Tibullo

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Testo

TIBULLO
-BIOGRAFIA
Scarse sono le fonti da cui è possibile desumere notizie sulla vita di Albio Tibullo, poeta elegiaco latino di età augustea. Il frammento sotto riportato, estratto da una Vita anonima (tradizionalmente attribuita a Svetonio come passo del suo De Poetis), ci fornisce una verosimile collocazione cronologica del poeta:
Tu quoque Virgilio comitem, non aequa, Tibulle,
mors iuvenem campos misit ad Elysios,
ne foret aut elegis molles qui fleret amores
aut caneret forti regia bella pede
Dai versi si deduce che la morte del poeta elegiaco dovette essere di poco posteriore a quella di Virgilio, dunque collocabile intorno al 18-19 a.C.: per quanto riguarda la sua nascita, la si può estrarre dal iuvenis quale presentato dall’anonimo, che la fa quindi porre tra il 50 e il 55 a.C. Ma le fonti più cospicue sono costituite da un epistola e un ode di Orazio e naturalmente la sua stessa opera.
Di prenome ignoto, Tibullo fu oriundo della vetusta e già allora decaduta città di Gabii nel Lazio: eques R. e Gabiis, recita in altri passi la sopraccitata biografia, secondo alcuni non attendibile data la vera provenienza del poeta, a loro detta originario di Pedum (l’odierna Gallicano, fra Tivoli, Tusculo e Roma). Lo stesso anonimo informa che Tibullo era insignis forma cultuque corporis observabilis, in linea con simili considerazioni di Orazio che lo dice in agiata condizione e favorito dalla natura, raffigurandolo giovane e bello. La famiglia d’origine era di rango equestre e di partito repubblicano, doviziosa e possidente che dovette però incorrere nel tracollo finanziario, verisimilmente in seguito alle confische di Ottaviano dopo la battaglia di Filippi del 42 a.C.. Il poeta amava spesso ritirarsi in riposo e meditazione nel luogo natio, lontano dai quotidiani tormenti (come ci apprende ancora Orazio in un biglietto del libro I delle Epistole, indirizzatogli per esortarlo alla saggezza e alla tranquillità epicurea), per dare voce alla sua indole e intimità, così da essere considerato “il poeta dei campi e dell’amore”. Dopo la prematura scomparsa del padre (nelle elegie il poeta si dice già dalla giovane età amministratore del patrimonio familiare), si trasferì a Roma, dove si legò in amicizia con uno dei rappresentanti di maggior rilievo della parte repubblicana, Messalla Corvino, il cui nome risuona frequentemente nell’opera sua. L’appartenenza di Tibullo al circolo di letterati facente capo all’esponente repubblicano, che si distinse da quello di Mecenate per la posizione di prudente riserbo nei confronti della politica augustea, fu dovuta alla tradizione familiare ancorché all’inclinazione personale, anche se la sua posizione internamente ad esso, che non doveva essere quella di un beneficato per via della sua estrazione sociale, lascia presumere un sincero legame d’amicizia tra i due. Tanto più che Tibullo prese parte attiva alle spedizioni illiriche condotte da Messalla nel 35-33 a.C. e alla battaglia di Azio ma, se non già in queste, fatto che è da accertare, seguì l’amico e patrono nella guerra disposta da Ottaviano per sottomettere gli Aquitani ribelli intorno al 30 a.C., nella quale si distinse onorevolmente con tanto di ricompensa militare nonostante la sua indole pacifica aliena dalle armi. S’indusse di nuovo al seguito di Messalla in una successiva spedizione, in Oriente contro i Cilici nel 28-27 a.C.; la sua salute malferma lo costrinse tuttavia ad abbandonare il campo ritirandosi a Corcira (Corfù), dove, convalescente, compose la terza elegia del libro I, tra le sue più celebri e commoventi.
L’immagine di queste esperienze belliche, sempre presente e spesso incombente nell’opera del poeta, avrebbero servito a riscattare parte del patrimonio avito. Sentiva però dentro di sé un’ insuperabile ripugnanza per guerre e spedizioni, anteponendo loro quel suo mondo di piccole cose dei campi e dell’amore. Sospirò continuamente la pace della campagna, vedeva realizzare i suoi sogni nel ritiro della vita agreste, capace di rinfrancare il suo animo di temperamento malinconico in compagnia della donna amata (furono tre le sue compagne secondo le testimonianze). D’altra parte, egli non disdegnava la prospettiva dei lussi e degli onori connessi alle imprese di guerra, ma cercava di reagire facendo suo il principio della saggezza epicurea e lucreziana, che gli suggerivano la soave quiete dell’animo e gli ozi riposanti a contatto con la natura. Inspirandosi a questo:
Iam modo, iam passim contentus vivere parvo
Nec sempre longae deditus esse viae.
Non ego divitias patrum fructusque requiro,
quos tulit antiquo condita messis avo:
parva seges satis est, satis est requiescere lecto
si licet et solito membra levare toro.
O quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quantum fleat ob nostras ulla puella vias!
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias:
me retinent vinctum formosae vincla puellae.
“Oh, che infine, che infine io possa vivere contento del poco né sempre esser dedito a lontane spedizioni! Io non ricerco le ricchezze dei miei padri né il reddito che gli abbondanti raccolti recavano al mio vecchio avo: a me basta un piccolo raccolto; questo mi basta, purché possa riposare e stendere le membra nel mio solito letto. Oh, vengano meno al mondo oro e pietre preziose, piuttosto che nessuna donna pianga per le mie assenze! A te conviene, o Messalla, combattere per terra e per mare, onde la tua casa ostenti le nemiche spoglie: a me tengono prigioniero le catene della bella fanciulla”.
Trascorsa l’esperienza militare, dall’impronta di dolore che queste lotte e le sventure familiari avevano lasciato nell’animo del poeta ancora adolescente, la sua vita fu ora solo occupata dall’esercizio poetico, nel tentativo di volgere le spalle al mondo crudo e spietato delle armi che non faceva per lui. L’ambiente di Messalla, una volta quetate le sollecitudini politiche, si prestava alle occupazioni letterarie, con particolare inclinazione per la poesia di tono idillico ed elegiaco (anche lo stesso Messalla era stato insieme a Virgilio uno dei primi introduttori della poesia pastorale di influenza teocritea).
-IL CORPUS TIBULLIANUM E LA POETICA
L’opera di Tibullo consiste in una vasta raccolta di elegie in tre libri, designata Corpus Tibullianum, sul quale gravano ancora problemi di autenticità. In particolare, solo i primi due libri appartengono per intero al poeta, mentre il terzo, che ha carattere antologico, presenta problemi di attribuzione ancora non pienamente risolti. Ovidio dà testimonianza di questa suddivisione dei primi due libri (escludendone quindi un terzo). Il libro I, noto come “libro di Delia”, fu forse composto tra il 31 e il 26 a.C. e comprende dieci elegie, cinque delle quali dedicate a Delia (I,II,III,V,VI), tre al giovane Marato (IV,VIII,IX), una a Messalla ed una alla pace (X). Il libro II, conosciuto come “libro di Nemesi” è costituito da sei elegie, delle quali tre dedicate a Nemesi (III,IV,VI), una descrittiva delle cerimonie per la purificazione dei campi (I), una celebrativa del giorno natalizio dell’amico Cornuto (II) ed una dedicata all’assunzione di Messalino (figlio di Messalla) nel collegio dei Quindecemviri. Il terzo libro, invece, pone problemi di attribuzione ancora irrisolti: alcuni propendono per la sua autenticità, considerando originali del poeta le elegie qui raccolte ma con ogni probabilità da lui rinnegate in maturità causa il loro scarso valore poetico. Altri hanno invece ipotizzato la loro vera paternità, distinguendo, tra le 20 elegie che lo compongono, le prime sei come opera di Ligdamo, la settima di autore ignoto, detta “Panegirico di Messalla”, mentre le successive undici (VIII-XVIII) costituiscono il ciclo di Sulpicia e Cerinto; infine, nella diciannovesima elegia ricompare il nome di Tibullo, parlando dell’amore di una donna anonima che torna anche nella elegia successiva di chiusura: è pertanto certa l’attribuzione al nostro poeta.
Nel primo libro si può tracciare un ritratto del poeta che si ricava dalla tematica dell’amore e dai modi in cui questa viene cantata.
Tibullo ci appare un eques singolare, un po’ “malaticcio”, non attratto dalla carriera militare e politica : pur senza una polemica aggressiva, ne rifiutò i valori e cercò la pace e l’otium letterario, in cui potersi dedicare agli amori e alla poesia elegiaca. Suona programmatica in questo senso la prima elegia, esprimendo i sentimenti e i miraggi del poeta, che, contento del poco e della modestia, non aspira alla gloria e desidera soltanto vivere nella sobrietà della campagna con la sua donna amata e averla vicino nel giorno della morte. Non fanno per lui armi e guerre, è intenzionato a godere dei piaceri dell’amore finché l’età giovanile lo consente, beandosi della soave e placida calma della vita agreste, ricondotta in una dimensione tutta interiore. Tibullo, peraltro, è l’unico grande poeta dell’età augustea a non celebrare né Mecenate, insigne personaggio dell’ambito politico e letterario, né Augusto, fautore della celeberrima pax augustea: la “pace” del poeta non ha a che spartire con quella politica e civile dell’imperatore, poiché essa è una conquista personale e si attua proprio con l’evasione dalla realtà quotidiana, contaminata dalla avidità e dalla guerra, e il rifugio nella serenità campestre. L’ordine di successione delle elegie non segue la cronologia, né in questo primo libro né nei successivi e pare essere improntato al criterio alessandrino della poikilia o varietas, cioè alla molteplicità di temi e di motivi, anche se si intravede una strutturazione secondo un criterio ideologico-simbolista: le elegie I-IV sono dette “della speranza”, le elegie V-X sono quelle del “cinismo” e “dell’ironia”. Questo punto fa sorgere interrogativi circa le possibili influenze della poesia alessandrina su Tibullo: siamo comunque certi di poter dire che fra tutti gli elegiaci latini, il poeta in questione è certamente il meno alessandrino. Questo è decretato in primo luogo dalla forma e dallo stile letterario di Tibullo, il quale non si cimenta di proposito nel gusto alessandrino dell’alta ricercatezza linguistica che si compiace della artificiosità espressiva, in una poesia caratterizzata da frequenti inserti mitologici ed eruditi. Nondimeno, non è da credere che in Tibullo questi ultimi non compaiano, assieme ad una serie di topos della poesia erotica ed epigrammatica alessandrina quali la venalità dell’amore nella donna, l’incostanza della sua passione amorosa indifferente alle pene dell’amante, gli ostacoli che si frappongono tra l’amante e l’incontro con la bella di turno: ma il loro uso è controllato dal sentimento e dalla umanità del poeta, che dettano la poesia in prima persona.
I poeti elegiaci latini (e Tibullo più di tutti ), hanno saputo vivificare questo contenuto altrimenti arido e fittizio con i propri sentimenti, dando forma all’informe, offrendo così un loro quadretto esistenziale trasfigurato nelle forme e nei modi sublimi consacrati dalla poesia ellenistica.
Anche nel secondo libro la disposizione delle elegie obbedisce al criterio della varietas, a cui fanno perno le figure centrali di Delia e Nemesi. Nemesi è il nuovo amore del poeta che intende riscattarsi dal tradimento di Delia, incorrendo tuttavia in un amore più passionale e sfortunato del precedente; Nemesi non è solo donna infedele, ma ama il lusso e si comporta dispoticamente. Il poeta ne è schiavo ed è disposto a tutto pur di averla con sé (III,IV); giacché non può farne a meno, preferisce seguire l’amico Macro alla guerra, ripetendo la traumatica esperienza pur di dimenticare la fanciulla (VI). Nella V elegia, in cui canta le lodi a Messalino, figlio di Messalla, Tibullo si accosta alla poesia civile augustea, cantando la gloria di Roma e profetizzandone la gloria futura in un tono che rimane quello idillico e romantico di sempre, che non ha nulla di quello grandioso e magniloquente di Properzio e di Ovidio.
Su tutto predomina ancora una volta la celebrazione della pace, della serenità della campagna e dell’amore, motivi in apparenza slegati ma che ricevono unità di tono e di pensiero, dal momento che il tema dell’amore è connaturato col canto della campagna e della pace. La campagna tranquilla allietata da un placido amore di donna, si presenta, al suo desiderio e al suo sogno, come un rifugio e una salvezza. E’ una campagna guardata bucolicamente, cioè in senso idillico, ma anche amata con un sentimento che ha le sue radici nell’attaccamento alla terra e nella religiosità dei piccoli proprietari terrieri di stirpe latina; è evidente come in Tibullo, meglio che in Catullo o in Properzio, la cultura ellenistica non riesca a cancellare un tradizionale fondo rustico e campestre dell’uomo romano. La candida pax della vita agreste riportano l’uomo da un presente inquieto al romantico miraggio dell’età dell’oro e alla sua passata felicità; questo mito compare ed è centrale in Tibullo.
L’amore, cullato nell’idillica pace della vita pastorale, è infelice ed irrealizzabile e, a ben vedere, si configura piuttosto come un bisogno di quiete che si realizza appunto nel rifugio in campagna, cioè un opposto rinfrancante e salutare della caotica vita urbana, dove il poeta realizza il proprio ideale dell’otium, ritrovandosi a contatto con la natura. Sebbene l’esperienza umana della vita in campagna del poeta sia molto soggettivizzata, tuttavia essa non è idealizzata né stereotipata: Tibullo vagheggia di godere il fresco all’ombra degli alberi, zappare la terra, osservare le greggi e la donna amata è una massaia che compie i lavori domestici. La campagna tibulliana è perciò una delle meno stilizzate della poesia augustea; non è esattamente un vago e rarefatto locus amoenus, ma un ambiente reale in cui l’individuo realizza pienamente la propria interiorità, un luogo sacro ma vero in cui vivere. Emblematica è a questo proposito l’elegia II, che celebra una festa campestre di purificazione (gli Ambarvalia), dove il poeta cerca la felicità sognando ancora sulla mitica età dell’oro e ripudiando la guerra, avvenimento esecrabile che porta solo distruzione. In tutto questo c’è poco di letterario, giacché il poeta ha trascorso in prima persona l’esperienza della guerra e sa giudicarla alla luce della serenità della vita di campagna: il fatto che questa vicenda lo ha sconvolto è confermato dalla tormentosa insistenza con cui ritorna più volte su questa.
Nei momenti di più acuta sofferenza, come nella elegia più famosa scritta durante l’esilio a Corcira, l’anima, ossessionata dalla visione della morte (ricorre anche altrove questo senso della precarietà dell’esistenza), cerca una liberazione anche nell’attesa della vita dell’aldilà, rappresentato dai campi Elisi, pieni di musiche e di profumi e regno dell’amore: il presente doloroso è così proteso verso un oltretomba radioso Questa esperienza religiosa non è marginale in Tibullo e non è senza legami con religioni orientali: ne è prova il lungo pezzo intonato a Osiri nell’elegia per il trionfo di Messalla.
Tibullo è dai più conosciuto come poeta dell’amore, anche se andrebbe rivalutato come malinconico poeta della pace agreste. L’amore si rapporta a questo mondo di poche e piccole cose come un elemento che lo supporta e lo tiene unito, ed è per questo che la stilizzazione letteraria si ritrova più nella trattazione dell’amore che nella descrizione della natura, tanto che non è sempre facile distinguere nella rappresentazione delle figure femminili ciò che è reale e ciò che invece è convenzione letteraria (una prova di questo è anche costituita dal fatto che le elegie non sono ordinate cronologicamente). I tre amori principali del poeta possono essere per molti aspetti accomunati, soprattutto se considerati nella loro importanza centrale nel corpus, ma anche nella loro stilizzazione letteraria. Così Delia (il nome è uno pseudonimo di Plania, il vero nome della donna che lo riprende metricamente, per quantità sillabiche, secondo una consuetudine propria anche di Catullo e Properzio), è connotata con moduli che fanno fede alle convenzioni ellenistiche, anche se è delineata con una descrizione fisica realistica e la storia d’amore è raccontata nei fatti, con risalto del momento cruciale della sua interruzione per l’infedeltà di lei. Anche nell’amore (in certi punti umoristico) per il giovinetto Marato e quello più sensuale per la donna Nemesi è offerta una descrizione fisica e precisi riferimenti biografici, ma i tratti convenzionalistici sono ancora più accentuati che in Delia.
La poesia d’amore di Tibullo, nascendo dagli sfoghi passionali, finisce per diventare una meditazione lirica in cui culla i propri sentimenti, e in questo modo dà vita ad un tipo personale di composizione elegiaca, importante nella storia delle forme letterarie della poesia europea. Essa nasce da un flusso libero di sentimenti, che però, nell’insieme, ha un suo nitido ordine, specie nell’architettura e nello stile, ammirato da antichi e moderni per il semplice vigore e la luminosa eleganza, per il nitore e la levigatezza della bella forma. Tibullo ha assimilato l’esperienza del classicismo augusteo più profondamente degli altri elegiaci: la stessa rinuncia quasi completa agli ornamenti mitologici ed eruditi rende notevole il suo distacco dal neoterismo.
-PASSI SCELTI DAL CORPUS TIBULLIANUM
-Il Panegirico di Messalla
Il Panegyricus Messallae è il settimo componimento del terzo libro (o il primo del quarto, secondo una ulteriore suddivisione di questo ultimo libro operata in età umanistica) e fu composto nel 31, in occasione del consolato del protettore del poeta. E’ un retorico componimento adulatorio di circa duecento versi in esametri dattilici, di autore ancora ignoto: sembra improbabile la sua attribuzione a Tibullo, vista la qualità mediocre della forma poetica.
Nam modo fulgentem Tyrio subtegmnine vestem
Indueras oriente die duce fertilis anni,
splendidior lliquidis cum Sol caput extulit undis
et fera discordes tenuerunt flamina venti
curva nec adsuetos egerunt flumina cursus,
quin, etc. (121 segg.),
« Appena tu avevi indossata la veste fulgente di porpora al sorgere del giorno che inaugurava il nuovo anno felice, ed ecco che più splendido il Sole levò la testa dalle liquide onde ed i venti discordi frenarono il loro impeto selvaggio né i fiumi ricurvi mantennero il consueto corso…”.
Il poeta, che amava le cose della campagna, fa partecipi al successo politico di Messalla il Sole e le acque, i venti e il mare, gli uccelli e i quadrupedi. Trattandosi però di un Panegirico (solenne discorso d’elogio), presenta tutti i difetti dovuti al genere, nella impostazione e nello svolgimento della materia. A ciò si deve la recusatio del passo premiale, dove l’autore lamenta di non essere al pari del soggetto da trattare:
Te, Messalla, canam, quamquam me cognita virtus
Terret ut infirmae nequeant subsistere vires:
incipiam tamen. At meritas si carmina laudes
deficiant, humilis tantis sim conditor actis,
nec tua praeter te chartis intexere quisquam
facta queat dictis ut non maiora supersint,
est nobis voluisse satis...
Alter dicat opus magni mirabile mundi,
qualis in immenso desederit aere tellus,
qualis et in curvom pontus confluxerit orbem, etc. (1-7; 18 segg.),
“Te, Messalla io canterò, sebbene, conoscendo il tuo valore, mi sento tremare che i deboli non possano reggere allo scopo delle mie forze. Tuttavia incomincerò. Ma se i miei versi sono insufficienti ai tuoi meriti, se io sono umile cantore alle tue imprese, né altri all’infuori di te saprebbero stendere su carta le tue gesta sì che non troppo superiori risultino a questi, ebbene basterà per me l’avere voluto… Altri canti l’opera mirabile del grande universo, quale si sia deposta nell’immenso aere la terra, quale nel ricurvo mondo sia confluito il mare, etc.”.
Con dottrina e tecnica inspirate agli esempi virgiliani e neoterici, il poeta panegirico tesse iperboliche lodi al patrono Messalla, per la nobiltà della sua stirpe, i suoi meriti nella vita civile e in quella militare, sbilanciandosi pure, prima della battaglia di Azio che avrebbe segnato l’era di Augusto, in velleitarie premonizioni:
Solus utroque idem diceris magnus in orbe (176),
“Tu solo sarai detto grande nell’uno nell’altro mondo”.
Di sicuro l’anonimo autore dovette aver partecipato alle guerre illiriche (come del resto Tibullo), dal momento che luoghi, costumi e figure tipiche rivivono intensamente nei versi del Panegirico.
Inoltre, è perfino menzionato un capo barbaro (Domator), che mai aveva mostrato ad alcun nemico le terga, ma che fu piegato da Messalla (episodio che trova comunque riscontro nelle cronache illiriche dello stesso periodo):
Te duce non alias conversus terga Domator
libera Romanae subiecit colla catenae (116-117),
“Te comandante, quei che mai prima aveva voltate le terga, Domator, sottopose il libero collo alle romane catene”.
Il Panegirico di Messalla è unanimemente ritenuto spurio, tanto che qualcuno ha voluto considerarlo una discreta esercitazione di qualche scuola di retorica, per qualità neanche accostabile all’opera di Tibullo. E’ però disarmante la corrispondenza tra i fatti biografici dell’anonimo autore con quelli del poeta elegiaco:
Nam mihi, cum magnis opibus domus alta niteret,
cui fuerant flavi ditantes ordine sulci
horrea fecundas ad deficentia messis...
nunc desiderium superest: nam cura novatur
cum memor ante actos semper dolor admonet annos (183-189),
“Poiché, mentre la mia casa splendeva superba di grandi beni, e biondi solchi di volta in volta arricchivano i nostri granai insufficienti ad accogliere l’abbondanza dei raccolti…, ora mi resta il rimpianto, e l’affanno si rinnova quando il dolore memore sempre richiama gli anni trascorsi”.
Anche questo autore, al pari di Tibullo, ama la campagna, ha sentimenti gentili e sa volgere, come Tibullo, con il pensiero all’Oltretomba, al mondo dei premi e delle pene (vi sono menzioni della credenza pitagorica della Metempsicosi). Pertanto, che tali versi non siano opera di Tibullo è quantomeno discutibile.
-Il libro di Delia e l’indole della poesia tibulliana
Una volta ritornato dalla spedizione di Messalla contro gli Aquitani, turbato dalla struggente esperienza della guerra, Tibullo è bisognoso di quiete e serenità. Da questo momento la voce ispiratrice della sua produzione più matura diventa Delia, persona reale trasfigurata con la fantasia e sovente descritta con le note convenzionali proprie della poesia alessandrina. La donna diventa argomento precipuo delle sue elegie, destinataria di una passione sentita e delicata ma anche struggente, dalla quale Tibullo cerca ad un certo punto di liberarsi. Dapprima si distrae in capricci passeggeri, come l’amore per il fanciullo Marato, quindi si getta nelle braccia della cortigiana Nemesis, dalla quale gli sono procurate le ultime gioie e torture. Della guerra si trova cenno solo per disprezzarla, messa in contrasto con la sua salvifica aspirazione alla tranquillità della vita agreste. Il desiderio di vivere in eterno a fianco della donna amata nell’idilico scenario della campagna è espresso da:
Non ego laudari curo, mea Delia: tecum
Dum modo sim , quaeso, segnis inersque vocer;
te spectem, suprema mihi cum venerit hora,
te teneam moriens deficiente manu (I, 57 segg.),
“Io non mi curo della gloria, o mia Delia: purché io sia con te, che mi chiamino pure vile e inerte: che io ti possa contemplare, quando sarà giunta la mia ora estrema; a te io mi tenga ,morendo, la mano passionale”.
Esprimono con pienezza l’orrore del poeta per la guerra i versi:
Quis fuit horrendos primis qui protulit enses?
quam ferus et vere ferreus ille fuit !...
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
Haesura nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate, Lares… (I, 10, 1 segg.),
“Chi fu che per primo produsse le orribili spade? Oh, quanto fu feroce quello, e veramente di ferro!…La colpa è dell’oro che produce ricchezze: né c’erano guerre quando davanti alle vivande stava su la mensa il semplice boccale di faggio. Deh, fossi io allora vissuto, o Valgio, né le tristi armi avessi conosciute, né udita giammai con cuore in tumulto la tromba di guerra! Ora in guerra mi trascinano, e già forse un qualche nemico quella freccia reca che si infliggerà nel mio fianco. Ma voi proteggetemi, Lari domestici…”.
Anche quando poi l’elegia dovrebbe essere di tono solenne per celebrare il trionfo accordato a Messalla, il suo pensiero svia dalla tematica commemorativa, troppo legata alla guerra e al mondo militare e si rifugia nelle visioni di fecondi paesaggi naturali:
Non sine me est tibi partus honos: Tabella Pyrene
testis et Oceani litora Santonici,
testis Arar Rhodanusque celer magnusque Garumna,
Carnutis et flavi caerula lympha Liger.
An te, Cydne, canam, tacitis qui leniter undis
caeruleus placidis per vada serpis aquis,
quantus et aetherio contingens vertice nubes
frigide intonsos Taurus alat Cilicas ?
Quid referam, etc... (I, 7, 9 segg.),
« non senza di me ti è concesso quest’onore : i Pirenei dei Tarbelli ne son testimoni e le spiagge dell’Oceano Santonico ; testimone ne è l’Arare e il celebre Rodano e la grande Garonna e l’azzurra corrente della Loira abitata dal biondo Carnute. Oppure io debbo cantare te, Cidno, che soavemente serpeggi ceruleo con silenziose onde per guadi di placide acque, e quanto grande con la vetta celeste toccando le nubi il gelido Tauro alimenti gli intonsi Cilici? E debbo dire…”.
Offre dolorose emozioni l’elegia composta durante la permanenza a Corcira, in seguito al ritiro dalla spedizione per la salute cagionevole, dove la malattia gli aveva presagito la morte e sussurrato il suo epitaffio:
HOC IACET IMMITI CONSUMPTUS MORTE TIBULLUS,
MESSALLAM TERRA DUM SEQUITURQUE MARI.
Sed me, quod facilis tenero sum semper Amori,
ipsa Venus campus ducet in Elysios.
Hic choreae cantusque vigent, passimque vagantes
dulce sonant tenui gutture carmen aves ;
fert casiam non culta seges, totosque per agros
floret odoratis terra benigna rosis ;
Ac iuvenum series teneris immixta puellis
ludit, et adsique proelia miscet Amor (I, 3, 55 segg.),
« Qui giace consunto da morte crudele Tibullo, mentre seguiva Messalla per terra e per mare. Ma poiché io sono sempre devoto del tenero amore, Venere stessa mi accompagnerà nei campi Elisi. Qui regnano danze e canti, e gli uccelli effondono dolci versi vagando qua e là con fine gorgheggio; la messe non coltivata reca il cinnamomo, e per tutta la campagna la terra fiorisce benigna di rose profumate; e schiere di giovani con tenere donzelle giocano, e l’amore rinnova senza posa le guerre”.
E certo che Tibullo, almeno per quanto riguarda l’amore per la campagna abbia preso ispirazione dal modello virgiliano delle Bucoliche e delle Egloghe. Come dieci erano state le Egloghe di Virgilio, così dieci furono le elegie del primo più compiuto ed organico libro di Tibullo, per Delia.
Egli non è tuttavia un pedissequo imitatore, ma un continuatore di questa tradizione, un erede delle spirito bucolico virgiliano rivissuto ma trasportato nella differente forma dell’elegia. Tibullo è di temperamento esclusivamente idillico-elegiaco, sempre disposto a commuoversi, ad intenerirsi, a versare lacrime di dolore e di gioia. Egli è il cantore della temperanza benigna, lamenta tutto ciò che non è mite e che lo allontana dall’intimità:
Quam iuvat immites ventos audire cubantem
et domina tenero continuisse sinu,
aut, gelidas ibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos imbre iuvante sequi (I, I; 45 segg.),
“ Oh, quanto mi piace udire dal letto i venti che infuriano crudeli, e intanto tenermi teneramente stretta la mia donna al seno; o quando d’inverno Austro rovescia gelide acque, proseguire tranquillo col favore della pioggia i miei sonni”. E come teme la morte e la solitudine senza affetti, senza persone care che lo assistano e lo piangano:
Me tenet ignotis aegrum Phaecia terris:
abstineas avidas Mors modo nigra manus,
abstineas, Mors atra, precor : non hic mihi mater,
quea legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror Assyrios cineri quae dedat odores
et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam, etc. (I, 3, 3 segg.),
“La terra dei Feaci mi tiene malato nelle sue ignote contrade. Via da me, o morte negra, le tue mani rapaci, via da me, o Morte atra, ti prego: non è qui mia madre che nel mesto seno raccolga dal rogo le mie ossa; non mia sorella che sul cenere sparga profumi assiri e pianga con le chiome sparse davanti al mio sepolcro; Delia non c’è”.
L’amore di Tibullo è un completo sacrificio, un annullamento di fronte alla donna amata a cui quasi fa voto. Così il poeta desidera annullare sé stesso davanti a Delia, fatta regina della casa:
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
at iuvet in tota me nihil esse domo (I, 5, 29-30),
“Ella su tutti governi, da lei tutto dipenda: ed a me piaccia non essere nulla in tutta quanta la mia casa”.
Vibra una nota di commozione nel sogno della sua tomba e dei campi Elisi, l’ultimo sereno approdo nel mondo dove cinguettano gai gli uccelli, i giardini profumano di rose e le donzelle conversano d’amore con i fanciulli:
Tunc veniam subito, nec quisquam nuntiet ante;
sed videar caelo missus adesse tibi,
Tunc mihi, qualis eris, longos turbata capilllos,
obvia nudato, Delia, curre pede (I, 3, 89-92),
“Allora giungerò d’improvviso, né alcuno prima mi annunzi: ma io ti appaia così come un messo dal cielo. Allora, quale sarai, scarmigliata i lunghi capelli, a piedi scalzi, o Delia, corrimi incontro”.
Il mondo poetico di Tibullo, come rende l’immagine del poeta che scende dal cielo, è informato da un senso del divino, del celestiale, del puro: nessuna prospettiva è più desiderabile che quella di vivere eternamente accanto alla propria donna fedele. E la sua poesia, che si avvale dello strumento pregiato dell’elegia, non è altro che un fantasticare, un vagare idillico sulle ali del sogno che prorompe felicità e commozione nel suo animo.
-Il libro di Nemesi e la morte
Tibullo era sicuramente stato il più passionale cantore dell’amore del suo periodo, fatto che non gli fece mancare consensi e apprezzamenti da caposcuola. Sul tema dell’amore era incentrato anche il secondo libro, pubblicato alla vigilia della morte –secondo alcuni uscito postumo- , comprendente sei componimenti piuttosto slegati, tra cui spicca la V elegia dedicata a Messalino, figlio di Messalla, in occasione della sua assunzione nel collegio dei sacerdoti custodi dei Libri Sibillini.
Riferendosi a questo evento, Tibullo spazia sul campo delle profezie e delle leggende sul destino di Roma. Tuttavia fa questo con la ritrosia di chi ha altri interessi e la testimonianza di ciò è nella Roma delle origini cantata come terra di contadini e pastori e nell’erboso Palatino su cui pascevano le mucche e non v’erano che villaggi di rustiche capanne. Nel suo sguardo nella regione della storia e della religione, Tibullo ricade nell’elemento a lui più caro:
Ille levis stipulae solemnis potus acervos
accendet, flammas transilietque sacras ;
et fetus matrona dabit, natusque parenti
oscula comprensis auribus eripiet,
nec taedebit avum parvo advigilare nepoti
balbaque cum puero dicere verba senem (II, 5, 89 segg.),
“Egli, il colono, avendo bevuto bene attizzerà secondo il rito i cumuli di paglia e farà il salto delle sacre fiamme. E la sua matrona gli darà figli, e il nuovo nato strapperà baci al padre prendendolo ben stretto per le orecchie; né si stancherà di vegliare sul piccolo nipote e mescolare, vecchio, il suo balbettio a quello del bimbo”.
Nella prima elegia la campagna, con le sue sane fatiche e le sue cerimonie, costituisce l’argomento specifico. L’amore per il mondo agreste appare questa volta come sogno evasivo e di sollievo; Il poeta è infatti agitato da un’altra donna, Nemesi (la poesia che la evoca ha molto di convenzionale, tanto che si potrebbe trattare di pura immaginazione):
A miseri, quos hic graviter deus urget! At ille
felix cui placidus leniter adflat Amor (II, I, 79-80),
“ Ahi, quelli che sono gravemente perseguitati da questo dio! Ma beato lui al quale placido amor lenemente spira”.
L’amore di Nemesi è furia dei sensi, tanto profano e peccatore quanto puro e peccatore aveva voluto essere quello per Delia. D’altronde ella è la vendetta (l’etimologia del nome), un ripiego su cui il poeta si è gettato e che lo porterà alla rovina spirituale e materiale, donna capricciosa e rapace per contentare la quale il poeta procederebbe per caedem et facinus:

At mihi per caedem et facinus sunt dona paranda,
ne iaceam causam flebilis ante domum;
aut rapiam suspensa sacris insignia fanis;
sed Venus ante alias est violanda mihi:
illa malum facinus suadet dominamque rapacem
dat mihi ; sacrilegas sentiat illa manus (II, 4, 21 segg.),
« Ma io devo procurarmi ricchezze con stragi e delitti, per non restare chiuso fuori della casa di lei: ruberò cioè gli ornamenti appesi ai templi degli dei: ma Venere prima di ogni altra dea io debbo profanare, perché è lei che mi spinge sulla via del delitto, dandomi un amante insaziabile: si accorga ella che le mie mani sono sacrileghe”.
Per la sua natura più volgare, l’amore di Nemesi si è maggiormente prestato ad espressioni convenzionali, che risentono del luogo comune. E’ però innegabile una radice di verità nella vicenda, attestata da alcuni particolari descrittivi che compaiono in talune scene, come quella della morte della sorellina di Nemesi (VI elegia). Ad ogni modo, possiamo considerare l’amore per Nemesi il tormento degli ultimi anni di Tibullo, ormai sulla soglia della morte.
Già prima della prematura morte Tibullo poté assaporare o presagire il successo; Ovidio gli dedicò un epicedio, un’elegia altamente commossa, rivolta a quello che considerava un grande maestro classico. L’anno della sua scomparsa fu il 19 a.C. (o forse qualche anno più tardi), lo stesso in cui morì un altro insigne poeta, Virgilio. Uno dei seguaci che si avviavano allora al cammino dell’arte, Domizio Marso, così esprimeva la sfortunata coincidenza:
Tu quoque Vergilio comitem non aequa, Tibulle,
Mors iuvenem campos misit ad Elysios,
ne foret aut elegis molles qui fleret amores
aut caneret forti regia bella pede
“Te pure compagno a Virgilio la morte non giusta, o Tibullo, mandò ai campi Elisi ancor giovane, affinché più non vi fosse o chi in elegie piangesse i molli amori, o chi in metro epico cantasse le maestose gesta di guerra”.
-LA FORTUNA
Già Ovidio, ad una sola generazione di distanza, considerava Tibullo un classico, così come ad un secolo di distanza lo considerava Quintiliano, dal quale si apprende che Tibullo era amato per la limpidezza e l’eleganza dello stile e che godeva di più largo favore di Properzio. La sua opera andò però calando per estimatori e consensi con il passare del tempo, poiché nella tarda antichità Tibullo era noto solo a pochi lettori colti e nel Medioevo corse addirittura il rischio di scomparire. Buona parte del Corpus Tibullianum era fortunatamente conservata nei codici Ambrosiano e Vaticano, cosicché poté essere rispolverato in età umanistica, dove, presso gli ambienti poetici più colti, godette di largo favore. I suoi versi erano riecheggiati non solo nella poesia latina ma anche in quella volgare, ed era uno dei classici latini più presenti nella lirica delle letterature europee. Le via principali della sua influenza furono la vena erotica, l’amore della pace campestre e il gusto bucolico, seguita dall’avversione della guerra e la scelta di una vita umile e modesta. A lui si ricollega quell’arte che fa dello strumento poetico l’armonia per esprimere i moti e le oscillazioni del proprio animo, con prevalente ispirazione malinconica. Particolare fortuna godette il poeta tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento: fu, tra l’altro, uno degli ispiratori delle Romische Elegien di Goethe e trovò grande attenzione critica e filologica di molti traduttori moderni, tra cui il tedesco J.H.Voss. Da non dimenticare infine la stima a lui rivolta da alcuni poeti lirici italiani, su tutti Giosuè Carducci e il giovane D’Annunzio.
ALESSANDRO GUADAGNI – III C

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