Storia della Commedia dell'Arte

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Testo

BREVE STORIA DELLA COMMEDIA DELL’ARTE.
La storia dei comici onorati (così erano definiti professionisti dell’Arte) è lunga e complessa e passa attraverso fasi alterne; in un primo momento, si esibiscono in palazzi affittati, poi vengono chiamati nei palazzi dei nobili che comprano lo spettacolo, quindi non più davanti a un pubblico indisciplinato pagante all’uscio ma ad una scelta e ristretta cerchia di invitati del signore di turno.
I comici dell’Arte si esibiscono in tutta Europa, soprattutto in Italia e Francia; con la fama, inizia una sostanziale modificazione del loro status sociale, per cui ambiscono a ricevere riconoscimenti. Alcuni celebri attori, ad esempio Pietro Maria Cecchini, furono creati nobili, altri sono così culturalmente ambiziosi da desiderare di entrare a fare parte delle Accademie (e qualcuno ci riesce: perfino una donna, Isabella Andreini della Compagnia dei Gelosi, riuscirà ad essere accolta in un’Accademia). Anche per questo spesso le troupes assumono nomi che vogliono sembrare quelli di altrettante Accademie: Gelosi, Accesi, Confidenti.
I migliori riusciranno a lavorare nelle corti, anzi, per le corti – italiane e non- le compagnie dell’Arte sono un ornamento prezioso e a volte costituiscono un mezzo di scambio diplomatico. I comici diventano oggetto di dono, di scambio, di regalo fra principi; gli ambasciatori si affannano a corrispondere tra loro per facilitare questi scambi. Dal Portogallo alla Russia è accertata la loro presenza: da artigiano piccolo borghese il comico diviene, già sulla fine del ‘500, accademico e infine cortigiano, con pregi e difetti conseguenti. Con la civiltà barocca e la conseguente affermazione del melodramma come spettacolo di moda nei teatri, inizia il declino dei comici dell’Arte; essi sopravvivono nelle forme minori, mentre spariscono del tutto le grandi troupes (quella del Sacchi è forse l’ultima).
LA TECNICA TEATRALE
Il carattere specifico di questo genere è di fare teatro senza testo, cioè senza piegare la dimensione scenica ad uso della parola scritta. Questa diminuita importanza del testo rende essenziale capire la tecnica interpretativa: l’ottica particolare della Commedia dell’Arte rivendica all’attore la paternità dello spettacolo. Nel corso del ‘500, la recitazione era prima di tutto riproduzione di un testo scritto, letterario, al punto che spesso i nobili committenti si improvvisavano attori per divertimento. I comici dell’Arte ritenevano pericolosissima ogni improvvisazione estemporanea: il loro “improvviso” consisteva in una sorta di paradosso,cioè in traduzione in spettacolo di un testo inesistente, attraverso una tecnica di tipo combinatorio. Grosso modo negli anni ’50 del ‘500, il Piccolomini aveva immaginato che si potesse frantumare un certo numero di testi e situazioni teatrali in una sorta di elenco di funzioni, di microsituazioni, di particelle (ad esempio: l’avarizia, la gelosia, il rifiuto dell’amante, l’agnizione ecc.). Si sceglie un campionario di commedie, si scompongono, si identificano le microstrutture, si rimontano a pezzi sfruttando la possibilità di lavorare sul meccanismo e sulla combinazione, invece che sull’organismo. Sulla scia e lo sviluppo di queste indicazioni, i comici dell’Arte costruiscono i loro spettacoli montando insieme questi piccoli elementi, dotati di costruzione interna, coerenza e significato. Improvvisare ogni sera il collage, combinando le tesserei un mosaico complesso, che può dare risultati diversi a seconda di come lo si assembla, richiede da parte degli interpreti una tecnica consumata. Nel teatro “classico” esistono i personaggi, che vivono una sola volta la loro vicenda: nell’Arte esistono funzioni che si possono adattare ad ogni situazione. Sono funzioni universali con connotazioni formali più o meno precise: l’Innamorata, il Servo, il Vecchio, connotati da caratteristiche esteriori che si riempiono ogni sera di un contenuto, a seconda delle combinazioni degli elementi. Ogni attore si impossessa della tecnica specifica di un ruolo, delimitando la sua area di lavoro e arrivando a conoscerla alla perfezione. Ogni ruolo costituiva un punto di riferimento preciso per gli altri: ognuno conosce l’area di gestualità, di gag, di situazioni in cui l’altro attore reagisce. Ciascun comico possiede un bagaglio tecnico e mnemonico proprio del suo ruolo: se si spostava, portava con sé il bagaglio fisico e mentale che è suo proprio. Tutto ciò comportava l’inesistenza della possibilità di monologo e un continuo processo di stilizzazione e di essenzializzazione, per cui i ruoli sono limitati, rappresentativi delle categorie sociali più rilevanti: tra gli 8 e i 15 personaggi per ogni compagnia esaurivano ogni ruolo, più i figuranti e le comparse.
LE MASCHERE
Il ruolo più importante era quello dello Zanni, poi ulteriormente specializzato in Arlecchino, o Brighella. Gli attori più bravi erano trattati come divi e chiamati con i nomi dei loro personaggi (ad esempio, Luigi Riccobono era per tutti Lelio). L’uso delle maschere non era proprio di tutti i ruoli, ma in genere più diffuso per le parti di vecchio, di servo, a volte di capitano. Non era mai vestita dagli amorosi e quasi mai dalle serve. Alcuni Arlecchini se la toglievano a metà spettacolo, nei momenti di maggiore concitazione scenica o nel momento in cui doveva esibirsi in una tirata, per respirare meglio; gli attori di bell’aspetto recitavano senza maschera per far piacere al pubblico. Oltretutto, le maschere erano di cuoio sagomato, quindi pesanti e scomode; si trattava di mezze maschere, che lasciavano scoperta la bocca. Tuttavia, il loro uso impediva la mimica facciale, per cui l’attore doveva aiutare la parola con la gestualità e la recitazione corporea. Il problema era di ordine pratico: i teatri erano grandi, male illuminati, fumosi (generalmente l’illuminazione era fornita da candele di sego o torce, che producevano un fumo puzzolente, e che non venivano spente per tutta la durata dello spettacolo); il pubblico era rumoroso, indisciplinato, indaffarato in molte faccende che poco avevano a che fare con quanto avveniva in palcoscenico (mangiare, ricevere amici e amanti, stringere alleanze politiche o economiche…), e per coinvolgerlo occorreva un grande dispendio di energie.
Le favolose maschere della commedia dell'arte : Arlecchino
È la maschera più nota della Commedia dell'Arte. Di probabile origine francese (Herlequin o Hallequin era il personaggio del demone nella tradizione delle favole francesi medievali), nel Cinque-Seicento divenne maschera dei Comici dell'Arte, con il ruolo del "secondo Zani" (in bergamasco è il diminutivo di Giovanni) il servo furbo e sciocco, ladro, bugiardo e imbroglione, in perenne conflitto col padrone e costantemente preoccupato di racimolare il denaro per placare il suo insaziabile appetito.
Col passare del tempo il carattere del personaggio andò raffinandosi: l'aspro dialetto bergamasco lasciò il posto al più dolce veneziano, l'originaria calzamaglia rattoppata divenne via via un abito multicolore col caratteristico e ricercato motivo a losanghe, ingentilirono gli originari lineamenti demonici della maschera nera, così come la mimica e la gestualità.
Nel corso del Settecento Arlecchino divenne oggetto di svariate interpretazioni ad opera di diversi autori, fra cui Carlo Goldoni, che rivestì il personaggio di un carattere sempre più realistico.
I più grandi interpreti che vestirono l'abito multicolore, furono Tristano Martinelli (m. 1630), Domenico Biancolelli (1646-1688), Angelo Costantini (1654-1729), Evaristo Gherardi (1663-1700) e ai nostri giorni gli indimenticabili Marcello Moretti (1910-1962) e Ferruccio Soleri.
IL REPERTORIO
Le raccolte di materiali drammaturgici spezzati, in prosa e in versi, che gli attori conoscevano a memoria, si chiamavano Zibaldoni o Generici. Sull’uso di questo materiale si basa la tecnica d’improvvisazione dell’attore, che pesca dalla memoria i vari materiali collegandoli gli uni agli altri e con quelli degli altri attori compagni di troupe, con un difficilissimo assemblaggio istantaneo, dando l’impressione che la battuta nasca lì per lì. Il testo all’improvviso è una componente funzionale del meccanismo della recitazione: ciascuno ha il suo ruolo e il repertorio convenzionale adatto al suo ruolo. Per la maschera, il costume, le movenze, il pubblico riconosceva Arlecchino o Brighella: uguale situazione per l’aspetto recitativo. “Colui che deve fare la parte dell’innamorato, conosce tutte le situazioni drammaturgiche che gli si attagliano; ma non è sufficiente la memoria, serve un materiale connettivo che permetta di collegare ciò che è invenzione momentanea e materiale d’archivio”: così scrive Pietro Maria Cecchini.
Gli attori sono così “senza rete”, recitano con continui rischi di cadute, con perizia straordinaria. Gli Zibaldoni erano proprietà del singolo o della sua compagnia; si creano così tesori stratificati per generazioni, di cui tutti sono gelosi. Alcune compagnie commissionavano a poeti o drammaturghi l’arricchimento del repertorio (sono i “poeti di teatro” presi in giro da Goldoni ne “Il teatro comico”).
Gli attori cercano anche altri strumenti per riuscire più facilmente a lavorare: uno di questi è la retorica, con lo scopo di riuscire a memorizzare meglio il repertorio e di rendere più efficace la resa scenica. Le figure retoriche caratterizzavano anche i ruoli: l’iperbole era tipica del Capitano e delle sue smargiassate, la metafora degli Innamorati, gli equivoci e i quiproquo degli Zanni. Viene costantemente ricercata la simmetria dei procedimenti retorici nel dialogo tra due attori, con alternanza continua di toni e registri linguistici.
Accanto al catalogo mentale e mnemonico di frasi, gli attori possedevano un catalogo gestuale, di mimica stilizzata che, una volta decodificata, permetteva di riconoscere personaggi e situazioni. Lo Zibaldone degli Atti apparenti o dei Lazzi era una raccolta di sintetiche spiegazioni relative alla gestualità imposta dal repertorio. Il Lazzo era una gag, una particella di spettacolo fondata più sul movimento che sulla parola, cioè fondata sul gesto. I lazzi erano caratteristici di ciascuna maschera e potevano essere di molti tipi (ad esempio, il lazzo della scarpa); importante era la parte acrobatica, molti erano anche a sfondo osceno, sia verbalmente che testualmente. I comici dell’Arte sono specificamente addestrati all’acrobazia: l’Arlecchino Visentini, uno dei più famosi, sapeva piroettare con un bicchiere in mano senza rovesciarne l’acqua; un famoso Tartaglia, il Fiorilli, a ottant’anni schiaffeggiava con la pianta del piede il suo interlocutore. Il lazzo era collocato ai margini della vicenda, affinché il pubblico se ne compiacesse, e richiedeva un notevole grado di specializzazione. Leggendo il trattato dell’Andreini si ha l’impressione che la Commedia dell’Arte si proponesse come teatro totale, e imponesse agli attori un duro tirocinio tecnico, culturale, ginnico; danza, canto, musica strumentale erano alla base della loro preparazione.
LA SCENOGRAFIA
I palcoscenici su cui operano i comici onorati sono dotati di una scenografia derivata da quella cinquecentesca: un fondale dipinto e strutture praticabili in primo piano, che simulano qualcos’altro e sono utilizzabili (ad esempio: una finestra dipinta su una tela da cui ci si può affacciare; una porta che si può aprire). Il “praticabile” è una predella lignea. Nel corso del ‘600, con l’evoluzione del Barocco, la scenografia si espande notevolmente e anche la Commedia dell’Arte ne approfitta, ma i suoi spettacoli rimangono in questo senso “poveri”, con costumi modesti rispetto allo sfarzo della commedia per musica: anche il famoso costume di Arlecchino risale al mimus centunculus ed è un esempio di “riciclo”. Nei limiti di questa semplicità, i comici cercano di creare una scenografia suggestiva, sfruttando anche alcune macchine che erano di uso comune sulla scena barocca (quinte girevoli – una sorta di adattamento dei periaktoi del teatro greco – botole, tele dipinte, cilindri che rotolando sul palcoscenico trascinavano lunghe strisce di tela a simulare il mare….).

IL CANOVACCIO
Gli attori costruivano ogni singolo spettacolo su una traccia, il cosiddetto canovaccio o scenario, sorta di riassunto della commedia (oggi si direbbe la sceneggiatura). Molto schematico, scritto addirittura in modo tachigrafico, cioè in forma abbreviata, in modo che stesse tutto su un foglio: il foglio veniva poi affisso alle porte da cui entrano in scena gli attori, che così potevano ripassare la parte all’ultimo minuto. Tra gli esempi che ci sono rimasti per intero, “I contratti rotti” della compagnia Sacchi, nel quale forse c’ è anche la mano di Carlo Gozzi. La ripetizione del lazzo è una costante del teatro comico, di solito derivato dallo spettacolo circense; anche per questo la recitazione è concitata e frenetica con continue entrate e uscite di scena e sovrapposizioni di episodi. Uno dei luoghi comun più ripetuti è l’intreccio di due storie d’amore, tra servi e padroni o tra vecchi e giovani tra ricchi e poveri. Canovacci di questo tipo non sono innumerevoli e alcuni storici del teatro hanno provato a farne un catalogo almeno un elenco ordinato, da cui risulta che siano stati tra 300 e 400. Ciò che in realtà interessa è lo riempimento del canovaccio, che invece varia all’infinito (sarebbe altrimenti impossibile giustificare una vita di 250 anni della Commedia dell’Arte).
Molte produzioni dell’Arte sono nuove, non derivate dalla commedia regolare; il canovaccio è uno strumento autonomo, originale, che si ricrea continuamente e che valorizza la bravura degli attori e ne decreta la fama: la tecnica conservativa degli attori è rivolta a memorizzare le scene più riuscite, per ottenere sempre l’applauso. Nella mescolanza di innovazione e conservazione sta il senso di questo episodio teatrale così importante.
Legato al canovaccio è l’elenco delle “robbe”, cioè del fabbisogno scenico: pochi e semplici oggetti che possono essere utili per la preparazione dello spettacolo. Il lavoro di gruppo di questi professionisti richiede una concertazione, cioè un personaggio (il “corego”) che organizzava la recitazione scenica. Era di solito un attore anziano e molto esperto, anche se non particolarmente bravo.
CONCLUSIONI
La recitazione concertata dell’Arte crea un effetto orchestra per cui ciascuna voce, in scena, funziona per se stessa senza spartito e deve dare spazio alle altre voci nei modi e nei tempi opportuni. L’azzardo del collage è tutto sulle spalle degli attori, davanti ad un pubblico molto difficile, tendenzialmente maleducato, rumoroso e portato alla distrazione, ma anche molto competente per l’assidua frequenza agli spettacoli dell’Arte. Questo pubblico conosceva fin le pieghe più riposte degli spettacoli che frequentava; aveva sempre delle grandi aspettative, per cui gli attori devono esercitare un’attrazione di tipo emotivo. Premendo il tasto dell’istinto, la Commedia dell’Arte finisce per trasformare ogni spettacolo in una manifestazione di follia, e questo aspetto finisce per preoccupare gli esponenti della cultura ufficiale e i controllori della morale pubblica; in questa fascinazione esercitata sulla gente, la Chiesa coglie il pericolo di un coinvolgimento in vicende immorali, tramite quel margine di fantasia, del tutto incontrollabile, consentito dalla tecnica dell’improvviso. Se la rappresentazione di una bella tragedia (ma anche di una classica commedia, per quanto beffarda e sconcia) è del tutto prevedibile, un canovaccio dell’Arte sfugge ad ogni controllo: inoltre, quando entra in campo l’immaginario, è difficile sapere dove si andrà a parare.
Dopo una lunga e “onorata” storia, la Commedia dell’Arte si dissolve definitivamente ad opera del Goldoni e della sua riforma, nonostante la difesa appassionata di un reazionario come Gozzi. Per lungo tempo sopravvivono solo le maschere, trasformate in attrattive carnevalesche o in “tipi” umani legati a particolarismi locali; la tecnica dell’improvviso viene confusa con la casualità del fatto scenico, la parziale libertà degli attori con il dilettantismo. Solo negli ultimi decenni si è tentata una seria rivalutazione di questo fenomeno culturale, che ne ha messo in luce le caratteristiche più originali e interessanti.
Bibliografia:
Allardyce Nicoll, Lo spazio scenico – Storia dell’arte teatrale, Bulzoni Editore, 1971
Roberto Tessari, Commedia dell’Arte: la Maschera e l’ombra, Mursia, 1984
Commedie dell’Arte, vol. 1 e 2, a cura di Siro Ferrone, Mursia, 1985
Paolo Bosisio, La parola e la scena, pp. 1-55, Bulzoni, 1987

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