Catullo: analisi di "Sulla tomba del fratello"

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Testo

Sulla tomba del fratello

Introduzione

Nel viaggio di ritorno dalla Bitinia, provincia romana dal 74 a.c. affacciata sul Mar Nero e sul Bosforo, Catullo si ferma in Asia Minore per visitare la tomba del fratello, la cui morte, avvenuta pochi anni prima, lo aveva gettato nella disperazione. Il carme 101 si ricollega alla tradizione letteraria dell’epigramma funebre sia nella forma (colloquio diretto con il morto), sia nel contenuto (descrizione del rito funebre), di cui c’è rimasta un’ampia documentazione nel libro VII dell’Antologia Palatina. In realtà con Catullo assistiamo al superamento della tecnica epigrammatica, in quanto egli riesce a creare un carme che va al di là delle convenzioni del genere letterario a cui appartiene ed esprime sentimenti intimi e sinceri con un’intensità del tutto sconosciuta alla scarna semplicità epigrammatica; pertanto, possiamo definirlo come una breve elegia, piuttosto che un epigramma.
I commentatori citano come probabile modello un epigramma di Meleagro in morte della donna amata, di nome Eliodora. In realtà il testo greco ha in comune con quello latino soltanto il tema del pianto («Lacrime ti dono, anche laggiù sotto terra, o Eliodora, reliquie d’amore, nell’Ade: lacrime, amare lacrime libo sulla tomba molto compianta…»). Oltre al tema del pianto troviamo in Catullo anche quello del rito funebre di cui faceva parte il pianto stesso e che viene sviluppato principalmente con alcuni vocaboli del lessico rituale:
• Inferias: le inferiae erano le offerte rituali di acqua, latte, miele, olio…, che venivano versate sulla tomba in onore degli dei Mani. L’importanza di questo termine è rilevata, oltre che dalla tradizione, dalla posizione metrica: infatti la parola è ripetuta due volte nel carme e sempre in clausula di pentametro.
• Quae more parentum: il rito è ormai una tradizione consolidata nelle varie generazioni e lo si ricorda come antico costume dei padri.
• Munere: munus designa un’offerta dovuta per sciogliere un obbligo morale, religioso o affettivo. Nel carme 101 sta ad indicare i riti dovuti ai defunti.

Morte e pianto rituale
B. Croce (Frammenti di etica): “La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amare e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così, cercando che i morti non siano morti, cominciamo effettivamente a farli morire dentro di noi.”
L’oggettivazione del dolore di Croce va fatta risalire secondo De Martino alla religione cristiana. Fu sotto la religione cristiana che si inaugurò il grande tema culturale del Cristo vincitore della morte, che chiamò i morti dormienti in attesa di risveglio e insegnò agli uomini a non temere il defunto come larva, potenziando l’ethos della “cara memoria”. Questa separazione dal morto per difendere i vivi è soprattutto presente presso le popolazioni indigene.
In Egitto, Mesopotamia, Israele, ad Atene, a Roma il lutto va collegato a valori politico-sociali e al mito del nume che muore e risorge. Il rito della morte del nume si attua in due fasi: il pianto (il pianto rituale non si collega solo a quel particolare rito funebre, ma soprattutto al tema centrale per la civiltà Mediterranea del saper piangere) e il giubilo.
La morte reale era connessa con la morte di un vegetale e quindi al rituale agrario la cui parte saliente era la mietitura cioè la Morte (passione vegetale). Questa passione vegetale è spiegata dal mito che attribuisce agli dei la colpa della passione e non agli uomini; la ripetizione, poi, dell’intera vicenda spiega che alla morte segue sempre la rinascita.
Il ciclo naturale agricolo, quindi, diventa il nucleo fondamentale delle altre sfere del morire: 1)Invecchiamento e morte del re: il re morto viene rappresentato come autore della mietitura (soprattutto in Egitto dove il re era un dio in terra). 2)Morte di persone storiche: è più dura da affrontare perché è evidente l’inevitabilità del passaggio che comporta una crisi interiore che fa nascere come rimedi dei rituali che nel tempo saranno codificati come riti (mummificazione, danze funebri, agonismo, bulimia nei banchetti, pianto ecc…).
I riti funebri, quindi, sono strettamente collegati con quelli agricoli che pure prevedevano una sorta di lamentazione rituale prima della mietitura. Nell’antica Grecia esistevano una guida e un coro per il rito funebre che simboleggiavano la collettività, così che il lutto da privato diventava pubblico in ricordo di tutti i morti ( ); le lamentatrici ufficiali erano la donne che per Solone dovevano aver compiuto il sessantesimo anno di età.
L’incidenza corale dei ritornelli emotivi è da mettere in rapporto con il carattere sociale del lutto e con la partecipazione collettiva al cordoglio: il planctus nel rito deve essere disciplinato nella sua esecuzione rispetto all’individuo e alla collettività. La struttura regolata del planctus deve: 1)evitare che il planctus individuale sfoci nel caos collettivo; 2)il coro scandisce il ritmo dei ritornelli e li delimita; 3)affidare la parte della guida a una non-parente lamentatrice professionale (spartizione del dolore); 4)spartire la carica emotiva tra la collettività e il singolo.

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