Ultimo canto di Saffo e dialogo tra Tristano e un amico

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Testo

Tema: “Giacomo Leopardi tra l’Ultimo canto di Saffo e il Dialogo tra Tristano e un amico: analogie e differenze.”

Il lirismo è una delle caratteristiche fondamentali della produzione leopardiana: ogni componimento diventa espressione dei moti dell’animo dell’autore e ne descrive l’evoluzione attraverso una vita infelice e depressa, volta alla ricerca letteraria e filosofica.
L’evoluzione del suo pensiero è scandita dalle tre fasi di un cosiddetto «sistema» filosofico. La prima fase è quella del pessimismo storico, in cui l’infelicità umana è attribuita alla condizione storica. La seconda invece vede come colpevole della triste condizione umana la Natura, che ha dato all’uomo un desiderio illimitato di piacere destinato a restare insoddisfatto, ed è perciò chiamata fase del pessimismo cosmico. L’ultimo periodo invece è caratterizzato da una saggezza distaccata e critica, in opposizione con il fermo pessimismo dei tempi precedenti.
All’evoluzione del pensiero filosofico procede di pari passo anche quella della poetica, che assume nel tempo significati diversi in relazione agli avvenimenti della vita del Leopardi. È dunque facile riscontrare tra i varî componimenti differenze che tanto più sono evidenti tanto più la loro distanza nel tempo aumenta. Tuttavia le tematiche che egli affronta sono costanti e costituiscono gli oggetti del suo filosofare. Tema onnipresente è quello dell’infelicità, forse l’unico sentimento attorno al quale ruota la sua intera vita (e anche quella dell’uomo) e molti dei sui componimenti.
Un esempio ne è l’Ultimo canto di Saffo che «intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane» (G. Leopardi). Questo canto narra della poetessa di Lesbo suicidatasi per amore, nella quale il Leopardi si identifica a pieno, non solo per le affinità fisiche (sono entrambi splendide anime in un corpo brutto), ma anche per l’infelicità che li accomuna. Il componimento viene scritto nel Maggio del 1822 a Recanati, tre anni dopo la sua tentata fuga con l’amico Petro Giordani; per Giacomo è un periodo duro: la sua città gli diviene sempre più stretta e lui si sente oppresso dall’ambiente intellettuale chiuso e bigotto che lo circonda. Durante questi anni nascono i primi idilli e le canzoni civili che esprimono tutto il suo disagio e la sua infelicità. Negli anni successivi Leopardi riesce tuttavia a lasciare Recanati e a visitare l’Italia: Roma, Bologna, Firenze, Milano. Visitando altri ambienti, diversi da quello recanatese si rende conto dei problemi della società e dei mali del suo secolo: la sua produzione diventa così più impegnata e nel ’23 abbandona la poesia per dedicarsi ad un tipo di letteratura volta alla distruzione delle illusioni, definita antipoetica. In questi anni comincia a scrivere le Operette morali che colpiscono con sarcasmo le illusioni dei suoi contemporanei. Il Dialogo di Tristano e di un amico fa proprio parte di questo ultimo periodo ed è un confronto culturale, un dibattito, tra il leggendario personaggio, nel quale vediamo l’autore, e un suo amico, che rappresenta l’ambiente cattolico moderato fiorentino. Attraverso la palinodia (tecnica della ritrattazione) e un linguaggio spiccatamente ironico Leopardi introduce importanti questioni storiche che riguardano il suo secolo: egli infatti connota negativamente gli anni in cui vive e critica aspramente gli scrittori, che reputa incapaci di scrivere opere significative, il metodo pedagogico, che erroneamente privilegia l’erudizione al fisico, e smitizza l’illusione che il XIX secolo «sia superiore a tutti i passati» (dal Dialogo di Tristano). L’infelicità del poeta si trasforma in “disagio di vivere” in un secolo che sente non appartenergli e di cui non apprezza i valori. «In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi […]. Invidio i morti e solamente con loro mi cambierei» (dal Dialogo di Tristano). Unica soluzione al male di vivere sembrerebbe perciò la morte così come nell’Ultimo canto di Saffo. Tuttavia il suicidio viene visto come una viltà ed un errore, perché provoca dolore nei superstiti, rendendo loro la vita impossibile. Siamo dunque destinati ad una sicura vita di sofferenze poiché «arcano è tutto, fuor che il nostro dolor» (dall’Ultimo canto di Saffo); e per l’infelicità il poeta sembra non dare nessun rimedio: nemmeno la fede in Dio come nel Manzoni, a maggior ragione perché il Leopardi è ateo. Il canto e l’operetta sono quindi due diversi modi attraverso cui Leopardi esprime il suo pensiero e fa le sue critiche: il primo decisamente più lirico ricorre alle sensazione che stimola la poesia nell’animo umano, mentre il secondo, in modo distaccato, fa gioco sull’ironia e sulla teatralità dell’impostazione dialogica.

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