Cicerone in Senato si scaglia contro Lucio Sergio Catilina

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Testo

Cicerone in Senato si scaglia contro Lucio Sergio Catilina (Cic.)
E’ l’inizio della prima orazione contro Catilina, accusato da Cicerone di tramare contro lo Stato.
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quamdiu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil Urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis? Constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consili ceperis quem nostrum ignorare arbitraris? O tempora, o mores! Senatus haec intellegit, consul videt; hic tamen vivit. Vivit? Immo vero in senatum venit, fit publici consili particeps, notat et designat oculis ad caedem unumquemque nostrum. Nos autem, fortes viri, satis facere rei publicae videmur, si iustius furorem ac tela vitamus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos omnis iam diu machinaris. […] Qua re secedant improbi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, quod saepe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suae consuli, circumstare tribunal praetoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare: sit denique inscriptum in fronte uniuscuiusque quid de re publica sentiat. Polliceor hoc vobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in vobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis virtutem, tantam in omnibus bonis consensionem, ut Catilinae profectione omnia patefacta, illustrata, opprerssa, vindicata esse videatis. Hisce omnibus, Catilina, cum summa rei publicae salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio, qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem, quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi vere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus a vita fortunisque civium omnium arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriae, latrones Italiae, scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos, aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis.
Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora codesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? A quali estremi oserà spingersi il tuo sfrenato ardire? Né il presidio notturno sul Palatino, né le ronde per la città, né il panico del popolo, né l’opposizione unanime di tutti i cittadini onesti, né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti? Le tue trame sono scoperte, non te ne accorgi? Non vedi che il tuo complotto è noto a tutti e ormai sotto controllo? Ciò che facesti la notte scorsa e la precedente, dove ti recasti, quali complici convocasti, quali decisioni prendesti, credi tu ci sia uno solo tra noi che non ne sia informato? Oh tempi, oh costumi! Di tutto questo il Senato è a conoscenza, al console non sfugge, e tuttavia costui vive. Vive, che dico? Si presenta in Senato, partecipa alle sedute, prende nota di ciascuno di noi, lo designa con lo sguardo all’assassinio; e noi, i potenti, riteniamo d’aver fatto abbastanza per la patria se riusciamo a sottrarci all’odio, ai pugnali di costui. A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare per ordine del console; su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno. […] Orbene si allontanino i disonesti, si separino dagli onesti, si riuniscano in un solo luogo, siano, infine, separati da noi da una cinta di mura, com’ho già detto più di una volta; cessino di attentare alla vita del console nella sua propria casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare con le spade in pugno la Curia, di procurarsi proiettili incendiari e fiaccole per dare fuoco all’Urbe; siano insomma scritti a chiare lettere sulla fronte di ognuno i suoi sentimenti politici. Ed ecco, senatori, l’assicurazione che io voglio darvi: vi sarà in noi consoli uno zelo così vivo, in voi un autorità così alta, nei cavalieri Romani un coraggio così forte, in tutti gli onesti un accordo così pieno che, con la partenza di Catilina, tutte le trame della congiura si presenteranno ai vostri occhi svelate, messe in piena luce, soffocate, punite. Con questi precisi presagi, Catilina, parti per la tua empia e nefanda guerra: partenza alla quale è legata la suprema salvezza dello Stato, la disfatta e la perdizione tua, la rovina di tutti coloro che si sono uniti a te con ogni genere di scelleratezza, fino all’assassinio della patria! E tu, Giove, il cui culto fu fondato da Romolo con i medesimi auspici della fondazione di questa città e che con piena rispondenza alla realtà chiamiamo “Statore” di quest’Urbe e di quest’impero, terrai lontano dai templi tuoi e degli altri dei, dalle case e dalle mura dell’Urbe, dalla vita e dai beni di tutti i cittadini costui e i suoi complici e punirai, in vita e in morte e con gli eterni supplizi gli avversari degli onesti, i nemici della patria, i grassatori dell’Italia, legati tra loro in stretta ed empia alleanza da un patto delittuoso.

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