Cicerone

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Testo

CICERONE

LA VITA

Cicerone è forse l’autore più celebre della letteratura latina, ed è anche l’autore che conosciamo meglio.
Egli ci appare:
• Sotto il profilo storico – politico, uno straordinario testimone del suo tempo
• Dal punto di vista storico – culturale, colui che si propose nel modo più lucido e consapevole di operare una sintesi armoniosa della cultura romana arcaica e del pensiero filosofico greco
• Sotto un profilo letterario, il massimo rappresentante dell’oratoria romana, il creatore della letteratura filosofica latina e il primo rappresentante del genere epistolografico.

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino da una famiglia di possidenti non “nobile”, ma fornita dei mezzi economici e delle relazioni sociali necessarie per avviare i figli alla carriera politica.
Cicerone studiò a Roma e fin da giovanissimo frequentò il Foro, sotto la guida e la protezione dei più illustri ed autorevoli oratori del tempo, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, e Quinto Mucio Scevola l’augure. Proprio in casa di Scevola conobbe Tito Pomponio Attico: in lui Cicerone ebbe l’amico più caro.
Fra il 90 e l’89 a.C. Cicerone compì un anno di servizio militare; a venticinque anni (nell’81) difese la prima causa di cui conserviamo testimonianza, e l’anno successivo ottenne un notevole successo difendendo e facendo assolvere un cittadino d’Ameria accusato di parricidio da un liberto di Silla. Non era una causa difficile, le circostanze erano però politicamente delicate: Cicerone mostrò coraggio e intelligenza notevoli, non lesinando nella sua orazione elogi a Silla e al tempo stesso dando espressione e sfogo al disprezzo e allo sdegno dei Romani nei confronti di un parvenu come il liberto Crisogono.
Poco dopo cicerone lasciò Roma, intraprendendo un viaggio in Grecia e in Asia minore, che durò dal 79 al 77 a.C., durante il quale frequentò le scuole filosofiche d’Atene e tutte le più importanti scuole di retorica nelle città dell’Asia minore e delle isole.
Al ritorno nell’Urbe Cicerone sposa Terenzia, che nel 76 gli dà una figlia, Tullia. Nel 75 inizia la carriera politica, esercitando la questura in Sicilia; l’anno successivo ha il diritto di entrare per la prima volta in senato. Nel 70 la stima di cui gode si consolida e si accresce, in seguito al processo intentato da varie città della Sicilia contro l’ex governatore Verre. Cicerone accetta di assumere il ruolo d’accusatore ed ottiene una vittoria schiacciante su Quinto Ortensio Ortalo.
La carriera politica di Cicerone prosegue regolarmente; nel 69 è edile, nel 66 pretore; in questo anno egli pronuncia la sua prima orazione deliberativa, davanti al popolo, a favore della proposta di assegnare a Pompeo poteri straordinari e il comando della guerra contro Mitridate.
Nel 65 gli nasce il figlio Marco, intanto egli si stava impegnando a fondo nella campagna elettorale per il consolato. Nel 63 è console assieme ad Antonio, battendolo come numero di voti. Grandi furono il suo orgoglio e la sua soddisfazione, tanto più che egli, in quanto homo novus, poteva annoverarsi fra coloro che vengono eletti consoli non nella culla, ma nel Campo Marzio.
Durante il suo consolato s’impegnò su posizioni conservatrici, a difesa degli interessi dei ceti economicamente e socialmente più forti contro i cosiddetti populares.
Appena entrato in carica attaccò energicamente una proposta di legge agraria, tanto che essa fu ritirata dagli stessi proponenti.
La questione più spinosa che dovette affrontare e che gli procurò la massima gloria fu la congiura di Catilina. Cicerone sventò le sue trame e lo costrinse a lasciare Roma. Cicerone nella quarta catilinaria lasciò al senato la decisione di condannare o no alla pena capitale alcuni capi della congiura, non nascondendo la sua propensione per la condanna capitale. A favore di essa parlò poi Catone e la sua proposta fu accolta a larga maggioranza.
Alla fine del dicembre 63 Cicerone fu attaccato da un tribuno della plebe per aver messo a morte dei cittadini romani senza un regolare processo: l’accusa veniva dai suoi nemici di parte popolare, fra i quali era Clodio.
Nel frattempo Cicerone aveva comprato una lussuosa casa sul Palatino; possedeva splendide ville a Muscolo, a Formia, a Pompei, ad Anzio, a Cuma. Era considerato da tutti il massimo oratore vivente, ma il suo peso politico era già in declino: nel 60 Cesare strinse con Pompeo e Crasso il primo triumvirato ma Cicerone, invitato a collaborare, rifiutò per coerenza.
All’inizio del 58 Clodio fece approvare una legge che comminava la pena dell’esilio a chi avesse condannato a morte cittadini romani con procedura sommaria. Nel marzo 58 Cicerone parte per l’esilio, che dura sedici mesi.
Cicerone rientra a Roma trionfalmente all’inizio del settembre 57, pronuncia le orazioni di ringraziamento al senato e al popolo e poco dopo ottiene un parziale risarcimento dei danni economici subiti.
Dopo la dolorosa esperienza dell’esilio, abbandona l’opposizione alle leggi agrarie e si avvicina ai triumviri. Negli anni successivi rimane ai margini della vita politica, ma si adatta a difendere in tribunale vari personaggi legati a Pompeo e Cesare.
Nel 52 Clodio viene ucciso in una zuffa con Milone; Cicerone, che si è assunto la difesa di Milone, non riesce a tenere l’arringa che si è preparato: emozionate e interrotto, pronuncia quella che Quintiliano definirà un’oratiuncola e Milone viene condannato all’esilio.
Nel 51 Cicerone è costretto da una legge di Pompeo ad assumere il governatorato della Cilicia, dove si ferma un anno. Quando torna in Italia la guerra civile sta per scoppiare. Cesare il 10 gennaio 49 varca il Rubiconde con i suoi soldati e marcia verso Roma. Cicerone è incerto sulla posizione da assumere e s’illude di poter favorire una pacificazione. Si decide poi a raggiungere i pompeiani in Grecia, ma dopo la sconfitta di Farsalo torna in Italia e riamane a Brindisi, ad aspettare il corso degli eventi. Alla fine del settembre 47 si ha la riconciliazione fra Cesare e Cicerone, politicamente ormai fuori gioco.
Durante la dittature di Cesare, Cicerone cerca conforto nell’attività filosofica e letteraria. Alle amarezze che gli procura la situazione politica si aggiungono intanto dispiaceri e sofferenze nella vita privata. Nel 46 divorzia da Terenzia; trovandosi in gravi difficoltà finanziarie sposa la ricca orfana Publilia, di cui era tutore, ma il matrimonio fallisce subito. Nel febbraio del 45 muore Tullia in seguito ad un parto, lasciando il padre accasciato da quello che egli stesso considerò il dolore più grave della sua vita.
Il 15 marzo del 44 Cesare è assassinato, e Cicerone si schiera dalla parte degli assassini, mentre nel conflitto fra Antonio e Ottaviano appoggiò Ottaviano. Ottaviano si servì di lui per far legalizzare dal senato la sua posizione irregolare, e lo utilizzò come alleato nella lotta contro l’avversario: lotta cui Cicerone diede un notevole contributo sferrando una serie di violentissimi attacchi contro Antonio in senato e davanti al popolo, con le orazioni dette Filippiche.
Dopo la sconfitta d’Antonio a Modena, i due eredi di Cesare si riavvicinarono e, in occasione del secondo triumvirato, il nome di Cicerone fu scritto per primo nella lista di proscrizione dettata da Antonio ed approvata da Ottaviano. Raggiunto dai sicari d’Antonio nei pressi della sua villa di Formia Cicerone fu ucciso il 7 dicembre del 43 a.C.

LE ORAZIONI

Cicerone curò personalmente la pubblicazione di molte sue orazioni, spesso rielaborandole ed ampliandole rispetto ai discorsi effettivamente pronunciati. Gli scopi erano molteplici: propaganda politica, difesa del proprio operato, desiderio di ottenere gloria (che ebbe sempre vivissimo e costituì uno dei principali moventi delle sue azioni in ogni circostanza).
• Pro Quinctio, (81 a.C.) orazione giudiziaria per una causa civile che contrapponeva Quinzio ad un suo ex-socio in affari difeso da Ortensio. Il fatto che Cicerone abbia pubblicato l’orazione presuppone che Quinzio sia stato assolto.
• Pro Sexto Roscio Amerino, (80 a.C.), orazione giudiziaria in cui Cicerone difende con successo Roscio Amerino fatto accusare di parricidio da Crisogono.
• Pro Roscio comodo, orazione giudiziaria a difesa di Roscio, celebre attore comico, da cui un ex-socio in affari reclamava un indennizzo.
• Verrinae (70 a.C.), sono sette orazioni giudiziarie per il processo de repetundis intentato dai siciliani contro Gaio Verre. Il corpus delle Verrine comprende:
1. la Divinatio in Caecilium, con cui Cicerone chiede il diritto di sostenere l’accusa per conto dei siciliani, contrapponendosi ad un certo Cecilio. Divinatio era il termine tecnico per indicare la scelta dell’accusatore; grazie a questo discorso Cicerone poté assumere l’accusa e ottenne un tempus inquirendi di 110 giorni.
2. l’Actio prima in Verrem, la requisitoria, in cui egli si limitò ad illustrare sinteticamente le imputazioni per poi passare subito all’interrogatorio dei testimoni e alla presentazione dei documenti. Prima della seconda fase del dibattito Verre partì in volontario esilio.
3. l’Actio secunda, costituita da cinque orazioni che Cicerone non tenne.
Le Verrine furono considerate un capolavoro di eloquenza.
• Pro Fonteio (69 a.C.), orazione di difesa in un processo per concussione intentato dai provinciali contro Fonteio
• Pro Caecina (69 a.C.), orazione di difesa in una causa civile per un’eredità.
• Pro lege Manilia de imperio Gnaei Pompei (66 a.C.), è la prima orazione deliberativa tenuta da Cicerone davanti al popolo, a favore di una legge, proposta dal tribuno Manilio, che assegnava a Pompeo poteri straordinari per la guerra contro Mitridate. Appoggiavano la proposta i populares e i cavalieri; era contraria gran parte del senato. Cicerone insiste sulla gravità eccezionale della guerra che impone misure eccezionali, ed inserisce un grandioso elogio di Pompeo. La proposta fu approvata all’unanimità.
• Pro Cluentio, (66 a.C.), orazione di difesa in un processo in cui Cluenzio era accusato di veneficio; l’imputato fu assolto.
• Catilinariae, (63 a.C.) quattro discorsi pronunciati nei giorni della scoperta e della repressione della congiura di Catilina. La prima e la quarta furono tenute in senato, la seconda e la terza davanti al popolo, tutte furono rielaborate successivamente e pubblicate dall’autore nel 60 a.C. Sono indubbiamente fra le prove migliori dell’eloquenza ciceroniana.
• Pro Sulla (62 a.C.), Cicerone sostiene la difesa di un imputato coinvolto nella congiura di Catilina
• Pro Archia poeta (62 a.C.), in difesa del poeta Archia accusato di aver usurpato il diritto di cittadinanza romana. Gran parte del discorso è dedicata ad una appassionata esaltazione della cultura e della poesia. Archi fu assolto, ma non scrisse quel poema celebrativo del suo consolato che Cicerone si aspettava da lui.
• Pro Flacco (59 a.C.), Cicerone difende un personaggio accusato de repetundis
Segue una serie di orazioni pronunciate al ritorno dall’esilio:
• Cum senatui gratias egit e cum popolo gratias egit (57 a.C.), due discorsi di ringraziamento tenuti subito dopo il ritorno a Roma. Tocca qui il culmine la tendenza di Cicerone all’autoesaltazione.
• De domo sua (57 a.C.), orazione pronunciata poco dopo il ritorno dall’esilio davanti al collegio dei pontefici per ottenere le restituzione del terreno su cui sorgeva la sua casa sul Palatino: terreno che Clodio aveva consacrato alla dea Libertas. Cicerone raggiunse il suo scopo.
• De haruspicum responsis (56 a.C.), discorso tenuto in senato per rintuzzare un altro attacco a Clodio
• Pro Sestio (56 a.C.), orazione giudiziaria in cui Cicerone difende Sestio accusato de vi per aver organizzato bande armate da opporre a quelle di Clodio. È un testo importante per l’analisi della situazione politica interna di Roma: Cicerone sostiene la tesi che il ricorso a mezzi illegali si è reso necessario proprio per la difesa delle istituzioni, gravemente minacciate dai programmi eversivi dei popolari; lancia inoltre un appello per il consensus omnium bonorum che miri alla salvaguardia degli interessi comuni. Sestio fu assolto.
• Pro Milone (52 a.C.), orazione in difesa di Milone nel processo de vi per la morte di Clodio. Non è l’oratiuncola effettivamente tenuta, ma quella che Cicerone avrebbe voluto e dovuto tenere. Già gli antichi la consideravano la più bella tra tutte le orazioni di Cicerone. Egli vi sostiene magistralmente la tesi della legittima difesa; dimostra inoltre l’assenza di premeditazione da parte di Milone, confermata dalla mancanza di un movente plausibile; afferma che in ogni caso Clodio ha trovato la giusta punizione e che la sua morte è stata provvidenziale per Roma.
• Pro Marcello (46 a.C.), discorso di ringraziamento a Cesare, tenuto in senato, per il perdono concesso a Marcello, pompeiano in esilio. Oltre ad elogiare il dittatore, Cicerone gli rivolge consigli ed esortazioni per la restaurazione delle istituzioni repubblicane
• Pro Ligario (46 a.C.), orazione giudiziaria in difesa di un pompeiano in esilio. Cicerone, che parlava alla presenza di Cesare, presidente del tribunale, elogia il dittatore e ne esalta la clemenza.
• Pro Rege Deiotaro (45 a.C.), orazione giudiziaria in difesa di Deiotaro, re della Galazia, accusato di aver attentato alla vita di Cesare.
• Filippiche, sono 14 orazioni che Cicerone pronunciò fra il settembre del 44 e l’aprile del 43, con l’intento di far dichiarare Antonio nemico pubblico. La seconda, la più violenta, fu soltanto scritta da Cicerone, che la fece circolare a mo’ di pamphlet. Chiamate nell’antichità anche Antonianae, devono il nome di Filippiche all’accostamento, fatto da Cicerone, alle celeberrime orazioni di Demostene contro Filippo il macedone.

Nei discorsi conservati Cicerone si dimostra grandissimo oratore, perfettamente padrone dei mezzi espressivi e capace di sfruttare con consumata abilità ogni elemento e ogni circostanza nell’interesse della causa. Egli assolve perfettamente la prima funzione che nelle sue opere retoriche assegna all’oratore: quella di docere, cioè d’informare chiaramente il pubblico sulla causa in discussione e di dimostrare la sua tesi nel modo più plausibile e convincente dal punto di vista razionale.
Sa anche servirsi con perizia dei mezzi emozionali, utili per ottenere il consenso dell’uditorio. Per assolvere la seconda funzione oratoria, quella di delectare, cioè di conciliarsi le simpatie del pubblico procurandogli piacere, Cicerone fa ricorso alle sue doti di narratore vivacissimo, alla sua abilità di ritrattista psicologicamente acuto e penetrante, all’arguzia, ad una verve ironica e satirica talora pungente e caustica, alla sua sterminata cultura cui attinge per exempla e digressioni.
Quanto alla funzione di movere o flectere, cioè di trascinare gli uditori al consenso suscitando emozioni, si può notare che ricorre ad effetti emozionali forti e anche violenti soprattutto nelle perorazioni.
Per quanto riguarda lo stile, è estremamente vario, duttile, multiforme, capace di solennità e di magniloquenza fino alla ridondanza e all’ampollosità, ma capace anche di brevità, stringatezza,concisione, essenzialità. Senza dubbio esso è lontanissimo dalla spoglia sobrietà dei neoatticisti.
I più tipici procedimenti stilistici ciceroniani si attuano prevalentemente nell’ambito dell’organizzazione sintattica del discorso: quest’ultimo è articolato in modo complesso, con abbondanza di proposizioni subordinate, ma è costruito anche su di una rete di corrispondenze equilibrate e simmetriche, e con grande attenzione all’eufonia e al ritmo.
La concinnitas, cioè la simmetria, si basa su una serie di procedimenti che si ritrovano di solito combinati fra loro nello stesso contesto: innanzitutto il parallelismo e l’equivalenza fonico-ritmica dei membri, spesso con antitesi semantica; inoltre l’abbondanza dei nessi sinonimici, varie figure della ripetizione tra cui molto frequente è l’anafora. Tali procedimenti sono adottati soprattutto negli esordi, nelle perorazioni e negli elogi, cioè le parti dell’orazione che richiedono maggior solennità.

LE OPERE RETORICHE

Cicerone trattò di retorica in varie opere. Negli anni giovanili compose in due libri il De invenzione, un’operetta scolastica in cui venivano riprese ed elaborate fonti manualistiche greche.

Tutt’altro carattere e ben diversa importanza ha il De oratore, scritto nel 55 a.C., dopo il ritorno dall’esilio. Siamo in un periodo in cui il rallentamento dell’attività pubblica consente a Cicerone d’intensificare lo studio e la lettura e di svolgere un’imponente attività letteraria.
• Il De oratore, in tre libri, è un dialogo di tipo platonico-aristotelico. Si tratta di un’opera in cui l’autore affida il compito di trattare l’argomento a vari interlocutori, inseriti in una cornice “drammatica”. Questa impostazione gli permette di sostituire ad un’esposizione continuata un dibattito vario e animato. I protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, che Cicerone considerava i più eminenti oratori della generazione precedente la sua e che erano stati la sua guida quando aveva incominciato a frequentare il foro. Egli immagina che il dialogo abbia avuto luogo nella villa di Crasso a Muscolo nel 91 a.C. e che vi abbiano partecipato altri cinque personaggi minori, fra cui Quinto Mucio Scevola l’Augure.

Nel primo libro Crasso espone e sviluppa ampiamente la tesi di fondo dell’opera: nessuno potrà essere riconosciuto un oratore perfetto se non avrà acquisito una conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tute le discipline. Cicerone prende posizione contro la concezione tecnicistica di quei retori greci che pretendono di formare il perfetto oratore solo per mezzo di regole e di esercizi, ma anche contro quella di chi ritiene che siano sufficienti le doti naturali e l’esperienza. Egli afferma per bocca di Crasso l’ideale di un oratore impegnato a fondo nella vita pubblica e al tempo stesso fornito di una profonda cultura. Il bagaglio culturale del perfetto oratore deve comprendere il diritto civile, la filosofia, la storia, le scienze antiquarie, la geografia, le scienze naturali. Tale complesso di nozioni deve essere armoniosamente strutturato grazie ad una personalità intellettualmente e moralmente superiore. Cicerone riprende qui e rielabora in senso romano l’ideale isocrateo dell’oratoria come scienza che rivendica a se stessa l’universalità del sapere. Egli si inserisce nel dibattito che in Grecia aveva contrapposto retori e filosofi, cioè nell’educazione dei giovani alla politica e alla formazione dei ceti dirigenti. Cicerone tende ad assumere una posizione equilibrata e conciliatrice; tuttavia, mentre afferma e ribadisce la necessità e l’importanza per l’oratore di una buona preparazione filosofica, subordina anche la filosofia all’eloquenza.

Nel secondo libro si passa alla trattazione delle parti della retorica. Antonio tratta dell’inventio, della dispositivo e della memoria. La parte relativa all’inventio contiene un excursus detto de ridiculis, sul comico e sui suoi meccanismi. I capitoli dedicati alla dispositivo illustrano le specifiche tecniche adatte alle varie parti dell’orazione: esordio, narrazione dei fatti, argomentazioni a favore della causa e a confutazione dell’avversario, epilogo e perorazione.

Nel terzo libro la trattazione è affidata a Crasso, che svolge i precetti relativi all’elocutio. Egli tratta specialmente dell’ornatus, ossia l’elaborazione artistica del materiale linguistico, da attuare con l’uso di figure retoriche. I capitoli finali sono dedicati all’actio, cioè il modo con cui un oratore deve porgere il discorso.
Il De oratore è forse, fra tutti i dialoghi di Cicerone, quello scritto con maggior cura formale.

Cicerone riprese gli argomenti del De oratore in altre due opere, il Brutus e l’Orator, scritte nel 46 a.C.
• Il Brutus, in forma di dialogo, ha come interlocutori Cicerone e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto, cui l’opera è dedicata. Dopo un excursus sulla storia dell’oratoria greca, Cicerone sviluppa una grandiosa storia dell’oratoria romana, presentando e illustrando le caratteristiche di circa duecento oratori che vengono passati in rassegna in ordine cronologico. Secondo Cicerone l’arte della parola a Roma si è evoluta progressivamente nel corso dei secoli fino a raggiungere l’eccellenza con Quinto Ortensio Ortalo. Egli viene considerato il massimo rappresentante dello stile asiano in entrambe le sue tendenze: quella che imposta il discorso su frasi brevi e quella che ricorre a un’elocuzione fluente. Nell’ultima parte del Brutus Cicerone rievoca gli inizi della propria carriera oratoria, che lo avrebbe portato a contendere con Ortensio e ben presto a strappargli il primato.
Cicerone presenta se stesso come il punto d’arrivo di un lento processo di affinamento e perfezionamento dell’eloquenza romana, e lo fa in un momento in cui non solo non è più il principe del Foro, ma si sta anche affermando il neoatticismo, cioè la preferenza per un modo di esprimersi diverso dal suo.

• Anche l’Orator è dedicato a Bruto. Quest’opera è un’esposizione continuata fatta in prima persona da Cicerone in un unico libro. Vi è ripresa la teoria dello stile oratorio già illustrato nel III libro del De oratore. Le parti più nuove ed interessanti sono l’illustrazione delle differenze fra lo stile oratorio e lo stile dei filosofi, degli storici, dei poeti; la distinzione di tre stili, (umile, medio, sublime) collegati rispettivamente con i tre compiti dell’oratore (docere, delectare, movere); l’ampia trattazione della numerosa et apta oratio (la prosa ritmica) che è consigliabile adottare nella chiusura dei periodi e delle frasi.

Opere minori d’argomento retorico sono:
• il Partitiones oratorie, del 46 a.C., breve riassunto della dottrina retorica greca redatto sotto forma di domande e risposte ad uso del figlio Marco
• il Topica, una sorta di promemoria relativo ai luoghi, cioè agli argomenti e agli schemi ricorrenti del genere giudiziario scritto nel 44 a.C.
• il De optimo genere oratorio, del 46 a.C., che è la prefazione a una traduzione di due orazioni di Demostene e di Eschine; Cicerone afferma di non aver riprodotto i testi parola per parola, ma di aver cercato di renderne i valori stilistici tenendo conto delle differenze fra il greco e il latino.

LE OPERE POLITICHE

Nel 54 Cicerone si dedicò ad un’opera vasta ed ambiziosa di filosofia politica riflettendo sull’organizzazione dello Stato, sulla miglior forma di governo e sulle istituzioni politiche romane.
• Il De Republica, dialogo filosofico in sei libri, si presenta ispirato al precedente platonico “La Repubblica”. Cicerone si propone di affrontare i problemi politico – costituzionali concretamente e storicamente, mettendosi da un punto di vista specificamente romano.
L’opera si è conservata solo in parte. Gli umanisti ricercarono invano il manoscritto intero del De Republica; esso fu ritrovato solo nel 1820 da Angelo Mai, tuttavia permise di recuperare soltanto i primi due libri e una piccola parte del terzo.
Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l’uomo politico romano più ammirato da Cicerone, sul quale egli proiettò i propri ideali e le proprie aspirazioni. L’introduzione presenta Scipione impegnato nel 129 a.C. in una conversazione con un gruppo di amici, tra cui Gaio Lelio e Furio Filo.

PRIMO LIBRO: Scipione dà la sua definizione dello stato: esso è cosa del popolo, ed il popolo è l’aggregazione di un gruppo di persone unite da un accordo sui reciproci diritti e da interessi comuni. Presenta poi le tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e le loro rispettive degenerazioni (tirannide, oligarchia,demagogia). Dopo aver affermato il primato della monarchia, Scipione sostiene che la costituzione migliore è quella mista: essa assomma i vantaggi ed evita i difetti delle tre forme semplici. Esempio eccellente ditale forma mista è la costituzione romana, in cui il potere monarchico è rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico dal popolo.

SECONDO LIBRO: sono delineati l’origine e gli sviluppi dello stato romano.

TERZO LIBRO: tratta della virtù politica per eccellenza: la giustizia. A Furio Filo toccava il compito di riferire le argomentazioni che Carneade aveva addotto contro l’esistenza di un fondamento naturale della giustizia. Il fatto che le leggi mutino dimostra che non c’è un diritto naturale uguale per tutti. Non sulla giustizia, ma sulla sopraffazione dei più deboli i popoli dominatori fondano i loro imperi.
Lelio assumeva la difesa della giustizia naturale sostenendo la legittimità morale dell’impero di Roma.

Quasi interamente perduti sono il libro IV, dedicato alla formazione del buon cittadino, e il V, in cui era delineata la figura del governante perfetto. Del Vi libro rimane solo la parte finale, detta Somnium Scipionis. Scipione Emiliano vi racconta un sogno da lui fatto vent’anni prima, in cui gli era apparso Scipione Africano, il quale gli aveva mostrato lo spettacolo delle sfere celesti, rivelandogli che l’immortalità e una dimora in cielo sono il premio riservato dagli dei alle anime dei grandi uomini di stato.

• Il De Legibus è un altro trattato di politica scritto negli anni 52 – 51, quando Cicerone rielaborò il De Republica. Si conservano tre libri; gli interlocutori del dialogo sono Cicerone, suo fratello Quinto e Attico. Vengono illustrate l’origine naturale del diritto e le sue forme; si passa poi all’esame e al commento di numerose leggi romane. Frequenti sono i riferimenti all’attualità politica: Quinto sostiene posizioni spiccatamente filoaristocratiche e antipopolari, mentre Cicerone cerca di attenuarne l’estremismo.

• Il De Officiis è un trattato filosofico con forti implicazioni politiche.

Queste tre opere sono simili nell’impostazione di fondo, sempre orientata alla risoluzione dei problemi concreti; sono accomunate dall’intento di Cicerone di utilizzare gli strumenti concettuali offerti dalla filosofia greca per sostenere e difendere le istituzioni della res publica oligarchica contro le spinte di quella rivoluzione romana che avrebbe portato all’instaurazione del regime imperiale.

LE OPERE FILOSOFICHE

Cicerone si era appassionato alla filosofia fin dall’adolescenza; aveva seguito lezioni sia a Roma sia in Grecia e in Asia Minore, tuttavia si dedicò alla stesura d’opere filosofiche solo negli ultimi anni della sua esistenza. È l’autore stesso a dire che l’attività letteraria in campo filosofico gli dà la possibilità di giovare ancora ai cittadini.
Negli anni immediatamente successivi all’esilio Cicerone aveva scritto il De Oratore e i trattati di filosofia politica De repubblica e De legibus. Le opere propriamente filosofiche risalgono tutte agli anni 45 e 44 a.C.; esse vengono composte con una rapidità che sorprende.
Un forte stimolo in questa direzione venne a Cicerone dalla morte della figlia Tullia, che lo gettò in uno stato di depressione da cui si sforzò di risollevarsi con lo studio e con la riflessione sui grandi problemi dell’esistenza, e in particolare sul dolore e sulla morte.

• La prima opera che egli compose fu una Consolatio rivolta a se stesso, in cui raccolse e discusse le principali argomentazioni elaborate dalle diverse scuole filosofiche greche per combattere l’afflizione, e per dimostrare che la morte non è un male. In questo breve trattato era già presente quell’impostazione eclettica che caratterizza tutta la produzione filosofica di Cicerone. Tale tendenza lo spinge ad accogliere delle differenti correnti del pensiero greco le posizioni e i concetti da lui ritenuti più validi, senza aderire ad un’unica dottrina, preferendo assumere un atteggiamento disponibile ed aperto, ma anche indipendente e critico.

Molte delle opere successive avranno carattere “dossografico”, cioè di rassegna d’opinioni su determinati argomenti. Questo modo di procedere non risponde soltanto all’esigenza divulgativa, ma si spiega anche con l’intento di operare una sintesi critica dei risultati cui il pensiero ellenico era pervenuto attraverso secoli di dibattiti e approfondimenti. Dalla discussione e dal confronto fra le differenti dottrine scaturiscono le conclusioni fatte proprie dall’autore.
Dopo la Consolatio Cicerone si accinge alla composizione di una serie imponente d’opere, secondo un piano di lavoro ben definito.

• Un dialogo intitolato Hortensius, con carattere introduttivo rispetto alla produzione successiva; era un’esortazione alla filosofia
• Gli Academici, di cui restano due libri. Cicerone vi affronta il problema gnoseologico: discute se sia possibile per l’uomo attingere la conoscenza della verità. Egli aderisce alla posizione della scuola accademica e sostiene che non esiste un criterio oggettivo per distinguere con certezza assoluta il vero dal falso, ma che è possibile avvicinarsi alla verità attenendosi a ciò che appare probabile.
• Cicerone affronta i problemi morali in due opere, la prima dedicata all’etica teorica e la seconda all’etica pratica. Nel De finibus bonorum et malorum egli tratta la questione centrale dell’etica: quale sia lo scopo supremo cui l’uomo deve tendere e che costituisce per lui il sommo bene.
• Nei primi due libri viene riferito un dialogo fra Cicerone e due suoi amici. Nel primo libro Lucio Torquato espone la posizione epicurea; nel secondo libro Cicerone confuta Epicureo. Nel terzo libro Marco Porcio Catone Uticense presenta la dottrina stoica, di cui è convinto sostenitore, ma Cicerone nel quarto libro confuta anche questa tesi, che sfocia in affermazioni paradossali. Nel quinto libro viene espressa la dottrina accademica, verso cui Cicerone esprime la sua preferenza: la felicità consiste nella virtù che però è completa solo quando ai beni spirituali si aggiungono i beni del corpo, dotati di un valore positivo.
• Le Tusculanae disputationes si presentano come un contraddittorio fra Cicerone e un anonimo interlocutore; vi si tratta della felicità e degli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento.
• Nel primo libro Cicerone affronta il tema della paura della morte, discute sull’essenza dell’anima e del suo destino e si assume il compito di dimostrare che la morte non è un male. Imposta la battaglia contro il timore della morte sulla svalutazione della vita umana. Nel secondo libro tratta della sopportazione del dolore fisico, sostenendo che non serve negare che i dolore sia un male; bisogna fortificare l’animo in modo che sia in grado di sopportarlo coraggiosamente. Nel terzo libro si parla della mitigazione dell’afflizione, cioè della lotta contro i dolore spirituale, punto sul quale Cicerone concorda con la tesi stoica. Nel quarto libro si parla delle “passioni”, cui si può porre rimedio grazie alla virtù della temperanza. Nel quinto libro si propone di mostrare che la virtù basta da sola ad assicurare la felicità; Cicerone si pronuncia a favore della tesi stoica secondo cui il sapiente è perfettamente felice anche se si trova in mezzo alle più atroci sofferenze. L’opera è molto curata stilisticamente.
• Seguono tre opere di filosofia della religione. Il De natura deorum confuta sia la dottrina epicurea, che vuole gli dei estranei alle vicende umane, e la tesi stoica di una provvidenza divina. Cicerone definisce la posizione stoica la più vicina all’apparenza della verità, tradendo l’imbarazzo provocato dal conflitto fra l’agnosticismo religioso e la preoccupazione di salvare la religione tradizionale.
• Il De divinatione, nel quale confuta la fede nella divinazione nelle sue varie forme, affermando che la religione acquisterebbe maggior credito se fosse depurata da credenze superstiziose e false. È facile rilevare la contraddizione del punto di vista teorico assunto da Cicerone in sede filosofica e la sua posizione ufficiale di cittadino romano e magistrato. Anche in quest’opera egli afferma e riconosce l’utilità politica della religione.
• Il De fato, dove si affronta il problema se la vita umana sia determinata dal destino o dalla libera volontà dell’uomo. Il De fato fu scritto dopo la morte di Cesare.
• Subito prima Cicerone aveva composte il Cato Maior De Senectute, un elogio della vecchiaia dove Cicerone, Scipione Emiliano e Gaio Lelio confutano le accuse che le vengono rivolte e soffermandosi sui vantaggi e sui piaceri che essa arreca. Non ultimo di questi piaceri è i pensiero della morte vicina, che avvierà l’anima verso una vita immortale. Cicerone attribuisce a Catone la propria cultura letteraria e filosofica, e proietta sulla sua figura il proprio ideale di humanitas.
• Nella seconda metà del 44 fu composto l’altro breve dialogo Laelius De Amicitia, dedicato da Cicerone ad Attico. In esso Gaio Lelio, pochi giorni dopo la morte di Scipione Emiliano, ne rievoca la figura e tratta dell’amicizia. Cicerone in quest’opera reinterpreta la concezione romana dell’amicizia: essa non nasce dall’interesse e dal bisogno, ma dall’amore per i propri simili innato nell’uomo. La vera amicizia può sussistere solo tra i buoni, ed il mezzo migliore per procurarsi veri amici è la pratica della virtù.
• L’ultima opera filosofica è il De officiis, in tre libri, che è un vero e proprio trattato dedicato al figlio Marco. Vi troviamo un’esposizione di teorie e di precetti d’etica pratica, per la quale Cicerone segue un’unica fonte: un’opera di Panezio di Rodi.
• Nel primo libro viene chiarito il concetto di honestum, cioè di bene morale, in relazione al quale si stabiliscono i “doveri”. L’honestum scaturisce da tendenze naturali conformi a ragioni insite nell’uomo, e si esplica in quattro virtù fondamentali: la sapienza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Nell’ambito di quest’ultima virtù rientra il decorum, cioè il senso di ciò che è moralmente ed esteticamente conveniente a ciascuna persona e situazione. Il secondo libro è dedicato all’utile. La tesi da dimostrare è che i doveri che si stabiliscono in base al criterio dell’utile sono gli stessi già dedotti dal criterio dell’honestum, e dunque s’identificano con l’esercizio delle virtù. Nel terzo libro Cicerone svolge un argomento che Panezio aveva tralasciato: il conflitto tra l’onesto e l’utile. Tale conflitto è soltanto apparente, perché nessuno può trarre vera utilità da azioni che mirino esclusivamente al tornaconto personale. L’opera è illustrata da molti esempi tratti dalla vita comune, dal mito, dalla letteratura, dalla storia greca e da quella romana. Cicerone dà ampio spazio ai doveri dell’uomo politico, specialmente nel secondo libro, dove tratta da un punto di vista romano dei mezzi per conquistare la gloria. Sempre nel secondo libro, trattando della liberalità, egli afferma che l’uomo politico deve beneficare i singoli individui e al collettività, evitando gli eccessi dell’avarizia e della prodigalità.

Le opere filosofiche di Cicerone occupano un posto di grande rilievo nella storia della cultura, perché consentono di ricostruire il pensiero di filosofi greci i cui testi originali sono andati perduti, ma la loro importanza non è limitata al loro valore documentario. Cicerone ha elaborato una visione del mondo e dell’uomo che ci appare come il punto d’arrivo di uno sviluppo secolare, perché è un tentativo di fondere la riflessione dei massimi pensatori greci e i frutti dell’esperienza morale e politica romana.

L’ideale dell’humanitas si può riassumere in questi termini:

1. L’uomo è superiore agli altri esseri animati grazie al dono della ragione; lo spiccato razionalismo e lo spiritualismo portano al disprezzo del corpo e dei suoi istinti, e tendono a svalutare la sfera emotiva e affettiva dell’esperienza umana.
2. L’acquisizione di una vasta cultura enciclopedica è indispensabile per affinare le qualità naturali e per conoscere a fondo se stessi e il mondo, così da orientarsi convenientemente nella vita
3. Nei rapporti con i suoi simili, l’uomo deve essere sempre animato da rispetto, tolleranza e benevolenza: l’autocontrollo, l’equilibrio, l’affabilità, la cortesia, sono le manifestazioni esteriori della bellezza e dell’armonia interiori; la delicatezza del tratto, la raffinatezza e le buone maniere contraddistinguono l’uomo non solo socialmente, ma anche moralmente e spiritualmente aristocratico.
4. Il dovere di rendersi utili alla società e alla patria è preminente rispetto a tutti gli altri; rimane prioritaria la scelta dell’impegno politico per coloro che possiedono i requisiti necessari per aspirare alla gestione dello Stato. Cicerone combatte l’edonismo individualistico ed egoistico degli epicurei e la loro predicazione del disimpegno politico.
5. I riconoscimenti esteriori non sono da disprezzare, ma non costituiscono il movente né lo scopo dell’azione. La coscienza del dovere compiuto per l’utilità comune è premio bastante per l’uomo virtuoso.

Per quanto riguarda lo stile, esplicito è l’intento di Cicerone di dare ala letteratura latina opere filosofiche pregevoli anche sotto questo aspetto. Egli riprende l’idea che lo stile del filosofo è diverso da quello dell’oratore. Lo stile del filosofo non ha il vigore dello stile oratorio, non suscita emozioni o entusiasmi: è semplice e poco ornato.
Ciò non significa che lo stile del filosofo non debba avere qualità artistiche, anzi, Cicerone afferma esplicitamente di volersi elevare al di sopra degli oscuri e disprezzati scrittori di filosofia a lui anteriori, e si propone di emulare i sommi modelli greci. La lingua e lo stile delle opere filosofiche hanno caratteristiche parzialmente differenti dalle orazioni.
È da rilevare innanzi tutto una minore selettività in campo lessicale. Cicerone procede alla creazione di un lessico tecnico – filosofico latino, ma non ricorre a grecismi o a neologismi veri e propri, preferendo adottare vocaboli già presenti in latino, il cui campo semantico si allarga per includere nuove accezioni. (Era questa la strada già imboccata da Lucrezio e che sarà proseguita da Seneca).
Dato il minore impegno ufficiale rispetto alle orazioni, Cicerone si muove con maggior disinvoltura anche per quanto riguarda la sintassi, più vicina ai modi colloquiali. Ciò non esclude il ricorso a diversi e svariati moduli stilistici, con una ricca gamma di livelli e di toni adeguati alle situazioni e agli argomenti. Nell’esposizione e nella confutazione di determinate tesi, Cicerone ricorre ad una dialettica vivace e anche polemica, inoltre non mancano il solenne stile del periodo e il vero e proprio stile sublime, in contesti che sviluppano retoricamente luoghi comuni, come per esempio l’elogio della morte.

LE OPERE POETICHE

Cicerone fu anche autore di numerose opere in versi di cui rimangono frammenti, parecchi dei quali sono citati nelle opere filosofiche dell’autore.
Il fatto che Cicerone si sia dedicato anche alla poesia corrisponde ad una consuetudine diffusa tra i romani colti del suo tempo.
• Abbiamo notizia di due operette scritte in età giovanile, il Pontius Glaucus e l’Alcyones, i cui titoli corrispondono al nome di due personaggi mitologici protagonisti di metamorfosi.
• Sempre da giovane Cicerone fece una traduzione in esametri di un poema didascalico ellenistico, i Fenomeni di Arato di Soli. Di tale traduzione si è conservato un ampio stralcio di 480 versi. La traduzione risulta piuttosto libera, secondo l’uso di rielaborare più o meno profondamente il testo tradotto. Cicerone tende a rendere l’arido poemetto astronomico di Arato più colorito, più animato, più ricco di elementi descrittivi e pittoreschi. Dagli Aratea Lucrezio trasse alcune immagini e movenze stilistiche.
Tutte le opere fin qui citate sembrano riconducibili all’ambito della poesia dotta di stampo ellenistico, ma sappiamo che in età matura Cicerone criticò severamente quei poeti che avevano adottato senza riserva le poetiche, i modi e gli stili della poesia alessandrina, e che furono denominati proprio da Cicerone neoteroi.
Ai neoteroi Cicerone non pedona il distacco programmatico e ostentato dalla tradizione della poesia romana arcaica, rappresentata in primo luogo da Ennio.
• La tradizione del poema epico – storico nazionale di carattere celebrativo aveva avuto vari cultori, e anche Cicerone volle inserirsi in questo filone con il Marius, di cui si conservano quindici versi.
Inoltre, dopo aver sperato che altri poeti celebrassero in versi il suo consolato, Cicerone compose egli stesso due poemi epico-storici sulle proprie gesta: De consulatu suo e De temporibus suis. L’esigenza di giustificare il suo operato relativo alla congiura di Catilina non basta a spiegare la singolare iniziativa di celebrarsi da solo. All’intento apologetico si univa il fortissimo desiderio di gloria, che indusse spesso Cicerone a manifestazioni di vanità eccessive ed addirittura ridicole.
• Del De consulatu suo Cicerone stesso ci ha conservato un lungo frammento in cui Urania rievoca i prodigi funesti che avevano preannunciato la congiura di Catilina; lo stile è ridondante, magniloquente, enfatico. In questo poema Cicerone afferma la superiorità dell’eloquenza sull’arte militare, che corrispondeva certamente ad una convinzione dell’autore, ma suonava troppo interessata in bocca a chi eccelleva in uno solo dei due ambiti. Addirittura famigerato è un altro verso in cui egli allude al titolo di padre della patria ottenuto per aver salvato la res publica.
• Si suppone che il De temporibus suis fosse una narrazione in poesia delle vicende di cicerone dopo il consolato, fino all’esilio e al trionfale ritorno in patria del 57.

Esempio



  


  1. Emiliana

    Sto cercando appunti o la relazione sul tema Cicerone- Pro Flacco (A favore di Flacco). Sostengo l'esame alla facoltà di lingue e letteratura straniera. Università degli Studi di Bari