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LAVORO ESTIVO DI LATINO
Versioni per gli alunni con debito formativo
N° 123 pag. 80 Un episodio della guerra tarentina
Pirro, re degli epiroti, il quale si vantava di essere nato da Achille, venne in aiuto ai tarentini ai quali era stata dichiarata guerra dal senato poiché avevano offeso gli ambasciatori romani. Contro Pirro venne mandato il console Pubblio Valerio Sevino il quale, dopo aver catturato gli esploratori del re, ordinò che questi fossero condotti in giro per l’accampamento e fossero rilasciati incolumi, affinché riferissero a Pirro ciò che avevano visto. Dopo che gli epiroti e i romani avevano attaccato battaglia presso Eraclea e poiché gli epiroti si ritiravano ormai sconfitti, il re ordinò che fossero mandati gli elefanti contro i romani; questo mutò la sorte della battaglia. Infatti la mole delle bestie turbò i romani e i cavalli furono spaventati dalla vista e dall’odore degli elefanti a tal punto che fecero cadere i cavalieri o li trascinarono con sé nella fuga. La notte pose fine alla battaglia. Si dice che Pirro avesse massima stima dei romani catturati, che abbia seppellito i corpi ei morti e che quando vedesse i loro truci volti abbia esclamato: —Io, se avessi tali soldati, sottometterei il mondo—.
N° 136 pag. 88 Milziade governa con equità e giustizia
I coloni, che gli ateniesi avevano deciso di mandare nel Chersoneso, vennero mandati a Delfi per chiedere ad Apollo di quale comandante avvalersi: (e) infatti allora i traci occupavano quelle regioni. Consultandola questi espressamente Pizia consigliò che scegliessero per sé Milziade come comandante. Essendo questo il responso dell’oracolo Milziade, con un contingente scelto, partì con le navi per il Chersoneso e là giunse in breve tempo. Qui, dopo aver disperso le truppe dei barbari, conquistò tutta la regione, munì di fortificazioni i luoghi adatti, collocò nei campi la moltitudine che aveva condotto con sé e li arricchì con frequenti incursioni. E in quella circostanza fu aiutato dalla saggezza non meno che (quanto) dalla fortuna. Infatti dopo aver sconfitto gli eserciti dei nemici con il valore dei soldati, con grande equità stabilì le cose e decise di rimanere in quel medesimo luogo. Manteneva infatti tra quelli la carica di re (regia); e non l’aveva ottenuta con l’autorità più che con la giustizia. E ciò nonostante prestava obbedienza agli ateniesi dai quali era partito. Per questo manteneva il comando per sempre non meno per la volontà di quelli che lo avevano mandato quanto per quelli con cui era partito.
N° 144 pag. 92 Liberalità di Cimone
Cimone l’ateniese, figlio di Milziade, aveva proprietà e giardini in moltissimi luoghi ma fu di così grande generosità che non pose mai dei guardiani in essi per sorvegliare i prodotti. Faceva questo affinché nessuno fosse ostacolato nel raccogliere i frutti che voleva. Lo seguivano sempre i servi con i soldi affinché potesse aiutare subito i poveri. Spesso, vedendo qualcuno non bene vestito, gli donava il suo mantello, con cui (affinché) potesse sopportare il freddo. Ogni giorno gli veniva cucinata una cena tanto abbondante che potesse invitare presso di se tutti quelli non invitati che avesse visto nel foro: nessun giorno tralasciava di fare questo. La sua lealtà non venne meno a nessuno, la sua operosità non trascurò nessuno, il suo patrimonio non mancò a nessuno. Arricchì molti, aiutò sempre gli altri. Perciò la sua vita fu sempre tranquilla e la sua morte fu considerata da tutti prematura.
N° 146 pag. 92 La disfatta di Canne
Nel cinquecentoquarantesimo anno dalla fondazione di Roma, i consoli Lucio Emilio Paolo e Publio Terenzio Varrone combatterono contro Annibale presso il villaggio, il cui nome è Canne. Quando i soldati dei romani vennero a sapere che Lucio Emilio Paolo era morto in battaglia, fuggirono tutti disordinatamente da ogni parte. Settemila uomini fuggirono nell’accampamento più piccolo, diecimila in quello più grande, i quali furono i quali furono subito circondati da Carthalone e dai cavalieri cartaginesi. L’altro console fuggì a venosa con circa cinquanta cavalieri. Furono uccisi quarantacinquemilacinquecento fanti e duemilasettecento cavalieri: tra questi entrambi i tribuni dei consoli, Lucio Attilio e Lucio Furio Bibaculo e ventinove tribuni dei soldati, circa ottanta tra senatori e magistrati. Furono catturati in quella battaglia tremila fanti e millecinquecento cavalieri.
N° 148 pag. 93 Enea fugge da Troia
Quando infine Troia, assediata dai greci per dieci anni, fu presa col ferro e col fuoco pochissimi cittadini si salvarono dalla rovina e dalla distruzione della patria, tra i quali Enea, figlio di Anchise e di Venere. Questo, confidando nell’aiuto della madre, nel medesimo giorno in cui i greci si impadronirono di Troia, spinto dalla volontà del fato e dagli avvertimenti degli dei fuggì dalla patria con il padre Anchise e il figlio Ascanio e alcuni compagni. Perciò Enea osò cercare una nuova terra al di là del mare. Quello (Enea) sopportò moltissime avversità in questa lunga navigazione, poiché Giunone gli era ostile. La dea infatti, con l’aiuto di Eolo, suscitò una violenta tempesta, per la quale quasi tutte le navi dei troiani furono abbattute ed Enea stesso, con pochi compagni, fu scagliato sulle coste dell’Africa. Qui Didone, regina dei Cartaginesi conquistata dall’amore per Enea, a lui prestò aiuto in tutti i modi. Egli, essendosi trattenuto per qualche tempo presso la regina, su ordine di Giove lasciò l’infelice Didone e con i compagni navigò verso l’Italia, per porre le fondamenta dell’impero romano.
N° 150 pag. 94 Scipione in Africa
Tredici anni dopo che Annibale era sceso in Italia, Scipione, il quale aveva compiuto molte imprese gloriose in Spagna fu eletto Console e fu mandato in Africa. E qui combatté contro Annone, comandante degli africani, e abbatté il suo esercito. Nella battaglia prese l’accampamento con quattromilacinquecento soldati. Catturò Siface, re della Numidia, il quale si era unito agli afri, e invase il suo accampamento. Siface fu mandato a Roma da Scipione con i più illustri numidi e un immenso bottino. Udita questa cosa, quasi tutta l’Italia lasciò Annibale e i cartaginesi ordinarono che lui stesso tornasse in Africa, che Scipione devastava. Così, sedici anni dopo l’arrivo di Annibale, l’Italia fu liberata. Gli ambasciatori dei cartaginesi chiesero la pace a Scipione. Da quello furono mandati a Roma dal senato. A questi fu concessa una tregua di quarantacinque giorni e da questi si ricevettero trentamila libbre d’argento. Il senato decretò che fosse fatta la pace con i cartaginesi secondo il volere di Scipione. Scipione concesse la pace a queste condizioni: che non avessero più di trenta navi, che pagassero cinquecentomila libbre d’argento, che restituissero i prigionieri e i fuggitivi.
N° 154 pag. 97 Marcia di avvicinamento a Isso
Dario, avuta la notizia della cattiva salute di Alessandro, si diresse rapidamente al fiume Eufrate, e dopo aver congiunto le rive con i ponti, condusse al di là l’esercito, affrettandosi ad occupare la Cilicia. Già Alessandro, recuperate le forze, era giunto alla città di Soli; impadronitosi di questa, dopo aver preteso duecento talenti a titolo di multa, impose alla roccaforte un presidio militare. In seguito, sciogliendo i voti fatti per la salute, celebrò i giochi in onore di Esculapio e Minerva. A lui che guardava i giochi, viene recata la lieta notizia che i persiani erano stati sconfitti dai suoi in battaglia, che anche i Mindi e i Cauni e la maggior parte di quella regione erano stati ricondotti sotto la sua sovranità. Pertanto, dopo aver dato questo spettacolo divertente e spostato l’accampamento e dopo aver gettato un ponte sul fiume Piramo, giunse alla città di Mallo; da lì, con la seconda giornata di marcia, giunse alla città di Castabalo.
N° 155 pag. 99 Le Guerre Puniche
Il popolo romano combatté tre volte contro i Cartaginesi. La prima guerra Punica fu combattuta con forze navali. La causa dell’agitazione era addotta duplice: l’una che i Cartaginesi avevano aiutato i Tarentini, l’altra che i Mamertini chiedevano aiuto contro i Cartaginesi. Del resto, di fatto, la preda era il possesso della Sicilia e della Sardegna, isole fertilissime. Appio Claudio intraprese la guerra nello stretto di Messina, Manilio e Regolo la portarono avanti nella stessa Africa, il console Duilio presso le isole Lipari, Lutazio Catulo presso le Egadi, affondate le flotte dei nemici, la terminarono. La seconda guerra Punica fu di gran lunga la più cruenta di tutte. La causa era che Annibale, andando contro l’accordo, aveva distrutto Sagunto. La prima sconfitta fu presso il Ticino, essendo stato ferito il padre (senatore) Scipione che Publio Scipione, non ancora adulto, protesse e liberò; La seconda sconfitta fu presso Trebbia, essendo stato ferito il console Flacco; La terza fu presso il Trasimeno, essendo stato distrutto l’esercito di Flaminio; La quarta fu presso Canne, essendo stati distrutti due eserciti con la morte del console Paolo e con la fuga di Terenzio Varrone. In seguito, in verità, quattro comandanti si attribuiscono la gloria della guerra Cartaginese: Fabio si attribuisce (la gloria) come il temporeggiatore poiché sconfisse con l’indugio Annibale che minacciava la distruzione della città. Marcello che per primo si oppose ad Annibale presso Nola e massacrò il suo esercito in ritirata. Claudio Nerone che fermò Asdrubale che veniva dalla Spagna con ingenti truppe prima che si unisse ad Annibale e lo sconfisse in una grande battaglia. Publio Scipione che combatté in Africa presso Zama con Annibale e ottenne una suprema vittoria: infatti dopo questo fatto i Cartaginesi deposero la guerra contro i romani. La terza guerra punica fu maggiore per le glorie che per le imprese. Infatti Scipione Emiliano portò a termine la distruzione di Cartagine, iniziata dal console Manilio e, incendiata Cartagine, arrestò per sempre le milizie di tutta l’africa.
N° 174 pag. 113 Dopo una grave sconfitta il terrore si diffonde in Macedonia
Trascorsi alcuni giorni viene attaccata battaglia: vinti, i macedoni sono massacrati. Tolomeo, afflitto da molte ferite, è stato preso; la sua testa, amputata e infissa su una lancia, viene portata in giro in tutto il campo di battaglia per terrorizzare i nemici. Pochi tra i macedoni si salvarono con la fuga (let: la fuga salvò pochi tra i macedoni); tutti gli altri furono o catturati o uccisi. Essendo state annunciate queste cose in tutta la Macedonia, sono chiuse le porte delle città, tutto si riempie di lutto. Ora si dolevano sulla mancanza dei figli persi, ora temevano la distruzione delle città, ora chiamavano in aiuto i nomi dei loro re, Alessandro e Filippo, come potenza divina. Essi sotto questi non solo si sentivano difesi, ma anche vincitori del mondo; pregavano affinché difendessero la loro patria, che essi che essi avevano reso molto vicina al cielo con la gloria delle loro imprese e affinché portassero aiuto agli afflitti.
N° 361 pag. 223 Datame sventa un’insidia

Il re, poiché aveva concepito un odio implacabile contro Datame, dopo che si accorse che quello non poteva essere soggiogato con la guerra, cercò di ucciderlo con degli agguati: egli (Datame) evitò la maggior parte di questi. Così, dopo essergli stato annunciato che gli tendevano insidie alcuni che erano nel novero degli amici – riguardo ai quali, poiché i nemici gli avevano riferito questa cosa, ritenne che non doveva ne credere ne trascurare – , volle conoscere se gli era stato riferito il vero o il falso: E così si recò là, nella strada in cui gli avevano predetto che ci sarebbe stato l’agguato. Ma scelse (una persona) assai simile a se per corpo e statura e diede a lui il suo vestito e gli ordinò di andare in quel luogo in cui egli stesso era solito andare. Egli stesso, in verità, inizio a camminare tra le guardie del corpo con abito e con vestito militare. Ma gli insidiatori, dopo che la scorta giunse in quel luogo, tratti in inganno dalla condizione sociale e dall’abito assalirono quello, che era stato messo al suo posto. Ma Datame aveva comandato a quelli, con i quali camminava, che fossero preparati ad agire, poiché l’avevano visto. Egli stesso, non appena riconosce gli insidiatori di quello che accorre, scagliò contro quelli i dardi. Poiché tutti quanti avevano fatto questa cosa nello stesso tempo, prima che giungessero da colui che volevano aggredire, caddero trafitti.
Versioni per tutti gli alunni
N° 129 pag. 83 Alcuni esempi della forza d’animo degli Spartani
Uno spartano, del quale neppure il nome è stato tramandato, mentre era condotto a morte, poiché era stato condannato dagli Efori, aveva il volto allegro e felice. Mentre un nemico gli diceva: “Disprezzi le leggi di Licurgo?”, rispose : “Io veramente sono massimamente riconoscente a lui, poiché mi ha condannato a questa pena, che posso scontare senza far debiti”. Con uguale coraggio gli Spartani morirono alle Termopili. Cosa disse a quelli quel famoso comandante Leonida? “Proseguite con animo forte, Spartani; oggi forse pranzeremo negli inferi”. Questa gente fu forte, finché vigevano le leggi di Licurgo. Poiché un nemico Persiano aveva detto gloriosamente in un colloquio: “non vedrete il sole per il gran numero di giavellotti e frecce”, un soldato spartano: “allora –disse- combatteremo nell’ombra”. Ricordo gli uomini; quale spartana infine, che dopo aver mandato il figlio in combattimento e aver udito che era stato ucciso, “Per questo motivo - disse- avevo partorito, perché fosse tale da non esitare ad affrontare la morte per la patria”.
N° 147 pag. 93 Augusto enumera gli spettacoli che ha offerto al popolo
Tre volte diedi spettacoli gladiatori in mio nome e cinque volte in nome dei miei figli o dei miei nipoti; in questi giochi combatterono fino all’ultimo sangue circa diecimila uomini. Due volte ho offerto al popolo uno spettacolo di atleti in mio nome e il terzo in nome di mio nipote. Quattro volte istituii i giochi in mio nome, in qualità di console feci per primo tredici giochi dedicati a Marte. Ventisei volte diedi al popolo spettacoli di caccia alle bestie africane in nome mio o dei miei figli e nipoti nel circo o nel foro o negli anfiteatri, nei quali sono state uccise circa tremilacinquecento bestie. Diedi al popolo uno spettacolo di un combattimento navale oltre il Tevere, nel quale luogo ora c’è il bosco dei Cesari, scavato il suolo milleottocento piedi in lunghezza e milleduecento in larghezza. In questo luogo combatterono tra loro trenta navi rostrate triremi o biremi, più grandi o più piccole.
N° 153 pag. 97 Il poeta Filosseno e il tiranno Dionigi
Dionigi, tiranno dei Siracusani, aveva composto versi alquanto rozzi e spiacevoli a essere uditi, nei quali si era inettamente gettato. C’era tra i poeti che partecipavano ai suoi banchetti Filosseno, illustre autore di ditirambi, che era inesperto di adulazione. Nel banchetto Filosseno, poiché Dionigi aveva recitato gloriandosi stolte poesie, spiegò liberamente cosa pensava. Per questa libertà il tiranno fu offeso a tal punto che ordinò che Filosseno fosse legato e cacciato nelle latomie e fosse tenuto prigioniero. Il giorno dopo tuttavia, essendo stata placata la sua ira dalle preghiere dei suoi amici, richiamò Filosseno a sé. Mentre Dionigi recitava di nuovo le sue poesie e chiedeva a Filosseno cosa sentiva, quello si alzò tacendo e se ne andò. Essendogli stato domandato perché si fosse alzato e dove si dirigesse: “nelle latomie” rispose. Questa spiritosa risposta gli procurò il perdono; una così grande franchezza non poté infatti essere punita dal tiranno.
N° 157 pag. 100 Cesare e il dittatore Silla
Giulio Cesare, nato da stirpe nobile, perse il padre a quindici anni. Dopo pochi anni sposò Cornelia, figlia di Cinna, che era stato acerrimo nemico di Silla. Poiché Silla aveva ordinato che Cesare la ripudiasse, questo rifiutò di obbedire al dittatore. Per questo Cesare privato del patrimonio familiare, poiché era anche stato condannato a morte, avendo cambiato la veste, di notte fuggì dalla città e, benché fosse leggermente ammalato, era costretto a cambiare i nascondigli ogni notte. Infine catturato da un liberto di Silla, sfuggì a fatica, avendo dato il denaro. Infine Cesare attraverso suoi amici, che erano legati intimamente al dittatore, ottenne il perdono, nonostante Silla si fosse opposto a lungo. Egli infatti soleva dire che un giorno Cesare sarebbe stato la rovina degli ottimati: questo in seguito accadde veramente.
N° 158 pag. 100 La battaglia di Bibracte
Cesare, prima a sue spese, poi di tutti, allontanati i cavalli dalla vista, per togliere la speranza di fuga dopo aver reso il pericolo uguale per tutti, dopo aver esortato i suoi attaccò battaglia. I soldati sfondarono facilmente la falange dei nemici, avendo scagliato i giavellotti da un luogo più alto. Avendola scompigliata, li assaltarono dopo aver sguainato le spade. Ai Galli era di grande impedimento alla battaglia il fatto che, essendo stati parecchi i loro scudi trapassati e legati l’uno all’altro da un unico lancio di giavellotti, poiché la punta di ferro si era piegata, non potevano né estrarre né, avendo la mano sinistra occupata, combattere sufficientemente bene: allora molti preferivano scagliar via lo scudo e combattere senza difesa, avendo agitato a lungo il braccio. Infine, stanchi per le ferite, cominciarono sia a ritirarsi e , poiché il monte saliva uno spazio di circa mille passi, sia a volgere lì. Avendo preso il monte e avvicinandosi i nostri, i Boi e i Tulingi, che chiudevano la schiera dei nemici con circa quindicimila uomini ed erano a presidio come “novissimi”, lungo il cammino cominciarono a circondare i nostri essendosi avvicinati dal fianco aperto e avendo gli Elvezi visto ciò, i quali avevano rivolto verso il monte, a incalzare di nuovo e a riprendere il combattimento.
N° 160 pag. 101 Generosità di Alessandro verso i nobili persiani prigionieri
Alessandro, mentre con banchetti anticipati consumava i giorni e nello stesso modo le notti, con Dario, re dei Persiani, superato presso Arbela, interrompeva l’abbondanza delle vivande con i divertimenti. Un tempo ordinò che i prigionieri Persiani secondo la sua usanza cantassero una poesia. Tra questi il re stesso scorse una più triste degli altri che resisteva con un atteggiamento verecondo a coloro che la conducevano avanti. Era eccellente per bellezza, e il pudore abbelliva l’aspetto: abbassati gli occhi a terra e chiusa la bocca offrì al re il sospetto che lei fosse nata in una famiglia nobilissima. Dunque interrogata chi mai fosse, rispose che era la nipote di Oco, che aveva regnato prima di Dario in Persia, nata da suo figlio, moglie di Istaspe. Questo era stato tra i parenti di Dario, comandante stesso del grande esercito. E così Alessandro, rispettando la sorte di colei che discendeva da una stirpe regale e il tanto celebre nome di Oco, non solo ordinò che la prigioniera fosse liberata ma anche che le fossero restituite le sue ricchezze, che anche l’uomo fosse cercato, affinché avendolo trovato gli restituisse la moglie. Il giorno dopo anticipò a Efestione che ordinasse che tutti i prigionieri fossero condotti nella reggia. Là, giudicata la nobiltà di ognuno, separò dalla plebe coloro dei quali emineva la stirpe. Questi furono mille: tra i quali fu trovato Ossatre, fratello di Dario, più famoso non per la sua fortuna quanto per l’indole del suo animo. Ossidate era un nobile persiano che, destinato da Dario al supplizio capitale, era tenuto in prigione; a questo liberato attribuì la satrapia della Media, e accolse il fratello di Dario nella corte degli amici, salvato da tutto l’onore dell’antica Roma.
N° 163 pag. 105 Perché i fanciulli romani indossano la toga pretesta
Tullo Ostilio, terzo re dei Romani sconfitti gli Etruschi, istituì per primo che a Roma si avesse la sedia curule e i littori e la toga dipinta e pretesta, che erano le insegne dei magistrati etruschi. Ma in quel periodo la fanciullezza non usava la pretesta; era infatti come le altre cose che ho enumerato l’aspetto di onore. Ma successivamente Tarquinio Prisco, figlio di Demarato esule di Corinto, terzo re da Ostilio, quinto da Romolo, celebrò il trionfo sui Sabini. In questa guerra lodò suo figlio di 14 anni sia davanti all’assemblea sia donò la bolla d’oro sia la pretesta, poiché aveva colpito il nemico con mano, onorando il forte ragazzo dopo anni con premi di virilità e onore. Infatti come la pretesta dei magistrati, così la bolla era un peso dei trionfanti, che mostravano in trionfo, racchiusi dentro essa rimedi che la credevano molto efficace contro l’invidia. Da qui fu spiegato il costume che la pretesta e la bolla in uso dei ragazzi nobili fossero usate ad augurio e promessa di conciliare la virtù simile a quello a cui nei primi anni toccarono questi doveri.
N° 170 pag. 110 Le leggi contro il furto
Dracone l’Ateniese fu giudicato uomo buono e che fosse di tanta saggezza, e fu esperto del diritto divino e umano. Lo stesso Dracone presentò prima di tutte le leggi, alle quali gli Ateniesi ricorrevano. In quelle leggi decise e stabilì troppo severamente che un ladro dovesse esser punito del furto con la pena di morte e di quale maniera e tante altre cose. Allora le su eleggi, dal momento che sembravano troppo crudeli, furono cancellate non con un decreto o con un comando, ma con il tacito e non scritto consenso degli Ateniesi. In seguito furono adottate altre leggi più miti composte da Solone. Tale Solone fu tra quei famosi sette sapienti. Egli sulla sua legge sui ladri stimò che bisognasse vendicarsi non come Dracone prima, con la pena di morte, ma del doppio. I nostri decemviri invece, che dopo la cacciata dei re scrissero in dodici tavole le leggi che usava il popolo romano, non usarono né uguale severità nel punire ladri di ogni genere né troppo rilassata moderazione. Presso gli Spartani invece non pochi né ignobili scrittori, che hanno narrato notizie sui loro costumi e leggi, dicono che c’era il diritto e l’usanza di rubare, e che ciò era fatto abitualmente dalla loro gioventù non per guadagni disonesti né per offrire spesa al capriccio o per procurare la ricchezza, ma per la pratica e la disciplina dell’arte militare.
N° 172 pag. 111 Bisogna sottrarsi alle lusinghe dei piaceri
Dobbiamo comportarci in modo da fuggire il più lontano possibile dalle provocazioni dei vizi; bisogna temprare il nostro animo e tenerlo ben lontano dalla seduzione dei piaceri. Un solo quartiere d’inverno dissolse le energie di Annibale, e quest’ uomo, che né le nevi né le alpi erano riuscite a domare, fu snervato dalle calde mollezze della Campania: vinse con le armi, fu vinto dai propri vizi. Anche noi dobbiamo guerreggiare, e per la verità, in un genere di milizia che non consente né riposo né distensione. È indispensabile sconfiggere innanzitutto i piaceri, che , come vedi, hanno trascinato con se anche indoli austere. Se qualcuno considererà realisticamente quanto grande sia l’opera intrapresa, si renderà conto che in nessun caso si deve cedere alla sensualità e alle mollezze. È la Fortuna che mi fa la guerra; non intendo seguire i suoi ordini, non accetto il giogo, anzi – e per questo ci vuole maggior coraggio – lo scuoto lontano da me. Non bisogna rammollire l’animo. Una volta che mi sia arreso al piacere dovrò cedere al dolore, cedere alla fatica, cedere alla povertà.
N° 176 pag. 113 Alessandro Magno ha fiducia nel suo medico
una volta Alessandro, mentre passava per la Cilicia, stanco per il viaggio, tolta la veste, discese nel fiume Ciduo, che scorre in mezzo alla città di Tarso, per lavare il corpo cosparso di polvere e sudore; questa avventatezza per poco non gli fu fatale. Infatti all’improvviso le membra si irrigidirono e il calore vitale abbandonò quasi tutto il corpo: egli somigliante a un morente, fu portato nella tenda. Questo suscitò ingente preoccupazione a tutti i soldati. In seguito il re, che già guariva dalla malattia, ricevette una lettera d a Parmenione, fidatissimo tra gli amici, la quale ammoniva di non affidare la sua salute al medico Filippo, poiché il medico era stato corrotto dal re Dario affinché uccidesse Alessandro con il veleno. Avendo letto la lettera fino in fondo, Alessandro, quando il medico gli porse la coppa in cui aveva diluito la medicina, bevve impavido, poi porse la lettera da leggere a Filippo, dicendo: ‘ morire di malattia piuttosto che non fidarsi di tè e gli porse la destra. Dopo tre giorni Alessandro venne in vista dei soldati, che felici per la buona saluto del re acclamarono il medico come un Dio.
N° 180 pag. 115 Incorruttibilità di Epaminonda
D’altra parte l’incorruttibilità di Epaminonda fu stuzzicata da Diomedonte di Cizico: infatti egli, su richiesta del re Artaserse, si era impegnato per corrompere Epaminonda con il denaro. Questo venne a Tele con una grande quantità di oro e con il dono di cinque talenti attirò dalla sua il giovane Micito, che allora Epaminonda amava moltissimo. Micito incontrò Epaminonda e presentò il motivo dell’arrivo di Diomedonte. Ma quello di fronte a Diomedonte disse ‘non c’è bisogno di denaro: infatti se il re vuole, quelle cose che sono utili ai Telani, sono disposto a fare gratuitamente, se invece sono dannose, non ho abbastanza oro e argento. E infatti non voglio ricevere le ricchezze del mondo per l’amore della patria. non mi stupisco del fatto che tu hai tentato ma non conosciuto e mi hai giudicato tuo simile, e ti perdono; ma esci in fretta, per non corrompere altri, dato che non hai potuto farlo con me. E tu, Micito, restituisci l’argento a questo, o , se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato’. Mentre Diomedonte chiedeva questo, disse ‘farò codesta cosa, e non per causa tua, ma mia, affinchè, se ti viene sottratto del denaro, qualcuno non dica che ciò è giunto a me, che non avevo voluto ricevere portato giù.
N° 182 pag. 116 I Germani sono sorpresi dall’improvviso attacco dei romani
Cesare avendo schierato l’esercito su tre file e avendo ultimato velocemente un viaggio di otto miglia giunse agli accampamenti dei nemici prima che fosse fatto che i Germani potessero sentire qualcosa. Questi spaventati improvvisamente da tutte le cose, sia dalla velocità del nostro arrivo sia dall’allontanamento dei loro, non essendo stato dato il tempo né di avere una decisione né di impugnare le armi, sconvolti non sapevano se fosse meglio condurre le truppe contro il nemico, o difendere l’accampamento, o cercare la salvezza con la fuga. Mentre il loro timore si rivelava con il tumulto e l’accorrere, i nostri soldati incitati dalla perfidia del giorno precedente irruppero nell’accampamento. In quel luogo coloro che poterono impugnare velocemente le armi resistettero per un po’ ai nostri e attaccarono battaglia tra i carri gallici e gli ostacoli: ma la restante folla di fanciulli e donne ( infatti con tutti i parenti erano usciti dalla patria e avevano attraversato il Reno) cominciò a fuggire in tutte le direzioni; Cesare inviò la cavalleria a inseguirli.
Es n° 183 pag. 117 Guerra fra Artaserse e Ciro
Dario, re dei Persiani, mentre stava per morire, lasciò il potere ad Artaserse, il maggiore dei due figli, ma attribuì la città a Ciro, delle quali era già satrapo. Ma Ciro, poiché pensava che la decisione del padre fosse iniqua, cominciò a preparare la guerra in segreto contro il fratello. Allora Antaserse, fatto più certo della decisione del fratello, ordinò che Ciro fosse legato con catene d’oro; e lo avrebbe ucciso, se la madre non lo avesse impedito. Poi Ciro fu rilasciato e ricollocato nelle sue province. Lì in verità, poichè odiava il fratello, osò preparare la guerra non segretamente, come in precedenza, ma palesemente, avendo radunato da ogni logo un ingente esercito. La cosa fu riferita ad Antaserse, che si preparò immediatamente a sostenere l’assalto del fratello. Quando si giunse in guerra, per primo fu ferito Antaserse dal fratello ed esanime fu portato fuori dalla schiera, ma Ciro schiacciato dalla coorte regia, combattendo valorosamente, fu ucciso.
N° 186 pag. 118 Ritratto di un giovane
Non ricordi dei giovani, dei quali abbiamo parlato con gli amici poco fa? In tutti questi si distingue Minicio di Acilio, che , come un giovane (è infatti minore per pochi anni) ama molto intimamente un giovane, mi rispetta come un vecchio. La sua patria è Brescia, da quella nostra Italia che mantiene e conserva ancora molto di modestia, moderazione e anche di antica semplicità contadina. Suo padre Minicio Macrino, il più autorevole dell’ordine equestre, poiché non volle niente di più alto. Aggiunto infatti dal divino Vespasiano tra i pretori, preferì molto fermamente una quiete dignitosa a questo onore. Ha come nonna materna Serrana Procula, dal municipio di Padova. Conosci i costumi del luogo; tuttavia Serrana per i Padovani è anche esempio di severità. In verità Ociliano stesso ha moltissimo vigore, operosità benchè nella massima modestia. Ha un aspetto nobile velato con molta vitalità, con molto pudore; ha una delicata bellezza di tutto il corpo, e un certo decoro senatorio, che io penso non debbano essere affatto trascurati.
N° 340 pag. 211 Il tradimento di Focione
Focione l’Ateniese, essendo la buona sorte giunta vicino all’ottantesimo anno, negli ultimi anni venne in grande odio dei suoi cittadini, dapprima perché con Demade aveva acconsentito a lasciare la città ad Antipatro e con la sua decisione Demostene con altri, che erano stimati benemeriti nei confronti dello stato, con un decreto del popolo erano stati mandati in esilio. E non aveva danneggiato solo lui, poiché aveva provveduto male alla patria, ma anche perché non aveva mantenuto la parola dell’amicizia. E infatti accresciuto e aiutato da Demostene aveva aumentato il rango che teneva, affinchè contro Carete lo corrompesse: dallo stesso nei processi, mentre pronunciava il processo capitale, difeso qualche volta, se ne era andato liberato. Non solo non difese questo nei pericoli, ma anche lo tradì. Cadde d’altra parte massimamente in un crimine, poiché essendo presso di lui sommo potere del popolo e che Nicarone, prefetto di Cassandro, insidiava il Pireo degli Ateniesi, essendo ammonito da Dercilo e chiedendo lo stesso, affinchè provvedesse, per non far sì che la città fosse privata dei rifornimenti, a questo col popolo che ascoltava Focione disse che non c’era pericolo e promise che lui sarebbe stato garante di questa cosa. E così non molto tempo dopo Micanore si impadronì del Pireo, senza quello di Atena non possono essere completamente. Essendo il popolo accorso armato per recuperarlo, egli non solo non chiamò nessuno alle armi, ma non volle neppure che ci fosse qualcuno armato.
N° 346 pag. 215 Un assalto notturno dei Galli
Contemporaneamente, udito il grido, Vercingetorige dà il segnale con la tromba e fa uscire le sue truppe dalla rocca. I nostri, secondo il posto assegnato a ciascuno nei giorni precedenti, accorrono alle fortificazioni; mettendo in azione fionde pesanti e pertiche predisposte per la difesa, e con proiettili di piombo tengono a bada i Galli. Quando la vista viene meno per le tenebre, molte sono le ferite subite da entrambe le parti, moltissimi i lanci eseguiti dalle macchine. Ma i due luogotenenti Marco Antonio e Gaio Trebonio, cui era toccata la difesa di quel settore, ovunque si accorgevano che i nostri erano in difficoltà mandavano rinforzi fatti venire dalle ridotte più lontane. Finché i Galli erano lontani dalle nostre linee, avevano più successo per l’impotenza dei loro tiri; dopo che si furono fatti più sotto, cominciarono a infilzarsi, senza vederli, nei cosiddetti pungoli, oppure finivano in fosse e rimanevano infilzati, o ancora perivano trafitti dai pesanti giavellotti che si usano sulle muraglie e che fioccavano dalla palizzata e dalle torri. Nonostante le molte ferite ricevute, senza per questo intaccare minimamente le nostre fortificazioni, allo spuntar del sole ripiegarono sulle proprie linee. Ma gli assediati, che nel portar fuori gli attrezzi preparati da Vercingetorige per la sortita e per colmare, i primi, il fossato, avevano impiegato per queste operazioni più tempo del previsto, ebbero notizia della ritirata dei compagni prima di raggiungere le fortificazioni nemiche. Rientrarono allora nella rocca senza aver nulla concluso.
N° 350a pag. 217 Tebe liberata dall’occupazione spartana
Febida lo Spartano conducendo l’esercito ad Olinto e viaggiando attraverso Tebe, occupò la rocca della città, che è chiamata Cadunea, con l’assalto di pochi Tebani, che per resistere più facilmente alla fazione nemica, aspiravano alle cose degli Spartani, e non fece ciò per una decisione pubblica, ma sua privata. Fatto quersto gli Spartani lo allontanarono dall’esercito e lo condannarono a una multa pecuniaria, e non restituirono la rocca ai Tebani, tanto più che avendo attirato le inimicizie ritenevano preferibile che loro fossero assediati che liberati. Infatti dopo la guerra del Peloponnesoe avendo sconfitto Atene con i Tebani pensavano che la questione fosse per loro e che loro fossero i soli, che oisassero resistere contro. Con questo pensiero avevano dato il sommo potere ai loro amici e avevano ucciso una parte dei capi dell’altra fazione, avevano scacciato gli altri in esilio: tra questi l’esiliato Pelopida era senza patria. questi tutti si erano diretti generalmente ad Atene, non per cercare l’ozio ma affinchè la sorte avesse assegnato ciascun luogo dal vicinato, perciò si affidassero a riconquistare la patria. e così quando sembrò tempo di agire, d’accordo con quelli che in Tebe ne condividevano le idee, scelsero il giorno per opprimere i nemici e liberare la città, in cui del massimo magistrato avevano di banchettare insieme.
N° 352 pag. 218 Damone e Finzia
Damone e Fizia avevano unito tra loro una tanto fiduciosa amicizia, che, mentre Dioniso di Siracusa voleva uccidere uno di questi, ed egli aveva ottenuto un lasso di tempo da lui in cui potesse mettere ordine ai propri beni prima che scomparisse andato a casa, l’altro non esitava a consegnarsi al tiranno per il ritorno di lui. Era stato liberato dal pericolo della morte che poco prima aveva avuto il collo afferto alla spada: a lui stesso aveva messo sotto la sua testa a cui era permesso vivere sicuro. Allora tutti e tra i primi Dioniso aspettavano l’esito di un fatto straordinario e d’incerta soluzione. Poi avvicinandosi la fine della giornata con quello che ritornava nessuno condannava di stoltezza un così temerario garante. Ma egli dichiarava che lui non temeva la moderazione dell’amico. D’altra parte nello stesso momento sopraggiunse sia l’ora stabilita da Dioniso sia quella che aveva ricevuto. Avendo ammirato l’animo di entrambi il tiranno rimandò il supplizio di fede e dall’alto li pregò che volgessero nella società dell’amicizia il terzo grado del sodalizio vicendevolmente benevolenza cultura.
N° 360 pag. 222 L’ateniese Conone al servizio di Farnabazo
Conone l’Ateniese, avendo udito che la patria era assediata, non cercò un posto dove vivesse al sicuro, ma da dove potesse essere di guardia ai suoi cittadini. E così si diresse da Fornabazo, satrapo della Ionia e della Lidia e stesso genero del re e parente: presso di lui affinché il favore avesse molta importanza, lavorò con molta fatica e in molti pericoli. Infatti poiché gli Spartani non rimanevano in società con gli Ateniesi sconfitti, quanto avevano fatto con Antaserse e avevano inviato Agesilao in Asia per combattere, massimamente incitati da Tissaferne, che tra gli intimi del resi era staccato dalla sua amicizia e quando aveva stretto un’alleanza con gli Spartani, fu impiegato come comandante contro questo Fornabazo, ma in realtà fu Conone a capo dell’esercito, e tutte le cose furono decise a suo arbitrio. Questo ostacolò molto il comandante sommo Agesilao e spesso si oppose alle sue decisioni. Il quale dopo che fu richiamato in patria dai suoi cittadini, dato che i Beoti e gli Ateniesi avevano indetto guerra agli Spartani, Conone tuttavia rimaneva al fianco dei governatori del re e per tutti questi era a grande impiego.
N° 364 pag. 224 Le doti di Dione
Dione, figlio di Ipparnio, siracusano, nato da una famiglia nobile, ebbe dalla natura molte cose buone, tra queste l’ingegno versatile, affabile, adatto alle nobili arti, un portamento esteriore pieno di dignità, che soprattutto aggiunge splendore; inoltre grandi ricchezze lasciate dal padre, che egli stesso aveva accresciuto con i doni del tiranno Dionigi. Era amico intimo di Dionisio il vecchio, e non meno per abitudini che per parentela. E infatti anche se non gli piaceva la crudeltà di Dionisio, tuttavia desiderava essere salvo per la relazione di parentela, ancor più che per causa dei suoi. Era andato in grandi case, e con il suo consiglio il tiranno era molto manovrato, se la brama non si era frapposta in questa casa più di lui. In realtà tutte le ambascerie che fossero più illustri, erano amministrate presso Dione: egli davvero frequentandole diligentemente e amministrandole lealmente, nascondeva con la sua umanità il crudelissimo nome del tiranno. Inviato costui da Dionisio i Cartaginesi così levarono lo sguardo, come non ammirarono mai di più nessuno che parlava la lingua Greca.

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