Verga

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Testo

I CAPITOLO
GIOVANNI VERGA: VITA E OPERE
Personaggio schivo, solitario, malinconico, Verga si è dedicato per trent’anni (1860-90), con estrema coerenza e continuità, all’attività letteraria. La sua natura riservata non deve tuttavia far pensare a un solo isolamento nella società letteraria: fra il 1873 3 il 1890 egli fu al centro dell’attività letteraria dell’ambiente milanese che era all’avanguardia della ricerca artistica in Italia. Solo dopo il 1890, tramontata l’epoca del Verismo e affermatosi, con D’Annunzio, il romanzo decadente, si può parlare di un vero e proprio isolamento di Verga.
Nato a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri di antica discendenza nobiliare, Giovanni Verga aveva vent’anni quando Garibaldi guidò in Sicilia l’impresa dei Mille. Per un giovane educato ai valori romantico – risorgimentali, quell’ evento segnò una data memoriale: egli resterà sempre fedele ai valori dell’unità nazionale e al culto del risorgimento.
1840-1865
Nato a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri di antica discendenza nobiliare, Giovanni Verga aveva vent’anni quando Garibaldi guidò in Sicilia l’impresa dei Mille. Per un giovane educato ai valori romantico – risorgimentali, quell’evento segnò una data memoriale: egli resterà sempre fedele ai valori dell’unità nazionale e al culto del risorgimento.
Ad undici anni inizia gli studi alla scuola di Antonino Abate, letterario e patriota, e, poi, del canonico Mario Torrisi. Il tipo di educazione ricevuta è, sul piano politico, patriottica risorgimentale e, sul piano letterario, sostanzialmente romantica.
Si iscrive alla facoltà di legge ma non termina gli studi, tutto preso dalle vicende storico-politiche (dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). Di questa educazione testimoniano le prime prove narrative: l'inedito Amore e patria,ispirato alla rivoluzione americana e scritto a 17 anni, I carbonari della montagna pubblicato nel 1861 a spese dell'autore il quale vi impegnò la somma destinata al proseguimento degli studi di giurisprudenza che infatti interruppe. Nello stesso anno si arruola nella guardia nazionale di Catania e svolse un’intensa attività di giornalista (fu tra i fondatori e i redattori di tre giornali, il primo dal titolo assai significativo, «Roma degli Italiani», che ebbero tutti una breve durata). Nel 1863 il periodico fiorentino "Nuova Europa" pubblica a puntate il romanzo Sulle lagune. Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871).
1865-1872: PERIODO FIORENTINO
Dopo la morte del padre, nel 1865 si stabilisce a Firenze dove frequenta l'ambiente letterario di Francesco Dall'Ongaro, giornalista, professore di letteratura drammatica e autore del noto testo teatrale «Il fornaretto di Venezia». Conosce i poeti Giovanni Prati e Aleardo Aleardi e la scrittrice Caterina Percoto, autrice di racconti di ambiente paesano. Diventa autore di successo dapprima con il romanzo Una peccatrice (1866) ed in seguito con Storia di una capinera edita nel 1871. Fondamentale, negli anni fiorentini, è l'incontro con Luigi Capuana con il quale inizia un rapporto d'amicizia e un sodalizio letterario. Così scriveva ai familiari: «Firenze è davvero il centro della vita politica e intellettuale d’Italia; qui si vive in un'altra atmosfera.». comincia a proliferarsi anche un atteggaimento moralistico e critico ed un interesse per situazioni estreme ed esasperate che rivelano l’influenza della Scapigliatura. In questo periodo avvia la stesura di Eva.
1872-1894: PERIODO MILANESE
Si trasferisce a Milano, città in cui sono vivacissimi gli scambi letterari: nasce in quegli anni la Scapigliatura, attraverso la cui esperienza i letterati milanesi erano in contatto con le ricerche più avanzate deglia ltri paese, a partire dalla Francia. Qui Verga frequenta i salotti di Clara Maffei e di Vittoria Cima ed i caffè dove si ritrovano gli aristi, diventando così amico di diversi scrittori scapigliati, come i fratelli Boito, Praga, Gualdo.
Milano era anche la capitale economica del paese: studiando il comportamento della gente ed i meccanismi economici, il Nostro si convince sempre di più che l’epoca romantica è finita e che la’rte è diventata ormai un lusso inutile in una società dove dominano unicamente “ le Banche e le Imprese industriali”.
Tra il 1873 e il 1876 escono i romanzi Eva, Tigre reale, Eros, primo tentativo di romanzo oggettivo, la raccolta di novelle Primavera e altri racconti, e, nel 1874, il bozzetto di ambiente siciliano Nedda, novella ispirata alla narrativa filantropico-sociale, in cui, per la prima volta, la tematica mondana viene abbandonata. Nella seconda metà degli anni Settanta la sua scrittura diventa una scrittura narrativa come "ricerca di verità".
Nel 1877 Capuana inizia una battaglia letteraria per il Verismo e comincia a scrivere il romanzo Giacinta che appunto a quella poetica si ispira.
Nel 1878 in una lettera all'amico Salvatore Paola, Verga esprime quella che sarà la tematica dei Malavoglia: "un lavoro" che sia "una specie di fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiolo al ministro e all'artista..."
Nel 1881, preceduto dalle novelle di Fantasticheria (1880) e di Vita dei campi (1878), appare I Malavoglia, nello stesso anno in cui appare Malombra di Fogazzaro. L'imprevisto insuccesso del romanzo denota la preferenza dei lettori che tende verso il clima letterario creato dai romanzi di quest'ultimo.
Pur scoraggiato, Verga continua a pubblicare: I ricordi del capitano D'Arce (1881), Il marito di Elena (1882) e le raccolte di novelle Novelle rusticane (1883), Per le vie (1883, ispirate all'esistenza squallida della plebe cittadina e della gente della metropoli lombarda), Drammi intimi (1884).
Intanto inizia la nuova attività di autore per il teatro con alterne vicende di successi e di fiaschi: Cavalleria rusticana (interpretata dalla Duse) trionfa a Torino, In portineria cade a Milano.
Nel 1887 scrive Vagabondaggio (raccolta di novelle che riprende il tema delle novelle «Per le vie») e l'anno dopo esce a puntate su "Nuova Antologia Mastro-don Gesualdo”.
Nel 1893 si ritira nella sua Catania dopo aver vinto una causa (contro il musicista Pietro Mascagni) per i diritti d'autore di Cavalleria rusticana: la cifra, cospicua, gli permette di ripianare i debiti. Vive in una sorta di isolamento scontroso, geloso dell'esagerata ammirazione che i suoi concittadini avevano per il poeta Mario Rapisardi (1884–1912). La sua naturale avversione agli intrighi che vedeva trionfare nel mondo letterario, e poi alcuni dispiaceri e lutti familiari, lo allontanarono sempre più dall'esercizio dell'arte.
In questo periodo, inoltre, Verga non riesce a completare ol progetto dei Vinti , che doveva indurlo a descrivere, attraverso cinque romanzi, la fisionomia dell’Italia moderna. Lavorerà a lungo al terzo romanzo del ciclo, La duchessa di Leyra, senza finirlo.
1894-1922: RITORNO A CATANIA
Verga torna a risiedere a Catania, dove si stabilisce definitivamente, seppur con brevi soggiorni a Milano e a Roma dove, nel 1895 si incontra, insieme a Capuana, con Zola, maestro del Naturalismo francese.
Prosegue la produzione per il teatro: La Lupa è rappresentata a Torino nel 1896 ed un anno dopo scrive il dramma Dal tuo al mio, in cui rappresenta la lotta di classe nelle zolfatare da una propsettiva antisocialista.
Con l'andare degli anni si fa sempre più vivo in lui l'interesse per le vicende politiche: fedele alle sue idealità patriottiche e unitarie, si oppone al movimento separatista dei "Fasci siciliani" e nel 1896 si fa sostenitore della necessità, per l'Italia, di una rivincita africana e di una più incisiva politica coloniale. Nel 1911 accoglie con entusiasmo la decisione della campagna libica e nel 1912 aderisce al partito nazionalista.
Nel 1911 riprende a lavorare alla Duchessa di Leyra, ma scrive un solo capitolo che sarà pubblicato postumo.
Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, in un clima letterario che continua a preferire autori del post–verismo, le opere di Verga perdono interesse, ma dopo la guerra, in seguito al saggio "Giovanni Verga" di Luigi Russo (1919), il riconoscimento dei suoi meriti si fa sempre più largo e unanime e l'arte verghiana comincia ad essere apprezzata in quello che ha di più originale e di più vivo.
Nel 1920 è solennemente festeggiato a Roma e a Catania in occasione del suo ottantesimo compleanno: le onoranze hanno il loro coronamento nella nomina a senatore il 3 ottobre.
Proprio quando comincia un momento più faverole per la sua fortuna di scrittore, muore a Catania il 27 gennaio 1922, colto da una paralisi cerebrale.

II CAPITOLO
L’IDEOLOGIA VERGHIANA E SUA CONCEZIONE DELLA VITA
Un cupo pessimismo è alla base della visione verghiana della vita. Vivere è patire: questa, nell’essenza, l’elementare filosofia del Verga e non è azzardato collegarla al fatalismo dell’anima siciliana. In più tratti, codesta filosofia somiglierebbe a quella di certi asceti medievali pervasi dal doloroso spirito dell’ Ecclesiaste, se non rifiutasse le prospettive del Divino e la fede consolatrice nella Provvidenza. L’infelicità che il Verga coglie nella vicenda umana ha oscure radici ontologiche: no deriva dalle ingiustizie della vita civile o da particolari errori della storia, ma dalla condizione stessa dell’esistere, ed è per questo che stringe nelle sue spire inesorabili tutti gli uomini e tutte le classi sociali. Per Verga non ha senso distinguere, come ha fatto il Manzoni, fra vincitori e vinti in conseguenza dell’accettazione o del rifiuto del messaggio salvifico di Cristo: per lui, che non spinge lo sguardo al di là dei confini terreni, tutti gli uomini sono dei vinti ed ogni loro passione è viatico a tragedie senza catarsi. Non ha senso neppure il titanismo di cui Leopardi ed altri romantici europei coloravano la loro rivolta al destino: per lui il solo atteggiamento possibile a lume di logica è quello della muta rassegnazione, perché il ribelle alle immutabili leggi del fato ripete l’errore di chi, caduto nelle sabbie mobili, si agita per uscirne e più presto vi affonda. Di fronte al progresso, che pur riconosce nello svolgimento del mondo, il Verga non attenua il proprio pessimismo, giacché considera le lacrime e il sangue di cui gronda ogni passo in avanti della storia. Il suo occhio non si incanta alle conquiste della scienza e della tecnica, ma si svolge desolato a compassionare le vittime di cui parla nella prefazione ai Malavoglia: “ i deboli che restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, i vinti che levano le braccia disperatamente e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvenenti.”
Un così duro fatalismo porta il Nostro in uno spazio ideologico ben lontano dalla concezione positivistica, che è aperta, al contrario, all’ottimistica fiducia nelle sorti umane e lo estrania da ogni interesse per le proposte politiche di tipo progressista.
Inoltre, sulla base di scritti e di pubbliche dichiarazioni dell’ultimo Verga, più di uno ha creduto di poter attribuire il conservatorismo politico dello scrittore al proposito di difendere dalla minaccia proletaria la propria condizione di proprietario terriero. Vi si associa infatti un rifiuto esplicito e polemico per le ideologia progressiste contemporanee, democratiche e socialiste, che egli giudica fantasie infantili o interessati inganni e causa di pericolosi rivolgimenti sociali. Però questo pessimismo non implica affatto un’accettazione acritica della realtà esistente, anzi, esso gli consente di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà: nelle pagine verghiate la disumanità della lotta per la vita, lo sfrenarsi delle ambizioni e degli interessi, il trionfo dell’utile e della forza, lo scatenarsi degli antagonismi tra ceti sociali e individui, la brutalità dell’oppressione sui più indifesi, la sofferenza e la degradazione umana che essa provoca, sono messi in luce con implacabile precisione. Anche se non dà giudizi correttivi, Verga rappresenta con grande acutezza l’oggettività delle cose, che parlano da sé eloquentemente.
Proprio tale pessimismo gli assicura l’immunità da quei miti che trionfano in tanta letteratura contemporanea e la trasformano in mediocre veicolo di grossolana mitologia: innanzitutto il mito del progresso, centrale nella cultura e nella mentalità diffusa del tempo, poi il mito del popolo, sia nella sua versione progressista e umanitaria, sia in quella romantico-reazionaria e nostalgica. Anche se le sue opere veriste hanno per gran parte al centro la vita del popolo, non si riscontra in esse quell’atteggiamento populistico che affligge tanta letteratura del secondo ‘800, che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli umili, nella fiducia in un miglioramento delle condizioni dei diseredati garantito dalla buona volontà e che si traduce in una rappresentazione patetica e lacrimevole.
Tuttavia, il duro pessimismo , la visione arida e desolata, abbandonano l’autore al patetismo umanitario, anzi, la scelta di “regredire” nell’ottica popolare, di raccontare proprio dal punto di cista della lotta per la vita, che nega sistematicamente ogni valore di umanità e di altruismo, costituisce la dissacrazione più impietosa di ogni mito populistico progressivo. Ma in lui non è presente neppure il populismo di tipo romantico reazionario, proteso nostalgicamente verso forme passate della vita. Pur sottolineando la negatività del progresso moderno, non contrappone ad essa il mito della campagna, concepita come un Eden di incorrotta autenticità, di una sanità ed innocenza di vita ormai perdute. Il pessimismo lo induce a vedere che anche il mondo primitivo della campagna è retto dalle stesse leggi del mondo moderno, l’interesse economico, l’egoismo, la ricerca dell’utile, la forza e la sopraffazione, che pongono gli uomini in costante conflitto fra loro. Verga non è scrittore che offra facili evasioni o immagini consolatorie, ma è uno scrittore scomodo, aspro, sgradevole, che urta il lettore e stimola così la riflessione critica. Non diffonde miti, semmai li distrugge.
III CAPITOLO
VERGA E IL ROMANZO: DAL ROMANZO PATRIOTTICO AL ROMANZO D’AMORE
La formazione giovanile di Verga è provinciale e attardata, ancora tutta interna al clima romantico. Per esempio, il suo primo romanzo pubblicato, I carbonari della montagna (1861-2) è proposto come un “romanzo storico”, quando la stagione di questo tipo di romanzi era già tramontata da vent’anni e la narrativa si stava ormai orientando verso il romanzo di storia contemporanea o il romanzo-confessione. Inoltre è tutto romanico il binomio amore e patria che caratterizza la prima produzione catanese, sino a Sulle lagune. Anche quest’ultimo romanzo, infatti, ambienta la storia d’amore veneziana fra un ufficiale ungherese e una ragazza veneziana sullo sfondo delle guerre di indipendenza e delle imprese garibaldine. Il protagonista rappresenta bandelle nazionalità oppresse dall’Austria e simpatizza perciò con i patrioti italiani. Nel libro, oltre alla solita influenza di Dumas e di Guerrazzi, è evidente anche la lezione foscoliana delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis.
Nella produzione catanese si avverte nondimeno una chiara linea di sviluppo. Mentre nei primi due romanzi l’elemento patriottico è determinante, in Sulle lagune esso costituisce lo sfondo della storia dell’amore più che il suo vero nucleo narrativo. Infine, nel romanzo successivo, Una peccatrice, l’aspetto storico-patriottico è lasciato cadere e il romanzo s’impernia tutto su una storia d’amore passionale: quella fra il giovane artista Pietro Brusio e una bellissima nobildonna Narcisa Valderi. Desiderio di gloria artistica e volontà di conquista della donna portano il giovane al successo come commediografo e allora la donna, che prima lo aveva ignorato, si innamora di lui. A questo punto, però, le convenzioni sociali finiscono per trionfare: il giovane si stanca dell’amore-passione e Narcisa, disperata, si lascia morire. In qualche modo, attraverso lei, l’amore romantico trionfa ancora: l’ideale non si arrende alla realtà e preferisce la morte. Siamo ancora in pieno Romanticismo.
Quanto alle soluzioni formali, l’impianto del racconto è ancora elementare, fondato sulla schematica contrapposizione fra buoni e cattivi nei romanzi patriottici e sul semplice rovesciamento della situazione nel rapporto fra uomo e donna in Una peccatrice. L’autore si atteggia a scrittore raffinato ma usa le tecniche narrative, il linguaggio approssimativo e la scrittura enfatica ed esclamativa del feuilleton e del romanzo d’appendice.
I ROMANZI FIORENTINI : LA FASE TARDOROMANTICA E SCAPIGLIATA
Il passaggio dalla preistoria alla storia dell’arte verghiana avviene con il primo romanzo fiorentino, Storia di una capinera. Esso risente di un ambiente in cui grande autorità aveva lo scrittore romantico Francesco Dall’Ongaro e in cui Caterina Percoto, con i suoi racconti campagnoli di tendenza filantropico-sociale costituiva un punto di riferimento obbligato. E in effetti anche il romanzo verghiano sembra ispirarsi ad una letteratura di tipo filantropico volta, in questo caso, a documentare un’ingiustizia sociale: la monacazione coatta di cui erano vittime le ragazze povere. Tuttavia il romanzo non si esaurisce affatto in una denuncia sociale. Anzi esso vuole essere soprattutto una “storia intima”, lo studio di una vicenda interiore ed esistenziale. Vi si narra di una educanda, Maria, orfana di madre, vissuta sempre in un collegio di monache. Prima di prendere voti, in occasione di un’epidemia di colera, ella trascorse qualche mese in campagna nella casa del padre e della matrigna, e dunque ha la possibilità, per la prima volta, di conoscere il mondo. Può quindi frequentare un giovane, Nino, e innamorarsene. Ma la legge economica è più forte dei suoi sentimenti. Non avendo la dote, deve tornare in convento e prendere definitivamente il velo. Non riesce tuttavia a rinunciare all’amore e a dimenticare il giovane di cui è innamorata. Nel frattempo, però, Nino, ha sposato la sorellastra, che, a differenza di Maria, è provvista di una ricca dote. Per la passione d’amore, Maria s’ammala e sfiora la follia, sino a morire.
Il romanzo presenta i seguenti punti di interesse:
1) per la prima volta Verga compie una scelta antiretorica e si sforza di assumere il punto di vista di un personaggio semplice e il suo linguaggio ingenuo ed elementare:la scelta del romanzo epistolare (le lettre sono scritte da Maria ad un’amica e riflettono la sua prospettiva culturale e linguistica) va appunto in tal senso;
2) come soluzione linguistica viene adottato il fiorentino, secondo i dettami del manzonismo allora dominante: e se a volte il linguaggio risulta lezioso, troppo aggraziato e artificioso, esso appare però meno enfatico di quello dei precedenti romanzi;
3) nell’opera compare il tema dell’orfano e dell’escluso, che poi tornerà in Nedda, Rosso Malpelo e nei Malavoglia;
4) il motivo della esclusione sociale e della vittima si congiunge a quello economico: a prevalere, come poi nei romanzi veristi, è sempre la legge della roba e del denaro, mentre nei sentimenti risultano impotenti.
È importante notare, però, che il romanticismo di Verga è ancora ben vivo: anche qui la donna rappresenta l’ideale romantico dell’amore-passione come forza inarrestabile ed invincibile contrapposta alla società, non conosce la rinuncia e resta ai propri sentimenti sino a morire.
Elaborato in buona misura a Firenze, ma rivisto e completato a Milano, è il successivo romanzo Eva uscito a Treves nel 1873. è un romanzo di svolta, certamente il più interessante e riuscito prima dei Malavoglia. Esso risente fortemente dell’ambiente milanese, dell’impatto con la realtà sociale ed economica più avanzata del paese e con la cultura europea che vi circolava. In esso per la prima volta Verga persegue una poetica del vero ed assume atteggiamenti d’avanguardia letteraria: mostra, anzi, d’aver assimilato la lezione della Scapigliatura milanese, evidente, fra l’altro, anche nell’atteggiamento di protesta e di denuncia che emerge dalla prefazione e da diverse pagine dell’opera. Anzi,da questo punto di vista la prefaziona presenta come un vero e proprio manifesto di avanguardia.
Ecco la vicenda. Un giovane siciliano, Enrico Lanti, è andato a Firenze a cercare fortuna come artista e qui conosce una ballerina di varietà, Eva, e se ne innamora. Eva, ragazza sincera e matura, sa bene che il suo fascino è legato agli orpelli e alla seduzione del palcoscenico, agli artifici dello sfarzo e dello spettacolo teatrale e vorrebbe intrecciare con lui solo una storia breve e senza impegni. Ma Lanti crede ancora all’ideale romantico dell’amore eterno e la convince a lasciare il teatro e a vivere con lui in miseria in una soffitta. A poco a poco, i bisogni materiali della vita quotidiana sopraffanno l’amore, rivelando la vanità dell’idealismo romantico. Eva lascia Enrico, il quale raggiunge il successo artistico solo adeguandosi al gusto falso e volgare del pubblico. Quando egli incontra nuovamente Eva, vorrebbe indurla a riprendere la relazione d’amore, ma ella si rifiuta. Allora sfida ed uccide l’amante di lei. Poi, ammalato di tisi, torna a morire in Sicilia, dove l’attendono i genitori e la sorella. La sconfitta del protagonista è duplice: riguarda sia l’amore sia l’arte. Non solo infatti fallisce la sua storia d’amore con Eva, ma finisce frustrato anche il suo tentativo di restare fedele agli ideali artistici della giovinezza.
Il romanzo si fonda sull’intreccio di quattro temi:
1) lo studio del rapporto fra arte e modernità, fra sentimenti e artificio, fra valori romantici e trionfo dell’inautenticità prodotta dallo sviluppo economico e dalla alienante vita cittadina;
2) l’esame di coscienza - in larga misura autobiografico – dell’artista in crisi che , nella realtà moderna, vede ormai irrealizzabili gli ideali romantici e deve aderire ad un modo dove dominano solo gli interessi materiali;
3) la storia d’amore, che in questo quadro assume un chiaro valore simbolico, di un giovane romantico costretto a verificare il fallimento dei propri ideali e alla fine a tornare sconfitto e morente alla famiglia siciliana;
4) il contrasto fra modernità, rappresentata dalla metropoli e dalla prevalente “atmosfera di Banche e Imprese industriali”, e il mondo premoderno, rappresentato invece dal paese siciliano e dai valori della famiglia.
In Eva compare inoltre il tema della ballerina. Esso, come quello della prostituta e del saltimbanco, è un topos della letteratura e della pittura moderna, da Baudelaire agli impressionisti e da Degas a Picasso. L’arte si presenta infatti, nel mondo moderno, come artificio, esibizione pubblica, seduzione: la ballerina è, anch’essa, un’artista ma dipende completamente dai gusti e dal denaro del pubblico. Il suo destino è dunque analogo a quello dello scrittore e del pittore.
In Eva il romanticismo giovanile del Nostro appare ormai in crisi ma non ancora del tutto superato. Il mondo arcaico-rurale della Sicilia si presenta infatti come un’alternativa alla modernità: in esso i valori dell’idealismo romantico, i sentimenti, l’autenticità sembrano ancora possibili. Alla ballerina, che incarna la civiltà moderna e i compromessi a cui deve giungere l’artista per affermarvisi, si contrappongono la famiglia e la Sicilia. Per Verga si profila così una contraddizione: da un lato egli percepisce che il destino dell’artista può realizzarsi solo nella modernità, a contatto con i problemi suscitati dal progresso e dalla vita metropolitana, e avverte il mondo idealistico-romantico come un residuo del passato, un anacronismo; dall’altro rimpiange però la realtà autentica dei valori del passato, proiettandoli nella Sicilia rurale e premoderna.
IV CAPITOLO
L’APPRODO AL VERISMO
In realtà stava maturando in Verga una crisi. Dopo un silenzio di tre anni, nel 1878 esce un racconto che si discosta fortemente dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa anteriore, gli ambienti mondani, le passioni raffinate e artificiose, il soggettivismo esasperato: si tratta di Rosso Malpelo, la storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata on un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. È la prima opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità. Già nel 1874 Verga aveva pubblicato un bozzetto di ambiente siciliano e rusticano, Nedda, che descrive la vita di miseria di una bracciante; ma il racconto non può essere considerato un preannuncio della svolta: mutati gli ambienti, vi restavano identici i toni melodrammatici dei romanzi mondani, ancora sostanzialmente estranei all’impersonalità verista, on memoria, insieme ad un umanitarismo generico e sentimentale di fronte alle sofferenze degli umili. Questo cambio così vistoso di temi e di linguaggio è stato spesso interpretato come una vera e propria conversione. In realtà non esiste una frattura così netta tra i due momenti del narrare verghiano. Semplicemente egli possedeva strumenti ancora approssimativi ed inadatti, poco personali e inquinati da una convenzionale maniera romantica. L’approdo al verismo non è quindi una brusca ed improvvisa inversione di tendenza, ma il frutto di una chiarificazione progressiva di proposti già radicati, la conquista di strumenti concettuali e stilistici più maturi. Inoltre, con la conquista del metodo verista egli non abbandona affatto gli ambienti dell’alta società per quelli popolari, anzi si propone di tornare a studiarli proprio con quegli strumenti più incisivi di cui si è impadronito. Le “basse sfere” non sono che il punto di partenza del suo studio dei meccanismi della società, poiché in esse tali meccanismi sono meno complicati e possono essere individuati più facilmente. Poi lo scrittore intende applicare via via il suo metodo anche agli strati superiori, sino al mondo dell’aristocrazia, della politica e dell’alta intellettualità.
Certamente sull’adozione dei nuovi moduli narrativi esercitò un influsso determinante la lettura di Zola. In particolare dovette suscitare molta impressione su Verga l’Assommoir, per la sua ricostruzione di ambienti e psicologie popolari, rappresentati al di fuori di ogni idealizzazione di maniera e di ogni pietismo sentimentale. L’Assommoir fornì a Verga solo uno spunto iniziale, che egli poi sviluppò in direzione molto diversa, per certi aspetti opposta.
La nuova impostazione narrativa inaugurata con Rosso Malpelo è continuata dall’autore in una serie si altri racconti, pubblicati su varie riviste tra il ’79 e l’ ’80 e raccolti nel 1880 nel volume Vita dei campi: Cavalleria rusticana, La lupa, Fantasticheria, Guerra dei Santi. Anche in questi racconti spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità, ossia l’ “eclissi” dell’autore e la regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare. In queste novelle si trova ancora traccia di un atteggiamento romantico, di un idoleggiamento nostalgico di quell’ambiente arcaico, come di una sorta di paradiso perduto di autenticità e innocenza.
V CAPITOLO
VERGA: TRA IL REALISMO ROMANTICO E IL NATURALISMO ZOLIANO
Risulta evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola, che è pure un punto di riferimento per gli scrittori italiani della nuova scuola. Nei romanzi di quest’ultimo non esiste nulla di simile all’originalissima tecnica verghiana della “regressione” nel punto di vista del mondo popolare rappresentato. La “voce” che racconta nei Rouyon-Macquart riproduce sempre il modi di vedere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia. E questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata sia impliciti, che espliciti. Si prenda ad esempio il secondo capitolo di Germinal, in cui viene rappresentata la scena in cui figli di un minatore fanno toeletta prima di recarsi al lavoro, ragazzi e ragazze insieme, in totale promiscuità. È evidente che qui l’autore, sottolineando la mancanza di pudore dei giovani e dà un giudizio da un suo punto di vista, secondo il suo codice morale borghese, sul comportamento di quell’ambiente proletario, che ha un codice tutto diverso. Tra il narratore ed i personaggi vi è un distacco diretto ed il primo lo fa sentire esplicitamente. Questo
Nel Verga verista non avviene mai: in un caso del genere egli avrebbe raccontato la scena dal punto di vista dei minatori stessi, cioè non avrebbe affatto sottolineato la mancanza di vergogna, perché la voce narrante interna a quel mondo e partecipe della sua visione, non l’avrebbe minimamente percepita.
Vi è inoltre una netta distinzione fra il piano del narratore e quello dei personaggi: il gergo è impiegato solo se e dove sono i personaggi popolari ad esprimersi, con il discorso diretto o l’indiretto libero. Le zone dove è il narratore a parlare presentano al contrario un linguaggio letterario e colto, da cui spesso traspare il giudizio del narratore sulla degradazione di quell’ambiente. L’impersonalità zoliana è quindi profondamente diversa da quella di Verga: per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello “scienziato” che si allontana dall’oggetto, per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga invece significa immergersi, eclissarsi nell’oggetto.
Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e di due ideologia radicalmente diverse. Zola interviene a commentare e a giudicare, dall’alto del suo punto di vista “scientifico”, perché crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme. Dietro la regressione di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo incidere su di essa, e che quindi lo scrittore non abbia “il diritto di giudicare” e debba limitarsi alla riproduzione oggettiva del dato.
Restano ancora da individuare le radici sociali di posizioni ideologiche e letterarie così diverse dei due scrittori, di solito collocati in un comune clima culturale.
Zola ha fiducia nelle possibilità della letteratura di incidere sul reale perché è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, una società già pienamente sviluppata dal punto di vista industriale. Di conseguenza lo scrittore progressista, in un simile ambiente,si sente il portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di potersi rivolgere ad un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire ad esso.
Il rifiuto verghiano dell’impegno politico della scrittura, l’affermazione della pura letterarietà dell’opera e la scelta dell’impersonalità come carattere fondamentale della nuova arte realista rimandano invece ad una situazione economica, sociale e culturale ben diversa da quella francese. Verga è il tipico “galantuomo” del sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato ed immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida. Tale fatalismo poteva trovare conferma nella realtà attuale dell’Italia, in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, lungi dal modificare le condizioni subumane delle masse popolari, non faceva che ribadirne l’esclusione e l’oppressione e rendere ancor più dura la loro vita. Lo scrittore poteva facilmente concludere che nulla era mutato realmente, dietro la facciata delle intense trasformazioni e ricavare la convinzione che nulla mai può mutare in assoluto nella storia degli uomini, che la legge della sopraffazione è un dato universale e necessario e che, quindi, la letteratura può solo portare a conoscere la realtà, non a modificarla. Ed è inevitabile che anche gli influssi positivistici assorbiti dal clima culturale europeo, agendo in un simile terreno, non spingessero ad un’interpretazione ottimistica e progressiva della realtà, come era nel loro carattere originario, ma anzi col ferreo determinismo fornissero semmai una giustificazione filosofica alla convinzione che la realtà sociale è un prodotto semmai naturale e come tale non potrà mai essere modificata.
LA RIVOLUZIONE STILISTICA E TEMATICA DEL VERGA
I due più grandi scrittori dell’ ‘800 sono Manzoni e Verga vissuto l’uno nell’età romantica, l’altro negli anni della delusione successiva all’unità d’Italia. Senza Manzoni, non ci sarebbe stato il romanzo in Italia, ma senza Verga non si sarebbe sviluppato nel nostro paese il romanzo moderno. Manzoni ricorre ancora al narratore onnisciente, che guida dall’alto la narrazione e consoce passato, presente e futuro dei suoi personaggi. Il Verga dei grandi romanzi veristi rinuncia alla prospettiva onnisciente: il punto di vista narrativo, rigorosamente dal basso, coincide con quello dei personaggi. È questa la rivoluzione stilistica di Verga: per la prima volta nella storia del romanzo italiano si abbandona un atteggiamento di dominio ideologico e di giudizio dall’alto con la seguente caduta delle tradizionali gerarchie narrative. L’ impersonalità verghiana comporta infatti una radicale rinuncia: l’autore non manifesta più direttamente i propri sentimenti e le proprie ideologie; assume invece l’ottica narrativa, l’orizzonte culturale, il linguaggio dei suoi stessi personaggi. Nello stesso tempo per la prima volta il popolo non è visto con distacco né giudicato da una prospettiva moralistica e populistica, ma diventa protagonista determinando la prospettiva stessa del racconto. Un mondo nuovo, di particolari umili e concreti, il mondo della vita materiale e dell’esistenza quotidiana delle masse contadine, entra di prepotenza nella l,letteratura italiana. È questa la rivoluzione tematica di Verga.
Con lui comincia lo strano ma non certo casuale destino dei maggiori narratori italiani dell’età moderna e contemporanea.
Le coraggiose scelte narrative di Verga verista nascono da una crisi storica. È uno degli ultimi rappresentanti della generazione romantico-risorgimentale e ne vive drammaticamente le contraddizioni. Il protagonismo culturale e ideologico degli intellettuali, tipico dell’età romantica, e ancora percepibile nelle prime opere verghiate, si rivela impossibile nella nuova Italia dominata dall’interesse economico e dal potere delle banche e delle imprese industriali. Occorre rinunciarvi e limitarsi ad un compito di documentazione scientifica: se talora una denuncia è ancora percepibile, essa tuttavia deve restare del tutto implicita. Di qui l’adesione al Verismo e l’impersonalità. Quest’ultima non è solo un espediente stilistico ma il risultato di tale crisi storica e di tale rinuncia.
Se nei Malavoglia un filo di simbolismo romantico convive con il pessimismo materialistico dell’autore, in Mastro Don Gesualdo siamo in presenza di un’ottica integralmente critico-negativa, di un realismo duro e corrosivo, che non concede spazi di speranza. Verga d’altronde aderisce al Positivismo in modo originale: ne valorizza al massimo gli elementi materialistici e deterministici e ne rifiuta gli aspetti fiduciosi e ottimistici.
VI CAPITOLO
REALTA’ SOCIALE E PESSIMISMO NEL VERGA (critica di G. Trombatore)
Spunti e motivi sociali nelle opere del Verga sono stati sempre un po’ avvertiti dai critici. Lo stesso autore riconosceva, consapevole, il significato sociale di esse, evidente nella prefazione di Dal tuo al mio. Esso non derivava, secondo lui, dalle sue personali opinioni o intenzioni, ma scaturiva spontaneamente dalla rappresentazione schietta e oggettiva della vita qual è.
Innanzitutto un’opera d’arte riflette sempre un tipo di vita umana socialmente organizzata. Ma gli aspetti e le forme di codesto organismo, un artista può desumerli e accettarli passivamente, come puri dati di natura, dedicandosi invece esclusivamente a dipingere la vita che per entro si svolge. Ma la socialità dell’arte comincia solo quando l’artista si propone consapevolmente la rappresentazione di qualche problema sociale. In questo senso si è potuto dire che gran parte della letteratura narrativa dell’ ‘800, soprattutto in Francia, fu letteratura sociale. I temi più comunemente trattati erano quelli della donna, dell’amore, del matrimonio nell’ordinamento sociale della borghesia; in secondo luogo venivano affrontati i problemi della famiglia, della religione, della patria, ma ancor più di rado era il problema delle istituzioni politiche.
Volendo circoscrivere rigorosamente il campo dell’arte sociale, bisognerebbe intendere per tale non già quella che rappresenta le istituzioni, i costumi, i sentimenti di un’unica classe sociale, ma quella che assume gli attriti, i conflitti, gli urti, la difficile convivenza delle classi sociali fra loro.
La conversione del Verga fu senza dubbio il fenomeno letterario più notevole del nostro secondo ‘800. Nessuno degli scrittori a lui contemporanei ebbe un concetto così severo dell’arte. Infatti quest’ultima è per lui un fatto della coscienza, prima ancora che del sentimento e della fantasia,. Con la società in cui viveva e che aveva preso a dipingere nei suoi romanzi, egli non era mai stato in relazioni pacifiche, ma, al contrario, quando ad un certo punto si accorse che la sua polemica, per quanto sincera e generosa, non aveva presa nella vita reale, ebbe acuto e pungente il senso che quel mondo di lusso o di scapigliatura era un aspetto effimero e falsato della vita e che la vita reale bisognava cercarla altrove. Fu questo il disagio morale che lo condusse alla conversione, la quale non si sarebbe attuata e sarebbe rimasta nel suo stato vago e generico di crisi se tre elementi non fossero concorsi a determinarla: un elemento filosofico (la teoria dell’evoluzione), un elemento politico-sociale ( le inchieste e i dibattiti sulla questione meridionale) ed un elemento letterario ( la teoria e gli esempi del naturalismo francese). Tutti insieme lo spingevano verso una stessa direzione, tutti insieme cooperavano alla sua nuova visione del mondo, giacché dall’evoluzionismo egli non trasse l’elemento ottimistico, cioè la glorificazione del progresso umano, ma solo il senso drammatico della lotta.
Nacque così il suo verismo, e fin dalla sua prima manifestazione il bozzetto Nedda si impostò saldamente la sua nuova visione, il suo nuovo giudizio sul mondo e sulla vita. Fu un ripudio aperto e radiale della vita elegante e salottiera e fu una condanna morale dal cui quel mondo fittizio non potè mai più riaversi nell’animo di Verga. La rivoluzione letteraria da lui promossa consistette nell’insurrezione degli umili, nel diritto di cittadinanza accordato nell’arte ai poveri diavoli, ai cosiddetti bruti, di cui si svelavano ora le pene, le angosce, il cuore dolorante. Quest’ultimi si accontentavano solo di vivere, godevano le loro gioie effimere e fugaci, pativano le loro durevoli sofferenze. Ne è esempio I Malavoglia, in cui vi è la rappresentazione diretta delle ineguaglianze sociali, vengono descritti i rancori, le pene, le miserie, le speranze, le lacrime di un intero villaggio di pescatori. Sono tutti povera gente sempre pericolante sull’orlo della sventura e della fame. È la visione di un mondo triste e desolato, in cui gli uomini si dibattono vanamente, condannati, come sembrano, senza speranza di redenzione. Sembra un mondo piccolo e rinchiuso in se stesso, eppure la sua tragedia è nella relazione implicita, in cui è posto, con un mondo grande che occulto sovrasta: il mondo delle sfere sociali più alte, delle leggi e dello stato. Mutati i costumi e mutate le situazioni, la gente dei Malavoglia è la stessa nelle altre opere dell’autore. Una misera umanità di diseredati e di afflitti, di umiliati e di offesi, senza aurora di riscatto. Se qualcuno riesce ad impadronirsi del gioco delle leggi economiche e a salire al rango dei dominatori, anche quella è vittoria effimera, che si risolve in una più tragica sconfitta.
In ogni modo, se risaliamo all’origine dell’arte veristica del Nostro, ci imbattiamo in una contraddizione interna. Coloro che, ignari delle opinioni personali dello scrittore, o pensavano o sospettavano che egli fosse un simpatizzante del socialismo, non avevano in fondo tutti i torti. È innegabile che, nel suo significato umano, quest’arte si risolva in una difesa di derelitti ed in un atto di accusa contro le cause di tanta miseria. Si pensi ad esempio alla satira della giustizia, che è uno dei motivi più ricorrenti; di quell’ingiustizia in cui il Verga non vede l’applicazione di una legge di equità universale, ma un misero ed ottuso meccanismo, organizzato spesso a difesa degli interessi della classe dominante. Da uno scrittore così ricco di offesa pietà per gli umili e per gli oppressi, così animato da rancore per i prepotenti, da disprezzo per il mondo fittizio degli uomini e delle donne di lusso, ci si aspetterebbe un approfondimento delle sue preferenze sentimentali e delle sue convinzioni morali, una loro chiarificazione e certificazione. Ma questo non avvenne, per il particolar aspetto della propaganda socialista di quei tempi, i suoi più accesi miti polemici, l’esaltazione della lotta di classe, tutte cose che ferivano il suo animo ma che lo allontanavano inesorabilmente dal socialismo come movimento di idee.
VII CAPITOLO
STORIA E SOCIETA’ IN ITALIA DOPO L’UNITA’: UN DECOLLO DIFFICILE
Da un punto di vista politico, il periodo considerato (dal 1849 in Europa e dal 1861 in Italia sino al 1903) si può suddividere in due fasi: la prima va sino al 1871, quando si conclude la guerra franco-prussiana, ed è caratterizzata da una situazione d’instabilità e dai frequenti conflitti militari fra le potenze europee; la seconda, che si apre con il trattato di pace fra Prussia e Francia del 1871, è invece contrassegnata da stabilità e da assenza di conflitti europei e durerà sino alla guerra mondiale del 1914.
I fattori di instabilità sono dovuti sia alle tendenze verso l’indipendenza nazionale che indeboliscono gli imperi multinazionali sia alla politica di grande potenza della Prussia di Bismark e, seppur in minore misura, della Francia di Napoleone III. Si susseguono così varie guerre, fra cui quella del 1859 che vede alleati Piemonte e Francia contro l’Austria e quella del 1866 fra Prussia e Austria, nella quale l’Italia scende in campo accanto alla prima potenza. Infine la guerra franco-prussiana del 1870 si conclude con la vittoria prussiana e la proclamazione dell’Impero tedesco, mentre Napoleone III è costretto ad abdicare e in Francia viene ripristinata una repubblica di tipo liberale.
In politica interna il periodo della grande depressione e della nascita dell’imperialismo economico coincide in tutta Europa con il rafforzamento delle tendenze autoritarie e conservatrici. Il nuovo protagonismo delle masse e lo spauracchio della rivoluzione socialista, divenuto attuale in Europa dopo la Comune parigina del 1871, inducono i gruppi dominanti a risposta antidemocratiche e spesso illiberali. Solo alla fine del secolo o all’inizio del nuovo, negli anni della seconda rivoluzione industriale, si assiste ad un’inversione di tendenza in Francia, Inghilterra, Italia e negli USA.
Fra il 1862 e il 1890 il fattore dinamico della politica europea e la Germania, che costituisce per gli altri paesi un esempio da imitare sia nella politica estera che nella politica interna. Si parla, infatti, per l’Europa di questi anni di “età bismarckiana”. La Germania offre al mondo un modello scientifico militare di organizzazione razionale, che sembra il più consono un modello al pensiero positivista allora dominante.
In Francia la nuova costituzione repubblicana venne varata nel 1875; ma essa non valse a dare stabilità politica alla nazione, che oscillò a lungo fra tentazioni presidenzialistiche e contraccolpi parlamentaristici o assemblearistici. Non mancarono tentativi di colpo di stato della Destra mentre il ceto militare e le destre montarono il caso Dreyfus per colpire i settori ebraici e progressisti dell’amministrazione statale.
Le tendenze conservatrici tipiche della politica imperialistica non operarono solo in Germania e in Francia. Anche in Inghilterra andarono al potere le forze conservatrici, mantenendolo per vent’anni. Parallelamente anche in Russia l’età delle riforme si chiuse con l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881.
Pure in Italia prevale una linea conservatrice, fino alla fine del secolo, e talora duramente repressiva: per una reale svolta liberale e democratica occorrerà attendere il governo di Giolitti del 1903.
La crisi economica degli anni Settanta favorisce un cambio dei gruppi dirigenti: nel 1876 la Sinistra di Depretis sostituisce la Destra alla direzione del paese. Quest’ultimo andò al governo con un programma tendente ad allargare le basi di consenso dello stato ed a proteggere l’economia nazionale. Nel 1882 una riforma elettorale allargò la base del suffragio, continuando ad escludere, tuttavia, non solo le donne, ma anche gli analfabeti privi di un reddito minimo, stabilito per legge. Depretis abolì l’odiosa tassa sul macinato; riorganizzò e potenziò il sistema educativo tramite la legge Coppino; continuò la politica laica, fondata sulla divisione tra stato e chiesa, inaugurata dalla Destra con la legge delle guarentigie del 1871.
Sul piano internazionale l’Italia si lega nel 1882 alla Germania ed all’Impero asburgico nella Triplice Alleanza, che resterà in vigore sino alla vigilia della prima guerra mondiale. Contemporaneamente dà inizio ad un’espansione coloniale in Africa che porta ad un conflitto con l’impero etiopico.
Alla morte di Depretis va al governo Francesco Crispi. Pur provenendo dalle file del mazzinianesimo, egli inaugura una politica autoritaria di stampo bismarckiano ed imperialista. Rafforza i poteri dell’esecutivo e dell’esercito; rilancia l’avventura coloniale, costituendo in Africa orientale la colonia dell’Eritrea, ma subendo cinque anni dopo una grave sconfitta.
La politica di Crispi accentua il conflitto sociale all’interno. Lo sviluppo dell’industria fornisce una base di massa alle rivendicazioni dei radicali, guidati da Felice Cavallotti, e soprattutto all’iniziativa dei socialisti, che si uniscono in partito nel 1892. le lotte dei Fasci siciliani, d’ispirazione socialista, sono duramente represse: Crispi scioglie d’autorità sia i Fasci sia lo stesso partito socialista nel 1894. la sconfitta di Adua lo indusse a lasciare il potere nel 1896-98 nelle mani del marchese di Rudinì, che fu presidente del consiglio continuandone la politica autoritaria, illiberale e repressiva, volta allo scioglimento delle organizzazioni socialistiche e cattoliche. Sotto il suo governo il generale Bava Beccaris aprì il fuoco con i cannoni contro la folla milanese insorta per l’aumento del costo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti.
Il suo successore, Pelleoux, tentò una sorta di colpo di stato con il “decreto del 22 giugno” che limitava pesantemente i diritti di associazione, di stampa e di manifestazione. Ma di fronte alla dura lotta delle opposizioni parlamentari il governo dovette cedere e ritirare il decreto liberticida, sciogliendo nel contempo le Camere e proclamando nuove elezioni. Queste videro l’affermazione del partito socialista, in cui si rafforzava l’ala moderata e riformista di Turati. Dopo un periodo di incertezze e di episodi anche sanguinosi la situazione cominciò a evolversi in senso liberaldemocratico. Le forze politiche di tipo liberale si coagularono intorno ad un nuovo leader, Giovanni Giolitti, che era già stato brevemente al governo durante l’età cristiana. Quando divenne presidente del consiglio, si aprì una nuova fase, in cui il governo assumeva un atteggiamento di neutralità di fronte alle lotte sindacali ed economiche ed incoraggiava il dialogo fra la borghesia e le espressioni politiche del riformismo operai. Nasceva finalmente, anche in Italia, la moderna democrazia.
VIII CAPITOLO
I MALAVOGLIA
GENESI SOCIALE DEL ROMANZO: FONTI ETNOLOGICHE E SOCIOLOGICHE
In una lettera a Capuana nel 1879 Verga sostiene una tesi interessante: la verità della rappresentazione si raggiunge non copiando dal vero la realtà ma facendone una “ricostruzione intellettuale” e sostituendo la “nostra gente agli occhi”. Per questo è meglio rappresentare il mondo siciliano ad una certa distanza, cioè da Milano in modo da esprimere meglio la differenza tra l’attività frenetica di una grande città e il fresco e sereno raccoglimento della campagna siciliana. Verga afferma qui un metodo di ricerca e, insieme, un atteggiamento esistenziale e psicologico: da un lato egli si propone non di copiare dal vero la vita di Aci Trezza, ma di ricostruire intellettualmente, cioè scientificamente, un paese siciliano tipico servendosi dei documenti sociologici ed etnologici del suo tempo; dall’altro vuole esprimere una ideologia ed un sentimento che la distanza geografica rende più chiari e vivi: l’ideologia di una serena realtà arcaico-rurale contrapposta alle passioni turbinose ed incessanti delle grandi città ed il sentimento di nostalgia per esserne lontano e separato. Si mescolano, insomma, sia esigenze di distacco scientifico e di “ricostruzione in laboratorio” di un fenomeno sociale, sia istanze ideologiche che si rifanno all’anticapitalismo romantico e alle teorie di Franchetti e di Sonnino, sia, infine, motivazioni esistenziali che comportano un movimento di rimpianto e di nostalgia per una terra già minacciata dal progresso ma ancora collocata ai suoi margini. Di qui le due componenti fondamentali del romanzo: quella documentaria, sociologica, etnologica, che nasce direttamente dalla poetica del Verismo, e quella lirica e simbolica che rivela ancora le presenza in Verga di un elemento soggettivo e romantico, cioè di un idoleggiamento della realtà popolare siciliana. Proprio perché, alla base dei Malavoglia, c’è anche un progetto sociologico, ideologico e politico, egli aveva pensato in un primo tempo di pubblicare il romanzo sulla rivista di Franchetti e Sonnino, “Rassegna Settimanale”. Anche se poi vi rinunciò, non è certo casuale che proprio sulle colonne di questa rivista sia uscita bandelle poche recensioni positive che abbia avuto il romanzo: in essa I Malavoglia vengono definiti uno “studio sociale” ed avvicinati, per gli argomenti e per le tesi impiegate, ai lavori di Franchetti e Sonnino.
In effetti, per realizzare il suo progetto, Verga si avvale soprattutto dell’Inchiesta in Sicilia, da cui riprende una serie di temi ed una delle tesi di fondo su cui è costruito il romanzo. Riprende, per esempio, i temi della corruzione del ceto amministrativo locale, dei danni procurati alla popolazione dalla leva militare e da un sistema di tassazione che colpiva solo i poveri e soprattutto la tesi che l’usura è il cancro che distrugge l’economia siciliana impedendo lo sviluppo della piccola proprietà.
Con questi strumenti sociologici ed etnologici egli ricerca di ricostruire la realtà di un paese siciliano tipico, con le sue gerarchie e con le sue stratificazioni sociali, con i suoi riti ed i suoi costumi. Compiuta tale operazione, egli cala poi il paese così costruito in un paese reale. In altri termini Verga non muove dalla descrizione dal vero, ma dalla costruzione da lontano di un paese modello che poi identifica in Trezza. Il suo lavoro è, dunque, astratto e concreto: astratto, perchè il paese da lui ricostruito non corrisponde in realtà a nessun paese siciliano, anche se ha il paesaggio e la collocazione geografica di Trezza; concreto, in quanto il mondo ricostruito ha in sé gli effettivi caratteri sociali ed etnologici di un paese siciliano intorno al 1870.
IL TITOLO E LA COMPOSIZIONE
Nel settembre del 1875 Verga, in una lettera all’editore Treves, lo informa di stare lavorando ad un “bozzetto marinaresco” intitolato Padron ‘Ntoni. Probabilmente il successo di Nedda spingeva l’autore a riproporne le soluzioni stilistiche ed ideologiche in un altro racconto dd’argomento ancora siciliano ma , ora , marinaresco.
Quando però Verga, all’inizio del 1878, aderisce al Verismo, abbandona il modello del bozzetto, cioè del racconto campagnolo ispirato alla narrativa filantropico sociale cara a Caterina Percoto. In una lettera a Capuana del maggio 1878, egli dichiara di aver distrutto il bozzetto e di lavorare allo stesso tema in un modo radicalmente nuovo, con il progetto di un romanzo intitolato I Malavoglia. Il titolo è una ingiuria, cioè un soprannome scherzoso, sull’uso di quelli impiegati nel linguaggio popolare siciliano. Già nel titolo si compie dunque una scelta di poetica: con esso, infatti, si assume l’ottica culturale e linguistica dei personaggi che sono protagonisti del romanzo.
Verga lavora al romanzo dalla primavera dal 1878 al 1880, quando annuncia a Capuana di averlo terminato. In realtà continuerà a correggerlo anche nei mesi successivi, aggiungendo per esempio, a chiusura, le decisive pagine dell’addio di N’Toni, che furono inserite solo durante la revisione delle bozze. Il romanzo uscì dall’editore Treves di Milano nel febbraio del 1881.
IL PROGETTO LETTERARIO E LA POETICA
Le prese di posizione di Verga in campo teorico sono numerose. Ricordiamo le principali:
1) la lettera dedicatoria a Farina a premessa all’ Amante di Gramigna;
2) il racconto Fantasticheria che rappresenta un documento prezioso della genesi dei Malavoglia;
3) la prefazione ai Malavoglia;
4) le lettere a Capuana e ad altri amici e quelle all’editore.
Esse dimostrano la chiara coscienza dei problemi di poetica impliciti nell’adesione al Verismo e nel progetto, condiviso anche da Capuana, di fondare in Italia il romanzo moderno.
I punti essenziali del progetto letterario verghiano, quali emergono dai documenti sopra ricordati, sono:
• Occorre inventare una “forma inerente al soggetto”, cioè “rendere il colore locale anche nella forma letterale”.
• L’autore deve sparire calandosi in una voce narrante appartenente al mondo rappresentato: la narrazione stessa infatti deve avvenire attraverso la prospettiva dei personaggi, secondo il principio dell’impersonalità così come lo concepisce il Verga.
• Devono cadere gli artifici narrativi della tradizione manzoniana, come il narratore onnisciente, la “messa in scena” dei personaggi da parte del narratore, la descrizione dall’alto dei protagonisti e dei luoghi, il loro inquadramento nella griglia ideologica e nel sistema gerarchico di valori dell’autore: tutta la narrazione, infatti, deve essere condotta dal basso, raccogliendo o riferendo le voci dei protagonisti e della comunità arcaico rurale in cui essi vivono.
• Occorre perciò inventare nuovi artifici narrativi; per esempio, esclusa la presentazione al lettore dei personaggi, bisognerà inserire all’inizio della narrazione ampie scene corali in cui essi possano comparire direttamente in scena, in modo che il lettore sia posto nella condizione di poter imparare a riconoscerli da ciò che essi dicono, da ciò che fanno e da ciò che di loro dicono gli altri personaggi.
• Bisogna creare anche certe soluzioni linguistiche, capaci di esprimere la prospettiva popolaresca. Infatti, per rappresentare il mondo attraverso il punto di vista dei pescatori e dei contadini, occorre vedere la realtà attraverso i loro occhi, filtrarla, cioè, attraverso la loro immaginazione e la loro cultura.
• Ne conseguono il rifiuto di un “successo facile”, la rinuncia a offrire “i manicaretti che piacciono al pubblico” e le “solite frasi lisciate da cinquanta anni”: insomma è sul carattere radicale del rinnovamento formale che Verga gioca le sue carte.
IX CAPITOLO
CARATTERISTICHE DEL ROMANZO E SUE COMPONENTI
Il romanzo è formato da quindici capitoli. E' il primo romanzo del "Ciclo dei vinti" rimasto incompiuto, in cui lo scrittore manifesta la sua visione amara della vita.
I Malavoglia è un romanzo del tutto diverso dagli altri romanzi. Con esso Verga passa dal romanzo storico e passionale ad un racconto di semplice orditura, un cammino contrario a quello tenuto nella sua precedente vita letteraria. E’ presente una prefazione dell’autore nella quale viene esposto il fine ultimo dell’opera e viene presentato il ciclo, mai ultimato, dei “Vinti”. Il racconto viene definito “studio sincero e spassionato del come devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini del benessere”. Questo meccanismo, continua Verga, “è preso qui alle sue sorgenti nelle proporzioni più modeste” per essere osservato con maggiore precisione. Nei Malavoglia viene rappresentata solo lotta per i bisogni materiali, ma gli altri romanzi del ciclo avrebbero dovuto assumere via via toni più alti. I personaggi sono sempre “ vinti, che la corrente ha deposto sulla riva dopo averli travolti e annegati ”.
Questo capolavoro uscì nel 1881, postumo. Il pubblico fece “accoglienze freddine” forse perché l’arte di Verga consentiva poco ai piaceri della libera immaginazione.
Verga stesso voleva che nel romanzo “la mano dell’artista rimanesse assolutamente invisibile” e che il romanzo stesse in piedi “per ragion propria”.
Verga è uno scrittore sempre tormentato, porta spesso il suo lettore dentro un problema di teoria senza dare a quest’ultimo un modo per uscirne, non dà spiegazioni sul modo di ragionare che ha la società che lui descrive.
Nei Malavoglia nessun personaggio ha una storia individuale che lo distingue, ma un’unica vita sociale a cui ognuno si adegua tanto è vero che tutti sono posti sullo stesso piano: i famigliari Malavoglia come gli altri paesani.
Il romanzo testimonia come la miseria sia il fattore principale di tante rovine e il motivo per cui le famiglie si disgregano fino a dimenticarne gli effetti più sacri.
TRAMA
Il romanzo narra le disavventure di una famiglia umile di pescatori di Acitrezza (Catania) che cerca di migliorare le sue condizioni economiche. «I Malavoglia» raccontano la storia amara di una sconfitta nella quale si esprime il pessimismo radicale di Verga. Non c’è speranza di cambiamento per gli oppressi, soggetti ad una legge di natura, quella della vittoria del più forte e della selezione naturale, che essi non possono controllare. E questa condizione degli umili diventa emblematica di quella dell’intera umanità. L’unico valore positivo che si afferma nel mondo verghiano è quello della dignità umile ed eroica con cui l’uomo sopporta il proprio destino, rinunciando a inutili sibellioni.
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei "Malavoglia" non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, "Mastro-don Gesualdo", incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella "Duchessa de Leyra"; e ambizione nell'"Onorevole Scipioni", per arrivare all'"Uomo di lusso", il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell'argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest'immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I "Malavoglia", "Mastro-don Gesualdo", la "Duchessa de Leyra", l'"Onorevole Scipioni", l'"Uomo di lusso" sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all'artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio 1881.
Il centro di tutto è una barca da pesca: la tartana dei Malavoglia chiamata "Provvidenza". La "Provvidenza" è la barca più vecchia del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Era anche essa una persona nella famiglia esemplare dei Malavoglia, la più onesta e compatta del paese.
Intorno al gran tronco, il nonno Padron 'Ntoni, testa della casa, si stringono altre sette persone appartenenti a tre generazioni. Padron 'Ntoni e la Provvidenza sono i due poli di quel mondo domestico. Quando il maggiore dei nipoti, 'Ntoni, è tolto al lavoro per la leva di mare, il nonno tenta un affare, compra a credito una grossa partita di lupini, li carica sulla barca e li affida al figlio Bastianazzo perché li vada a vendere a Riposto. La barca di notte naufraga, Bastianazzo annega, i lupini sono perduti. La "Provvidenza" è gettata inutile sulla spiaggia. A Padron 'Ntoni rimane il debito dei lupini.
Dopo quella triplice sciagura, tutto sembra accanirsi contro i Toscano-Malavoglia: Luca, il secondo dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa; Maruzza, la nuora, muore nel colera del '67. Il debito dei lupini si mangia la casa, la cara «casa del nespolo» che era l'orgoglio, la ragione di vita del vecchio; e già il debito aveva impedito le nozze della nipote, la Mena, creatura di silenzio e sacrificio. Non è finita: un nuovo naufragio della "Provvidenza" rattoppata lascia Padron 'Ntoni inabile al lavoro. Il primogenito 'Ntoni, che da quando ha fatto servizio militare in continente non si rassegna alla miseria dei pescatori, si dà al contrabbando e finisce in galera dopo aver ferito un doganiere. Lia, la sorella minore, abbandona il paese e non torna più. Mena dovrà rinunciare a sposarsi con compare Alfio e rimarrà in casa ad accudire i figli di Alessi, il minore dei fratelli, che continuando a fare il pescatore, ricostruirà la famiglia e potrà ricomprare la «casa del nespolo» che era stata venduta.
Quando 'Ntoni, uscito di prigione, torna al paese, si rende conto di non poter restare perché si sente indegno del focolare domestico di cui ha profanato le leggi e la sacralità.
STRUTTURA NARRATIVA
Il romanzo può essere diviso in due macrosequenze principali:
1° macrosequenza
La situazione iniziale vede la stabilità della famiglia Malavoglia, poi c’è la rottura dell’equilibrio rappresentata dalla partenza di ‘Ntoni e dal fallimento dell’affare dei lupini, affrontano varie peripezie, portano tentativi di miglioramento che portano alla rovina economica e morale: dopo la morte di Bastianazzo fa ritorno a casa ‘Ntoni e le cose sembrano andare meglio, anche se parte Luca, infatti, si parla di far sposare Mena e Brasi Cipolla, ma – ecco il colpo di scena – si viene a conoscenza della morte del soldato e, come se non bastasse, la famiglia deve lasciare la casa del nespolo. Poi tutto si ristabilizza, subito dopo però succede una sciagura in mare: il vecchio resta ferito, ma fortunatamente si riprende in fretta. C’è un altro periodo fortunato, ma viene interrotto dalla morte di Maruzza e dalla decisione del figlio maggiore di partire per la città.
2° macrosequenza
Nella seconda macrosequenza un momento di tensione è la vendita della Provvidenza, che per quella famiglia aveva rappresentato un punto di riferimento, così tutto pare non funzionare, e la situazione si consolida quando per guadagnare un po’ di soldi, nonno e nipote devono lavorare “a giornata”, ma ecco che ritorna ‘Ntoni, più povero di prima e con una visione più completa del mondo che lo circonda.
Di nuovo il tutto si stabilizza, anche se negativamente, ma capita che una notte don Michele, in cerca dei contrabbandieri, viene accoltellato da ‘Ntoni, che ormai è uno sfaticato buono solo a ubriacarsi, il quale viene arrestato, processato e messo in prigione. Come se non bastasse, Lia fugge da casa per la vergogna, e il vecchio cade in uno stato pietoso, a causa del dispiacere subito.
Quando poi tutto sembra perfetto nella nuova famiglia di Alessi, c’è un altro fatto imprevedibile: il rientro a casa di ‘Ntoni, che, pentito, fa una breve comparsa, per poi riprendere la strada all’alba.
NUCLEI NARRATIVI
I Malavoglia, un romanzo pervaso dal primo all’ultimo momento di pessimismo, rappresentano l’aspetto dell’ Ottocento: se da un lato infatti il Romanticismo aveva imposto nella prima metà del secolo la sua filosofia basata su sogni e speranze, il Verismo analizza la realtà quotidiana nelle sue caratteristiche siano esse positive o negative, quasi a sottolineare che l’uomo non può nascondere il male che lo circonda ogni giorno.
I punti cardine di questo nuovo movimento sono fondamentalmente cinque:
1. Rifiuto del Romanticismo a causa della sua impostazione sentimentale e della sua negazione della realtà oggettiva.
2. Utilizzo del metodo che esclude interventi diretti del narratore nel romanzo.
3. Rifiuto del bello e ricerca del vero, sia esso piacevole o volgare.
4. Impostazione scientifica della narrazione.
5. Attraverso il romanzo si può seguire un metodo scientifico e porre le basi per la moderna sociologia.
I Malavoglia sono la rappresentazione di un mondo rurale, chiuso e tradizionale in cui irrompe prepotentemente il progresso. Questo riesce a sconvolgere i collaudati sistemi sociali, fa sorgere nuove figure come Don Silvestro che raggiungono la ricchezza e il successo sociale con metodi moralmente disprezzabili. Allo stesso tempo però, figure legate al lavoro, all’onestà e ad altri valori tradizionali decadono irrimediabilmente.
La città, in questo mondo dove di generazione in generazione i ruoli sociali sono già fissati, è vista come un luogo ostile, dallo scarso ideale morale e che porta senza scampo al peccato di voler cambiare la propria posizione sociale e quindi alla negazione della propria natura, di pescatore, nel caso dei Malavoglia.
Inoltre, possiamo aggiungere che ne "I Malavoglia" i matrimoni sono tutti combinati, generalmente dai padri dei promessi, sulla base della classe sociale di appartenenza e di calcoli puramente economici.
La donna è vista unicamente come un oggetto di scambio, i suoi sentimenti non vengono tenuti in nessun conto, gli uomini cercano di ricavare un buon guadagno dal proprio matrimonio. Per esempio il matrimonio tra Brasi Cipolla e Mena è immediatamente annullato quando lei perde la
sua dote; per Mena questo è un fatto positivo perché è innamorata di Alfio Mosca, che però non può sposare poiché, essendo povero, è di una classe inferiore alla sua.
Per le donne di Aci Trezza la maggiore occupazione, oltre a quella di tenere in ordine la casa, è quella di trovare marito per sé o per le loro figlie.
Raramente i futuri sposi sono felici nella vita coniugale: ad esempio lo zio Crocifisso sposa sua nipote Santuzza per far rimanere in famiglia la chiusa, che è la dote della donna, e pensa di guadagnarci. In realtà Santuzza si rivela una spendacciona che sperpera il denaro accumulato in una vita intera da zio Crocifisso. E anche il padrone di Brasi Cipolla, dopo aver fatto saltare il matrimonio con la Mena ed essere riuscito a separare Brasi Cipolla dalla Santuzza, non riesce a evitare che si sposi con la Mangiacarrube, una bella donna ma praticamente senza dote. E così per evitare che i soldi finiscano sperperati si risposa a sua volta con la Barbara.
Una delle poche eccezioni a questi matrimoni di convenienza è in parte quello di Alessi con Nunziata poiché loro si vogliono bene, ma è anche vero che erano quasi destinati a sposarsi poiché come livello sociale erano più o meno sullo stesso piano e sin da piccoli erano sempre stati insieme.
Il tema della fedeltà alle origini e dell’attaccamento alle tradizioni è introdotto da padron ‘Ntoni quando, quasi sul punto di morire, raccomanda di non vendere la Provvidenza e di cercare in tutti i modi di riavere la casa del nespolo, vuole che la famiglia rimanga sempre unita per affrontare con maggior forza le avversità della vita, ma il tema viene interrotto dalla volontà del giovane nipote che desidera far fortuna in città e sistemarsi una volta per sempre, cosa che gli viene proibita dal nonno; la santità del lavoro si vede quando il vecchio parla della sua famiglia come delle formiche che, piano piano, dandosi da fare in tutti i modi, riusciranno a rimettersi in piedi e ritornare alla casa del nespolo, che per loro è meglio di un palazzo, poiché ci sono nati.
Il tema della religione viene fuori durante la tempesta in mare, quando padron ‘Ntoni dice ai nipoti che non resta loro altro da fare che affidarsi nelle mani di Dio e si raccomanda al Signore, perché qualcuno preghi per loro, e che li riporti a riva sani e salvi; le sue preghiere saranno poi ascoltate: anche se torna ferito, riesce a sfuggire alla morte.
Importante è anche il tema della fedeltà alle origini e dell’attaccamento alle tradizioni, che è introdotto da padron ‘Ntoni quando, quasi sul punto di morire, raccomanda di non vendere la Provvidenza e di cercare in tutti i modi di riavere la casa del nespolo, vuole che la famiglia rimanga sempre unita, ma il tema viene interrotto dalla volontà del giovane nipote che desidera far fortuna in città e sistemarsi una volta per sempre, cosa che gli viene proibita dal nonno; la santità del lavoro si vede quando il vecchio parla della sua famiglia come delle formiche che, piano piano, dandosi da fare in tutti i modi, riusciranno a rimettersi in piedi e ritornare alla casa del nespolo, che per loro è meglio di un palazzo, poiché ci sono nati.
IL SISTEMA DEI PERSONAGGI
Protagonista può essere considerata l’intera famiglia dei Malavoglia, presentata direttamente dal narratore all’inizio del romanzo. Come per ttti gli altri personaggi non c’è presentazione fisica, quasi a significare che tutte le persone che vivono in queste pagine possono essere considerati dei tipi. Il narratore non si fa mai portavoce dei pensieri dei personaggi, ma li lascia parlare liberamente .La famiglia viene paragonata alle dita della mano: Padron Ntoni era il “patriarca”, sapeva molti proverbi simbolo della saggezza popolare, Bastianazzo definito “ grande e grosso”, La Longa (Maruzza) era la buona massaia e poi seguivano i figli: ‘Ntoni che si ribellerà ai destino dei vinti, Luca più giudizioso, Mena che lavorava e tesseva sempre tanto da essere soprannominata “Sant’Agata”, Alessi che rappresenta la fiducia nel futuro ed infine la piccola Lia. Questi personaggi sono la personificazione tipologica della famiglia di pescatori sconvolta dalle disgrazie ma che cerca sempre di andare avanti a testa alta; il loro spessore psicologico è dato dalle loro stesse parole attraverso il discorso diretto libero. Il “secondo protagonista” del romanzo è l’intero paese, composto da personaggi uniti da una stessa cultura ma divisi da antiche rivalità, tipi che parlano e si confondono tra loro creando un effetto corale che nei primi capitoli quasi disorienta il lettore. La Santuzza, l’ostessa che simboleggia l’inganno, don Michele, il brigadiere corrotto, don Silvestro, il segretario che gestisce come una marionetta il sindaco, Alfio Mosca, il carrettiere rassegnato al suo destino di lavoratore, Campana di Legno, un ricco e avaro signore sono alcuni tra i più importanti. Al contrario di ciò che si può pensare anche l’asino di Alfio Mosca ha un’importanza nell’economia del romanzo. Questo animale è il simbolo dei vinti, dei poveri che devono soltanto lavorare per guadagnare una miseria: “Carne d’asino - borbottava ‘Ntoni - ecco cosa siamo! Carne da lavoro!”.
Personaggi principali:
Padre ‘Ntoni:Umile pescatore siciliano, patriarca onesto e laborioso. Uomo scarso di parole abituato ad esprimersi con motti e proverbi. Egli ha influito su tutti i famigliari, sulla nuora, sui nipoti, dove troviamo i proverbi prima sentiti pronunciare dal vecchio. Carattere piuttosto fisso. Rappresenta la tradizione domestica, egli nella casa comanda, però non è prepotente bensì uno che sa comandare perché ha saputo a suo tempo ubbidire. Devoto alla casa e ai suoi cari.Egli ha una sua meta dalla quale nulla e nessuno verrà a distoglierlo.
‘Ntoni:Mite e silenzioso, pigro, debole, ghiotto, laborioso ma non sempre, e senza vero amore per il lavoro, sognatore, vinto dall’ambiente d’egoismo individuale. E’ veramente il grande infelice, la figura forse più drammatica tra gli altri “vinti” che lo circondano; perché solo in lui il destino è inesorabile e cattivo; egli non ha avuto soddisfazione né del lavoro, né della ricchezza, né dell’amore. ‘Ntoni non ha mai ripudiato la famiglia, anzi l’ha sempre sentita come una necessità. Perciò nel pericolo e nella colpa ha guardato ad essa con la rassegnazione di chi se ne sente indegno e ormai irrimediabilmente lontano. Il suo cuore non è cattivo né insensibile, ma la pigrizia, l’avidità lo rendono egoista e gli tolgono la forza per ogni sentimento gentile.
Mena ed Alfio Mosca:assistono alla distruzione della loro giovinezza senza la forza e il desiderio della ribellione.
Alessi e la Nunziata:due creature in cui la sofferenza è sempre serena perché accettata con bontà.
Maruzza:Vero tipo di donna siciliana del suo tempo (silenziosa, da un’instancabile laboriosità, dedizione assoluta di sé alla famiglia, amore sconfinato per ciascuno dei figlioli). Dedita in silenzio a tutte le necessità casalinghe. Buona massaia.
Bastianazzo:un taciturno esemplare lavoratore, ha abbastanza giudizio. Sta, senza lagnarsi, sottomesso in tutto al proprio padre. Buono, ubbidiente lavoratore.
Alessi:ha tutte le qualità di tenacia e di saggezza di padron ‘Ntoni. E’ il ritratto del nonno.
Mena :detta Sant’Agata per le sue virtù. Buona, laboriosa, il ritratto della madre, ubbidisce e si rassegna facilmente.
Zio Crocifisso: l’usuraio del paese. Egoista, padrone di barche.
Alfio Mosca:il silenzioso innamorato di Mena.
Luca :buon figliolo, intento solamente a compiere il suo dovere fino alla fine.
Lia :è la più giovane dei Malavoglia, subirà senza saperlo l’influenza di ‘Ntoni e ne seguirà l’esempio.
Don Silvestro : segretario comunale, astuto bellimbusto del villaggio.
La Vespa: nipote dello zio crocifisso. Magra e bruna.
Cugina Anna: cugina di zio crocifisso, lavandaia, lavoratrice, coraggiosa e allegra.
Rocco Spatu: (suo figlio) fannullone.
Don Michele: brigadiere delle guardie di finanza.
Nunziata :orfanella di madre una donna che lavora molto.
Il sistema dei personaggi nel romanzo si fonda sull’opposizione tra i Malavoglia e la comunità del paese, che si può specificare come valori disinteressati e logica economica. L’opposizione generale si articola poi in una serie di opposizioni più particolari tra singoli personaggi dei due diversi campi, che sono posti in antitesi ideologicamente e moralmente.
Nucleo dei Malavoglia Villaggio
Padron ‘Ntoni Zio Crocifisso
Longa – Mena Venera Zuppidda - Barbara
Padron ‘Ntoni – Mena Padron Cipolla - Brasi
Mena – Nunziata Vespa - Mangiacrrubbe
L’opposizione dà vita anche ad un gioco di punti di vista opposti: la realtà ora è vista secondo l’ottica dei Malavoglia, cioè secondo l’etica dei valori, ora secondo l’ottica del paese, cioè la logica economica. Da questa alternanza derivano gli effetti di straniamento. Il narratore, in questo caso, non ha una posizione netta, bensì ha una fisionomia che si potrebbe definire “ camaleontica” poiché ora si assimila alla visione dei Malavoglia, ora a quella del paese, con quel procedimento di confusione delle voci, che si è messo in luce nel ritratto di Zio Crocifisso nel capitolo IV. Tra le due polarità, tuttavia, è riconoscibile un terreno comune: la visione statica, tradizionalistica, che respinge il nuovo e il mutamento, e considera la condizione data a ciascuno come effetto di una legge di natura immodificabile.
Il sistema non è, inoltre, perfettamente binario: vi è un terzo elemento che è irriducibile ai due termini in opposizione: ‘Ntoni. Il giovane non accetta la religione della famiglia e del nido domestico, l’etica del lavoro, del dovere e del sacrificio; ma non coincide neppure del tutto con l’ottica del villaggio perché non accetta la concezione statica di un ordine sociale che fissa ciascuno alla propria condizione, senza possibilità di mutamento.
Padron ‘Ntoni

F4 F2

F1
Bastianazzo zio Crocifisso
Maruzza Piedipapera
Alessi F3 ‘Ntoni
F5


Casa del nespolo
Provvidenza

F1= amore, affetto
F2= antagonismo
F3= partecipazione
F4= aiuto
F5= opposizione

SCHEMA ALLA BREMOND

ATTANTI
PAZIENTI padron ‘Ntoni AGENTI
Vittima Bastianazzo Miglioratore
Influenzato Maruzza Peggioratore
Beneficiario Ntoni Influenzatore
Luca Frustratore
Filomena Protettore
Alessi
Rosalia
Zio Crocifisso
Piedipapera
MALAVOGLIA E PROMESSI SPOSI
I Promessi Sposi
I Malavoglia
Gli umili:
Possono essere divisi in due categorie: l’individuo e la massa
♦ L’individuo è positivo perche’ può usare la razionalità che gli permette di distinguere il bene dal male:(Renzo). Il singolo uomo sceglie perche’ ha: una coscienza, la capacità di operare una scelta(Renzo, Lucia, l’Innominato, Don Rodrigo). L’Innominato prova “una cert’uggia delle sulle scelleratezze”, una coscienza sopita per molto ma che esiste. Coscienza è presente solo negli elementi positivi. La mancanza spinge l’uomo al male: singolo si può salvare, o meno: Conte Attilio, Griso, Gertrude e gli uomini di potere.
♦ Il branco: privo di ogni razionalità e di raziocinio, incapace di scegliere, commettono empietà e violenze ( assalto ai forni, paragonati a elementi atmosferici: gocce che unite formano un temporale). Follia collettiva durante la peste con gli untori: folla mal guidata dai potenti mal capaci di imporre la propria autorità. Manzoni non vede gli umili sotto un’ottica sociale, è
consapevole che essi non siano in grado di governare, non esiste nessuna rivendicazione sociale e umana. La scelta bene é personale. Umanitarismo, uguaglianza: tutti figli di Dio, ma si distinguono i peccatori e non, per scelta personale. Attacca i peccatori: il singolo può meditare e ha la possibilità di correggersi(Renzo) e di redimersi(Innominato). L’autore sceglie gli umili perche’ sono i protagonisti della storia che gli altri non avevano mai preso in considerazione. Negativo in M.: condanna l’uso che la politica fa del potere sempre frainteso perche’ considerato una forza coercitiva che si impone arbitrariamente sul popolo.
Storia:
• susseguirsi di iniquità, perche’ esiste una forza(il diritto) in nome del quale i piu’ potenti dominano sui piu’ deboli. Il narratore osserva il ‘600: metafora del male.
• Non esiste un miglioramento sociale della folla, ma una maggiore razionalità e un recupero di positività e valori in coloro che governano. E’ una condanna di potere radicale: legalità bandita e l’impunità è organizzata(bravi).
• Chi governa sono le oligarchie: esercito, clero, artigiani perche’ si riuniscono in corporazioni x sopravvivere. Manzoni auspica che il governo Sabaudo si estenda al Lombardo-Veneto. “La libertà non si può aspettare dagli stranieri”, libertà solo politica.
Gli umili:
• il ciclo dei vinti sono tutti coloro che vogliono modificare la loro condizione originaria. “ I Malavoglia”:‘Ntoni vuole uscire da Aci per far fortuna, vuole diventare ricco e cerca di andarsene: non accetta i valori di quel mondo.
• Non partecipano alla storia ma sono a parte: la Sicilia è un mondo a parte, mitico non può essere modificato altrimenti sparisce. La colpa non è della storia. Mondo mitico sfiorato dalla storia: servizio militare, si sfalda. Sicilia non può tollerare.
• Testimonianza del mondo Siciliano, ma non degli umili: Siciliani vogliono sopravvivere decorosamente. Cambiamento: desiderio di arricchirsi attr. Carico di lupini(pensiero della gente). La gente è maligna, cattiva, pettegola.
• Quando si sentono le” irrequietudini pel benessere” si è vinti dal progresso, si soccombe. Cambiare= progredire. Legge del progresso concessa a pochissimi a tutti i livelli. Mastr. Don Ges.= vuole cambiare stato da mastro a don, ma non gli è concesso: la figlia rifiuta il padre per le caratt. Fisiche (le mani segnate dal lavoro del contadino), La duch. Di Leyra. Uomo visto nel suo cambiamento di desiderio: sconfitta, vinti= tesi evoluzionistica di Darwin.
• Gli umili sono storditi dall’idea del regime Borbonico, dell’annessione all’Italia: sono preoccupati dal desiderio di libertà, di cambiare davvero la loro situazione, si uccidono i”cappelli”(uomini di potere)
• Nella sostanza tutto rimane com’è compresi i giochi della politica: la Sicilia non può modificarsi, la politica non ha nessuna volontà. Le folle sono ingannate perche’ pensano alla libertà. Scintilla di una rivoluzione che non c’è mai stata. Sfiducia nella storia, nel cambiamento, nel miglioramento.

IL TEMPO E LO SPAZIO
Le vicende durano circa otto o nove anni ( Alfio Mosca nel quindicesimo capitolo dice che erano passati otto anni da quando aveva lasciato Aci Trezza), mentre il tempo del racconto non è omogeneo. Sono frequenti le ellissi e spesso vengono narrate intere giornate. Il ritmo è quindi abbastanza accelerato, frammentario e solo in alcuni punti viene rallentato da piccole riflessioni e descrizioni. L’elemento dominante è la scena e in questi punti tempo del racconto e tempo della storia coincidono. Sono praticamente assenti flashback e anticipazioni. Le indicazioni temporali sono solamente quelle legate alle feste liturgiche e all’alternarsi delle stagioni, elementi tipici che caratterizzano lo scorrere del tempo nella cultura contadina. L’unica data che compare evidentemente nel romanzo, dicembre 1863, indica il tempo in cui ‘Ntoni è chiamato a prestare servizio militare, ed è riportata che è un fatto sempre molto importante e coinvolgente per tutto il villaggio, che vive di chiacchiere e pettegolezzi.
Dalla lettura si può determinare il periodo storico in cui ci troviamo, lo stesso stile di vita della gente ce lo dice: le usanze, i loro abiti, i mezzi di trasporto. Esplicitamente però il tempo non è definito, i personaggi del romanzo sembrano essere solo sfiorati dagli avvenimenti storici, che sono poi deformati e visti in maniera diversa, secondo la loro ottica ristretta. Questi provinciali, infatti, si sentono legati solo al loro paese, ma non hanno l’idea di “nazione”, non si sentono coinvolti nella vita pubblica ma guardano i fatti concreti, come il servizio militare obbligatorio, che toglie loro un paio di braccia da lavoro, e l’aumento delle tasse, che leva loro il pane di bocca.Analogamente abbiamo, da una lato, uno spazio geografico preciso, dall’altro questa geografia sfuma in contorni indeterminati, misteriosi, cui spesso si allude con toni di favola popolare. Se passiamo a considerare il paese, ci accorgiamo che il suo spazio sociale è rappresentato in modo circostanziato: nella piazza e sul sagrato si riuniscono gli uomini d’affari, nella farmacia gli intellettuali del paese, nell’osteria gli affaccendati, presso la fontana le donne. E tuttavia manca una rappresentazione minutamente realistica del villaggio; gli interni non vengono mai descritti con precisione. Sempre a livello spaziale, il romanzo presenta una struttura circolare, caratterizzata dalla due partenze di ‘Ntoni da Aci-Trezza: la prima dettata dalla chiamata al servizio militare, la seconda, che chiude il romanzo, rappresenta la definitiva espulsione dal “nido”. Aci-Trezza indica lo spazio interno,positivo in quanto protettore dei Malavoglia dal desiderio di cambiamento che rappresenta un’infrazione al codice comportamentale della piccola comunità siciliana.Lo spazio interno simboleggia, dunque la coscienza dell’unità familiare come fonte di affetti e sentimenti di amore e solidarietà.Tale coscienza si esprime nei luoghi dotati di un forte significato simbolico del romanzo: la casa del nespolo e la barca dei Malavoglia,la Provvidenza.La prima segna le tappe fondamentali della vita dei Malavoglia e risulta fortemente connotata a livello simbolico:è, infatti, uno spazio protettivo che racchiude tutti quei sentimenti più intimi ed è, dunque, il simbolo dell’unità familiare.Anche la Provvidenza assume connotati simbolici: la barca è una sorta di estensione in mare della casa del nespolo, in quanto anche le donne della casa partecipano attivamente alla preparazione della pesca, condividendone le preoccupazioni.Nettamente contrapposto allo spazio interno di valenza positiva, risulta uno spazio esterno con tutta la sua negatività:fuori dalla cerchia parentale si delinea un microcosmo acitrezzano caratterizzato da rivolta e pettegolezzi di ogni genere.Ma è soprattutto lo spazio fuori Aci-Trezza che configura una vera e propria autonomia: casa del nespolo vs spazio esterno.Lo spazio esterno si identifica nella smania per il facile arricchimento, esso infatti, è il distacco dai cari e familiari luoghi dell’infanzia. All’interno dello spazio esterno, si delinea facilmente un’opposizione tra positività e negatività.Per quanto concerne il mare, infatti,appare evidente un contrasto tra la positività del mare vicino alla costa e la negatività di quello lontano.Il primo è il mare conosciuto,positivo in quanto fonte di sostentamento primaria della famiglia.Il secondo è negativo in quanto estraneo e contrassegnato dalla volontà di arricchire:non a caso il naufragio della Provvidenza e la morte di Luca nella battaglia di Lissa, hanno luogo in questo spazio.Le due partenze di ‘Ntoni, parallelamente alla struttura spaziale circolare, scandiscono il tempo della storia: la prima nel dicembre del 1863 e la seconda nel 1878.All’interno di un arco di tempo reale di circa 15 anni ricorrono altri elementi che si riferiscono ad avvenimenti storici che coinvolgono la famiglia:il 1866 la battaglia di Lissa in cui muore Luca, e il 1867 il colera, causa della morte di Maruzza.Il rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto varia notevolmente conferendo, dunque,differente velocità al racconto:la prima macrosequenza copre circa due anni; la seconda circa un anno e risulta essere la più lenta in quanto distribuisce in sei capitoli fatti che avvengono in un solo anno;la terza,infine, che ricopre circa dieci anni e che è la più veloce in quanto si dilata enormemente il tempo della storia.Il tempo tipico del romanzo è scandito sul calendario religioso,ossia quello relativo alle ricorrenze della liturgia cattolica. Il tempo religioso è, dunque, espressione della cultura popolare di tutta la comunità di Aci-Trezza e individua le tappe fondamentali per la dura lotta per la sopravvivenza. Il tempo e lo spazio di Trezza sono vissuti dall’autore non solo in quanto documenti, ma anche in quanto simboli. Se da un alto sono oggetto di uno studio, dall’altro sono oggetto anche di una mitizzazione, sono le coordinate del luogo del rimpianto e della nostalgia, dei valori di una società ormai minacciata dal progresso, ma ancora capace di sentimenti e di ideali morali. Essi sono, inoltre e soprattutto, coerenti fra loro. Essi costituiscono il cronotopo “idillico” del romanzo familiare che presuppone un’unità organica dei personaggi con il mondo della natura, i valori dell’umanità dei protagonisti, la repressione dell’eros, l’opposizione alla vita meccanizzata della città industriale. Tale cronotopo è continuamente presente nel romanzo, tanto da informare di sé buona parte di esso; tuttavia è sentito anche come espressione di un passato che sta per essere definitivamente travolto dal progresso. È per questa ragione che l’aspetto idillico del romanzo convive sempre con quello realistico: Verga non si fa illusioni e non pone il mondo della campagna in alternativa reale e credibile al progresso.
LA LINGUA E LO STILE
Il punto di vista della storia è variabile, attribuibile ad un narratore che spesso è onnisciente, altre volte si immedesima nei vari personaggi, ma che non interviene mai in prima persona. Questa voce che racconta la vicenda è di un narratore nascosto, che in qualche punto (nell’incipit) è esterno, vale a dire che controlla la narrazione e spesso si mostra onnisciente ma non partecipe; più frequentemente è interno, ovvero la sua ottica è interna al racconto, infatti sembra confondersi con i personaggi e appena può lascia la parola ai paesani che descrivono i fatti sotto il loro punto di vista, come quando lascia che siano loro a spiegare la morte di Bastianazzo (pur non conoscendo nei particolari la tragedia, essendo lontani e al sicuro sulla terraferma), senza aggiungere nessuna descrizione o commento personale.
La novità della lingua usata da Verga sta nell’italiano a cui è applicata la sintassi dialettale siciliana, per poter rendere con maggiore efficacia una descrizione di quella gente, per rappresentare il mondo dei pescatori da vicino.
Viene usato molto il discorso indiretto libero per rendere maggiore immediatezza nei dialoghi, proprio come se il lettore potesse sentire parlare i personaggi, inoltre le similitudini popolari e i frequentissimi proverbi servono a rafforzare la posizione interna del narratore, che tende a diventare uno di loro. Spesso viene inserito un che, che non è corretto in italiano, ma conferisce un tono più comune e di maggior effetto alla narrazione; altre volte i pronomi sono in più, ma anche questi rispecchiano la parlata popolare.
Durante la narrazione Verga non esprime mai esplicitamente i propri giudizi ,ma essi sono comunque percepibili.
Tutto ne I Malavoglia è raccontato in modo naturale, scarno, asciutto, con le espressioni tipiche dei personaggi, senza retorica , senza qualche tocco d’ironia.Verga vuole farci trovare davanti il romanzo con l’immediatezza di una realtà che contiene in se stessa il suo significato, utilizzando un lessico sostanzialmente italiano, inserendo diverse locuzioni dialettali tipiche del parlato.
La lettura è semplice e scorrevole salvo il continuo uso di note a piè di pagina per le locuzioni popolari. Ogni personaggio nella storia ha il suo nomignolo e i suoi connotati che lo distinguono, appena egli si fa sulla scena. Verga si astiene volutamente da ogni commento e non entra affatto nei personaggi. Non fa inoltre nessun minimo sforzo per spiegare la mentalità delle sue creature.
La voce che racconta la vicenda è di un narratore nascosto, che in qualche punto (nell’incipit) è esterno, vale a dire che controlla la narrazione e spesso si mostra onnisciente ma non partecipe; più frequentemente è interno, ovvero la sua ottica è interna al racconto, infatti sembra confondersi con i personaggi e appena può lascia la parola ai paesani che descrivono i fatti sotto il loro punto di vista, senza aggiungere nessuna descrizione o commento personale.
La novità della lingua usata da Verga sta nell’italiano a cui è applicata la sintassi dialettale siciliana, per poter rendere con maggiore efficacia una descrizione di quella gente, per rappresentare il mondo dei pescatori da vicino. Non fa ricorso al dialetto, ma impiega un italiano parlato, così come lo parlano i siciliani dotati di una certa cultura: si tratta dunque di un parlato capace di conservare le sfumature sintattiche e talora anche lessicali del dialetto. Verga inventa così una sintassi particolare in cui si avverte di continuo l’eco e quasi la gesticolazione del parlato: per esempio, fa spesso ricorso a un “che” che corrisponde al siciliano “ca” e che ha valore di congiunzione ora casuale, ora consecutiva, ora temporale, ora concessiva.
Viene usato molto il discorso indiretto libero per rendere maggiore immediatezza nei dialoghi, proprio come se il lettore potesse sentire parlare i personaggi, inoltre le similitudini popolari e i frequentissimi proverbi servono a rafforzare la posizione interna del narratore, che tende a diventare uno di loro.
Attraverso questi artifici Verga intende adottare, per tutta la narrazione, un’ottica nuova, quella di un narratore popolare o di una comunità di narratori popolari. In tale modo, però, il punto di vista della voce narrante non coincide ovviamente con quello dell’autore. Quest’ultimo di fatto sparisce regredendo in un narratore incolto o primitivo. Proprio lo scarto fra il punto di vista della voce narrante e il punto di vista dell’autore è alla base dell’artificio di straniamento. Quello della voce narrante riflette largamente l’ottica stravolta, cinica e maligna di un mondo capovolto. Questo mondo purtroppo è senza reali alternative. Di qui l’impressione di malinconia soffocante, di una grande tristezza e di una grande impotenza che pervadono l’opera.

Esempio



  


  1. Francesca

    analisi del testo La lupa di Verga

  2. soukayna idoudi

    sto cercando gli appunti su tema donna e denaro Verga

  3. soukayna idoudi

    sto cercando gli appunti o la relazione su la donna e l'interesse economico nelle novelle di giovanni verga : vita dei campi e novelle rusticane

  4. Francesco

    analizza la produzione letteraria di giovanni verga, soffermandoti sulla rappresentazione nelle sue opere veriste dell'uomo sottomesso senza scampo alle leggi della natura e all'ambiente sociale e culturale. tema, aiuto!! :(