Cicerone - De Fato

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Testo

M. TULLIO CICERONE - De Fato
1. . . . . quia pertinet ad mores, quod ethos illi vocant, nos eam partem philosophiae de moribus appellare solemus, sed decet augentem linguam Latinam nominare moralem; explicandaque vis est ratioque enuntiationum, quae Graeci axiomata vocant; quae de re futura cum aliquid dicunt deque eo, quod possit fieri aut non possit, quam vim habeant, obscura quaestio est, quam Peri Dynaton philosophi appellant, totaque est Logike, quam rationem disserendi voco. Quod autem in aliis libris feci, qui sunt de natura deorum, itemque in iis, quos de divinatione edidi, ut in utramque partem perpetua explicaretur oratio, quo facilius id a quoque probaretur, quod cuique maxime probabile videretur, id in hac disputatione de fato casus quidam ne facerem inpedivit.
1 ... poiché riguarda i costumi, che i Greci chiamano ethos, siamo soliti chiamare quella parte della filosofia «dei costumi», ma sarebbe meglio chiamarla «morale», se vogliamo ampliare la lingua latina; poi bisogna spiegare il valore razionale degli enunciati, che i Greci chiamano axioma; quale valore essi abbiano quando contengono affermazioni relative al futuro e a ciò che è possibile o impossibile, è una questione difficile, che i filosofi chiamano Peri Dynaton [dei possibili], e rientra interamente nella Logike [logica], che io preferisco chiamare «teoria del ragionamento».'
La tecnica espositiva che ho utilizzato negli altri libri in cui ho trattato della natura degli dei e in quelli che ho pubblicato sulla divinazione, quella cioè di esporre le due tesi contrarie una dopo l'altra in un discorso continuo,' in modo che più facilmente ciascuno potesse dimostrare quella che gli sembrava più probabile, una circo­stanza fortuita mi ha impedito di usarla anche in questa discussione sul destino.
2. Nam cum essem in Puteolano Hirtiusque noster, consul designatus, isdem in locis, vir nobis amicissimus et his studiis, in quibus nos a pueritia viximus, deditus, multum una eramus, maxime nos quidem exquirentes ea consilia, quae ad pacem et ad concordiam civium pertinerent. Cum enim omnes post interitum Caesaris novarum perturbationum causae quaeri viderentur iisque esse occurrendum putaremus, omnis fere nostra in his deliberationibus consumebatur oratio, idque et saepe alias et quodam liberiore, quam solebat, et magis vacuo ab interventoribus die, cum ad me ille venisset, primo ea, quae erant cotidiana et quasi legitima nobis, de pace et de otio.
2 Mentre ero a Pozzuoli, e si trovava lì anche il caro Irzio, console designato, che è un mio grande amico, appassionato di quegli studi cui mi sono dedicato fin dall'infanzia, passavamo molto tempo insieme, preoccupandoci soprattutto di quali decisioni potessimo prendere a favore della pace e concordia dei cittadini. Infatti, dopo la morte di Cesare, mentre tutti sembravano cercare nuovi motivi di torbidi, noi pensava­mo che si dovesse prevenirli e quasi ogni nostra conver­sazione si esauriva intorno a questi argomenti. Questo dunque accadeva regolarmente, anche un giorno in cui eravamo più liberi del solito e meno pieni di scocciatori. Irzio venne a trovarmi e dapprima si parlò di quegli argo­menti che erano ormai per noi quasi una regola quo­tidiana, ossia la pace e la tranquillità pubblica.
3. Quibus actis, Quid ergo? inquit ille, quoniam oratorias exercitationes non tu quidem, ut spero, reliquisti, sed certe philosophiam illis anteposuisti, possumne aliquid audire? Tu vero, inquam, vel audire vel dicere; nec enim, id quod recte existimas, oratoria illa studia deserui, quibus etiam te incendi, quamquam flagrantissumum acceperam, nec ea, quae nunc tracto, minuunt, sed augent potius illam facultatem. Nam cum hoc genere philosophiae, quod nos sequimur, magnam habet orator societatem; subtilitatem enim ab Academia mutuatur et ei vicissim reddit ubertatem orationis et ornamenta dicendi. Quam ob rem, inquam, quoniam utriusque studii nostra possessio est, hodie, utro frui malis, optio sit tua. Tum Hirtius: Gratissumum, inquit, et tuorum omnium simile; nihil enim umquam abnuit meo studio voluntas tua.
3 Esauriti quegli argomenti, egli disse: «Allora, poiché non hai abbandonato, spero, le esercitazioni reto­riche, ma certo ultimamente hai coltivato piuttosto la fi­losofia, potrei sentire qualcosa?». lo risposi: «Per la veri­tà puoi sia ascoltare che parlare; infatti, hai ragione, non ho abbandonato quegli studi retorici con i quali ho en­tusiasmato anche te (sebbene ne fossi già appassionatissimo), né gli studi di cui mi occupo ora danneggiano quelle capacità, anzi piuttosto le potenziano. Infatti ]'ora­tore può instaurare una collaborazione utile con il tipo di filosofia che io seguo: prende dall'Accademia la sotti­gliezza dell'argomentazione e le rende in cambio, a sua volta, la ricchezza dell'esposizione e gli ornamenti del discorso. Per cui,» dissi «poiché conosciamo bene en­trambe le discipline, oggi decidi tu di quale vuoi dilettar­ti». Allora Irzio rispose: «Sci molto gentile, come al soli­to: mai un mio desidero ha incontrato un rifiuto da par­te tua.
4. Sed quoniam rhetorica mihi vestra sunt nota teque in eis et audivimus saepe et audiemus atque hanc Academicorum contra propositum disputandi consuetudinem indicant te suscepisse Tusculanae disputationes, ponere aliquid, ad quod audiam, si tibi non est molestum, volo. An mihi, inquam, potest quicquam esse molestum, quod tibi gratum futurum sit? Sed ita audies, ut Romanum hominem, ut timide ingredientem ad hoc genus disputandi, ut longo intervallo haec studia repetentem. Ita, inquit, audiam te disputantem, ut ea lego, quae scripsisti. Proinde ordire. Considamus hic.
4 Ma poiché le tue teorie retoriche mi sono no­te. te ne ho sentito parlare spesso e ancora ti sentirò, e le tue Dispute tusculane dimostrano che hai assunto quella abitudine degli Accademici di esporre una tesi e poi discuterla, ti voglio porre una questione sulla quale sentire il tuo parere, se non ti dispiace». «Niente che faccia piacere a te,» dissi «potrebbe mai risultarmi fasti­dioso. Ma ti avverto che sentirai parlare un Romano, che si avvicina, per così dire, timidamente a questo genere di discussione e che ritorna a questi argomenti dopo molto tempo». «Ti ascolterò con la stessa disposizione d'animo con la quale leggo i tuoi scritti. Comincia pure. Sediamo­ci qui ... ».
5. . . . quorum in aliis, ut in Antipatro poeta, ut in brumali die natis, ut in simul aegrotantibus fratribus, ut in urina, ut in unguibus, ut in reliquis eius modi, naturae contagio valet, quam ego non tollo--vis est nulla fatalis; in aliis autem fortuita quaedam esse possunt, ut in illo naufrago, ut in Icadio, ut in Daphita. Quaedam etiam Posidonius (pace magistri dixerim) comminisci videtur; sunt quidem absurda. Quid enim? si Daphitae fatum fuit ex equo cadere atque ita perire, ex hocne equo, qui cum equus non esset, nomen habebat alienum? aut Philippus hasne in capulo quadrigulas vitare monebatur? quasi vero capulo sit occisus. Quid autem magnum aut naufragum illum sine nomine in rivo esse lapsum--quamquam huic quidem hic scribit praedictum in aqua esse pereundum); ne hercule Icadii quidem praedonis video fatum ullum; nihil enim scribit ei praedictum:
5 ... " nei primi di questi casi, come quello del poeta Antipatro, di quelli nati nel giorno del solstizio d'inver­no, dei fratelli che si ammalano contemporaneamente, quello dell'orina, delle unghie e negli altri di questo ge­nere, vale il principio della «simpatia» della natura, che io non nego, ma nella quale non vedo nessuna potenza del fato; fra gli altri invece alcuni possono essere fortuiti, come quello del naufrago, di lcadio e di Dafita; alcuni mi sembrano addirittura invenzioni di Posidonio (non me ne voglia il maestro) : sono davvero assurdi. Infatti, se il destino di Dafita era quello di morire cadendo da cavallo, poteva forse trattarsi di un cavallo che non era certo un cavallo, ma ne aveva solo il nome? E Filippo era stato forse avvertito di guardarsi dalle quadrighe cesella­te sull'impugnatura della spada? Come se l'avesse uc­ciso l'impugnatura. E che c'è di notevole nel fatto che quel naufrago sconosciuto sia poi caduto nel fiume? Ben­ché in questo caso almeno dice che gli era stato predetto che sarebbe morto nell'acqua. Ma, per Ercole, non vedo nessun fato nel caso del ladrone Icadio; infatti non parla di alcuna predizione.
6. quid mirum igitur ex spelunca saxum in crura eius incidisse? puto enim, etiamsi Icadius tum in spelunca non fuisset, saxum tamen illud casurum fuisse. Nam aut nihil omnino est fortuitum, aut hoc ipsum potuit evenire fortuna. Quaero igitur (atque hoc late patebit), si fati omnino nullum nomen, nulla natura, nulla vis esset et forte temere casu aut pleraque fierent aut omnia, num aliter, ac nunc eveniunt, evenirent. Quid ergo adtinet inculcare fatum, cum sine fato ratio omnium rerum ad naturam fortunamve referatur?
6 Che c'è da meravigliarsi, dunque, se dalla caverna gli cadde un masso sulle gambe? Credo che anche se Ieadio non fosse stato li in quel momento, il masso sarebbe caduto lo stesso. Infatti o niente è mai dovuto al caso oppure questa cosa può benissimo essere accaduta per caso. Allora mi chiedo (e così il problema diventa molto generale): se il fato non esistesse affatto, né il suo nome, né la sua essenza, né la sua potenza, e tutte le cose o la maggior parte di esse accadessero fortui­tamente, ‑alla cieca, per caso, accadrebbero forse diversa­mente da come accadono? Che bisogno c'è dunque di mettere in mezzo il fato, dal momento che, senza fato, la ragione di ogni cosa può essere riportata alla natura o alla fortuna?
7. Sed Posidonium, sicut aequum est, cum bona gratia dimittamus, ad Chrysippi laqueos revertamur. Cui quidem primum de ipsa contagione rerum respondeamus, reliqua postea persequemur. Inter locorum naturas quantum intersit, videmus; alios esse salubris, alios pestilentis, in aliis esse pituitosos et quasi redundantis, in aliis exsiccatos atque aridos; multaque sunt alia, quae inter locum et locum plurimum differant. Athenis tenue caelum, ex quo etiam acutiores putantur Attici, crassum Thebis, itaque pingues Thebani et valentes. Tamen neque illud tenue caelum efficiet, ut aut Zenonem quis aut Arcesilam aut Theophrastum audiat, neque crassum, ut Nemea potius quam Isthmo victoriam petat. Diiunge longius.
7 Ma lasciamo Posidonio, come è giusto, con animo condiscendente, e ritorniamo alle trappole di Crisippo . A lui rispondiamo per prima cosa proprio sulla questione della «simpatia» fra le cose, per occuparci poi delle altre. Vediamo quanta differenza vi sia fra i diversi luoghi del­la terra; alcuni sono salubri, altri insalubri, in alcuni gli uomini sono linfatici e per così dire ridondanti, in altri magri e asciutti: e vi sono molti altri aspetti che differi­scono alquanto da luogo a luogo. Ad Atene l'aria è sottile per questo gli Attici sono ritenuti gente più intelligente; Tebe invece è più pesante e per questo i Tebani sono più robusti e sani.` Tuttavia né l'aria fine di Atene farà si che qualcuno vada a lezione da Zenone piuttosto che da Arcesilao o Teofrasto, né quella pesante di Tebe che qualcuno gareggi a Nemea piuttosto che sull'Istmo.
8. Quid enim loci natura adferre potest, ut in porticu Pompeii potius quam in campo ambulemus? tecum quam cum alio? Idibus potius quam Kalendis? Ut igitur ad quasdam res natura loci pertinet aliquid, ad quasdam autem nihil, sic astrorum adfectio valeat, si vis, ad quasdam res, ad omnis certe non valebit. At enim, quoniam in naturis hominum dissimilitudines sunt, ut alios dulcia, alios subamara delectent, alii libidinosi, alii iracundi aut crudeles aut superbi sint, alii a talibus vitiis abhorreant,--quoniam igitur, inquit, tantum natura a natura distat, quid mirum est has dissimilitudines ex differentibus causis esse factas?
8 Ma analizziamo più à fondo. Che cosa può mai esserci nella natura del luogo, perché noi passeggiamo nel Portico di Pompeo piuttosto che sul Campo, con te invece che con qualcun altro, alle Idi piuttosto che alle Calende? Come dunque la natura del luogo ha un rapporto con alcuni fatti, con altri invece assolutamente nessuno, così l'in­fluenza astrale avrà, se vuoi, potere su alcune cose, ma certo non su tutte. Ma, poiché fra le nature umane vi sono delle differenze, cosicché ad alcuni piacciono le cose dolci, ad altri le amare, alcuni sono libidinosi, altri iracondi o crudeli o superbi, altri sono esenti da questi difetti, poiché dunque, dice lui, tanto differiscono i carat­teri, che c'è di strano se queste differenze derivano da cause diverse?
9. Haec disserens, qua de re agatur, et in quo causa consistat, non videt. Non enim, si alii ad alia propensiores sunt propter causas naturalis et antecedentis, idcirco etiam nostrarum voluntatum atque adpetitionum sunt causae naturales et antecedentes. Nam nihil esset in nostra potestate, si ita se res haberet. Nunc vero fatemur, acuti hebetesne, valentes inbecilline simus, non esse id in nobis. Qui autem ex eo cogi putat, ne ut sedeamus quidem aut ambulemus voluntatis esse, is non videt, quae quamque rem res consequatur. Ut enim et ingeniosi et tardi ita nascantur antecedentibus causis itemque valentes et inbecilli, non sequitur tamen, ut etiam sedere eos et ambulare et rem agere aliquam principalibus causis definitum et constitutum sit.
9 Ragionando in questo modo, non coglie la sostanza del problema e quale sia il motivo del dissenso. Infatti, se le diverse inclinazioni degli uomini sono pro‑ dotte da cause naturali e antecedenti, non per questo vi sono cause naturali e antecedenti anche all'origine delle nostre volontà e dei nostri desideri. Infatti se le cose stessero così, niente sarebbe più in nostro potere. Ora, riconosciamo certamente che l'essere intelligenti o stupi­di, forti o deboli, non dipende da noi. Ma chi per questo pensa di dover ammettere che neppure sederci o cammi­nare dipenda dalla nostra volontà, non capisce quali sia­no le cose legate dal nesso di causalità.Se infatti gli uomini intelligenti o stupidi, forti o deboli nascono così per cause antecedenti. non ne consegue tuttavia che sia ugualmente definito e stabilito da cause principali che essi stiano seduti o camminino o facciano qualsiasi altra cosa.
10. Stilponem, Megaricum philosophum, acutum sane hominem et probatum temporibus illis accepimus. Hunc scribunt ipsius familiares et ebriosum et mulierosum fuisse, neque haec scribunt vituperantes, sed potius ad laudem; vitiosam enim naturam ab eo sic edomitam et conpressam esse doctrina, ut nemo umquam vinulentum illum, nemo in eo libidinis vestigium viderit. Quid? Socraten nonne legimus quem ad modum notarit Zopyrus physiognomon, qui se profitebatur hominum mores naturasque ex corpore, oculis, vultu, fronte pernoscere? stupidum esse Socraten dixit et bardum, quod iugula concava non haberet -obstructas eas partes et obturatas esse dicebat; addidit etiam mulierosum; in quo Alcibiades cachinnum dicitur sustulisse.
10 Sappiamo che Stilpone, filosofo megarico, era un uomo davvero intelligente e apprezzato dai contem­poranei. Ma quelli della sua scuola dicono anche, nei loro scritti, che era incline al vino e alle donne, e non per rimproverarlo, ma piuttosto per lodarlo; infatti grazie alla filosofia egli riuscì a educare e reprimere la propria natura viziosa tanto che nessuno lo vide mai ubriaco, né notò mai in lui la minima traccia di libidine. E non sap­piamo forse in che modo Zofiro, il fisiognomico che affermava di poter riconoscere i costumi e il carattere degli uomini dal corpo, dagli occhi, dal volto, dalla fronte, abbia descritto Socrate? Disse che Socrate era stupido e rozzo, perché non aveva la fossetta alla base del collo, e quindi quella parte era ostruita e chiusa; e disse anche che era un donnaiolo, al che si dice che Alcibiade fece una risatina.
11. Sed haec ex naturalibus causis vitia nasci possunt, extirpari autem et funditus tolli, ut is ipse, qui ad ea propensus fuerit, a tantis vitiis avocetur, non est id positum in naturalibus causis, sed in voluntate, studio, disciplina. Quae tolluntur omnia, si vis et natura fati ex divinationis ratione firmabitur. Etenim si est divinatio, qualibusnam a perceptis artis proficiscitur? ('percepta' appello, quae dicuntur Graece theoremata)? Non enim credo nullo percepto aut ceteros artifices versari in suo munere, aut eos, qui divinatione utantur, futura praedicere.
11 Questi vizi possono avere origine da cause naturali, ma il fatto che possano essere eliminati ed estirpati alla radice. se l'uomo che ad essi è incline evita di soggiacervi, ciò non dipende da cause naturali, bensì dalla volontà, dalla riflessione e dall'esercizio: tutte pos­sibilità che vengono negate, se l'esistenza della divina­zione confermerà l'esistenza e la potenza del fato. Se infatti la divinazione esiste, su quali principi si fonda quest'arte? (Chiamo «principi» quelli che i Greci chiamano theoremata)? Infatti non credo che senza principi gli altri artefici potrebbero esercitare le loro arti, né coloro che praticano la divinazione potrebbero predire il futuro.
12. Sint igitur astrologorum percepta huius modi: 'Si quis (verbi causa) oriente Canicula natus est, is in mari non morietur.' Vigila, Chrysippe, ne tuam causam, in qua tibi cum Diodoro, valente dialectico, magna luctatio est, deseras. Si enim est verum, quod ita conectitur: 'Si quis oriente Canicula natus est, in mari non morietur', illud quoque verum est: 'Si Fabius oriente Canicula natus est, Fabius in mari non morietur.' Pugnant igitur haec inter se, Fabium oriente Canicula natum esse, et Fabium in mari moriturum; et quoniam certum in Fabio ponitur, natum esse eum Canicula oriente, haec quoque pugnant, et esse Fabium, et in mari esse moriturum. Ergo haec quoque coniunctio est ex repugnantibus: 'Et est Fabius, et in mari Fabius morietur', quod, ut propositum est, ne fieri quidem potest. Ergo illud: 'Morietur in mari Fabius' ex eo genere est, quod fieri non potest. Omne ergo, quod falsum dicitur in futuro, id fieri non potest.
12 I principi degli astrologi saranno pressappo­co in questo modo: «Se uno, ad esempio, è nato al levarsi della Canicola, costui non morirà in mare ». Sta' atten­to, Crisippo, a non perdere la tua causa, nella quale devi sostenere una lotta acerrima con Diodoro, che è un temibile dialettico. Infatti, se è vera questa proposizione condizionale : «Se uno è nato al levarsi della Canicola, costui non morirà in mare», allora è vera anche questa: «Se Fabio è nato al levarsi della Canicola, Fabio non morirà in mare». Sono dunque incompatibili le affer­mazioni «Fabio nato al levarsi della Canicola» e «Fabio morirà in mare»; e poiché si dà per certo, a proposito di Fabio, che sia nato al sorgere della Canicola, anche queste altre affermazioni sono incompatibili fra loro, «Fabio esiste» e «Fabio morirà in mare». Quindi anche questa congiuntiva è formata da affermazioni incompatibili fra loro: «e Fabio esiste e Fabio morirà in mare», il che, posto in questi termini, è assolutamente impossibile. Al­lora «Fabio morirà in mare» appartiene al genere di affermazioni di cose impossibili. E dunque tutto ciò che di falso viene affermato sul futuro, è impossibile.
13. At hoc, Chrysippe, minime vis, maximeque tibi de hoc ipso cum Diodoro certamen est. Ille enim id solum fieri posse dicit, quod aut sit verum aut futurum sit verum, et, quicquid futurum sit, id dicit fieri necesse esse et, quicquid non sit futurum, id negat fieri posse. Tu, et quae non sint futura, posse fieri dicis, ut frangi hanc gemmam, etiamsi id numquam futurum sit, neque necesse fuisse Cypselum regnare Corinthi, quamquam id millensimo ante anno Apollinis oraculo editum esset. At si ista conprobabis divina praedicta, et quae falsa in futuris dicentur, in eis habebis ut ea fieri non possint (ut si dicatur Africanum Karthagine non esse potiturum), et si vere dicatur de futuro, idque ita futurum sit, dicas esse necessarium est; quae est tota Diodori vobis inimica sententia.
13 Ma questo tu Crisippo, non lo vuoi ammette­re, e soprattutto su questo punto sei in disaccordo con Diodoro. Quello infatti considera possibile soltanto ciò che è o sarà vero, e afferma che tutto ciò che sarà, è necessario, e tutto ciò che non sarà, è impossibile; tu invece dici che è possibile anche ciò che non accadrà, ad esempio che questa pietra preziosa si spezzi, anche se non avverrà mai, e d'altra parte che non era necessario che Cipselo regnasse a Corinto, anche se l'oracolo di Apollo l'aveva predetto mille anni prima.` Ma se accet­terai queste predizioni degli indovini, porrai le false pre­dizioni, come ad esempio che l'Africano non conquisterà Cartagine, fra le cose impossibili, mentre tutte le predi­zioni vere, che effettivamente si verificheranno, le consi­dererai necessarie; che è appunto l'opinione di Diodoro, che tu combatti.
14. Etenim si illud vere conectitur: 'Si oriente Canicula natus es, in mari non moriere', primumque quod est in conexo, 'Natus es oriente Canicula', necessarium est (omnia enim vera in praeteritis necessaria sunt, ut Chrysippo placet dissentienti a magistro Cleanthe, quia sunt inmutabilia nec in falsum e vero praeterita possunt convertere)--si igitur, quod primum in conexo est, necessarium est, fit etiam, quod consequitur, necessarium. Quamquam hoc Chrysippo non videtur valere in omnibus; sed tamen, si naturalis est causa, cur in mari Fabius non moriatur, in mari Fabius mori non potest.
14 Dunque se è vera la condizionale «se sei nato al sorgere della Canicola, non morirai in mare», e la prima parte della proposizione («sei nato al sorgere della Canicola») è necessaria (infatti tutte le,cose vere nel passato sono necessarie, poiché sono immutabili, né le cose passate possono essere trasformate da vere in false, come Crisippo ammette, dissentendo su questo punto dal suo maestro Cleante), se dunque la prima parte della proposizione è necessaria, anche quel che ne segue diventa necessario. Sebbene a Crisippo questo non sembra valere in tutti i casi; e tuttavia, se esiste una causa naturale per cui Fabio non muoia in mare, è impos­sibile che Fabio muoia in mare.
15. Hoc loco Chrysippus aestuans falli sperat Chaldaeos ceterosque divinos, neque eos usuros esse coniunctionibus, ut ita sua percepta pronuntient: 'Si quis natus est oriente Canicula, is in mari non morietur', sed potius ita dicant: 'Non et natus est quis oriente Canicula, et is in mari morietur.' O licentiam iocularem! ne ipse incidat in Diodorum, docet Chaldaeos, quo pacto eos exponere percepta oporteat. Quaero enim, si Chaldaei ita loquantur, ut negationes infinitarum coniunctionum potius quam infinita conexa ponant, cur idem medici, cur geometrae, cur reliqui facere non possint. Medicus in primis, quod erit ei perspectum in arte, non ita proponet: 'Si cui venae sic moventur, is habet febrim', sed potius illo modo: 'Non et venae sic cui moventur, et is febrim non habet.' Itemque geometres non ita dicet: 'In sphaera maximi orbes medii inter se dividuntur', sed potius illo modo: 'Non et sunt in sphaera maximi orbes, et ei non medii inter se dividuntur.'
15 A questo punto Crisippo si riscalda e spera di ingannare i Caldei e gli altri indovini, e che quelli non useranno, per esprimere i loro principi, proposizioni con­dizionali del tipo «se uno è nato al levarsi della Canicola, non morirà in mare», ma piuttosto si esprimeranno in questo modo: «non (e uno è nato al levarsi della Canicola e morirà in mare)». Un giochetto davvero ingegnoso! Per evitare Diodoro insegna ai Caldei in che modo deb­bano esprimere i loro principi. Ma io mi chiedo: se i Caldei parlassero in questo modo, esprimendosi attraver­so negazioni di congiuntive indefinite, piuttosto che con condizionali indefinite, perché non potrebbero fare lo stesso medici, geometri e tutti gli altri? ll medico non esprimerà il principio della sua arte nella forma «se a Lino batte il polso in un certo modo, ha la febbre», Ma piutto­sto nella forma «non (e a uno batte il polso in un certo modo e non ha la febbre)»; ugualmente il geometra non ti dirà «in una sfera le circonferenze massime si dividono in due parti uguali», ma piuttosto «non (e ci sono in una sfera circonferenze massime e non si dividono in due parti uguali)».
16. Quid est, quod non possit isto modo ex conexo transferri ad coniunctionum negationem? Et quidem aliis modis easdem res efferre possumus. Modo dixi: 'In sphaera maximi orbes medii inter se dividuntur'; possum dicere: 'Si in sphaera maximi orbes erunt', possum dicere: 'Quia in sphaera maximi orbes erunt'. Multa genera sunt enuntiandi nec ullum distortius quam hoc, quo Chrysippus sperat Chaldaeos contentos Stoicorum causa fore. Illorum tamen nemo ita loquitur; maius est enim has contortiones orationis quam signorum ortus obitusque perdiscere.
16 Ma in questo modo qualsiasi condizio­nale può essere trasformata in una congiuntiva negativa: E infatti i medesimi concetti possono essere espressi in forme diverse. Poco fa ho detto «in una sfera le circonfe­renze massime si dividono in due parti uguali»; ma posso dire anche «se in una sfera ci saranno circonferenze mas­sime», oppure anche «poiché in una sfera ci saranno cir­conferenze massime»; vi sono molti tipi di enunciati, ma nessuno è più contorto di quello che Crisippo spera che i Caldei sceglieranno per amore degli Stoici. E co­munque nessuno di loro parla in questo modo: infatti è più difficile imparare queste contorsioni del linguaggio che il sorgere e il tramontare degli astri
17. Sed ad illam Diodori contentionem, quam Peri Dynaton appellant revertamur, in qua quid valeat id quod fieri possit anquiritur. Placet igitur Diodoro id solum fieri posse, quod aut verum sit aut verum futurum sit. Qui locus attingit hanc quaestionem, nihil fieri, quod non necesse fuerit, et, quicquid fieri possit, id aut esse iam aut futurum esse, nec magis commutari ex veris in falsa posse ea, quae futura, quam ea, quae facta sunt; sed in factis inmutabilitatem apparere, in futuris quibusdam, quia non apparet, ne inesse quidem videri, ut in eo, qui mortifero morbo urgeatur, verum sit 'Hic morietur hoc morbo', at hoc idem si vere dicatur in eo, in quo vis morbi tanta non appareat, nihilo minus futurum sit. Ita fit, ut commutatio ex vero in falsum ne in futuro quidem ulla fieri possit. Nam 'Morietur Scipio' talem vim habet, ut, quamquam de futuro dicitur, tamen ut id non possit convertere in falsum; de homine enim dicitur, cui necesse est mori.
17 . Ma torniamo alla discussione di Diodoro detta Peri Dynaton [dei possibili], nella quale si discute sul possi­bile. Dunque Diodoro vuole che sia possibile soltanto ciò che è o sarà vero. La sua tesi viene a porci questa questione: che non accade niente che non fosse necessa­rio; che tutto ciò che è possibile o è già o sarà; che gli eventi futuri non possono essere trasformati da veri in falsi più di quelli passati; ma mentre è evidente che il passato è immutabile, il futuro, poiché non è evidente, a taluni sembra che non lo sia; ad esempio, se è vero, detto di un uomo gravemente ammalato di una malattia morta­le, «costui morirà di questa malattia», qualora la medesi­ma affermazione sia vera a proposito di un uomo nel quale la violenza della malattia appaia minore, l'evento è nondimeno destinato ad accadere. Ne consegue che la trasformazione da vero in falso è impossibile anche per le cose future. L'affermazione «Scipione morirà» ha una validità tale che, sebbene sia detta del futuro, non può tuttavia essere trasformata in falsa; infatti è detta di un uomo, che è inevitabile che muoia.
18. Sic si diceretur, 'Morietur noctu in cubiculo suo vi oppressus Scipio', vere diceretur; id enim fore diceretur, quod esset futurum; futurum autem fuisse ex eo, quia factum est, intellegi debet. Nec magis erat verum 'Morietur Scipio' quam 'Morietur illo modo', nec magis necesse mori Scipioni quam illo modo mori, nec magis inmutabile ex vero in falsum 'Necatus est Scipio' quam 'Necabitur Scipio'; nec, cum haec ita sint, est causa, cur Epicurus fatum extimescat et ab atomis petat praesidium easque de via deducat et uno tempore suscipiat res duas inenodabiles, unam, ut sine causa fiat aliquid--, ex quo existet, ut de nihilo quippiam fiat, quod nec ipsi nec cuiquam physico placet--alteram, ut, cum duo individua per inanitatem ferantur, alterum e regione moveatur, alterum declinet.
18 Così se si dicesse «Scipione morirà di morte violenta, di notte, nella sua camera da letto» sarebbe vero; infatti si direbbe che sarà quel che sarebbe stato; che sarebbe stato, lo si evince dal fatto che è stato. E non era più vero «Scipione mori­rà» di quanto non lo fosse «morirà in quel determinato modo», né era più necessario che Scipione morisse di quanto non lo fosse che morisse in quel modo, né più immutabile dal vero in falso «Scipione è stato ucciso» di «Scipione sarà ucciso». E tuttavia, pur stando così le cose, non c'è motivo che Epicuro tema il fato e cerchi aiuto negli atomi, facendo­li deviare dalla loro traiettoria, e sostenga contemporanea­mente due cose inammissibili: la prima, che qualcosa avvenga senza causa, perciò accadrebbe che qualcosa nasca dal nulla, il che né lui stesso né alcun fisico ammet­te; la seconda, che mentre due atomi si muovono nel vuoto, uno cada in linea retta, l'altro invece cambi dire­zione.
19. Licet enim Epicuro concedenti omne enuntiatum aut verum aut falsum esse non vereri, ne omnia fato fieri sit necesse; non enim aeternis causis naturae necessitate manantibus verum est id, quod ita enuntiatur: 'Descendit in Academiam Carneades', nec tamen sine causis, sed interest inter causas fortuito antegressas et inter causas cohibentis in se efficientiam naturalem. Ita et semper verum fuit 'Morietur Epicurus, cum duo et septuaginta annos vixerit, archonte Pytharato', neque tamen erant causae fatales, cur ita accideret, sed, quod ita cecidit, certe casurum sicut cecidit fuit.
19 In realtà Epicuro può benissimo concedere che ogni enunciato sia o vero o falso senza temere che per questo sia necessario che tutto accada a causa del fato; infatti l'enunciato «Carneade viene in Accademia» non è vero in forza di cause eterne derivanti da una necessità di natura, e tuttavia non è senza cause; ma vi è differenza fra cause casualmente antecedenti e cause che hanno in sé la necessità della legge naturale. Così è sempre stato vero che «Epicuro morirà dopo aver vissuto anni sotto l'arcontato di Pitarato», e tuttavia non vi erano cause fatali perché questo accadesse; ma quel che è già accaduto, doveva certo accadere come è accaduto.
20. Nec ei qui dicunt inmutabilia esse quae futura sint nec posse verum futurum convertere in falsum, fati necessitatem confirmant, sed verborum vim interpretantur. At qui introducunt causarum seriem sempiternam, ei mentem hominis voluntate libera spoliatam necessitate fati devinciunt. Sed haec hactenus; alia videamus. Concludit enim Chrysippus hoc modo: 'Si est motus sine causa, non omnis enuntiatio (quod axioma dialectici appellant) aut vera aut falsa erit; causas enim efficientis quod non habebit, id nec verum nec falsum erit; omnis autem enuntiatio aut vera aut falsa est; motus ergo sine causa nullus est.
20 E quelli che affermano che il futuro è immutabile e non può essere trasformato da vero in falso, non rafforzano la necessità dei fato, ma si riferiscono al valore degli enunciati. Piuttosto coloro che introducono il concetto di una serie concatenata di cause fissate dall'eternità, privano la mente dell’ uomo della libera volontà e la rendono prigioniera della necessità dei fato. Ma con questo fermiamoci qui e passiamo ad altre questioni. Dunque Crisippo conclude in questo modo: “Se esiste un moto incausato, allora non ogni enunciato, che i dialettici chiamano axioma, sarà o vero o falso, poiché ciò che non avrà una causa efficiente non sarà né vero né falso; ma tutti gli enunciati sono o veri o falsi: quindi non esiste alcun moto incausato”.
21. Quod si ita est, omnia, quae fiunt, causis fiunt antegressis; id si ita est, fato omnia fiunt; efficitur igitur fato fieri, quaecumque fiant.' Hic primum si mihi libeat adsentiri Epicuro et negare omnem enuntiationem aut veram esse aut falsam, eam plagam potius accipiam quam fato omnia fieri conprobem; illa enim sententia habet aliquid disputationis, haec vero non est tolerabilis. Itaque contendit omnis nervos Chrysippus, ut persuadeat omne axioma aut verum esse aut falsum. Ut enim Epicurus veretur, ne, si hoc concesserit, concedendum sit fato fieri, quaecumque fiant, (si enim alterum utrum ex aeternitate verum sit, esse id etiam certum et, si certum, etiam necessarium; ita et necessitatem et fatum confirmari putat), sic Chrysippus metuit, ne, si non obtinuerit omne, quod enuntietur, aut verum esse aut falsum, non teneat omnia fato fieri et ex causis aeternis rerum futurarum.
21 E se le cose stanno così, tutto ciò che accade, accade per opera di cause antecedenti, e quindi accade per opera del fato. Ne consegue dunque che tutte le cose che accadono, accado­no per opera del fato» . A questo punto, se dovessi di­chiararmi d'accordo con Epicuro, e negare che ogni enunciato sia o vero o falso, preferirei accettare questo colpo piuttosto che ammettere che tutto accade per opera del fato; infatti se la prima tesi è senz'altro discutibile, la seconda non è nemmeno tollerabile. Dunque Crisippo si sforza in ogni modo di convincerci che ogni axioma [enunciato] è o vero o falso. Infatti mentre Epicuro teme, ammettendo questo, di dover ammettere anche che tutto accade per opera del fato (poiché se una delle due alter­native è, vera dall'eternità, allora è anche certa, e se è certa è anche necessaria: in questo modo pensa di raffor­zare la tesi del fato e della necessità), d'altra parte Cri­sippo teme che, se non otterrà che ogni enunciato sia o vero o falso, non potrà neanche difendere la tesi che tutto accade per opera del fato e di cause che determinano il futuro dall'eternità
22. Sed Epicurus declinatione atomi vitari necessitatem fati putat. Itaque tertius quidam motus oritur extra pondus et plagam, cum declinat atomus intervallo minimo (id appellat elachiston). Quam declinationem sine causa fieri si minus verbis, re cogitur confiteri. Non enim atomus ab atomo pulsa declinat. Nam qui potest pelli alia ab alia, si gravitate feruntur ad perpendiculum corpora individua rectis lineis, ut Epicuro placet? sequitur autem ut, si alia ab alia numquam depellatur, ne contingat quidem alia aliam; ex quo efficitur, etiamsi sit atomus eaque declinet, declinare sine causa.
22 Ma Epicuro crede di evitare la necessità del fato con la teoria della declinazione dell'atomo. E così ecco che spunta fuori un terzo moto, oltre a quelli causati dal peso e dall'urto, per cui l'atomo si allontana dalla sua traiettoria secondo un «minimo», che lui chiama elachiston. E anche se non lo dice esplicitamente, in pratica è costretto ad ammettere che questa deviazione avvenga senza causa. Infatti l'atomo non devia perché è colpito da un altro atomo: infatti, in che modo gli atomi potrebbero colpirsi, se sono tutti trascinati verso il basso, in linea retta, dalla gravità, come sostiene Epicuro? Se non si colpiscono mai, è evidente che non possono neppure toccarsi. Se ne evince quindi che, se l'atomo esiste e devia, devia senza causa.
23. Hanc Epicurus rationem induxit ob eam rem, quod veritus est, ne, si semper atomus gravitate ferretur naturali ac necessaria, nihil liberum nobis esset, cum ita moveretur animus, ut atomorum motu cogeretur. Id Democritus, auctor atomorum, accipere maluit, necessitate omnia fieri, quam a corporibus individuis naturalis motus avellere. Acutius Carneades, qui docebat posse Epicureos suam causam sine hac commenticia declinatione defendere. Nam cum docerent esse posse quendam animi motum voluntarium, id fuit defendi melius quam introducere declinationem, cuius praesertim causam reperire non possent; quo defenso facile Chrysippo possent resistere. Cum enim concessissent motum nullum esse sine causa, non concederent omnia, quae fierent, fieri causis antecedentibus; voluntatis enim nostrae non esse causas externas et antecedentis.
23 Epicuro ha introdotto questa teoria perché, se l'atomo si muovesse sempre e soltanto secondo la legge naturale e necessaria della gravità, te­meva che non rimanesse nessun spazio alla libertà uma­na, essendo i moti dell'animo condizionati da quelli degli atomi. Democrito, fondatore dell'atomismo, preferì ac­cettare la necessità universale, piuttosto che ammettere che gli atomi potessero avere un moto diverso da quello naturale. Carneade, più acutamente, mostrava che gli Epicu­rei potevano difendere la loro opinione senza inventarsi questa declinazíone. Infatti, poiché sostenevano che nell'animo possono esservi dei moti volontari, avrebbero dovuto difendere questo punto invece di introdurre la declinazione, soprattutto dal momento che non riusciva­no a trovarne la causa. Difesa questa teoria, avrebbero potuto facilmente resistere alle critiche di Crisippo. In­fatti pur ammettendo che non vi sia alcun moto incau­sato, non avrebbero ammesso che tutto accade in virtù di cause antecedenti, poiché non vi sono cause esterne e antecedenti che determinano la volontà umana.
24. Communi igitur consuetudine sermonis abutimur, cum ita dicimus, velle aliquid quempiam aut nolle sine causa; ita enim dicimus 'sine causa', ut dicamus: sine externa et antecedente causa, non sine aliqua; ut, cum vas inane dicimus, non ita loquimur, ut physici, quibus inane esse nihil placet, sed ita, ut verbi causa sine aqua, sine vino, sine oleo vas esse dicamus, sic, cum sine causa animum dicimus moveri, sine antecedente et externa causa moveri, non omnino sine causa dicimus. De ipsa atomo dici potest, cum per inane moveatur gravitate et pondere, sine causa moveri, quia nulla causa accedat extrinsecus.
24 Nella consuetudine del parlare comune commettiamo dunque un errore, quando diciamo che uno vuole o non vuole qualcosa «senza causa»: infatti dicendo «senza causa» intendiamo in realtà dire «senza una causa esterna e ante­cedente», e non senza causa affatto; come quando dicia­mo che un vaso è vuoto, non parliamo il linguaggio dei fisici, secondo i quali il vuoto non esiste, ma intendiamo semplicemente che nel vaso non vi e, per esempio, ac­qua, né vino, né olio, così quando diciamo che l'animo ha dei moti incausati intendiamo senza causa esterna e antecedente, non senza causa affatto. Proprio del l'atomo, poiché si muove nel vuoto in virtù della gravità e del peso, si può dire che si muove senza causa, dato che non interviene nessuna causa dal di fuori.
25. Rursus autem, ne omnes a physicis inrideamur si dicamus quicquam fieri sine causa, distinguendum est et ita dicendum, ipsius individui hanc esse naturam, ut pondere et gravitate moveatur, eamque ipsam esse causam, cur ita feratur. Similiter ad animorum motus voluntarios non est requirenda externa causa; motus enim voluntarius eam naturam in se ipse continet, ut sit in nostra potestate nobisque pareat, nec id sine causa; eius rei enim causa ipsa natura est.
25 Ma di nuovo, perché noi tutti fisici non siamo irrisi, se dicessimo che qualcosa accade senza causa, bisogna distinguere e spie­gare che questa è la natura dell'atomo, di muoversi per il peso e la gravità, e che la sua stessa natura è causa del suo movimento. Allo stesso modo, per i moti volontari del­l'animo non è da ricercarsi una causa esterna: infatti il moto volontario possiede in sé una natura tale per cui è in nostro potere e ci obbedisce, e non per questo è senza causa; infatti ne è causa la sua stessa natura.
26. Quod cum ita sit, quid est, cur non omnis pronuntiatio aut vera aut falsa sit, nisi concesserimus fato fieri, quaecumque fiant? Quia futura vera, inquit, non possunt esse ea, quae causas, cur futura sint, non habent; habeant igitur causas necesse est ea, quae vera sunt; ita, cum evenerint, fato evenerint. Confectum negotium, siquidem concedendum tibi est aut fato omnia fieri, aut quicquam fieri posse sine causa.
26 Ma se le cose stanno così, che motivo c'è di negare che ogni enunciato è o vero o falso, se non ammetteremo anche che tutto ciò che accade, accade per opera del fato?" «Perché», dice lui, «le cose vere nel futuro non possono essere cose che non abbiano già nel presente le cause del loro accadere; quindi è necessario che le cose vere abbiano le loro cause; e così quando avverranno, avverranno per opera del fato.»
La faccenda sarebbe già risolta, se l'alternativa fosse concederti che tutto accade per opera del fato, op­pure ammettere che qualcosa possa accadere senza cau­sa.
27. An aliter haec enuntiatio vera esse potest, 'Capiet Numantiam Scipio', nisi ex aeternitate causa causam serens hoc erit effectura? An hoc falsum potuisset esse, si esset sescentis saeculis ante dictum? Et si tum non esset vera haec enuntiatio: 'Capiet Numantiam Scipio', ne illa quidem eversa vera est haec enuntiatio: 'Cepit Numantiam Scipio.' Potest igitur quicquam factum esse, quod non verum fuerit futurum esse? Nam ut praeterita ea vera dicimus, quorum superiore tempore vera fuerit instantia, sic futura, quorum consequenti tempore vera erit instantia, ea vera dicemus.
27 Ma l'enunciato «Scipione prenderà Numanzia» non può forse essere vero senza che vi sia una serie di cause fissate dall'eternità che determini quell'evento? Oppure, avrebbe potuto essere falso, se fosse stato pre­detto innumerevoli secoli prima? E se allora l'enunciato «Scipione prenderà Numanzia» non fosse vero neppure ora che la città è distrutta l'enunciato «Scipione ha preso Numanzia» è vero. Può dunque essere accaduto qualcosa che non fosse vero che sarebbe stato? Infatti come dicia­mo veri gli eventi passati, la cui realizzazione è stata vera in un tempo precedente, così diciamo veri quelli futuri, la cui realizzazione sarà vera in un tempo successivo.
28. Nec, si omne enuntiatum aut verum aut falsum est, sequitur ilico esse causas inmutabilis, easque aeternas, quae prohibeant quicquam secus cadere, atque casurum sit; fortuitae sunt causae, quae efficiant, ut vere dicantur, quae ita dicentur: 'Veniet in senatum Cato', non inclusae in rerum natura atque mundo; et tamen tam est inmutabile venturum, cum est verum, quam venisse (nec ob eam causam fatum aut necessitas extimescenda est); etenim erit confiteri necesse 'Si hoc enuntiatum, "Veniet in Tusculanum Hortensius," vera non est, sequitur, ut falsa sit.' Quorum isti neutrum volunt; quod fieri non potest. Nec nos impediet illa ignava ratio, quae dicitur; appellatur enim quidam a philosophis Argos Logos, cui si pareamus, nihil omnino agamus in vita. Sic enim interrogant: 'Si fatum tibi est ex hoc morbo convalescere, sive tu medicum adhibueris sive non adhibueris, convalesces;
28 E se ogni enunciato è o vero o falso, non ne segue imme­diatamente che vi siano cause immutabili ed eterne che impediscono che qualcosa accada diversamente da come accadrà; vi sono cause fortuite che fanno sì che l'enun­ciato «Catone verrà in senato» sia vero, ma che non fan­no parte della natura delle cose e del mondo; e tuttavia, se è vero, è altrettanto immutabile che Catone verrà in sena­to quanto che vi sia già venuto; e non per questo dobbia­mo temere il fato o la necessità. Infatti è inevitabile rico­noscere che se l'enunciato «Ortensio verrà a Tusculo» non è vero, allora vuol dire che è falso. Gli Epicurei invece non accettano né l'una né l'altra alternativa, il che e impossibile. Lì non ci creerà problemi la cosiddetta «teoria ignava» (infatti i filosofi lo chiamano Argos Logos), seguendo la quale non dovremmo compiere in vita nostra nessuna azione. Ecco come ragionano: «Se è destino che tu gua­risca da questa malattia, guarirai, sia che chiami il medi­co sia che non lo chiami;
29. item, si fatum tibi est ex hoc morbo non convalescere, sive tu medicum adhibueris sive non adhibueris, non convalesces; et alterutrum fatum est; medicum ergo adhibere nihil attinet.' Recte genus hoc interrogationis ignavum atque iners nominatum est, quod eadem ratione omnis e vita tolletur actio. Licet etiam inmutare, ut fati nomen ne adiungas et eandem tamen teneas sententiam, hoc modo: 'Si ex aeternitate verum hoc fuit: "Ex isto morbo convalesces", sive adhibueris medicum sive non adhibueris, convalesces; itemque, si ex aeternitate falsum hoc fuit: "Ex isto morbo convalesces", sive adhibueris medicum sive non adhibueris, non convalesces'; deinde cetera.
29 ugualmente, se è destino che tu non guarisca, non guarirai, sia che chiami il medico sia che non lo chiami; e che si verifichi la prima o la seconda ipotesi è destino; quindi non fa nessuna differenza chia­mare il medico oppure no».
Giustamente un ragionamento simile è stato detto ignavo e inerte, poiché secondo lo stesso principio si elimina qualsiasi possibilità di azione dalla vita umana. Si può anche modificarlo, se vuoi eliminare la parola «fato» e tuttavia mantenere i termini del ragionamento, in questo modo: «Se è vero dall'eternità che "tu guarirai da codesta malattia", guarirai sia che chiami il medico sia che non lo chiami; se invece è falso dall’ eternità che "tu guarirai da codesta malattia", allora non guarirai, sia che chiami il medico sia che non lo chiami»; e così via.
30. Haec ratio a Chrysippo reprehenditur. Quaedam enim sunt, inquit, in rebus simplicia, quaedam copulata; simplex est: 'Morietur illo die Socrates'; huic, sive quid fecerit sive non fecerit, finitus est moriendi dies. At si ita fatum est: 'Nascetur Oedipus Laio', non poterit dici: 'sive fuerit Laius cum muliere sive non fuerit'; copulata enim res est et confatalis; sic enim appellat, quia ita fatum sit et concubiturum cum uxore Laium et ex ea Oedipum procreaturum, ut, si esset dictum: 'Luctabitur Olympiis Milo' et referret aliquis: 'Ergo, sive habuerit adversarium sive non habuerit, luctabitur', erraret; est enim copulatum 'luctabitur', quia sine adversario nulla luctatio est. Omnes igitur istius generis captiones eodem modo refelluntur. 'Sive tu adhibueris medicum sive non adhibueris, convalesces' captiosum; tam enim est fatale medicum adhibere quam convalescere. Haec, ut dixi, confatalia ille appellat.
30 Questo modo di ragionare è criticato da Crisippo, che dice: «Vi sono nella realtà fatti semplici e fatti colle­gati; semplice è "Socrate morirà il tal giorno"; qualsiasi cosa egli faccia, il giorno della sua morte è stabilito. Ma se è destinato che "Laio genererà Edipo", non si può dire "sia che Laio si unisca a una donna sia che non le si unisca"; infatti questo è un fatto collegato e confatale»; lo chiama così, poiché è fatale sia che Laio si unisca alla moglie sia che generi da lei Edipo. Ugualmente se fosse stato predetto «Milone lotterà a Olimpia», e qualcuno dicesse «lotterà sia che abbia un avversario, sia che non ce l'abbia», sbaglierebbe; infatti «lotterà» è un fatto col­legato, poiché senza avversario non può esservi nessuna lotta. Tutti i sofismi di questo genere si controbattono dunque allo stesso modo. «Guarirai sia che chiami il me­dico, sia che non lo chiami» è un sofisma; infatti è tanto fatale chiamare il medico quanto guarire. Questi fatti col­legati, come ho detto, li chiama «confatali».
31. Carneades genus hoc totum non probabat et nimis inconsiderate concludi hanc rationem putabat. Itaque premebat alio modo nec ullam adhibebat calumniam; cuius erat haec conclusio: 'Si omnia antecedentibus causis fiunt, omnia naturali conligatione conserte contexteque fiunt; quod si ita est, omnia necessitas efficit; id si verum est, nihil est in nostra potestate; est autem aliquid in nostra potestate; at, si omnia fato fiunt, omnia causis antecedentibus fiunt; non igitur fato fiunt, quaecumque fiunt.'
31 Carneade non approvava affatto questo modo di pensare e riteneva che il ragionamento fosse concluso in modo alquanto frettoloso; per questo incalzava in mo­do diverso, senza ricorrere a simili sottigliezze. E la sua conclusione era questa: «Se tutte le cose accadono per cause antecedenti, esse sono tutte concatenate e intrec­ciate secondo una connessione naturale; e se le cose stan­no così, tutte le cose accadono di necessità; e se questo è vero, niente è in nostro potere; ma qualcosa è pure in nostro potere ; ma se tutto dipende dal fato, tutto accade per cause antecedenti; allora non tutto ciò che accade, accade per opera del fato». Il ragionamento non potrebbe essere più stringente di così.
32. Haec artius adstringi ratio non potest. Nam si quis velit idem referre atque ita dicere: 'Si omne futurum ex aeternitate verum est, ut ita certe eveniat, quem ad modum sit futurum, omnia necesse est conligatione naturali conserte contexteque fieri', nihil dicat. Multum enim differt, utrum causa naturalis ex aeternitate futura vera efficiat, an etiam sine aeternitate naturali, futura quae sint, ea vera esse possint intellegi. Itaque dicebat Carneades ne Apollinem quidem futura posse dicere nisi ea, quorum causas natura ita contineret, ut ea fieri necesse esset.
32 Infatti se qualcuno voles­se esprimere lo stesso concetto in modo diverso, e dices­se: «Se tutto ciò che accadrà, è vero dall'eternità, co­sicché le cose accadranno certamente nel modo in cui accadranno, è necessario che tutte le cose accadano con­catenate e intrecciate secondo una connessione natura­le», direbbe una cosa senza senso. Infatti è molto diverso dire che vi è una causa naturale che rende veri dall'eter­nità gli eventi futuri o, diversamente, che anche senza cause eterne e naturali gli eventi che accadranno possano essere pensati come veri. Così Carneade diceva che perfino Apollo poteva predire solo quelle cose future le cui cause presenti nella natura, cosicché fosse necessario che accadessero.
33. Quid enim spectans deus ipse diceret Marcellum eum, qui ter consul fuit, in mari esse periturum? Erat hoc quidem verum ex aeternitate, sed causas id efficientis non habebat. Ita ne praeterita quidem ea, quorum nulla signa tamquam vestigia extarent, Apollini nota esse censebat; quanto minus futura, causis enim efficientibus quamque rem cognitis posse denique sciri quid futurum esset; ergo nec de Oedipode potuisse Apollinem praedicere nullis in rerum natura causis praepositis, cur ab eo patrem interfici necesse esset, nec quicquam eius modi. Quocirca, si Stoicis, qui omnia fato fieri dicunt, consentaneum est huiusmodi oracula ceteraque, quae ad divinationem pertinent, comprobare, eis autem qui, quae futura sunt ea vera esse ex aeternitate dicunt non idem dicendum est, vide ne non eadem sit illorum causa et Stoicorum; hi enim urguentur angustius, illorum ratio soluta ac libera est.
33 Infatti su che cosa si fondava il dio quando disse che quel Marcello, che fu console tre volte, sarebbe morto in mare? Certo questo era vero dall'eternità, ma non aveva cause efficienti. Ugualmente pensava che Apollo non cono­scesse neppure quegli avvenimenti passati dei quali non rimanessero tracce nel presente: tanto meno quelli futuri. Infatti solo conoscendo le cause efficienti di ciascuna cosa si può prevedere il futuro. Dunque Apollo non a­vrebbe potuto fare alcuna predizione a proposito di Edipo, poiché non vi erano le cause antecedenti e naturali per cui era necessario che uccidesse il padre; né alcuna altra cosa di questo genere. Allora, se gli Stoici, che dicono che tutto accade per opera del fato, devono di conseguenza accettare gli oracoli di questo tipo e le altre predizioni tratte dalla divinazione, per quanto riguarda invece quelli che so­stengono che le cose che accadranno sono vere dall'e­ternità, non può dirsi lo stesso, e sta' attento a non confondere la loro tesi con quella degli Stoici; questi infatti si possono incalzare più da vicino, quelli invece hanno un modo di ragionare più sciolto e libero.
34. Quodsi concedatur nihil posse evenire nisi causa antecedente, quid proficiatur, si ea causa non ex aeternis causis apta dicatur? Causa autem ea est, quae id efficit, cuius est causa, ut vulnus mortis, cruditas morbi, ignis ardoris. Itaque non sic causa intellegi debet, ut, quod cuique antecedat, id ei causa sit, sed quod cuique efficienter antecedat, nec, quod in campum descenderim, id fuisse causae, cur pila luderem, nec Hecubam causam interitus fuisse Troianis, quod Alexandrum genuerit, nec Tyndareum Agamemnoni, quod Clytaemnestram. Hoc enim modo viator quoque bene vestitus causa grassatori fuisse dicetur, cur ab eo spoliaretur.
34 Infatti, se si concedesse che niente può accadere sen­za una causa antecedente, che si guadagnerebbe dicendo che quella causa non è, legata alle cause eterne? Causa infatti è propriamente quella che produce ciò di cui è causa, come la ferita della morte, la difficoltà di digestio­ne della malattia, il fuoco del calore. Infatti per quanto riguarda il concetto di causa, non bisogna pensare che la causa di ciascuna cosa sia ciò che la precede, ma ciò che la precede in modo da produrla. Ad esempio, il fatto che sia sceso nel Campo non è causa del fatto che abbia giocato a palla, Ecuba non fu causa della rovina dei Troiani perché aveva generato Paride, né Tindaro di quella di Agamennone perché aveva generato Clitennestra. Al­trimenti si potrebbe dire anche che il viaggiatore ben vestito è stato causa del furto che ha subito dal ladro.
35.
Ex hoc genere illud est Ennii,
utinam ne in nemore Pelio securibus
caesae accidissent abiegnae ad terram trabes!
Licuit vel altius: 'Utinam ne in Pelio nata ulla umquam esset arbor!' etiam supra: 'Utinam ne esset mons ullus Pelius!' similiterque superiora repetentem regredi infinite licet.
Neve inde navis inchoandi exordium
cepisset.
Quorsum haec praeterita? quia sequitur illud,
Nam numquam era errans mea domo ecferret pedem
Medea, animo aegra, amore saevo saucia,
non erat ut eae res causam adferrent amoris.
35 Di questo tipo è l'affermazione di Ennio :
«Oh, se mai nel bosco Pelio le travi d'abete,
dalle scuri tagliate, fossero cadute a terra».
Avrebbe potuto risalire più indietro nel tempo: «oh, se sul Pelio mai fosse nato albero alcuno», o ancor prima: «oh, se mai fosse esistito il monte Pelio», e si potrebbe continuare all'infinito, riandando a tempi sempre più lontani:
«c da lì la costruzione della nave non avesse avuto inizio».
A che scopo citare questi eventi passati? Perché poi se­gue un altro discorso:
«Infatti ora la mia signora non se ne andrebbe, pazza, dalla casa, Medea, con l'anima malata, ferita da un amore crudele»,
non perché quelle cose costituissero realmente la causa dell'amore.
36. Interesse autem aiunt, utrum eius modi quid sit, sine quo effici aliquid non possit, an eius modi, cum quo effici aliquid necesse sit. Nulla igitur earum est causa, quoniam nulla eam rem sua vi efficit, cuius causa dicitur; nec id, sine quo quippiam non fit, causa est, sed id, quod cum accessit, id, cuius est causa, efficit necessario. Nondum enim ulcerato serpentis morsu Philocteta quae causa in rerum natura continebatur, fore ut is in insula Lemno linqueretur? post autem causa fuit propior et cum exitu iunctior.
36 Infatti dicono che vi è differenza, tra un fatto senza cui un evento non può accadere, e un fatto per cui un evento accade di necessità. Quindi nessuno di quei fatti è causa, poiché nessuno produce per suo proprio potere ciò di cui è detto causa; e la causa non è ciò senza cui un evento non può accadere, ma ciò che sopravve­nendo produce di necessità ciò di cui è causa. Infatti quale causa vi era nella natura delle cose perché Filot­tete, non ancora ferito dal morso del serpente, fosse ab­bandonato sull'isola di Lemno? Ma dopo vi fu una causa più prossima e legata al risultato.
37. Ratio igitur eventus aperuit causam; sed ex aeternitate vera fuit haec enuntiatio: 'Relinquetur in insula Philoctetes', nec hoc ex vero in falsum poterat convertere. Necesse est enim in rebus contrariis duabus--contraria autem hoc loco ea dico, quorum alterum ait quid, alterum negat--ex eis igitur necesse est invito Epicuro alterum verum esse, alterum falsum, ut 'Sauciabitur Philocteta' omnibus ante saeculis verum fuit, 'Non sauciabitur' falsum; nisi forte volumus Epicureorum opinionem sequi, qui tales enuntiationes nec veras nec falsas esse dicunt aut, cum id pudet, illud tamen dicunt, quod est inpudentius, veras esse ex contrariis diiunctiones, sed, quae in his enuntiata sint, eorum neutrum esse verum.
37 E dunque la spiega­zione dell'evento che ne manifesta la causa. Ma quest'enunciato era vero dall'eternità: «Filottete sarà abbandonato su un'isola», e non poteva essere trasformato da vero in falso. Infatti è necessario che fra due contrari (qui chiamo contrari due enunciati dei quali uno afferma una cosa e l'altro la nega) ‑ fra questi dicevo è necessa­rio, anche se Epicuro lo nega, che uno sia vero e l'altro falso. Per esempio, «Filottete sarà ferito» è stato vero dall'inizio dei secoli, «non sarà ferito» falso; a meno che, per caso, non vogliamo seguire l'opinione degli Epicu­rei, che dicono che tali enunciati non sono né veri né falsi, oppure, vergognandosi di dire questo, dicono que­st'altra cosa, ancor più vergognosa, che sono vere le disgiuntive di contrari, ma che nessuno dei due enunciati è, vero.
38. O admirabilem licentiam et miserabilem inscientiam disserendi! Si enim aliquid in eloquendo nec verum nec falsum est, certe id verum non est; quod autem verum non est, qui potest non falsum esse? aut, quod falsum non est, qui potest non verum esse? tenebitur igitur id, quod a Chrysippo defenditur, omnem enuntiationem aut veram aut falsam esse; ratio ipsa coget et ex aeternitate quaedam esse vera, et ea non esse nexa causis aeternis et a fati necessitate esse libera.
38 Che incredibile licenza, e che miserevole imperizia logica! Se infatti un enunciato non è vero né falso, certo non è vero. Ma ciò che non è vero, in che modo può non essere falso? Oppure, ciò che non è falso, in che modo può non essere vero? Sarà dimostrata quindi la tesi difesa da Crisippo, che ogni enunciato è o vero o falso: la logica vuole che alcuni enunciati siano veri dall'eternità, ma che essi non siano legati a cause eterne e siano liberi dalla necessità del fato.
39. Ac mihi quidem videtur, cum duae sententiae fuissent veterum philosophorum, una eorum, qui censerent omnia ita fato fieri, ut id fatum vim necessitatis adferret, in qua sententia Democritus, Heraclitus, Empedocles, Aristoteles fuit, altera eorum, quibus viderentur sine ullo fato esse animorum motus voluntarii, Chrysippus tamquam arbiter honorarius medium ferire voluisse--sed applicat se ad eos potius, qui necessitate motus animos liberatos volunt; dum autem verbis utitur suis, delabitur in eas difficultates, ut necessitatem fati confirmet invitus.
39 E dunque due sono i pareri degli antichi filoso­fi: l'uno, di quelli che pensano che tutto accada per opera del fato, e che esso abbia la forza della necessità ‑ e di questo parere erano Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele ; l'altro, di quelli che pensano che, senza alcun fato, l'animo possieda dei moti volontari. A me sembra che Crisippo si sia voluto porre in mezzo a questi come un giudice conciliatore, ma che voglia avvicinarsi di più a coloro che vogliono i moti dell'animo liberi dalla necessità; poi però, esponendo la sua teoria, scivola in tali difficoltà che finisce per rafforzare, suo malgrado, la necessità del fato.
40. Atque hoc, si placet, quale sit videamus in adsensionibus, quas prima oratione tractavi. Eas enim veteres illi, quibus omnia fato fieri videbantur, vi effici et necessitate dicebant. Qui autem ab eis dissentiebant, fato adsensiones liberabant negabantque fato adsensionibus adhibito necessitatem ab his posse removeri, iique ita disserebant: 'Si omnia fato fiunt, omnia fiunt causa antecedente, et, si adpetitus, illa etiam, quae adpetitum sequuntur, ergo etiam adsensiones; at, si causa adpetitus non est sita in nobis, ne ipse quidem adpetitus est in nostra potestate; quod si ita est, ne illa quidem, quae adpetitu efficiuntur, sunt sita in nobis; non sunt igitur neque adsensiones neque actiones in nostra potestate. Ex quo efficitur, ut nec laudationes iustae sint nec vituperationes nec honores nec supplicia'. Quod cum vitiosum sit, probabiliter concludi putant non omnia fato fieri, quaecumque fiant.
40 E a che cosa mi riferisco, possia­mo vederlo nella teoria dell'assenso, che ho esposto al­l'inizio del discorso. Infatti quegli antichi filosofi, che pensavano che tutto accada fatalmente, ritenevano che l'assenso fosse prodotto in modo coatto e necessario. Quelli invece che dissentivano da loro, liberavano l'as­senso dal fato e dicevano che, se si pone l'assenso sotto il dominio del fato, non si può allontanare da questo la necessità; quindi ragionavano in questo modo: «Se tutto accade per opera del fato, tutto accade per una causa antecedente; e se l'appetito accade per opera del fato, allora anche tutto ciò che segue l'appetito, e quindi anche l'assenso; ma se la causa dell'appetito non è posta in noi, neppure l'appetito è in nostro potere; e se le cose stanno cosi, neppure tutto ciò che è prodotto dall'appetito dipen­de da noi; dunque né l'assenso né le azioni sono in nostro potere. Ne consegue che né le lodi, né i rimproveri, né gli onori, né le pene, sono giusti». E poiché questo è erro­neo, pensano che si debba concludere con ogni probabili­tà che non tutto ciò che avviene, avviene per opera del fato.
41. Chrysippus autem cum et necessitatem inprobaret et nihil vellet sine praepositis causis evenire, causarum genera distinguit, ut et necessitatem effugiat et retineat fatum. 'Causarum enim', inquit, 'aliae sunt perfectae et principales, aliae adiuvantes et proximae. Quam ob rem, cum dicimus omnia fato fieri causis antecedentibus, non hoc intellegi volumus: causis perfectis et principalibus, sed causis adiuvantibus et proximis'. Itaque illi rationi, quam paulo ante conclusi, sic occurrit: si omnia fato fiant, sequi illud quidem, ut omnia causis fiant antepositis, verum non principalibus causis et perfectis, sed adiuvantibus et proximis. Quae si ipsae non sunt in nostra potestate, non sequitur, ut ne adpetitus quidem sit in nostra potestate. At hoc sequeretur, si omnia perfectis et principalibus causis fieri diceremus, ut, cum eae causae non essent in nostra potestate, ne ille quidem esset in nostra potestate.
41 Ma Crisippo, poiché rifiuta la necessità, e tut­tavia non ammette che qualcosa avvenga senza cause antecedenti, distingue i generi delle cause, in modo da evitare la necessità senza negare il fato. Dice: «Ci sono cause perfette e principali e cause ausiliarie e prossime. Per questo quando dico che tutto accade fatalmente per opera di cause antecedenti, non intendo per opera di cau­se perfette e principali, ma per opera di cause ausiliarie e prossime». E a quel ragionamento che ho esposto poco fa, risponde in questo modo: se tutto accade per opera del fato, ne segue anche che tutto accade per opera di cause antecedenti, ma non di cause perfette e principali, bensì di cause ausiliarie e prossime. E se queste non sono in nostro potere, non ne consegue che neppure l'appetito sia in nostro potere. Se invece dicessimo che tutto accade per opera di cause perfette e principali, allora ne segui­rebbe che, non essendo tali cause in nostro potere, nep­pure l'appetito sia in nostro potere.
42. Quam ob rem, qui ita fatum introducunt, ut necessitatem adiungant, in eos valebit illa conclusio; qui autem causas antecedentis non dicent perfectas neque principalis, in eos nihil valebit. Quod enim dicantur adsensiones fieri causis antepositis, id quale sit, facile a se explicari putat. Nam quamquam adsensio non possit fieri nisi commota viso, tamen, cum id visum proximam causam habeat, non principalem, hanc habet rationem, ut Chrysippus vult, quam dudum diximus, non ut illa quidem fieri possit nulla vi extrinsecus excitata (necesse est enim adsensionem viso commoveri), sed revertitur ad cylindrum et ad turbinem suum, quae moveri incipere nisi pulsa non possunt. Id autem cum accidit, suapte natura, quod superest, et cylindrum volvi et versari turbinem putat.
42 Per cui quel ragio­namento varrà contro coloro che sostengono l'esistenza di un fato che implica la necessità, ma non contro coloro che per cause antecedenti non intendono cause perfette e principali. Quanto al fatto che l'assenso avvenga solo ad opera di cause antecedenti, pensa che si spieghi facil­mente da sé. Infatti sebbene l'assenso non possa prodursi se non provocato da una rappresentazione, tuttavia, poi­ché questa rappresentazione costituisce la sua causa prossima ma non la principale, la spiegazione, secondo Crisippo, è quella che abbiamo appena esposto; non che l'assenso possa avvenire senza essere provocato da qual­che impulso esterno (infatti è inevitabile che l'assenso sia prodotto da una rappresentazione), ma ritorna al suo esempio del cilindro e del cono, che non possono comin­ciare a muoversi se non spinti da una forza esterna. Ma quando questo accade, per il resto pensa che il cilindro rotoli e il cono giri per propria natura.
43. 'Ut igitur', inquit, 'qui protrusit cylindrum, dedit ei principium motionis, volubilitatem autem non dedit, sic visum obiectum inprimet illud quidem et quasi signabit in animo suam speciem, sed adsensio nostra erit in potestate, eaque, quem ad modum in cylindro dictum est, extrinsecus pulsa, quod reliquum est, suapte vi et natura movebitur. Quodsi aliqua res efficeretur sine causa antecedente, falsum esset omnia fato fieri; sin omnibus, quaecumque fiunt, veri simile est causam antecedere, quid adferri poterit, cur non omnia fato fieri fatendum sit? modo intellegatur, quae sit causarum distinctio ac dissimilitudo.'
43 E dice: «Come dunque chi ha spinto il cilin­dro ha dato inizio al suo moto, ma non gli ha dato la proprietà di rotolare, così la rappresentazione dell'ogget­to si imprimerà nell'animo e vi lascerà la propria imma­gine come un sigillo, ma l'assenso sarà in nostro potere, e, come si è detto del cilindro, pur essendo provocato dall'esterno, per il resto si muoverà in virtù della propria natura. Che se qualcosa accadesse senza una causa ante­cedente, sarebbe falso che tutto accade per opera del fato; se invece è verosimile che tutto ciò che accade abbia una causa antecedente, che cosa si potrà addurre perché non si debba ammettere che tutto avviene per opera del fato? Purché si capisca la distinzione e diversità fra le cause».
44. Haec cum ita sint a Chrysippo explicata, si illi, qui negant adsensiones fato fieri, fateantur tamen eas sine viso antecedente fieri, alia ratio est; sed, si concedunt anteire visa, nec tamen fato fieri adsensiones, quod proxima illa et continens causa non moveat adsensionem, vide, ne idem dicant. Neque enim Chrysippus, concedens adsensionis proximam et continentem causam esse in viso positam, eam causam esse ad adsentiendum necessariam concedet, ut, si omnia fato fiant, omnia causis fiant antecedentibus et necessariis; itemque illi, qui ab hoc dissentiunt confitentes non fieri adsensiones sine praecursione visorum, dicent, si omnia fato fierent eius modi, ut nihil fieret nisi praegressione causae, confitendum esse fato fieri omnia; ex quo facile intellectu est, quoniam utrique patefacta atque explicata sententia sua ad eundem exitum veniant, verbis eos, non re dissidere.
44 Poiché questa è la teoria di Crisippo, se coloro che negano che l'assenso avvenga fatalmente, ammettono tuttavia che esso non avviene se non dopo una rappresen­tazione, la loro posizione è realmente diversa; ma se concedono che le rappresentazioni precedano l'assenso, e tuttavia negano che l'assenso avvenga fatalmente, poi­ché quella causa prossima e immediata non produce l'assenso, sta' attento che non dicano la stessa cosa. In­fatti neanche Crisippo, pur concedendo che la causa prossima e immediata dell'assenso sia posta nella rap­presentazione, ma non che quella causa necessiti l'assen­so, concederà che, se tutto accade fatalmente, tutto acca­da per opera di cause antecedenti e necessarie; e ugual­mente coloro che dissentono su questo punto ammet­tendo che l'assenso non possa prodursi senza essere pre­ceduto dalla rappresentazione, diranno che, se tutto acca­de ad opera del fato nel senso che niente accade senza una causa antecedente, allora bisogna ammettere che tut­to accade per opera del fato; e poiché una volta chiarito e spiegato il loro parere, giungono alla stessa conclusione, si capisce facilmente che dissentono a parole, non nella sostanza.
45. Omninoque cum haec sit distinctio, ut quibusdam in rebus vere dici possit, cum hae causae antegressae sint, non esse in nostra potestate, quin illa eveniant, quorum causae fuerint, quibusdam autem in rebus causis antegressis in nostra tamen esse potestate, ut illud aliter eveniat, hanc distinctionem utrique adprobant, sed alteri censent, quibus in rebus, cum causae antecesserint, non sit in nostra potestate, ut aliter illa eveniant, eas fato fieri; quae autem in nostra potestate sint, ab eis fatum abesse . . . .
45 E, in generale, si può fare questa distinzio­ne: in alcuni casi si può affermare con verità che, verifi­candosi le cause antecedenti, non è in nostro potere im­pedire che accadano gli eventi dei quali si siano realizza­te le cause; in altri casi, invece, pur essendosi verificate le cause, è tuttavia in nostro potere fare in modo che gli eventi accadano diversamente. Ora, questa distinzione è accettata da entrambi, ma i secondi pensano che, nei casi in cui, essendosi verificate le cause antecedenti, non sia in nostro potere fare in modo che gli eventi accadano diversamente, essi accadano fatalmente; che invece gli eventi che sono in nostro potere, siano indipendenti dal fato ...

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