l'aria densa avrà l'effetto di far cercare una vittoria alle Nemee piuttosto che ai giochi istmici. >8> Distingui ulteriormente: quale influsso può avere la natura del luogo, se passeggio nel Portico di Pompeo piuttosto che nel Campo Marzio? In tua compagnia anziché con un altro? Alle idi piuttosto che alle calende? Quindi, come la natura del luogo ha una qualche incidenza per certi aspetti, ma nessuna per altri, così l'influsso degli astri può aver valore, se vuoi, in alcuni casi, ma certamente non in tutti. Ed è ovvio, perché nell'indole degli uomini ci sono differenze, tant'è vero che agli uni piace il dolce, ad altri un pizzico d'amaro, alcuni sono schiavi della passione, altri iracondi o crudeli o superbi, ma ci sono persone che rifuggono da difetti del genere: considerando dunque, afferma Crisippo, che tanto dista un'indole dall'altra, ci sarebbe forse da stupirsi, se queste differenze fossero provocate da cause diverse?
>V 9> Mentre svolge la propria discussione, Crisippo perde di vista l'essenza del problema e le basi su cui esso poggia. Se ognuno ha infatti una certa propensione dovuta a cause naturali e precedenti, non ne deriva che, a loro volta, le cause dei nostri sentimenti e desideri siano naturali e precedenti. Se così fosse, nulla sarebbe in nostro potere. Ora invece ammettiamo che non dipende da noi essere intelligenti o stupidi, forti o deboli. Ma chi pensa di poter concludere che neppure sedersi o camminare rientri nella sfera della volontà, non si rende conto di quale sia il rapporto tra causa ed effetto. Se è vero infatti che le persone intelligenti o ritardate nascono tali per cause precedenti, come pure i forti e i deboli, non ne consegue, tuttavia, che anche il loro star seduti o camminare o svolgere una qualche attività sia definito e fissato per cause principali. >10> Abbiamo appreso che Stilpone, il filosofo megarico, era persona davvero fine d'intelletto e godeva di ottima fama ai suoi tempi. I suoi amici scrivono che aveva un debole per il vino e le donne; non lo riportano a motivo di biasimo, ma semmai a suo elogio: i difetti naturali erano stati da lui domati e tenuti a freno grazie al sapere filosofico, tanto che nessuno lo vide mai ubriaco, nessuno scorse in lui traccia di insana passione. Ebbene? Non abbiamo letto in quale modo Socrate sia stato bollato da Zopiro, l'esperto di fisiognomica, che asseriva di saper riconoscere il carattere e l'indole di un uomo sulla base del corpo, degli occhi, del viso, della fronte? Affermò che Socrate era sciocco e tardo di mente, perché non aveva l'infossatura concava alla base del collo: diceva che quella parte del corpo era ostruita e chiusa; aggiunse anche che perdeva la testa per le donne, al che, si racconta, Alcibiade scoppiò in una sonora risata. >11> Tali difetti possono nascere da cause naturali, ma estirparli ed eliminarli alla radice - per cui chi prima inclinava a tanti difetti, poi se ne allontana - dipende non da cause naturali, ma dalla forza di volontà, dall'impegno, dal metodo. Sono tutte considerazioni che vengono meno, se, sulla base del principio della divinazione, sarà ribadita l'essenza e la natura del fato.
>VI> Dunque, se esiste una divinazione, da quali verità di esperienza mai deriva? Definisco verità di esperienza quel complesso di norme che in greco ha nome #teoremi#. Senza di esse non credo infatti che le persone dotate di competenza tecnica possano svolgere la propria attività specifica, né che sia in grado di predire il futuro chi si occupa di arte divinatoria. >12> Poniamo che le verità di esperienza degli astrologhi siano del seguente tenore: «Se una persona è nata, per esempio, al sorgere della Canicola, non morirà in mare». Sta' in guardia, Crisippo, se non vuoi arrenderti nella contesa che ti vede opposto, in serrato confronto, a Diodoro, sottile dialettico. Se risulta vera la deduzione che così si pone: «Se una persona è nata al sorgere della Canicola, non morirà in mare», è vero anche: «Se Fabio è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare». Dire che Fabio è nato al sorgere della Canicola e che Fabio morirà in mare, risulta in contraddizione; e siccome, per quanto riguarda Fabio, è dato come certo che sia nato al sorgere della Canicola, anche la seguente affermazione è contraddittoria: Fabio esiste e morirà in mare. Ne consegue che anche tale relazione è composta da membri in reciproco contrasto: «Fabio esiste e Fabio morirà in mare». Il che, secondo quanto si è posto come premessa, non può neppure accadere. L'affermazione «Fabio morirà in mare» rientra, quindi, nel novero degli eventi impossibili. Tutto ciò che è infatti definito falso nel futuro, è impossibile.
>VII 13> Ma si tratta di una conclusione, o Crisippo, che non accetti assolutamente, e proprio su questo punto verte la tua contesa con Diodoro. Egli sostiene infatti che sia possibile solo ciò che è vero o sarà vero; inoltre afferma che tutto quanto si avvererà è anche necessario, mentre quanto non si avvererà non è, sostiene, neppure possibile. Tu invece dici che anche ciò che non accadrà rientra nel possibile, come il caso che questa gemma venga spezzata, anche se ciò non avverrà mai; mentre non consideri necessario che Cipselo regnasse a Corinto, benché mille anni prima l'oracolo di Apollo avesse predetto il suo regno. Eppure, se darai il tuo assenso a predizioni divine di tal sorta, da un lato finirai per annoverare le false affermazioni riguardanti il futuro tra gli eventi impossibili [come se si dicesse che l'Africano non conquisterà Cartagine]; dall'altro, qualora si dicesse qualcosa di vero riguardante il futuro e che in effetti così si realizzerà, lo dovresti definire necessario: è una tesi di Diodoro che vi è radicalmente avversa. >14> Dunque, se si deduce correttamente: «Se sei nato al sorgere della Canicola, non morirai in mare», il primo termine della relazione - «sei nato al sorgere della Canicola» - è necessario (tutto quanto risulta vero nel passato è infatti anche necessario, come ammette Crisippo in dissenso con il maestro Cleante, poiché il passato è immutabile né può convertirsi da vero in falso); se, insomma, il primo termine è necessario, anche la conseguenza risulta necessaria. Crisippo, tuttavia, non sembra ritenere valida tale argomentazione in tutti i casi. Comunque, se c'è una causa naturale per cui Fabio non debba morire in mare, non è possibile che Fabio muoia in mare.
>VIII 15> Su questo punto Crisippo ondeggia nell'incertezza e spera che i Caldei e gli altri indovini si lascino ingannare e che in futuro non ricorrano a deduzioni, formulando le loro verità di esperienza nel modo seguente: «Se qualcuno è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare»; ma spera, piuttosto, che si esprimano così: «Non c'è uomo che sia nato al sorgere della Canicola e che debba morire in mare». Ma che simpatico arbitrio! Per non cadere nella tesi di Diodoro, Crisippo insegna ai Caldei in che modo debbano esporre le loro verità di esperienza. Mi chiedo allora: se i Caldei si esprimono in maniera da negare proposizioni d'ordine assoluto piuttosto che porre deduzioni generali, perché i medici, i geometri, gli altri non dovrebbero seguirne l'esempio? Un medico, innanzi tutto, ciò che avrà riconosciuto nel proprio campo, non lo esporrà nel modo seguente: «Se qualcuno ha le vene che pulsano in questa maniera, ha la febbre»; ma semmai così: «Nessuno, al quale le vene pulsino in questo modo, è immune da febbre». Allo stesso modo un geometra non dirà: «In una sfera i diametri si intersecano a metà»; si esprimerà, piuttosto, come segue: «In una sfera non ci sono diametri che non si intersechino a metà». >16> Che cosa impedirebbe di passare in tal modo da una deduzione alla negazione di proposizioni? Anzi, a dire il vero, possiamo esporre in altri termini gli stessi concetti. Poco fa ho detto: «In una sfera i diametri si intersecano a metà»; potrei dire: «Se in una sfera ci saranno diametri», oppure: «Poiché in una sfera ci saranno diametri». Varie sono le forme di enunciazione, ma nessuna è più distorta di quella cui Crisippo spera che si attengano i Caldei per fare un piacere agli stoici.
>IX 17> Nessuno di essi, però, si esprime così; sarebbe infatti più impegnativo imparare alla perfezione queste contorsioni verbali che non il sorgere e il tramontare delle costellazioni. Ma ritorniamo alla disputa di Diodoro che viene definita #sul possibile#, nella quale si indaga sul significato del possibile. Diodoro dunque stabilisce che è possibile solo ciò che è vero o che sarà vero. Il punto riguarda la seguente questione: nulla si verifica se non è necessario; tutto ciò che è possibile, o già è o necessariamente sarà; inoltre, non si possono mutare da veri in falsi gli eventi futuri, non meno che gli eventi passati; ma mentre negli eventi passati appare evidente il loro carattere immutabile, in quelli futuri, poiché esso non appare con altrettanta evidenza, sembra che non sia neppure ad essi intrinseco, per cui, in riferimento a una persona colpita da una malattia mortale, corrisponde al vero affermare: «Costui morirà a causa di questa malattia»; ma la stessa affermazione, se risulta detta in modo veritiero per un uomo in cui la gravità del morbo non sia altrettanto evidente, non di meno si realizzerà. Ne consegue che non può aver luogo nessun passaggio dal vero al falso, neppure in relazione al futuro. La frase «Scipione morirà» ha valore tale, per cui, sebbene si parli del futuro, non si può tramutare in falsa: ci si riferisce infatti a un uomo che deve necessariamente morire. >18> Se si dicesse: «Scipione morirà durante la notte, di morte violenta, nella sua stanza da letto», risulterebbe un'affermazione vera, perché si verrebbe a sostenere che si realizzerà quanto doveva realizzarsi, e la prova di ciò deve essere arguita dal fatto che si è effettivamente realizzato. Non sarebbe stato più veritiero dire: «Scipione morirà» rispetto ad affermare: «Morirà in quel modo», né per Scipione sarebbe stato necessario morire più che morire in quel modo, né avrebbe potuto mutarsi da vera in falsa la frase: «Scipione è stato ucciso» più che la proposizione: «Scipione sarà ucciso». Se le cose stanno nei termini sopra indicati, non c'è motivo per cui Epicuro debba temere il fato e cercare una difesa nella teoria degli atomi, sostenendo che deviano dal loro asse e facendosi carico, a un tempo, di due difficoltà insolubili: l'una, secondo cui un evento si viene a creare senza una causa che lo determini, per cui si genererebbe dal nulla - tesi che né Epicuro stesso né alcun filosofo naturalista condivide -; l'altra, secondo cui, quando due atomi si muovono nel vuoto, l'uno procede perpendicolarmente, mentre l'altro devia dal proprio asse. >19> Epicuro, insomma, anche se ammettesse che ogni proposizione è o vera o falsa, può non temere che tutto avvenga necessariamente per opera del fato; non per cause eterne, che provengono da necessità di natura, è infatti vero quanto viene espresso come segue: «Carneade scende all'Accademia», il che comunque non avviene senza cause; ma c'è una differenza tra le cause accidentali pregresse e le cause che contengono in sé la capacità di determinare gli eventi. Così, è sempre stato vero affermare: «Epicuro morirà, dopo aver vissuto settantadue anni, durante l'arcontato di Pitarato», eppure non c'erano cause fatali per cui dovesse così accadere; ma, poiché è accaduto, è fuor di dubbio che dovesse accadere come è accaduto. >20> Chi sostiene, quindi, che gli eventi che si realizzeranno sono immutabili e nega la possibilità che il vero nel futuro si converta in falso, non dimostra la necessità del fato: non fa che rendere esplicito il significato racchiuso nelle parole. Chi, poi, introduce una serie eterna di cause, incatena alla necessità del fato l'anima degli uomini, spogliata del libero arbitrio.
>X> Su questo punto basta così; passiamo ad altro. Crisippo giunge alla seguente conclusione: «Se esiste un moto senza causa, non tutte le proposizioni, che i dialettici definiscono #assiomi#, saranno vere o false; quanto sarà privo di cause efficienti, non sarà né vero né falso; eppure, ogni proposizione è o vera o falsa; perciò non si dà moto senza una causa. >21> Se le cose stanno nei termini sopra indicati, tutto ciò che accade, accade per cause pregresse; se ciò è vero, tutto accade per volere del fato; dunque, tutto ciò che accade, accade per volere del fato». Innanzi tutto, se volessi accordare il mio consenso a Epicuro e sostenere che non tutte le proposizioni sono o vere o false, sarei disposto a subire un colpo del genere piuttosto che ammettere che tutto accade per volere del fato: la prima tesi offre infatti materia di discussione, mentre l'altra è inaccettabile. Ecco il motivo per cui Crisippo ricorre a tutte le sue energie per convincere che ogni #assioma# è o vero o falso. Alla stregua di Epicuro, il quale teme che, una volta ammesso tale principio, si debba anche concedere che tutto accade per volere del fato (se una delle due proposizioni è vera dall'eternità, significa anche che è determinata e, se è determinata, che è anche necessaria: in tal modo egli ritiene che vengano dimostrati i princìpi di necessità e fato), così pure Crisippo, nel caso in cui non fosse riuscito a dimostrare che ogni proposizione è o vera o falsa, ha avuto paura di non poter avvalorare la tesi secondo cui tutto avviene per volere del fato e per cause eterne di eventi futuri. >22> Epicuro, però, ritiene che si possa evitare la necessità del fato con la teoria della deviazione degli atomi. Nasce così un terzo tipo di moto, che prescinde dal peso e dall'urto, quando l'atomo devia dal proprio asse di un piccolissimo grado (lo chiama #minimo#). Ed Epicuro è costretto ad ammettere, nei fatti se non a parole, che questa deviazione avviene senza causa. L'atomo muta infatti corso senza essere stato colpito da un altro atomo. Ma come possono urtarsi l'un l'altro gli atomi, se si muovono per forza di gravità, perpendicolarmente, lungo linee rette, come pretende Epicuro? Se un atomo non viene mai colpito da un altro, ne consegue che neppure si toccano reciprocamente. Da ciò deriva che l'atomo, ammesso che davvero esista e si sposti dal proprio asse, devia senza una causa. >23> Epicuro ha introdotto tale teoria in quanto a noi uomini, temeva, non sarebbe rimasto alcun margine di libertà, se l'atomo fosse costretto a muoversi sempre per forza di gravità naturale e necessaria, perché l'anima si regola a seconda di come è indotta dal movimento degli atomi. Democrito, il primo a formulalare la teoria degli atomi, preferì ammettere che tutto accade per necessità piuttosto che privare gli atomi del loro moto naturale.
>XI> Più acutamente argomentava Carneade, il quale spiegava che gli epicurei avrebbero potuto sostenere una difesa senza questa fittizia deviazione degli atomi. Se avessero infatti spiegato che sussiste un moto volontario dell'anima, sarebbe stato più semplice difendere questa tesi piuttosto che introdurre la deviazione degli atomi, tenendo soprattutto conto che, per quest'ultima, non sono in grado di trovare una causa: difeso questo punto, avrebbero potuto facilmente resistere a Crisippo. Pur avendo ammesso che non si dà moto senza causa, non vorrebbero concedere che tutto ciò che accade, accade per cause precedenti: non si danno infatti cause esterne e precedenti della nostra volontà. >24> Ci serviamo, pertanto, di un luogo comune nel parlare, quando diciamo che qualcuno vuole o non vuole qualcosa senza causa. Diciamo dunque «senza causa», come se dicessimo: senza una causa esterna e precedente, e non senza una causa in assoluto; allo stesso modo, quando definiamo un vaso vuoto, non ci esprimiamo nel senso inteso dai filosofi naturalisti, che non ammettono l'esistenza del vuoto, ma intendiamo un vaso, per esempio, senz'acqua, senza vino, senza olio; così, quando affermiamo che l'anima si muove senza una causa, vogliamo dire che il suo movimento prescinde da una causa precedente ed esterna, non che manchi in assoluto di una causa. Dell'atomo stesso si può dire che, quando procede nel vuoto per gravità e peso, procede senza una causa, poiché non gliene sopravviene alcuna dall'esterno. >25> Inoltre, per non essere derisi da tutti i filosofi naturalisti, se sosteniamo che nulla accade senza causa, dobbiamo distinguere ed esprimerci nei termini seguenti: ovvero dire che rientra nella natura dell'atomo stesso muoversi per peso e gravità e che tale è la causa stessa per cui esso così si sposta. In modo analogo, non bisogna ricercare una causa esterna per i moti volontari dell'anima: un moto volontario infatti racchiude in sé quella natura per cui esso è in nostro potere e a noi subordinato, e non senza causa, perché la natura stessa ne è causa. >26> Se le cose stanno in questi termini, perché ogni proposizione non dovrebbe essere o vera o falsa, se non avremo concesso che tutto quanto accade, accade per volere del fato? «Perché», risponde Crisippo, «non possono essere veri nel futuro gli eventi che non abbiano cause per cui debbano realizzarsi; ciò che è vero presuppone dunque necessariamente delle cause; così, una volta accaduto, sarà accaduto per volere del fato».
>XII> La questione è chiusa, se davvero bisogna convenire con te o che tutto accade per volere del fato o che nulla può accadere senza una causa. >27> Forse che l'affermazione: «Scipione prenderà Numanzia» non può essere vera, se non nel caso in cui una causa, connettendosi a un'altra dall'eternità, verrà a produrre tale effetto? Oppure avrebbe potuto essere falsa, se fosse stata detta seicento secoli prima? Se allora non fosse vera la frase: «Scipione prenderà Numanzia», neppure quest'altra sarebbe vera: «Scipione ha preso Numanzia». Può dunque essersi verificato nel passato un evento, la cui realizzazione nel futuro non sia vera? Come definiamo veri gli eventi del passato, la cui imminenza sia stata vera in un tempo ad essi precedente, così definiremo veri gli eventi del futuro, la cui imminenza sarà vera nel tempo a venire. >28> Se, poi, ogni proposizione è o vera o falsa, non ne consegue immediatamente che sussistano cause immutabili, eterne, che impediscono a qualche evento di prodursi diversamente da come avrebbe dovuto. Ci sono cause fortuite, che rendono vere affermazioni del tipo: «Catone verrà in senato», che non rientrano nell'ordine universale della natura. Eppure dire «verrà», quando è vero, risulta tanto immutabile quanto dire «è venuto». Non è, però, un valido motivo per aver paura del fato o della necessità. Bisognerà ammettere che, se l'affermazione: «Ortensio verrà nella villa di Tuscolo» non è vera, ne deriva che è falsa. Gli epicurei non accettano né l'una né l'altra soluzione, il che non è possibile.
Né ci lasceremo condizionare dal cosiddetto «argomento pigro»: dai filosofi è infatti definito #ragionamento pigro# l'argomento in base al quale, se noi lo seguissimo, non faremmo assolutamente niente nella vita. Ragionano così: «Se è stabilito per te dal fato che tu guarisca da questa malattia, che tu mandi a chiamare o meno un medico, guarirai; >29> allo stesso modo, se per te è stabilito dal fato che tu non guarisca da questa malattia, sia che tu mandi a chiamare o meno un medico, non guarirai; una delle due possibilità è stabilita dal fato: quindi, chiamare un medico non influisce per nulla».
>XIII> Questo genere di argomentazione è definito giustamente pigro e inerte, perché, sulla base dello stesso principio, alla vita verrebbe meno ogni attività. È anche possibile modificare l'enunciazione, non usando il termine «fato», ma mantenendo lo stesso concetto: «Se dall'eternità è stata vera la proposizione: «guarirai da questa malattia», sia che tu mandi a chiamare un medico sia che non lo mandi a chiamare, guarirai; allo stesso modo, se dall'eternità è stata falsa la proposizione: «guarirai da questa malattia», sia che tu mandi a chiamare un medico sia che non lo mandi a chiamare, non guarirai», e via dicendo. Tale ragionamento viene contestato da Crisippo. >30> Nella realtà alcune azioni sono semplici, altre congiunte. Semplice è l'azione: «Socrate morirà in quel determinato giorno»: per costui, che faccia o meno qualcosa, è fissato il giorno della morte. Ma se è stabilito dal fato che «Edipo nascerà da Laio», non si potrà dire: «che Laio si unisca o meno con una donna», perché l'azione è congiunta e confatale: così appunto la definisce Crisippo, perché è stabilito dal fato tanto che Laio giaccia con la propria moglie, quanto che da lei abbia come figlio Edipo. Per cui, posto di dire: «Milone lotterà ad Olimpia», se qualcuno ribattesse: «dunque lotterà, che abbia o meno un avversario», sbaglierebbe; «lotterà» è un'azione congiunta, perché senza avversario non si dà alcuna lotta. Quindi, tutti i sofismi di tal genere vengono confutati nello stesso modo. «Che tu mandi a chiamare o meno un medico, guarirai» è un ragionamento capzioso: è infatti stabilito dal fato tanto chiamare il medico, quanto guarire. Sono azioni che, come ho detto, Crisippo definisce confatali.
>XIV 31> Carneade non approvava tutto questo complesso di argomentazioni e riteneva che tale ragionamento giungesse a conclusione in maniera troppo dissennata. Pertanto, incalzava in altro modo, senza ricorrere ad alcun cavillo; la sua conclusione era la seguente: «Se tutto accade per cause precedenti significa che tutto accade secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso; se le cose stanno in questi termini, è la necessità a produrre tutto; e se ciò è vero, nulla è in nostro potere; eppure qualcosa è in nostro potere; ma se tutto avviene per volere del fato, tutto accade per cause precedenti; quindi, non tutto ciò che accade, accade per volere del fato». >32> Il ragionamento non potrebbe risultare più serrato e stringente. Se qualcuno volesse infatti respingere tale tesi e affermare: «Se tutti gli avvenimenti futuri sono veri dall'eternità, al punto che si verificano senz'altro nel modo in cui devono realizzarsi, è necessario che tutto accada secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso», non direbbe nulla. C'è una netta differenza tra il fatto che una causa naturale renda vere dall'eternità le cose a venire e il fatto che possano essere concepite come vere le cose future anche senza un'eternità naturale. Pertanto, sosteneva Carneade, neppure Apollo può predire l'avvenire, eccetto quegli eventi la cui natura reca in sé cause tali, per cui essi debbano verificarsi necessariamente. >33> Che cosa teneva infatti presente il dio stesso, quando annunciava che quel famoso Marcello, colui che fu tre volte console, sarebbe perito in mare? Ciò era, in effetti, vero dall'eternità, ma non aveva cause efficienti. Così, Carneade era dell'avviso che ad Apollo non fosse noto neppure il passato, quando non ne rimanessero tracce, quasi come orme: figuriamoci il futuro! Solo conoscendo le cause efficienti di ciascun fatto, si può, in sostanza, conoscere che cosa accadrà. Nemmeno riguardo a Edipo, quindi, Apollo avrebbe potuto prevedere niente, perché nella natura non ci sono cause preordinate, sulla cui base il padre dovesse necessariamente essere ucciso dal figlio, né altro del genere.
>XV> Di conseguenza, se per gli stoici, i quali sostengono che tutto avviene per volere del fato, è coerente approvare oracoli di tal sorta e tutti gli altri esiti che si traggono dalla divinazione, non è invece d'obbligo la stessa ammissione per coloro i quali affermano che sono vere dall'eternità le cose a venire: sta' però attento che la posizione di questi ultimi non sia la stessa degli stoici: gli uni argomentano infatti su un campo più ristretto, mentre il ragionamento degli altri è sciolto e libero. >34> Se si ammettesse che nulla può accadere se non per una causa precedente, quale vantaggio si ricaverebbe, se ritenessimo quella causa non risultante da cause eterne? Causa è quanto produce l'evento di cui è causa: per esempio, la ferita è causa della morte, l'indigestione della malattia, il fuoco del calore. Perciò, non si deve intendere nel senso che la causa sia quanto precede ogni fenomeno, ma ciò che lo precede determinandolo. Il fatto che io sia sceso nel Campo Marzio non è la causa per cui ho giocato a palla, né Ecuba è stata la causa della rovina dei Troiani per aver partorito Alessandro, né Tindaro per Agamennone avendo generato Clitemnestra. In tal modo si dirà che perfino un viandante ben vestito è stato, rispetto al brigante, la causa per cui è stato da quello depredato. >35> Di tale tenore sono quei ben noti versi di Ennio:
O se nel bosco del Pelio, dalle scuri
abbattuti, non fossero mai caduti al suolo i tronchi
[d'abete!
Si sarebbe potuto risalire addirittura più indietro: «O se sul Pelio non fosse mai nato un albero!», o ancora prima: «O se non fosse mai esistito un monte Pelio!» e si potrebbe, seguitando identicamente a ritroso nel tempo, procedere all'infinito.
Se da lì la costruzione di una nave
non avesse avuto principio!
A che scopo ripercorre il tempo trascorso? Segue infatti quel celebre passo:
Giammai la mia signora, Medea, vagando, avrebbe
[lasciato
la casa, con l'animo afflitto, ferita da fiera passione,
ma non perché quei fatti comportassero la causa della sua passione.
>XVI 36> Inoltre affermano che c'è una differenza tra un evento senza il quale nulla può aver luogo e un evento con il quale è necessario che qualcosa sia. Nessuno dunque dei motivi sopra indicati risulta essere una causa, perché nessuno di essi produce da sé ciò di cui è detto causa. Causa non è ciò senza cui nulla accade, ma piuttosto ciò che, quando interviene, produce necessariamente ciò di cui è causa. Quando Filottete non era stato ancora ferito dal morso del serpente, quale causa era contenuta nell'ordine universale, per cui dovesse essere abbandonato sull'isola di Lemno? In séguito, però, vi fu una causa più stretta e legata al suo effetto. >37> La natura dell'evento svela dunque la causa. Comunque, dall'eternità è stata vera quest'affermazione: «Filottete sarà abbandonato su un'isola», né si poteva mutare da vera in falsa. È necessario che, tra due concetti contrari (definisco, in questo caso, contrari due concetti di cui uno afferma, l'altro nega), pur a dispetto di Epicuro è necessario - dicevamo - che l'uno sia vero e l'altro sia falso; quindi, la frase «Filottete verrà ferito» è stata vera per tutti i secoli precedenti, «non sarà ferito» falsa. A meno che per caso non si voglia seguire l'opinione degli epicurei, i quali sostengono che affermazioni del genere non sono né vere né false o, quando se ne vergognano, propugnano una tesi ancor più impudente: le contrapposizioni dei contrari sono vere, ma nessuna delle due tesi enunciate in esse è vera. >38> Ma che straordinario arbitrio e che miserevole ignoranza dell'arte dialettica! Se nell'espressione qualcosa non è né vero né falso, risulta senz'altro non vero; ciò che non è vero, poi, in che modo potrebbe non essere falso? Oppure, ciò che non è falso, in che modo potrebbe non essere vero? Ci si atterrà, insomma, alla tesi difesa da Crisippo, ovvero che ogni affermazione è o vera o falsa; la logica stessa ci costringerà ad ammettere, inoltre, che alcune cose sono vere dall'eternità, non vincolate a cause eterne e libere dalla necessità del fato.
>XVII 39> A dire il vero, tra le due posizioni dei filosofi antichi (la prima di chi riteneva che tutto si verificasse per volere del fato, al punto che il fato comportava la forza della necessità, posizione nella quale rientravano Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele; la seconda di chi pensava che ci fossero moti volontari dell'anima senza alcun intervento del fato), mi sembra che Crisippo, quale arbitro onorario, abbia voluto seguire la via mediana, anche se si avvicina di più a coloro che propendono per i moti dell'anima affrancati dalla necessità; ma, mentre fa uso della terminologia che gli è propria, scivola in difficoltà tali, da dover ribadire, suo malgrado, la necessità del fato. >40> Vediamo, se mi è concesso, quale ne sia la natura nella teoria dell'assenso, che ho trattato nella prima parte della mia esposizione. Quegli antichi filosofi, i quali pensavano che tutto accadesse per volere del fato, sostenevano che l'assenso si produceva per forza di necessità. Chi dissentiva da loro, affrancava l'assenso dal fato e asseriva che, se si attribuiva un carattere fatale all'assenso, non si poteva salvaguardare quest'ultimo dal concetto di necessità. Così argomentavano: «Se tutto accade per volere del fato, tutto accade per una causa precedente; se ciò vale per la tendenza, vale anche per quanto la segue, quindi anche per l'assenso; ma, se la causa della tendenza non è in nostro potere, neppure la tendenza lo è; quindi, neppure gli effetti prodotti dalla tendenza sono in nostro potere; non sono dunque in nostro potere né l'assenso né le azioni. Ne deriva che non sono giusti né gli elogi né i biasimi, né i premi né i castighi». Poiché la conclusione è difettosa, ritengono di poter ricavare, per via probabilistica, che non tutto ciò che accade, accade per volere del fato.
>XVIII 41> Crisippo, però, respingendo il concetto di necessità e pretendendo che nulla possa accadere senza cause preordinate, distingue i diversi tipi di cause, per sfuggire alla necessità e mantenere, al tempo stesso, il concetto di fato. «Tra le cause», sostiene, «alcune sono compiute e principali, altre mediate e immediate. Per cui, quando diciamo che tutto avviene per cause precedenti, non vogliamo intendere per cause compiute e principali, bensì per cause mediate [precedenti] e immediate». Pertanto, al ragionamento che poco fa ho portato a conclusione, Crisippo così si oppone: se tutto accade per volere del fato, ne consegue che tutto avviene per cause precedenti, ovvero per cause non tanto principali e compiute, quanto piuttosto mediate e immediate. Se tali cause non sono in nostro potere, non ne deriva che neppure la tendenza non sia in nostro potere. Una conseguenza del genere deriverebbe, se affermassimo che tutto accade per cause compiute e principali, di modo che, non essendo tali cause in nostro potere, neppure la tendenza lo sarebbe. >42> Perciò tale conclusione avrà valore contro chi introduce il concetto di fato in modo da coniugarlo con la necessità; non varrà invece nei confronti di chi non definirà né compiute né principali le cause precedenti. Quanto all'affermare che l'assenso deriva da cause precedenti, Crisippo ritiene che si spieghi con facilità, da sé, di qual genere esso sia. Sebbene l'assenso non possa aver luogo se non dietro l'impulso di una rappresentazione, tuttavia, dal momento che tale rappresentazione ha una causa immediata, e non principale, esso trova, secondo Crisippo, la spiegazione che abbiamo or ora proposto; non che l'assenso possa aver luogo a prescindere da una forza che lo solleciti dall'esterno (è infatti necessario che l'assenso tragga impulso da una rappresentazione), ma Crisippo ritorna all'esempio, a lui caro, del cilindro e della trottola, che non possono iniziare a muoversi se non colpiti. Ma una volta ricevuto l'impulso esterno, ritiene che successivamente, per la propria intrinseca natura, il cilindro continui a rotolare e la trottola a ruotare.
>XIX 43> «Dunque, chi ha spinto il cilindro», prosegue Crisippo, «ha dato inizio al moto, ma non ne ha determinato il movimento rotatorio; analogamente, la rappresentazione che si offre imprimerà la sua immagine e, per così dire, lascerà la sua impronta nell'anima, ma l'assenso sarà in nostro potere e, colpito dall'esterno, alla stregua di quanto si è detto per il cilindro, successivamente si muoverà in virtù di una forza naturale intrinseca. Se qualche fenomeno si verificasse senza una causa precedente, l'affermazione che tutto avviene per volere del fato sarebbe falsa; ma se tutto quanto accade è verosimilmente preceduto da una causa, quale argomentazione si potrà addurre per non ammettere che tutto avviene per volere del fato? A patto che s'intenda qual è la distinzione e la diversità delle cause». >44> Dopo tale spiegazione di Crisippo, se chi nega che l'assenso avviene per volere del fato concedesse almeno che esso non ha luogo senza una rappresentazione precedente, diverso sarebbe il ragionamento; se invece ammette che le rappresentazioni sono precedenti, senza però concedere che l'assenso avviene per volere del fato, perché non sarebbe la causa immediata ed essenziale sopra ricordata a muovere l'assenso, bada che non finiscano per sostenere la stessa tesi. Crisippo infatti, non concedendo che la causa immediata ed essenziale dell'assenso riposi nella rappresentazione, non ammetterà nemmeno che tale causa sia necessaria per il nostro assenso, in modo che, se tutto avviene per volere del fato, tutto avviene per cause precedenti e necessarie; parimenti, coloro che dissentono da tale tesi, riconoscendo che non si dà l'assenso senza che lo preceda la rappresentazione, sosterranno che, se tutto accade per volere del fato di modo che nulla avviene se non per il precedere di una causa, è inevitabile ammettere che tutto accade per volere del fato; da ciò è facile comprendere come costoro dissentano a parole e non nei fatti, poiché entrambi, chiarita e sviluppata la loro tesi, giungono a una conclusione identica. >45> In sintesi, la distinzione è la seguente: in alcuni casi si può affermare giustamente che, essendosi verificate cause pregresse, non dipende da noi che accadano gli eventi di cui sussistevano le cause; in altri casi invece, pur essendoci cause pregresse, è comunque in nostro potere che gli eventi vadano diversamente. Entrambi approvano tale distinzione: gli uni, però, ritengono che accadano per volere del fato quegli eventi, per i quali, essendosi verificate anteriormente le cause, non è in nostro potere che vadano diversamente; invece, per gli eventi che sono in nostro potere, ritengono che il fato ne rimanga escluso ...
>XX 46> Occorre discutere la questione sotto tale ottica, senza cercare una difesa negli atomi che vagano nel vuoto e deviano dal proprio asse. «L'atomo», sostiene Epicuro, «devia». Primo: perché? A parere di Democrito avevano, in effetti, una qualche altra forza di movimento, l'impulso, che egli chiama colpo, mentre secondo te, o Epicuro, si muovono in virtù della gravità e del peso. Quale nuova causa si trova dunque nella natura, per cui l'atomo dovrebbe deviare? Forse traggono a sorte tra di loro quale atomo debba deviare e quale no? O perché deviare di uno scarto minimo, e non maggiore? O ancora, perché di un solo scarto minimo e non di due o di tre? Questo significa esprimere desideri, non argomentare. >47> A tuo dire, né l'atomo si sposta dal proprio asse e devia perché colpito dall'esterno, né c'è nel vuoto, in cui l'atomo si muove, una qualche causa per cui l'atomo stesso non debba procedere perpendicolarmente, né nell'atomo stesso è intervenuto mutamento di sorta, per cui non possa mantenere il movimento naturale dovuto al peso. Così, senza aver addotto alcuna causa capace di produrre tale deviazione, Epicuro presume di aver fornito una spiegazione di rilievo, quando invece sostiene una tesi che il buon senso di ognuno rifiuta e respinge. >48> Anzi, nessuno, mi pare, ribadisce in maniera più netta non solo il concetto di fato, ma addirittura la necessità coartante dell'ordine universale, come pure la negazione dei moti volontari dell'anima, nessuno più di Epicuro, il quale riconosce che non avrebbe potuto opporsi al concetto di fato, se non avesse cercato rifugio in queste fittizie deviazioni. Anche ammettendo l'esistenza degli atomi, che comunque non mi possono provare in alcun modo, tuttavia queste deviazioni dall'asse non potrebbero mai trovare una spiegazione. Se è stato infatti assegnato agli atomi dalla necessità di natura il procedere per forza di gravità, perché è inevitabile che ogni peso, se non incontra ostacoli, si muova e si sposti, ne consegue necessariamente anche che deviino, o alcuni atomi o, se vogliono, tutti secondo natura ...

Esempio



  


  1. sls!

    Mi servono questi appunti su crisippo. grazie.