Sinisgalli

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Testo

I CAPITOLO
LA SITUAZIONE STORICA E SOCIALE
INTRODUZIONE
L’Italia primonovecentesca eredita per molti versi la situazione di fine Ottocento, anche se accentuano alcune tendenze e linee di sviluppo; pur rimanendo un paese sostanzialmente agricolo, ad esempio, cominciano ad affermarsi le strutture di un’economia più modernamente europea. Se è vero infatti che il decennio 1880 – 1889 può generalmente considerarsi come una fase di intensificata attività e di espansione per l’industria, occorre tuttavia riconoscere come solo quindici anni che vanno dal 1898 al 1913, dopo la grave crisi precedente, abbiano segnato un’evoluzione di notevole momento dell’ambiente sociale. Due date fondamentali sono rappresentate dalla fondazione della Fiat nel 1899 e dall’esposizione universale di Torino nel 1911, in cui il cinquantenario dell’unità italiana veniva celebrato attraverso una rassegna delle conquiste del progresso scientifico e tecnologico.
Già negli ultimi anni dell’ ‘800 la crisi economica aveva provocato, sia nelle città che nelle campagne gravi tumulti, duramente repressi dalle forze dell’ordine. Nel 1898 i milanesi erano insorti per un nuovo aumento del costo della vita, ma le rivendicazioni erano state soffocate nel sangue dal generale Bava Beccarsi, che aveva fatto puntare i cannoni sulla folla. Dopo gli scioperi nelle campagne settentrionali, come conseguenza della crisi agraria, c’erano state, in Sicilia, le agitazioni dei “fasci dei lavoratori” , organizzazioni sindacali, nate come protesta nei confronti delle intollerabili condizioni di vita nei latifondi e nelle miniere ( 1892 – 1893 ).
Con l’assassinio di Umberto I, ucciso a Monza nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, e con l’elezione del nuovo re Vittorio Emanuele III, la situazione mutò sensibilmente. La vittoria delle sinistre, nelle elezioni del medesimo anno, portò alla formazione di governi più moderati e liberali, come quelli di Giuseppe Saracco e di Giuseppe Zanardelli, che abolì le leggi restrittive nei confronti dei lavoratori. Ma il tentativo più impegnativo e consapevole di avviare a soluzione di questi problemi venne portato avanti dal governo di Giovanni Giolitti che, ricevuto l’incarico nel 1903, si fece promotore in senso progressista, di una più organica politica di equilibrio e di accordo fra le classi. Per attutire i contrasti, cercò di conciliare la borghesia liberale con i socialisti, inaugurando una concezione dello Stato come mediatore dei conflitti sociali e non come strumento di repressione poliziesca. Ben presto Giolitti attuò importanti provvedimenti di legislazione sociale a tutela dei lavoratori, con particolare riguardo anche al lavoro delle donne e dei minori, avviando anche una politica di risanamento e di attenta amministrazione. La favorevole situazione economica, che si era nel frattempo determinata, portò ad un progresso dell’agricoltura e, soprattutto, dell’industria, in campo siderurgico, tessile e idroelettrico, con l’apertura di nuovi settori, come quello elettromeccanico ed automobilistico, destinati ad assumere un’importanza crescente.
L’Italia, per quanto riguarda in particolare l’ambiente cittadino, poteva così finalmente presentare il volto della modernità, rivelando le linee più marcate di un paesaggio industriale, modificato dall’elettricità e dalle altre innovazioni tecniche. Un nuovo gusto della vita, favorito dall’aumento del benessere, caratterizzava presso le classi alte quella che venne appunto definita la belle èpoque, l’età dei divertimenti e dei piaceri.
Nonostante i provvedimenti che Giolitti cercò di adottare, finì per aggravarsi la questione meridionale: aumentò anche, di conseguenza, l’emigrazione che coinvolse, nel periodo 1901 – 1913, ben otto milioni di italiani, privi di mezzi di sussistenza ed analfabeti, imbarcatasi per lo più verso le Americhe senza alcuna garanzia o tutela.
Ripresero vigore le tendenze della destra e dei nazionalisti, mentre i socialisti, nel congresso di Reggio Emilia del 1912, espulsero i gruppi favorevoli all’impresa, confermando il loro tradizionale pacifismo; all’interno, tuttavia, si fecero strada forti tendenze massimaliste, capeggiate dall’economista e studioso del pensiero marxiano Arturo Labriola.
Nel 1912, inoltre, Giolitti aveva varato la nuova legge elettorale, che istituiva il suffragio universale maschile, portando tre milioni e mezzo a otto milioni il numero degli elettori, in gran parte favorevoli al Partito socialista (gli operai della città) e al partito cattolico (i contadini), fondato nel 1901, come movimento della Democrazia Cristiana, dal sacerdote Romolo Murri, con intenti di impegno sociale, in opposizione alla vecchia mentalità della Chiesa. La politica di equilibrio stava venendo meno e Giolitti, per fronteggiare la probabile avanzata dei socialisti, alle elezioni del 1913 si alleò con i cattolici, stipulando il cosiddetto “patto Gentiloni”, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica. Ma le forti resistenze opposte, dopo la riuscita dell’accordo, dagli elementi più conservatori indussero Giolitti a dimettersi dal nuovo governo, in attesa che si presentassero condizioni più favorevoli, per poter proseguire la politica liberale e riformista. Il precipitare degli avvenimenti internazionali, tuttavia, veniva a incidere profondamente sulla situazione italiana, mutandone il corso.
L’Europa si stava avviando verso il primo conflitto mondiale, che può essere considerato anche come uno dei possibili sbocchi dello sviluppo scientifico – industriale: le attrezzature dell’industria erano in parte finalizzate alla produzione di armamenti e alle esigenze belliche, alle quali verranno interamente convertite durante la guerra. Ma proprio la guerra, con le sue stragi ed i suo orrori, avrebbe inflitto un duro colpo al mito ottocentesco e positivistico della scienza, considerata come un fattore sicuro ed inesauribile di progresso, destinato a risolvere i problemi dell’umanità. La fine delle ostilità restituiva un’Europa prostrata ed impoverita, preda di squilibri e di conflitti ancora più profondi, che avrebbero favorito le tragiche conseguenze dei decenni successivi.
IL GOVERNO GIOLITTI
Tra il 1901 e il 1909 Giovanni Giolitti fu il grande arbitro della vita politica italiana, come prima di lui lo erano stati Agostino Depretis e Camillo Cavour. Egli assunse la carica di presidente del Consiglio nel novembre del 1903 e la conservò sino al dicembre del 1909. da uomo politico navigato e sperimentato quale era, non difettava certo di empirismo e i opportunismo. La sua disinvoltura nel manipolare la maggioranza parlamentare, nell’accaparrarsi, con mezzi leciti e meno leciti, i voti di quei deputati che erano disposti a barattarli in cambio di favori al loro collegio e l’appoggio delle clientele politiche meridionali, la sua spregiudicatezza infine nel predeterminare il risultato delle elezioni, specie nelle circoscrizioni del Mezzogiorno, gli valsero l’accusa di trasformismo. Ma in realtà non faceva nulla di più di quello che avevano fatto tutti i suoi predecessori. A differenza di molti di essi, egli possedeva però delle convinzioni politiche generali molo salde e non smarriva mai il senso dell’orientamento generale, né confondeva mai la tattica con la strategia.
Uno dei punti fermi delle sue convinzioni politiche era l’avversione ad ogni politica estera “imperiale” e la sua ferma persuasione che per risolvere i suoi gravissimi problemi interni l’Italia avesse soprattutto bisogno di tranquillità e di pace.
Giolitti, nel primo decennio del secolo potè attendere con relativa tranquillità all’esperimento di politica liberale e di rinnovamento che, dopo le oscure giornate del ’98, il paese da lui si attendeva. Anch’egli era idealmente ancora attaccato alla prospettiva risorgimentale di un rinnovamento dal basso della società italiana, che investisse in primo luogo il mondo delle campagne, ma era troppo poco dottrinario e troppo politico per non avvedersi che lo sviluppo industriale italiano e la nascita del movimento operaio erano fenomeni irreversibili e che l’industria ed i sindacati erano ormai i gruppi di pressione più organizzati e le forze più dinamiche dell’intera società italiana. Di qui il disegno a favorire e sollecitare una collaborazione politica tra le forze della borghesia liberale e quelle gravitanti attorno al Partito socialista italiano.
Mentre il Parlamento si occupava di legislazione sociale votando la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e sulla costituzione di un ufficio nazionale del lavoro, nel paese e nella stampa si agitavano con fervore di partecipazione i grandi temi della questione italiana, il problema meridionale, il suffragio universale, la riduzione delle spese militari. Ma le resistenze a questo nuovo corso non mancarono. Da una parte, infatti, vi erano i grandi proprietari fondiari del Mezzogiorno, presi alla sprovvista dall’ondata di scioperi, dall’altra gli industriali che non volevano elevare i salari dei loro dipendenti e taluni di essi giunsero a protestare contro la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Ma ricevettero ben presto sconfitte, basti pensare agli scioperi della Valle padana nel 1902 che si conclusero con molte disfatte e così pure il grande sciopero dei tessili di Como dal settembre dello stesso anno. Di fronte a questi insuccessi, il blocco di forze che si era formato attorno al partito socialista cominciò a sgretolarsi nelle sue varie componenti. Infatti, esso ben presto si trovò ad essere diviso al proprio interno tra varie correnti. Le principali erano quella dei riformisti, della quale Turati era l’esponente più autorevole, disposta a continuare la collaborazione indiretta con Giolitti, e quella egli “intransigenti”, che richiedevano a gran voce un’opposizione integrale. Inizialmente, quest’ultima venne sconfitta nel congresso del partito socialista tenutosi ad Imola nel 1902, ma ben presto acquistò nuovamente terreno e, quando Turati venne officiato da Giolitti per entrare a far parte di un nuovo gabinetto, egli dovette rifiutare, consapevole che se avesse accettato si sarebbe inimicato ogni popolarità. Anche in questa occasione, Giolitti non derogò dalla norma che si era prefisso di non cedere alle lusinghe degli stati d’assedio. Si limitò, infatti, a sciogliere la Camera e convocare nuove elezioni. Queste si svolsero all’insegna dell’indignazione dei benpensanti contro gli eccessi della piazza e si risolsero in un successo per i candidati governativi e in un arretramento per quelli socialisti.
Giolitti aveva, però, rinunciato al suo disegno politico e, pertanto, ritiratosi dal potere, lasciò che per circa un anno i suoi oppositori di destra ed i dirigenti rivoluzionari del PSI si logorassero nel vano tentativo di costruire una maggioranza e un programma comune. Solo del maggio del 1906 egli riprese le redini del governo. Fu proprio da questo periodo in poi che il suo sistema, detto appunto “sistema giolittiano” raggiunse il massimo del suo funzionamento, tanto che i socialisti non gli furono più ostili e talvolta lo sostennero. Vennero affrontati i problemi della legislazione sociale, con l’approvazione di provvedimenti relativi al lavoro femminile, al lavoro nelle risaie e nelle industrie insalubri, al lavoro notturno e ai contratti di lavoro. Per quanto concerne il Mezzogiorno, leggi speciali per la Sicilia, la Basilicata e la Calabria vennero approvate, e nel 1905 fu approvato anche il progetto dell’acquedotto pugliese. Le acque della vita politica italiana tornarono, però, ad essere agitate ed il paese entrava in una nuova e difficile fase della sua storia.
SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Lo scoppio della prima guerra mondiale è dato dall’attentato all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando da parte di uno studente serbo (Gavrilo Princip) nel 1914.
Ad un certo punto l’Austria protesta con la Serbia per quest’attentato mandando un ultimatum: trovare il responsabile dell’uccisione dell’arciduca, ma la Serbia rispose in maniera non soddisfacente poiché essa rifiutò che i responsabili dell’attentato fossero giudicati da un tribunale austriaco. Così l’Austria dichiarò guerra.
La Russia comincia ad accumulare un grande esercito che si pone ai confini austriaci e così l’Austria dichiara guerra anche alla Russia. In seguito entra in guerra anche la Germania alleata con l’Austria e per una catena d’alleanze la Francia dichiara guerra alla Germania in favore della Russia. La Germania aveva elaborato un piano: un attacco immediato: la Germania doveva passare attraverso il Belgio per invadere la Francia. Per passare attraverso uno stato neutrale (Belgio), la Germania doveva isolare il diritto internazionale, poiché un paese neutrale non poteva essere toccato. La Germania incontra una difficoltà: opposizione del Belgio ed entrata in guerra dell’Inghilterra. Nonostante tutto la Germania riesce ad invadere la Francia e la guerra di movimento, si trasforma in GUERRA D’URSULAperché la resistenza francese blocca l’avanzata tedesca e si forma un fronte occidentale.
TRIPLICE ALLEANZA: Germania – Austria - Italia
TRIPICE INTESA: Francia – Inghilterra
Nel frattempo, sul fronte orientale la Russia subisce delle sconfitte per opera dell’Austria, però l’esercito austriaco non da solo riesce ad affrontare l’esercito russo, così una buona pare dei contingenti tedeschi si spostano nel fronte orientale. La guerra subisce uno stallo: sul fronte occidentale c’è guerra d’Ursula, sul fronte orientale si fronteggiano due potenze.
Gli eventi che sbloccano la situazione sono le entrate in guerra degli altri Stati: nel 1915 entra il Giappone perché era diventato una potenza militare e industriale che voleva contendere alla Russia l’espansione in oriente e si allea con la Germania e l’Austria contro la Russia. A fianco della triplice intesa entra la Grecia e il Portogallo. Il confitto si allarga fino ad essere un conflitto mondiale.
Nel 1917 entrano anche gli Stati Uniti. Nel maggio del 1915 l’Italia entra in guerra. Era finita la dittatura giolittiana in seguito alle elezioni con suffragio maschile creando una situazione difficile perché la maggioranza si divide sempre di più in singoli frammenti portando così alla crisi del trasformismo. Innanzitutto rientrano nella vita politica i cattolici.
Con Pio x si erano scoraggiati i movimenti democratici perché si metteva troppo dalla parte degli operai e invece lui voleva una soluzione più moderata.
Tramite il papa, i cattolici rientrano nella vita politica attraverso il PATTO GENTILONI: patto tra moderati e parlamentari. Con questo patto i cattolici erano chiamati a votare in parlamento che erano favorevoli a sostenere la chiesa con i suoi insegnamenti e argomenti della chiesa (ad es. insegnamento privato contro il divorzio). Si attua una strategia politica.
I cattolici rientrano nella vita politica solo con un accordo, ma non erano liberi di votare.
Pio x vuole inserire nella politica i cattolici cercando però di essere sostenuto. I cattolici si alleano con la destra conservatrice e si radicalizza, di più il dibattito parlamentare anche perché lo stesso partito socialista era in crisi perché sul partito c’erano delle correnti riformiste e più intransigenti. In Italia ci fu un dibattito perché c’era chi voleva cercare di cambiare il socialismo e basarlo su riforme; non doveva essere solo un partito dei lavoratori ma doveva mirare alla giustizia sociale, a riforme senza basi ideologiche così forti.
Avviene una scissione tra socialisti e riformisti, che si ritirano e costituiscono partito a se stante IL PARTITO SOCIALISTA RIFORMISTA ITALIANO e dall’altra parte c’è il partito socialista vero e proprio.
Le elezioni del 1913 avevano peggiorato le cose, però aveva favorito la scissione del socialismo e del Parlamento. La tecnica del trasformismo non garantiva equilibrio e questo provoca le dimissioni di Giolitti e al suo posto ci fu Salandra: era un interventista perché riteneva che l’Italia non doveva perdere tempo.
Questa è la situazione italiana durante lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Quando scoppiò la guerra ci fu un dibattito tra interventista e neutralisti. Volevano restare neutrali i socialisti intransigenti, riformisti No. I giolittiani anche volendo essere neutrali avevano dall’altra parte gli interventisti costituiti da destra storica, i cattolici moderati, mentre il papa Benedetto XV aveva lanciato un appello per la pace. Gli interventisti erano anche repubblicani irredentisti, rivoluzionari, gli intellettuali che vedevano nell’intervento un aspetto diverso.
I nazionalisti vedevano una crescita del potere italiano; gli irredentisti e l’intellettuale vedevano una rivendicazione contro l’Austria, una liberazione sociale come se la guerra fosse stata un ideale che avrebbe unito il popolo italiano. Lo considerarono come strumento per diffondere delle riforme d’uguaglianza sociale. Fu presentato questo in modo così convincente che anche i neutrali furono coinvolti. Ci fu una vera e propria manipolazione, la guerra è presentata come un ideale a cui l’Italia deve rispondere fu una mobilitazione di massa e fu anche una propaganda ideologica in cui si presentava in un certo modo un fenomeno. L’intervento fu deciso dal re, il Parlamento votò a favore della neutralità.
Fronte occidentale: Francia – Germania.
Fronte orientale: Russia. Salandra si era dimesso e il re si era intromesso in questo vuoto, rifiutò il ritiro del capo del governo e decise l’intervento. Salandra aveva fatto gia nel patto di Londra un accordo con la Triplice Intesa in cui se vincevano volevano il Friuli – Venezia - Giulia.
Il maggio del 1915 entra in guerra l’Itali e si scontra subito con l’esercito austriaco che si pone ai confini e si crea cosi un nuovo fronte (Altopiano del Carso) perché l’Italia puntava su Trieste che ancora apparteneva all’Austria.
Avvengono i primi scontri sul fiume Isonzo, vicino Trieste (4 battaglie). Il comandante dell’esercito italiano era Luigi Cadorna. Queste battaglie non sono risolutive ma la guerra diventa subito guerra di logoramento: guerra d’Ursula (guerra combattuta nelle trincee).
Nel frattempo, nel fronte orientale (la Russia) continuano le sconfitte. Nel 1915 viene strappata alla Russia la Polonia e poi nell’anno dopo la Russia sembra riprendersi con vittorie che incoraggiano l’entrata in guerra della Romania ma che viene subito sconfitta, così come la Serbia e la Polonia. Nel fronte occidentale nel 1916 avvenne una gran carneficina: scontro tra Tedeschi e francesi sulla roccaforte francese di VERDUN e quest’attacco tedesco che iniziò a febbraio portò a vari scontri fino a giugno. Mentre si finiva questa carneficina, l’Italia subiva un attacco a sorpresa da parte degli austriaci, quella che viene chiamata STRAFEXPEDITION (spedizione politica). Gli austriaci volevano punire gli italiani perché si erano uniti con la Francia, rompendo così alleanza. Gli austriaci volevano cogliere di sorpresa, così non attaccarono dal fonte orientale (dal Carso) ma dal Trentino; questa spedizione creò in Italia una gran paura perché era tanto tempo che l’Italia non subiva degli attacchi da parte di uno stato straniero ma nonostante ciò l’Italia riuscì a bloccare l’esercito austriaco fermandosi sull’altopiano d’Asiago.
Intanto l’Inghilterra ha istituito un blocco navale: bloccava il passaggio delle merci nel Mare del Nord. Cosi la flotta tedesca per bloccarla combatte contro l’Inghilterra ma non ha successo. Questo scontro non risolve niente. A questa punto viene rialimentata l’opposizione alla guerra: si riorganizzano i socialisti che si opponevano e favorivano la pace.
IL DOPOGUERRA IN ITALIA
L’Italia mirava ad ottenere anche la Dalmazia; quando rivendicò questo, dopo il trattato di Versailles, l’Italia si vide negare questa possibilità e abbandonò la conferenza di Parigi non partecipando più alla spartizione del territorio.
Successivamente fu occupata la città di Fiume ma il governo non accettò ciò, la spedizione fu guidata da D’Annunzio il quale sosteneva la vittoria italiana fu mutilata. A Fiume D’Annunzio anticipò una sorta di fascismo. L’Italia intanto internamente aveva gravi problemi:
1)Inflazione: svalutare della moneta;
2)Crisi economica: prezzi troppo alti;
3)Crisi sociale: provocato dal contrasto tra le diverse classi sociali. I lavoratori volevano rivendicarsi in quanto c’era il malcontento dei contadini e del ceto medio; gli imprenditori, i commercianti che si erano indeboliti si vedevano più vicini al proletariato e lontani dai capitalisti;
4)Crisi politica: il partito socialista era in crisi; c’era una scissione in diversi gruppi, uno dei quali formò nel 1921 il partito comunista d’Italia, nato nel Congresso di Livorno. È dunque questo ora il periodo in cui nasce il Fascismo. Al governo italiano era tornato Giolitti propose alcune iniziative:
1)La rivoluzione dell’impresa fiumana: intervenne in via diplomatica, si accordò con la Jugoslava pretendendo la zona del territorio dell’Istria e sgomberando l’esercito di D’annunzio.
2)Atteggiamento nei confronti della borghesia: alla ricerca della giustizia prese dei provvedimenti che ai borghesi non piacquero.
3)Innalzamento della tassa di successione: pagata quando si riceve un’eredità;
4)Rese nominali i titoli di stato: è come se lo stato fosse un’impresa e ci sono delle azioni. C’erano prima privati che compravano azioni ma di questi privati non se ne conosceva il nome, favorendo così lo stato. Rendendo nominali i titoli si dovevano pagare delle tasse, vedendo così chi aveva un reddito molto alto e a questi venivano “inflitte” più tasse.
Con questi provvedimenti andò a intralciare gli interessi della borghesia.
Giolitti governò nel biennio ’20 – ’21. fu costretto poi al fallimento perché questa politica che cercava di eguagliare la situazione, finì per scontentare tutti perché in quel periodo cominciava lo squadrismo fascista. Mussolini era direttore del partito, socialista. Si schierò per l’intervento in guerra allontanandosi così dal partito socialista, in quanto i socialisti erano contrari all’entrata in guerra dell’Italia. Fondò un nuovo giornale “IL POPOLO D’ITALIA”. Si avvicina a posizioni nazionaliste: questo sfocerà nel partito fascista. Il partito fascista era inizialmente solo un movimento, chiamato “I FASCI DI COMBATTIMENTO”: questi erano chiamati così perché il fascio è il simbolo dell’unione della nazione e il fascio si richiama anche al “ Fascio Littorio”:nell’antica Roma i magistrati erano accompagnati da persone che portavano fasci,simbolo dell’autorità dei magistrati. I fascisti assumono questo simbolo perché il punto di riferimento era l’antica Roma dove l’Italia aveva raggiunto la sua massima grandezza. I fasci di combattimento erano un movimento ispirato alla giustizia sociale anche attraverso una lotta:si volevano eliminare gli squilibri all’interno della società italiana.
L’ambiguità che fece crollare il fascismo è data dal fatto che volevano conciliare l’ambizione di una patria potente con quello della giustizia sociale. Poi però dai primi fenomeni di squadrismo, il fascismo si appoggiò alla borghesia,individuando i nemici della nazione,non solo esterni ma anche interni. I nemici interni erano i SOCIALISTI e i COMUNISTI che indebolirono l’Italia perché sminuivano il concetto di nazione. Invece tutti dovevano essere diretti verso lo stesso obiettivo senza lotta di classe. Furono quindi questi i principali obiettivi della violenza fascista organizzata.
Le squadre si mossero a livello agrario; furono iniziate dai fascisti appoggiati dagli agrari che volevano l’impedimento di qualsiasi insurrezione nelle campagne. La violenza organizzata è importante perché dopo la guerra non era più possibile una politica non bellica (solo una propaganda), perché si erano abituati al meccanismo della guerra e tutti erano abituati ad usare la violenza. Questa violenza fu tollerata anche dagli organi di polizia,perché il pericolo rosso era temuto un po’ da tutti. Dal 1921 cominciano queste violenze e nel frattempo entra in crisi il governo di Giolitti in quanto la sua ideologia del trasformismo non poteva più essere attuata e aveva perso anche l’appoggio del Parlamento.
Nel 1921 viene fondato il PARTITO POPOLARE ITALIANO da DON LUIGI STURZO: voleva che aderisse tutto il popolo e non solo i cattolici con un’aspirazione alla giustizia sociale. Il governo di Giolitti cadde perché non aveva appoggiato né i socialisti né i borghesi ma era rimasto neutrale.
Alla fine del 1921 era nato il PARTITO NAZIONALISTA FASCISTA. Nel 1922 si organizza la marcia su Roma in cui i fascisti di tutt‘Italia si riunirono manifestando la loro grandezza. Il re diede l’incarico a MUSSOLINI di formare il nuovo governo che fu definito “totalitarismo imperfetto”:questo perché il duce doveva sempre formalmente rispondere al re. L’ “epoca dei fascismi” vede il trionfo di regimi autoritari di destra non solo in Italia, ma anche in Portogallo (1925), in Germania (1933), in Giappone (1938), in Spagna (1939). Il fascismo e il nazismo sono due fenomeni politici nuovi che pongono in crisi i valori del liberalismo tipici della civiltà europea, creando regimi totalitari di massa, caratterizzati dal nazionalismo, dalla soppressione della libertà e della democrazia, da una politica aggressiva ed imperialistica e da ideologie intolleranti e razziste. Un altro fenomeno nuovo è la comparsa, dopo la rivoluzione del 1917 in Russia, di uno stato socialista che egualmente rinnega i principi del liberalismo. Anzi, in URSS, la costruzione di una società socialista si orienta, sotto Stalin, in senso autoritario e dispotico.
Alla crisi del liberalismo si aggiunge quella del liberismo in seguito alla Grande crisi del 1929 – 1932. la stagnazione o depressione che ne deriva viene infatti fronteggiata con misure di direzione statale dell’economia che impongono un drastico freno alle leggi spontanee e che quindi rovesciano il principio basilare del liberismo.
Come data di chiusura della seconda fase e dell’intero periodo possiamo indicare il 1956. a metà degli anni Cinquanta alcuni fatti cominciano infatti a modificare radicalmente la situazione economica, sociale, politica e culturale italiana:
• Sul piano politico, la morte di Stalin (1953), il processo di “destalinizzazione” in URSS e nei partiti comunisti, le rivolte in Polonia e in Ungheria contro i regimi filosovietici di quei paesi incrinano l’unità dei partiti di sinistra e così può avere inizio, in Italia, il processo che porterà il PSI a staccarsi dal PCI ed ad andare al governo con la DC. Si comincia quindi a prospettare un governo di centro sinistra al posto del tradizionale centrismo.
• Sul piano economico, prende avvio un “boom” che modificherà nel giro di pochi anni il volto della nazione italiana adeguandola allo standard dei maggiori paesi industrializzati.
Contemporaneamente, nel nostro paese si sviluppa la televisione di Stato, mentre l’editoria diventa una vera e propria industria. In seguito a tale rivoluzione industriale, sviluppatasi già a partire dalle seconda metà degli anni Cinquanta, comincia a trasformarsi anche la condizione degli intellettuali che si massifica e si “proletarizza”.
Una svolta profonda è segnata anche dalla guerra. Dalla Resistenza contro i fascisti e i nazisti, dall’irruzione delle masse sulla scena politica, dal passaggio dalla monarchia alla Repubblica e dalla riconquista della libertà e delle democrazia. Ma, pur rappresentando una data cruciale sul piano politico, il 1945 non apportò radicali cambiamenti economici e sociali.
In Europa e negli Stati Uniti il “boom” economico era cominciato dieci anni prima rispetto all’Italia e si prolungherà sino al 1973.
LA SECONDA GUERRA MONDIALE La Seconda Guerra mondiale, durata dal 1939 al 1945, fu il secondo grande conflitto del XX secolo, in cui furono coinvolti quasi tutti i paesi del mondo e che vide duri scontri anche al di fuori dell'Europa. Iniziò il 1° settembre 1939 con l'attacco alla Polonia da parte della Germania nazista, che già aveva stretto patti con l'Italia e con il Giappone, e si era annessa l'Austria e la Cecoslovacchia. Ai tre paesi si opposero, conquistando la vittoria finale, le truppe di Inghilterra, Francia, Russia, Stati Uniti e paesi alleati. Decisivo fu l'im-piego da parte degli Stati Uniti della prima bomba atomica, sganciata il 6 agosto 1945 sulla città giapponese di Hiroshima. In seguito al conflitto la Germania fu divisa in due parti, la Repubblica Federale, sotto la sfera d'influenza dei paesi occidentali, e la Repub-blica Democratica, sotto quella dell'Unione Sovietica. I morti complessivi furono quasi 50 milioni, di cui quasi 10 sterminati nei campi di concentramento nazisti.
L’ 1 settembre 1939 iniziò l'invasione del territorio polacco da parte delle armate tedesche che passarono di vittoria in vittoria, specie in considerazione del fatto che l'armamento dei due eserciti era di un tale divario da non consentire ai polacchi che una disperata eroica re-sistenza. Varsavia venne raggiunta dai tedeschi il 9 settembre; il 17 anche la Russia entrò in guerra contro la Polonia e tre giorni dopo si ebbe il congiungimento delle truppe russo-tedesche. Il 6 ottobre la Polonia cessava di esistere come nazione ed il popolo polacco avrebbe dovuto attendere la fine della guerra per veder ricostituito il proprio stato, affron-tando sei anni di tremende sofferenze. La rapida vittoria all'est e la situazione all'ovest, do-ve si combatteva una non guerra tra le armate tedesche della linea Sigfrido e quelle franco-inglesi della linea Maginot, permise a Hitler di proporre la pace agli inglesi e ai francesi, pace che venne respinta. Le stasi sul fronte e la ricusazione dell'offerta di pace permise a Hitler di affrontare e risolvere la questione norvegese (dalla Norvegia la Germania si rifor-niva di materiali strategici e gli anglo-francesi cercarono di impedirlo con la posa di mine nelle acque territoriali norvegesi). La Germania invase la Danimarca e la Norvegia ottenne ancora una volta una schiacciante rapida vittoria. Si giunse così al 10 maggio 1940 quando scattò sul fronte occidentale il grande attacco tedesco che secondo i piani del generale Von Manstein doveva portare all'annientamento delle truppe anglo-francesi. In 5 giorni fu occupata l'Olanda, poi il Belgio; quindi i tedeschi sfondarono il fronte alleato a Sedan dilagan-do sino alla Manica e accerchiando il resto degli eserciti alleati. In questo frangente venne da parte inglese attuata l'operazione di salvataggio delle truppe alleate circondate a Dunkerque (dal 26 maggio al 4 giugno 1939 furono portati, con ogni mezzo, al di là della Ma-nica, 330.000 uomini).
Entrata in guerra dell'Italia (10 Giugno 1940)
Ormai per la Francia era la fine: il 10 giugno anche l'Italia entrò in guerra a fianco della Germania, il 14 giugno i tedeschi occuparono Parigi; il 22 giugno la Francia firmò l'armistizio. Ora contro il nazismo ed il fascismo (che, va ricordato, il 1 novembre 1936 avevano stipulato l'asse Roma-Berlino e che il 22 maggio 1939 avevano firmato il patto d'acciaio tra le due potenze) si ergeva solo l'Inghilterra. In Inghilterra era subentrato alla presidenza del consiglio un uomo che avrebbe influenzato con la propria grande personalità tutto il resto del conflitto: Winston Churchil. L'Inghilterra subì dall'agosto all'ottobre una tremenda serie di bombardamenti aerei da parte della Luftwaffe. La battaglia di Inghilterra fu affrontata con grande decisione dagli inglesi, una decisione tale da sconsigliare Hitler a tentare uno sbarco sull'isola. La caccia inglese inflisse perdite assai pesanti all'attaccante tedesco. Per quanto concerne l'Italia va subito detto che le nostre forze armate, assolutamente impreparate a una guerra moderna, si trovarono disperse su vari fronti: prima quello contro la Francia, poi quello in Libia e quindi quello in Africa orientale. Non solo c'è da rilevare come il nostro stato maggiore pensasse più ad una guerra difensiva che non offensiva, così che ci si trovò a perdere l'impero che era totalmente isolato dalla madre patria, a subire una serie di rovesci in Libia, a non saper risolvere il problema di Malta, munita roccaforte inglese nel mezzo del Mediterraneo.
Infine ci si impelagò in avventure che si rivelarono assai dannose sia sul piano puramente militare che su quello del prestigio internazionale. Il 25 ottobre 1940 Mussolini decise di attaccare la Grecia partendo dall'Albania, con la convinzione di ottenere una facile vittoria (quasi a compensare in qualche modo i successi tedeschi). Ma l'esercito greco non solo resistette validamente ma occupò addirittura il territorio albanese. Così fu necessario l'inter-vento tedesco attraverso la Jugoslavia e direttamente in Grecia per togliere dai guai l'alleato e per potere affrontare senza preoccupazioni su altri fronti il problema russo. Non va dimenticato che, malgrado il patto di non aggressione esistente tra la Russia e la Germania, l'occupazione di territori all'est era pur sempre per Hitler il modo di dare spazio alla Germania nelle terre orientali. Infatti egli aveva già programmato l'operazione Barbarossa che avrebbe dovuto signifi-care l'annientamento dell'esercito sovietico. Così si arrivò alla completa occupazione della Jugoslavia e della Grecia dove, con la fine di aprile 1941, ogni resistenza ufficiale veniva a cessare. Con il 22 giugno 1941 la Germania attaccò la Russia ed anche in questa cam-pagna si assistette ad un susseguirsi di successi dei Tedeschi che all'inizio dell'inverno si trovarono sotto le mura di Mosca. Centinaia di migliaia di soldati russi vennero fatti prig-ionieri o annientati e sembrò che nulla potesse fermare le armate naziste. Ma non fu così: l'inverno russo e una maggiore resistenza offerta dai combattimenti sovietici fecero fallire i piani di Hitler alla fine del 1941. Va considerato che un altro fatto acca-duto a migliaia di chilometri di distanza doveva influire in modo decisivo sugli sviluppi della guerra. Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò di sorpresa la flotta americana nella base di Pearl Harbour coinvolgendo direttamente gli Stati Uniti, con il loro immenso po-tenziale industriale, nel conflitto, segnando quindi decisamente una svolta nella conduzione e nello sviluppo della guerra. Anche nel Pacifico, come in Europa per la Germania, l'inizio della guerra segnò una serie di successi giapponesi i quali occuparono la Thailandia, la Malesia giungendo ad occupare la grande base inglese di Singapore il 15 febbraio 1942. I giapponesi occuparono Hong-Kong, le Filippine, la Nuova Guinea, il Borneo, Sumatra per quanto interessava il teatro del Pacifico.
La situazione italiana
La guerra era davvero mondiale e nella vastità del conflitto il settore italiano sembrava di importanza minore, ma questa valutazione strategica non era certamente valida per i soldati italiani combattenti in Africa settentrionale, in Russia e contro la guerriglia jugoslava; ne tanto meno per la popolazione civile che in molte città viveva l'esperienza tragica dei bombardamenti aerei diurni e notturni. L'Etiopia era perduta, in Grecia ed in Africa settentrio-nale anche avevano dovuto chiedere l'aiuto dei tedeschi (in Libia si era avuto l'intervento dell'Afrikakorps direttamente comandato dal generale Rommel). La nostra flotta, priva del radar, non poteva competere con quella inglese che ormai era padrona del Mediterraneo. Invece di affrontare in modo adeguato i problemi relativi al nostro settore Mussolini inviò una armata (l'Amir) in terra di Russia con conseguenze disastrose data la mancanza di mezzi per una guerra di movimento e di attrezzature per poter superare il gelido inverno russo. Durante tutta la condotta della guerra si può affermare che mentre il coraggio del soldato italiano e il suo spirito di sacrificio risultarono certo non inferiori a quelli degli altri combattenti, fece chiaramente spicco l'insipienza dei comandanti, l'impreparazione gene-rale, il pressappochismo di una classe politica e militare che ineluttabilmente avrebbe por-tato alla sconfitta. Se poniamo la fine del 1942 come l'inizio del rovesciamento delle sorti della guerra lo facciamo perché con la fine dell'anno vediamo su tutti i fronti una generale inversione di tendenza. Abbiamo detto che con la fine dell'estate 1942 nel Pacifico inizia la controffensiva americana, vediamo ora che in Africa settentrionale a novembre si ha non solo la controffensiva inglese a El Alamein ma si ha lo sbarco americano in Marocco e in Algeria quasi una prova generale di quell'attacco alla fortezza tedesca nell'Europa conti-nentale, una prova di quel secondo fronte richiesto dai russi per poter vedere diminuita la pressione germanica contro di loro. Le truppe italo-tedesche di stanza in territorio africano si arresero il 13 maggio 1943, ora gli anglo-americani si preparavano ad attaccare diretta-mente l'Europa.
La guerra in Grecia
Infine ci si impelagò in avventure che si rivelarono assai dannose sia sul piano puramente militare che su quello del prestigio internazionale. Il 25 ottobre 1940 Mussolini decise di attaccare la Grecia partendo dall'Albania, con la convinzione di ottenere una facile vittoria (quasi a compensare in qualche modo i successi tedeschi). Ma l'esercito greco non solo resistette validamente ma occupò addirittura il territorio albanese. Così fu necessario l'inter-vento tedesco attraverso la Jugoslavia e direttamente in Grecia per togliere dai guai l'alleato e per potere affrontare senza preoccupazioni su altri fronti il problema russo. Non va di-menticato che, malgrado il patto di non aggressione esistente tra la Russia e la Germania, l'occupazione di territori all'est era pur sempre per Hitler il modo di dare spazio alla Ger-mania nelle terre orientali.
La guerra in Russia
Infatti Hitler aveva già programmato l'operazione Barbarossa che avrebbe dovuto signifi-care l'annientamento dell'esercito sovietico. Così si arrivò alla completa occupazione della Jugoslavia e della Grecia dove, con la fine di aprile 1941, ogni resistenza ufficiale veniva a cessare. Con il 22 giugno 1941 la Germania attaccò la Russia ed anche in questa cam-pagna si assistette ad un susseguirsi di successi dei Tedeschi che all'inizio dell'inverno si trovarono sotto le mura di Mosca. Centinaia di migliaia di soldati russi vennero fatti prig-ionieri o annientati e sembrò che nulla potesse fermare le armate naziste.
Pearl Harbour (Dicembre 1941)
Ma non fu così: l'inverno russo e una maggiore resistenza offerta dai combattimenti sovie-tici fecero fallire i piani di Hitler alla fine del 1941. Va considerato che un altro fatto acca-duto a migliaia di chilometri di distanza doveva influire in modo decisivo sugli sviluppi della guerra. Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò di sorpresa la flotta americana nella base di Pearl Harbour coinvolgendo direttamente gli Stati Uniti, con il loro immenso po-tenziale industriale, nel conflitto, segnando quindi decisamente una svolta nella conduzione e nello sviluppo della guerra. Anche nel Pacifico, come in Europa per la Germania, l'inizio della guerra segnò una serie di successi giapponesi i quali occuparono la Thailandia, la Malesia giungendo ad occupare la grande base inglese di Singapore il 15 febbraio 1942. I giapponesi occuparono Hong-Kong, le Filippine, la Nuova Guinea, il Borneo, Sumatra per quanto interessava il teatro del Pacifico.
Le vittorie giapponesi
Nella terra ferma si ebbe l'occupazione della Birmania. Alla fine di luglio del 1942 l'eser-cito giapponese aveva conquistato territori per otto milioni di chilometri quadrati raggiun-gendo obiettivi che sembravano impossibili. I giapponesi occupavano Hong-Kong, le Filippine, l'Indocina, Singapore e parte dell'arcipelago melanesiano, giungendo fino ai confini dell'India e penetrando nell'interno della Cina. Con questa nazione il Giappone era in guerra già da molti anni, nel tentativo di distruggere le forze nazionaliste cinesi di Ciang-kai-Sheck e quelle comuniste di Mao-tse-Tung. Ma questo non significava la scon-fitta degli Stati Uniti che anzi cominciarono a far sentire il peso della loro potenza proprio durante la battaglia del mar dei Coralli e durante la battaglia di Midway (maggio-giugno 1942) battaglia quest'ultima che invertì la tendenza nel Pacifico, sino a che con il mese di agosto ebbe inizio la controffensiva americana.
La guerra in Italia
La figura del re, del principe ereditario, di Badoglio e di tutta una casta politica e militare ampiamente compromessa con il fascismo e che, nell'assoluta incuria per centinaia di mi-gliaia di soldati italiani abbandonati sui vari fronti di guerra e nei territori occupati, nel completo disinteresse per la nazione e, solo con lo scopo di salvaguardare le proprie vite, avevano gettato l'Italia nel caos, non escono bene da questa serie di episodi. Ma in ultima analisi quella era stata la classe politico militare che aveva portato al fascismo, che aveva condotto la nazione in guerra nel massimo dell'impreparazione e che chiudeva in modo non degno la propria parentesi storica. In Italia i tedeschi attuarono una prima linea di resistenza sulla cosiddetta linea Gustav (Garigliano, Cassino e Sangro) e da questa linea gli Alleati non riuscirono a passare se non nel maggio 1944 raggiungendo Roma il 4 giugno. Si arrivò così ad una nuova linea di resistenza tedesca che si stendeva lungo l'Appennino toscoemiliano da sopra Livorno per Bologna sino alle paludi di Comacchio. Qui si dovette attendere l'aprile del 1945 per completare la liberazione d'Italia. Negli anni tragici dell'occupazione nazista e del governo repubblicano fascista di Salò, l'Italia seppe esprimere per mezzo della lotta partigiana il senso della propria dignità e giustificare il diritto a quel riscatto politico che le competeva. La resistenza, dopo l'armistizio si trasformò in una lotta aperta contro l'esercito tedesco, passato alla posizione di esercito occupante. Dopo le prime rivolte po-polari avvenute a Roma e a Napoli, (le quattro giornate di Napoli), si costituirono in Piemonte, nel Veneto, in Emilia e in Liguria le prime organizzazioni partigiane. Dopo la di-chiarazione di guerra alla Germania da parte dell'Italia (13 ottobre 1943) e il riconoscimento della cobelligeranza italiana da parte degli anglo-americani, il Comitato di libera-zione nazionale dell'alta Italia assumeva la guida della lotta partigiana al nord contrappo-nendosi anche sul piano legale allo pseudo governo fascista.

I partigiani
Nonostante le numerose difficoltà e i dissensi politici sorti in senso al Comitato, le forze partigiane trovarono nelle Marche e nella Toscana grandi centri di azione. Nel maggio del '44 le formazioni partigiane settentrionali si organizzarono come esercito regolare e costituirono il Comando del corpo volontario della libertà. Nell'estate del '44 affrontarono alcune battaglie tra cui la più importante fu quella di Monte Fiorino, mentre il tentativo di liberare Siena e Firenze provocò le più feroci reazioni da parte dei tedeschi in tutta la Toscana. Le lotte si spostarono nel nord oltre la cosiddetta linea Gotica e qui i partigiani si affiancarono in modo determinante all'esercito alleato. Si arrivò così al 25 aprile 1945 quando l'avanzata alleata e l'insurrezione partigiana portarono alla completa liberazione d'Italia e segnarono la fine di Mussolini fucilato a Giulino di Mezzegra sul lago di Como il 28 aprile.
La Resistenza italiana
La Resistenza italiana nacque subito dopo l'8 settembre del 1943. Fu la spontanea, multi-forme reazione della grande maggioranza del popolo italiano alla ventennale dittatura fas-cista, all'alleanza con la Germania nazista e all'andamento disastroso della guerra. Alla Re-sistenza partecipò una moltitudine, spinta dell'impeto naturale di salvarsi dalla prigionia tedesca, ma anche da una fervida aspirazione di liberazione, ed una minoranza che ebbe il coraggio di prendere le armi e d'iniziare la guerriglia contro i loro alleati, i fascisti della Repubblica di Salò. Il Movimento annoverò nelle sue file migliaia d'italiani, uomini e donne, operai, contadini, professionisti e sacerdoti. Questo esercito di anonimi si prodigò in mille modi, spesso a rischio della propria vita, per dare aiuto, rifugio, cibo e vestiario ai perseguitati e ai ricercati dai nazisti, ai gruppi di sabotatori che agivano nelle città occu-pate, agli organizzatori del fronte sindacale che operavano nelle fabbriche, ai partigiani che impegnarono, per venti mesi, in una logorante guerriglia, 13 divisioni tedesche e fasciste.
"GAP" e "SAP"
La Resistenza italiana nacque il giorno stesso in cui il governo Badoglio proclamò l'armi-stizio fra l'Italia e le potenze alleate. Non ci furono tempi vuoti di mezzo; ed è questo fatto che viene a confermare, in sede storica, l'esistenza per tutto il ventennio, di una sorda ri-bellione alla dittatura fascista e d'un mai sopito sentimento naturale alla libertà. Le bande armate operarono in montagna ed in pianura. I Gap (Gruppi d'azione patriottica) e le Sap (Squadre d'azione partigiana) agirono per lo più nei centri abitati, grandi e piccoli, con at-tentati alle istituzioni del nemico e con azioni di sabotaggio. Quindi Gap, Sap e bande di partigiani costituirono l'esercito combattente della Resistenza. La maggioranza di queste formazioni erano legate ai vari C.L.N. (Comitati di Liberazione Nazionale), organi squisi-tamente politici; i dati relativi alle organizzazioni politiche a cui facevano capo le forze di Resistenza (Partito Comunista, Partito d'Azione, Partito Socialista, Democrazia Cristiana ecc.) non sono certi, in quanto i dati forniti dalle loro associazioni o dai partiti politici, non concordano con dati in possesso del Ministero della Difesa, così anche il numero dei cadu-ti, dei feriti e dei dispersi. Comunque un'analisi comparativa consente di affermare che i combattenti della Resistenza Italiana furono circa 270.000.
13 divisioni bloccate
L'esercito tedesco, nonostante l'alta efficienza delle sue unità, la ferrea disciplina e la pre-senza delle forze speciali, quali le «SS», accusò fin dai primi mesi i colpi ricevuti dalle bande di partigiani. Infatti importanti contingenti di truppa (13 divisioni) non poterono es-sere utilizzate al fronte, dove combattevano le truppe regolari, perché indispensabili all'in-terno per fronteggiare le formazioni partigiane che minavano continuamente la sicurezza dei rifornimenti, ed i gruppi armati e gli organizzatori clandestini della città, che ostacola-vano seriamente la produzione bellica. I partigiani si erano procurati le armi prelevandole dai depositi dell'esercito italiano. Ma si trattava di fucili e di poche altre armi leggere che non potevano reggere il confronto con quelle dei nazisti. C'era poi il problema delle muni-zioni. A queste deficienze sopperirono in seguito gli Alleati, in particolare con le forniture di armi, munizioni, denaro ed ufficiali di collegamento ai partigiani del settentrione. Solo nel corso degli ultimi quattro mesi di guerra, gennaio-aprile 1945, la Special Force orga-nizzò 865 lanci di materiale da guerra ai partigiani del nord. Due terzi di tali lanci riusciro-no, cioè 551 per complessive 1200 tonnellate e precisamente 650 tonnellate di armi e mu-nizioni, 300 tonnellate di esplosivo e 250 tonnellate di altri materiali. Anche in riferimento a questi aiuti l'efficacia della Resistenza armata fu maggiore nel nord d'Italia. In proposito si possono distinguere due zone separate approssimativamente da una linea che va dalla foce del Cecina, in Toscana, ad Ancona, nelle Marche. A nord, includendo non solo l'Italia settentrionale, ma anche la valle dell'Arno e parte delle Marche, la resistenza raggiunse quell'alto livello di organizzazione e di efficienza che ne giustificò la definizione di «Stato libero in territorio occupato». A sud della linea Cecina-Ancona, nelle diciassette province, che all'epoca dell'occupazione tedesca gravitavano intorno a Roma, la Resistenza più che un movimento organico fu la somma di un gran numero di attività e d'iniziative popolari, quali ad esempio l'insurrezione di Napoli ed i vari attentati contro i tedeschi e fascisti. Per 19 mesi consecutivi le forze della Resistenza attaccarono il nemico ovunque questi si tro-vava, creando zone libere in diverse province e precedendo le armi degli Alleati nella libe-razione di città e centri minori. Nell'aprile del 1945 il C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) mobilitò l'intero schieramento della Resistenza in appoggio all'ulti-ma grande offensiva alleata in Italia. Le forze tedesche e fasciste in ripiegamento vennero impegnate dai partigiani, mentre le grandi città del nord insorgevano ad una ad una. Agli aspri combattimenti nell'ultimo tratto dell'Appennino ed in Liguria fecero eco le insurre-zioni del 23-26 aprile a Genova, Torino e Milano; del 27 a Padova; del 28 a Venezia; del 30 a Treviso, Belluno e Trieste; del primo maggio a Udine e negli altri centri posti sulla via della ritirata nemica.
Il contributo della Resistenza
Per 19 mesi consecutivi le forze della Resistenza attaccarono il nemico ovunque questi si trovava, creando zone libere in diverse province e precedendo le armate degli Alleati nella Liberazione di città e centri minori. Il contributo di sacrificio e di sangue della Resistenza italiana fu elevatissimo: 45.000 partigiani caddero in combattimento, 23.000 furono tortu-rati e trucidati dai nazisti e dai fascisti dopo essere stati arrestati in campagna o nelle città; oltre 20.000 furono i feriti; 19.000 civili, uomini, donne e bambini vennero passati per le armi. Ed ancora bisogna aggiungere gli 8.000 politici ed i 30.000 e più militari che non fe-cero ritorno dai campi di prigionia della Germania. Le perdite umane degli Alleati, nell'in-tera campagna d'Italia, furono inferiori a quelle della Resistenza.
La Resistenza europea
L'ultimo conflitto mondiale fu caratterizzato dal fenomeno della Resistenza. La macchina bellica tedesca che aveva polverizzato l'esercito polacco e quello francese, quello belga, olandese, danese, norvegese, jugoslavo e greco e che aveva respinto l'Armata Rossa fino alle porte di Mosca, occupando quasi tutto il territorio della Russia europea, fu tuttavia co-stretta, prima o poi, ad affrontare ovunque importanti gruppi di resistenti armati, pronti ad una guerra fino all'ultimo sangue. Alla Resistenza partecipò una moltitudine spinta del-l'impeto naturale di salvarsi dalla prigionia e dalla tirannide tedesca, ma anche da una fer-vida aspirazione alla libertà, ed una minoranza che ebbe il coraggio di prendere le armi e di iniziare la guerriglia contro i Tedeschi che occuparono la propria nazione.
Movimento antinazista
Questo vastissimo movimento antinazista nacque dalla brutale politica instaurata dagli oc-cupanti e, forse, dalla disperazione stessa. La coscienza, l'organizzazione e la speranza della vittoria finale vennero in seguito. Pertanto, inizialmente, i gruppi di partigiani europei non avevano alcun collegamento, nemmeno nel proprio paese. Il primo centro propulsore dei primi nuclei organizzati dalla resistenza europea fu Londra, ove il S.O.E. (Secret Operations Executive) cercò di raccogliere e di potenziare l'attività di quadri militari legit-timisti della Cecoslacchia, della Polonia, dell'Olanda, del Belgio e della Francia, operando, però, in modo da mantenerli rigorosamente entro i vecchi limiti dello spionaggio e del sabotaggio, e mirando soprattutto a creare alle spalle del nemico una schiera di esperti nella lotta clandestina, non prevedendo una più larga partecipazione popolare. A fianco del S.O.E. e sotto il suo controllo, agì il servizio informativo gollista, il B.C.R.A. (Bureau Central de Renseignements et d'Actions).
Reazioni popolari
Un primo mutamento qualitativo nella struttura della Resistenza si verificò in occasione dell'invasione della Grecia e della Jugoslavia dove la reazione popolare fu vasta ed imme-diata ed il clima generale diventò subito incandescente. Contemporaneamente, all'altro ca-po dell'Europa, si sviluppò lo stesso fenomeno: in Olanda nacque il movimento dei «Gueux» (i pezzenti) che trasse il nome dai fautori della feroce rivolta dei Paesi Bassi sotto la dominazione spagnola, nel XVI secolo. In Belgio, il Borgomastro di Bruxelles fornì uno dei primi e più clamorosi esempi di disobbedienza civile agli ordini dei tedeschi. Costretto a dimettersi egli fece affiggere un proclama pubblico in cui dichiarava: «Io sono, io resto e resterò il solo Borgomastro legittimo di Bruxelles. Calma, coraggio e fiducia. Restate uniti, la vostra unione farà la forza».
I campi di sterminio
Nell'Unione Sovietica i primi sintomi di sviluppo della Resistenza coincisero con la più radicale svolta del regime nazista. Al principio del 1941, infatti, dopo il fallimento della battaglia di Londra, nella prospettiva di una guerra che si sarebbe protratta oltre i limiti previsti, Hitler aveva deciso di dare la soluzione finale « al problema ebraico », la «Endlösung», cioè lo sterminio totale degli undici milioni di ebrei che vivevano in Europa. Prima campi di sperimentazione furono la Polonia e l'Unione Sovietica dove già si trova-vano i commandos speciali, gli «Einsatzgruppen», con il compito di provvedere all'elimi-nazione degli ebrei e dei comunisti, a man mano che la Wehrmacht occupava i territori. I dati forniti da Reitlingher illustrano l'applicazione data all'ordine di Hitler: 30.000 fucilati a Kiev, dagli 80 ai 120.000 a Riga e altre decine di migliaia a Korno, a Minsk e Pinsk nella Russia Bianca, a Leopoli, a Vinnitza, a Kharkov ed a Dniepropetrowsk in Ucraina; altri ancora a Rostov. Complessivamente oltre un milione di ebrei e di comunisti vennero fuci-lati o impiccati nei territori dell'Unione Sovietica. Evidentemente quella politica di stermi-nio fu una leva potente che spinse decine di migliaia di uomini e di donne sovietici, con le armi in pugno, nelle grandi foreste e nelle immense pianure. Uomini e donne decisi a ven-dicare le vittime innocenti ed a combattere fino all'ultimo il nemico. Anche il governo del paese reagì alle prime notizie dello sterminio inserendo la Resistenza nel quadro delle isti-tuzioni statali. Il 18 luglio 1941, dopo i primi massacri della popolazione civile, il Comi-tato Centrale del Partito Comunista Sovietico prese la decisione di organizzare la lotta die-tro le file nemiche e ne diede il compito al Comando dell'esercito. La decisione prevedeva la « creazione di una situazione insostenibile per l'Armata tedesca mediante la disorganiz-zazione dei suoi collegamenti, delle sue linee di comunicazione e degli stessi distaccamenti militari, aiutando in ogni modo distaccamenti partigiani a cavallo o a fanteria.».
Varsavia l'eroica
In Polonia, a Varsavia, in pochi giorni vennero eliminati 350.000 ebrei, dei 450.000 rinchiusi nel ghetto dai nazisti fin dal primo giorno dell'occupazione. Di fronte a tali massacri anche in Polonia la Resistenza, rappresentata inizialmente dall'organizzazione clandestina «Armia Krajowa» (Esercito Nazionale), alla quale si aggiunse al principio del 1942 il movimento partigiano di sinistra «Gwardia Ludowa» (Guardia Popolare), aumentò le file dei combattenti. Non si trattava più di una scelta politica, ma della scelta fondamentale fra la fede nell'umanità e nella negazione della condizione umana. Il 20 ottobre 1941, a Kraguievac in Bosnia, i tedeschi massacrarono tutta la popolazione maschile dai 16 ai 60 anni: 2.300 persone. In precedenza erano stati deportati in Germania 300.000 soldati jugoslavi. La risposta dei popoli fu sempre la medesima: i movimenti partigiani di Tito e del generale monarchico Mihailovic si rafforzarono e la guerriglia venne intensificata. Così avvenne in Grecia, dove nel settembre del 1941 venne costituito l'E.A.M. (Fronte Nazionale di liberazione) in cui confluirono le organizzazioni politiche di sinistra e di centro. In dicembre l'E.L.A.S. (l'Organizzazione Armata dell'E.A.M.) operava contro i nazisti con una forza di 20-25.000 partigiani. La Resistenza in Francia iniziò nell'estate del 1941 con i primi attentati contro ufficiali nazisti e francesi collaborazionisti.
I partigiani in Francia
Nel 1942 entrarono in azione le prime formazioni di «maquis». Il movimento si estese e le azioni di sabotaggio si moltiplicarono con il moltiplicarsi delle rappresaglie dei tedeschi: 20.000 ebrei francesi vennero deportati dal territorio occupato dai germanici, altri 15.000, rifugiatisi nella zona libera, seguirono la stessa sorte, dopo che il governo di Vichy li ebbe consegnati ai tedeschi. La medesima situazione si verificò in Cecoslovacchia. Alla sop-pressione del governatore nazista Heydrich da parte di partigiani cechi, l'occupatore rispose con il massacro di Lidice, dove 184 uomini e 7 donne vennero fucilati sul posto. Tutta la popolazione fu deportata nei campi di concentramento, compresi i bambini, e la cittadina venne bruciata e rasa al suolo. Per rappresaglia vennero uccisi anche 1.800 ebrei di Praga e 1.800 detenuti politici. Ma le forze della Resistenza cecoslovacca non disarmarono. In tutta Europa agirono circa un milione e mezzo di combattenti della Resistenza; un altro milione condusse la guerriglia nei territori dell'Unione Sovietica invasa. Sul piano militare il co-mando tedesco fu costretto ad impiegare nei fronti interni ben più di due milioni e mezzo di soldati, il che contribuì enormemente ad indebolire la prima linea riducendo le possibilità d'attacco e di difesa.
La fine della guerra
Va detto che dal '44 il fronte italiano era diventato del tutto secondario nella strategia alleata dato che il 6 giugno gli anglo-americani avevano effettuato (con una operazione aeronavale colossale) lo sbarco in Normandia aprendo così quel secondo fronte che avrebbe segnato la fine della Germania nazista. L'esercito germanico stretto tra i russi ad est e gli Alleati ad ovest dovette abbandonare i territori occupati e si trovò a combattere in Germania in un folle tentativo di vana resistenza. I russi e gli Alleati si congiunsero in Austria, i russi arrivarono a Berlino il 23 aprile e qui si concluse la resistenza tedesca che dopo il suicidio di Hitler (30 aprile) non poteva avere più senso. In Europa il conflitto era terminato; in Asia e nel Pacifico la disfatta giapponese si stava chiaramente delineando ma quello che decise il Giappone a chiedere la resa incondizionata fu l'uso da parte americana prima su Hiroshima e poi su Nagasaki, di due bombe nucleari, ordigni di distruzione e di morte che venivano impiegati per la prima volta nella storia dell'umanità e che posero termine al secondo conflitto mondiale. La data per la storia è il 2 settembre 1945.
Dalla guerra "calda" alla guerra "fredda".
La storia del dopoguerra, cioè di quel periodo che inizia con la fine della II guerra mondiale sino ad oggi, è caratterizzata da due fatti essenziali: primo la "guerra fredda" fra Occidente ed Oriente, a cui fa seguito la distensione; secondo, la decolonizzazione, cioè la fine degli imperi coloniali e il sorgere di nazioni indipendenti, talune del tutto nuove. Il mondo si risvegliava dal terribile incubo della seconda guerra mondiale che aveva causato circa 50 milioni di morti, immense distruzioni, esaurimento e crollo economico di molti paesi soprattutto europei. Il conflitto si era concluso in Europa praticamente il 2 maggio 1945, con la caduta in mano sovietica di Berlino. All'ammiraglio Doenitz, successore di Hitler, suicidandosi il 30 aprile, non restò che firmare la resa incondizionata l'8 maggio 1945. Il Giappone, che invece dimostrava ancora una forza notevole in soldati (2 milioni) e in mezzi (9.000 aerei e una flotta potente), fu costretto alla resa da un nuovo, sconosciuto, micidiale ordigno: la bomba atomica. La distruzione di Hiroshima (6 agosto) e di Nagasaki (9 agosto 1945) costrinsero il mikado (l'imperatore) ad accettare la resa incondizionata (2 settembre 1945). La tremenda carneficina iniziata il 1° settembre 1939 era terminata.
La fine della guerra
Va detto che dal '44 il fronte italiano era diventato del tutto secondario nella strategia alleata dato che il 6 giugno gli anglo-americani avevano effettuato (con una operazione aeronavale colossale) lo sbarco in Normandia aprendo così quel secondo fronte che avrebbe segnato la fine della Germania nazista. L'esercito germanico stretto tra i russi ad est e gli Alleati ad ovest dovette abbandonare i territori occupati e si trovò a combattere in Germania in un folle tentativo di vana resistenza. I russi e gli Alleati si congiunsero in Austria, i russi arrivarono a Berlino il 23 aprile e qui si concluse la resistenza tedesca che dopo il suicidio di Hitler (30 aprile) non poteva avere più senso. In Europa il conflitto era terminato; in Asia e nel Pacifico la disfatta giapponese si stava chiaramente delineando ma quello che decise il Giappone a chiedere la resa incondizionata fu l'uso da parte americana prima su Hiroshima e poi su Nagasaki, di due bombe nucleari, ordigni di distruzione e di morte che venivano impiegati per la prima volta nella storia dell'umanità e che posero termine al secondo conflitto mondiale. La data per la storia è il 2 settembre 1945.
II CAPITOLO
ASPETTI CULTURALI
L’ORGANIZZAZIONE DELLA CULTURA: LE COMUNICAZIONI DI MASSA E GLI INTELLETTUALI
La radio, il cinema, i rotocalchi segnano la nascita dell’era delle comunicazioni di massa. Essa è caratterizzata dal carattere industriale delle comunicazioni e dell’intrattenimento e dall’effetto che produce: l’ omogeneizzazione del pubblico.
La radio diventa negli anni Venti il canale di comunicazione più diffuso e già negli anni Trenta tende a penetrare in ogni famiglia. Fa pervenire le notizie nel momento stesso in cui i fatti accadono e le fa penetrare direttamente nel seno della famiglia, tende a privatizzare la vita e a regolarla secondo un orario rigoroso che coinvolge non solo il tempo del lavoro ma anche quello del divertimento. Inoltre, può avere un altissimo valore di propaganda politica, come percepiscono subito sia i dittatori come Mussolini ed Hitler, sia uomini democratici come Roosevelt.
Il cinema diventa lo spettacolo per tutti, una fabbrica dei sogni che tende a rendere omogeneo l’immaginario attraverso il fenomeno del divismo di massa collegato alle figure degli attori e delle attrici. È largamente egemonizzato dall’industria americana, che in tal modo fa conoscere il proprio sistema di valori e il proprio stile di vita in tutto il pianeta, influenzando profondamente mentalità e comportamenti di massa.
Il rotocalco, basato sul reportage e sulla fotografia, si diffonde già negli anni Venti e trionfa nel decennio successivo, sia in URSS che in USA e in Europa, talvolta sostituendo il giornale.
Con la radio, il rotocalco, i fumetti e il cinema il mondo dell’immagine tende a prevalere su quello della parola scritta. Quando nell’immediato dopoguerra comincia a diffondersi la televisione dapprima negli Stati Uniti, poi in Gran Bretagna e in Francia, successivamente negli altri paesi europei, questo processo sarà ancora più radicale.
Altri modi di omogeneizzazione del pubblico sono indotti dalla diffusione della musica leggera e degli sport, a cui collabora efficacemente la radio. Anche nella musica si afferma l’egemonia dell’industria discografica americana. Dall’America giunge in Europa anche il jazz, che combina una musica da ballo dai ritmi sincopati, propria della cultura nera, con una strumentalizzazione non convenzionale e comunque estranea ai canoni tradizionali.
Anche nella letteratura penetrano in modo più capillare che in passato le forme dei generi di massa, come il romanzo poliziesco o il romanzo rosa. Ma cominciano a circolare anche i fumetti o i fotoromanzi per adulti.
La diffusione di tecniche di massa volte alla persuasione e al consenso, ampiamente usate dalle dittature degli anni Trenta, provocano la preoccupazione degli intellettuali, che spesso reagiscono rifiutando la cultura di massa e riproponendo una cultura d’elite e il ruolo disinteressato e superiore dell’uomo di cultura: è questo, in Italia, l’atteggiamento del più noto intellettuale antifascista, il filosofo Benedetto Croce.
Non tutti però condividono tale atteggiamento di distacco rispetto alle vicende del tempo e alla cultura di massa. In direzione opposta, si assiste infatti ad un impegno diretto nella lotta politica, ora a sinistra, ora a destra. Esemplare è il contrasto che divide in Francia Benda da Nizan. Il primo vede negli intellettuali dei chierici, cioè dei custodi dei valori tradizionali, dei funzionai neutrali e disinteressati dello spirito, e dunque ne sostiene l’autonomia da qualsiasi impegno diretto nella politica, considerato un vero e proprio tradimento della missione della cultura. Il secondo, invece, giudica gli intellettuali tradizionali “i cani da guardia” della borghesia e sostiene la necessità che gli uomini di cultura si impegnino nella lotta per cambiare il mondo. Tale contrapposizione è evidente anche in Italia nella polemica che Gramsci conduce contro Croce nei Quaderni del carcere. Mentre Croce, come Benda, sostiene l’esigenza che gli intellettuali mantengano il loro distacco dagli eventi e dalla politica immediata, Gramsci afferma la necessità che essi superino la loro posizione di superiore e distaccata neutralità e si schierino nel conflitto di classe.

LA CONDIZIONE SOCIALE DEGLI INTELLETTUALI
La diffusione delle comunicazioni di massa, lo sviluppo dell’industria culturale e degli apparati ideologici trasformarono la condizione degli intellettuali e degli stessi scrittori. La creazione di una cultura di massa e, nei regimi fascisti, l’intervento diretto in essa da parte dello stato tendono a coinvolgere direttamente gli intellettuali che possono o accettare le nuove condizioni di lavoro o sottrarvisi per riaffermare il valore universale della cultura.
La prima strada non porta necessariamente alla subordinazione ai regimi vigenti: può anche indurre lo scrittore ad accettare il mondo della pratica e dell’impegno o magari a riconoscersi come lavoratore e a schierarsi dalla parte degli altri lavoratori, in funzione antiborghese. La seconda spinge invece gli intellettuali a considerare la letteratura o la cultura una sorta di religione: accade così in Italia negli ambienti intellettuali influenzati da Croce e negli scrittori solariani ed ermetici. Da un lato, insomma, gli intellettuali vengono subordinati all’industria culturale e alle direttive dello stato, diventando dei salariati che scrivono copioni cinematografici, sceneggiature radiofoniche, articoli giornalistici; dall’altro una parte di essi proclama che la letteratura non è una professione ma una condizione esistenziale da viversi con dedizione religiosa.
Di qui, anche i due tipi prevalenti di letterato degli anni Trenta: il letterato – letterato, che si disinteressa della politica e vive nella torre d’avorio della cultura e della letteratura, e il letterato ideologico o letterato militante, che agisce all’interno degli apparati ideologici e politici per sostenerli o per contestarli.
Inoltre, la politica culturale del fascismo da un lato cercò di attirare gli intellettuali conquistandone il consenso, dall’altro accettò e teorizzò tale scissione. Essa fu assai duttile, articolata e complessa. Non fu soltanto repressiva, ma anche propositiva. La repressione consisteva nella censura preventiva sui giornali, sui libri e sui testi radiofonici, teatrali e cinematografici; nel controllo dell’editoria e nella subordinazione della stampa, realizzata mediante la diffusione di “veline” che imponevano certe notizie e impedivano di diffonderne altre, consigliavano l’ottimismo e la fiducia. Con una precisa politica propositiva e organizzativa, la politica culturale fascista cercò di riempir il vuoto della società civile da cui era nato il sovversivismo piccolo – borghese dei primi due decenni del secolo: fornì infatti agli intellettuali una serie di enti e di previdenze, di organizzazioni, di strutture, di istituti di cultura che li toglievano dall’isolamento e li collocavano in funzione produttiva. Ciò contribuì a sviluppare la figura dell’intellettuale funzionario e dell’intellettuale impiegato: i dipendenti statali aumentarono fra il 1922 e il 1932 del 94% e nei dieci anni successivi del 110%. Nello stesso tempo il regime diffondeva un umanesimo idealistico e classicheggiante, basato sul culto dell’antica Roma, che costituiva per le classi medie e alte una sorta di status – symbol e il suggello o la conferma della loro superiorità rispetto al proletario.
Se lo sforzo di creare una cultura fascista fallì nel proposito di dare vita ad un corpo omogeneo di ideologie e di teorie, risolvendosi in distribuzione di facili miti di massa, ottenne tuttavia dei successi nell’indirizzare il dibattito degli intellettuali sui grandi temi del ruralismo e della modernizzazione industriale, sulla proposta fascista del corporativismo, sul nuovo ruolo degli uomini di cultura, indotti a scegliere fra un’ideologia dell’isolamento e del privilegio culturale da un lato e una dell’impegno e della partecipazione politica dall’altro.
Cambiano anche i centri culturali. Mentre fra il 1925 e il 1940 è Firenze la capitale della repubblica delle lettera, dopo il 1945 i punti di riferimento diventano Roma e Milano. Roma si impone per il peso che vi viene ad assumere l’industria cinematografica, mentre Milano diventa la capitale dell’editoria. Notevole anche il ruolo di Torino, soprattutto per la presenza della casa editrice Einaudi.
La spinta innovatrice viene raccolta, nell’immediato dopoguerra, da quasi tutti i partiti antifascisti, ma viene anche incanalata e sorretta soprattutto dai partiti di sinistra, che hanno un’egemonia nel mondo della cultura e si fanno promotori di un’organica politica culturale, fondata sull’impegno dell’intellettuale e sulla proposta di una precisa poetica in campo letterario, il Neorealismo.
I GENERI LETTERARI, GLI AUTORI E IL PUBBLICO
A dominare sono i due generi che la modernità ha messo al primo posto nel sistema delle forme letterarie: la poesia e il romanzo. Si assiste in entrambi ad una industrializzazione delle innovazioni e dello sperimentalismo novecenteschi, che vengono riassorbiti in forme più tradizionali e spesso classicheggianti, ma non del tutto rinnegati. In particolare nella poesia, dopo la rottura simbolista, due fenomeni appaiono pienamente consolidati: la libertà metrica è un fatto ormai indiscutibile; la sintassi logica del periodo è perlopiù disturbata e disarticolata. Ma anche nel romanzo, che pure viene spesso restaurato nella sua forma tradizionale, l’influenza primonovecentesca continua a fermentare.
Lo sviluppo della società di massa e dell’industria culturale in Europa e negli Stati Uniti favorisce una distribuzione del pubblico in due grandi fasce: quello che legge per divertimento e a cui è rivolta una letteratura di consumo o d’intrattenimento e quello d’elite, a cui è destinata la letteratura di ricerca o d’arte.
Tra le due guerre la società letteraria italiana è ristretta e separata. Ristretta perché ripiegata su se stessa, costretta a rinunciare al rapporto con la massa, chiusa nella torre d’avorio della cittadella delle lettere e della religione della letteratura. Separata perché il regime controlla in rapporto degli intellettuali con le masse e lascia vivere la ricerca letteraria più avanzata solo isolandola dal contesto sociale.
Il genere d’elite per eccellenza è la lirica, che esige un pubblico ristretto ed esclusivo, sia perché fa ricorso ad un linguaggio cifrato e arduo, sia perché i suoi temi, a carattere esistenziale e metafisico, tendono a lasciare sullo sfondo i motivi etico politici e i grandi valori nazionali. La lirica pura e quella ermetica cercano un pubblico a esse omogeneo, e infatti trovano i loro lettori nei circoli di poesia o in critici o comunque in gruppi di letterati.
Per quanto riguarda l’altro genere dominante, la narrativa, nell’Italia degli anni Venti essa stentava ad imporsi. Le si opponeva la prosa d’arte, che ripudiava le forme della novella e del romano, e semmai mirava a congiungere generi diversi, dalla recensione al reportage, dal microsaggio su temi morali allo spunto narrativo. Resta tuttavia una notevole divaricazione fra romanzo d’arte o di ricerca da un lato e romanzo d’intrattenimento dall’altro. Quest’ultimo conobbe una grande diffusione. Nacquero i generi forti: quello erotico, quello rosa, quello poliziesco, quello d’avventura.
Anche nel romanzo d’arte restano tracce di quello d’intrattenimento. Gadda per esempio desume la struttura dei suoi due capolavori dalla forma del romanzo giallo, mentre Moravis si rifà spesso a motivi di cronaca e a temi di consumo. Ma si tratta di una ripresa che in realtà svuota il modello: in Gadda l’assassino non viene trovato e l’opera resta aperta, in Moravia lo spunto iniziale è sempre problematizzato, discusso, magari portato all’assurdo. D’altra parte l’inserimento di temi o di forme del romanzo d’intrattenimento in quello di ricerca è un fenomeno che in Europa ha uno sviluppo ben maggiore che in Italia. Esso non deve tuttavia farci dimenticare che negli scrittori di ricerca, il romanzo si pone come il genere artistico per eccellenza dell’età moderna. Dopo il 1945, l’esperienza della guerra e della lotta di Liberazione, la situazione politica e sociale in rapida trasformazione, le speranze di un radicale cambiamento, la conquistata libertà sembrano allargare la disponibilità degli autori ad incontrare un loro pubblico e dei lettori ad ascoltare la voce dei narratori. Circola un bisogno di comunicazione che era assente negli anni Trenta e che si esprime nella maggiore diffusione del romanzo, nell’affermazione della memorialistica, nel rilancio della saggistica.
III CAPITOLO
LEONARDO SINISGALLI
VITA
L’ Infanzia (1908 – 1917) Leonardo nacque a Montemurro, nella "dolce provincia dell'Agri", il 9 marzo del 1908, da Carmela Lacorazza e Vito Sinisgalli. Terzo di una numerosa prole, visse nel piccolo borgo un'infanzia tanto felice e spensierata da incidere profondamente sulla sua formazione e sulla sua personalità: la gran parte delle poesie e delle prose narrative verterà su questo indimenticabile periodo. Nel 1911 il padre, come tanti, emigra verso le Americhe, esercitò l'attività di sarto; attività che svolgerà fino al rientro in Italia nel 1922.Leonardo frequenta la scuola di don Vito Santoro, e fu proprio il maestro, affascinato dalle straordinarie capacità del ragazzo a consigliare alla madre che continuasse gli studi.
Gli studi superiori (1918-1925) e il primo periodo romano (1936 – 1931)
La sua inclinazione era stata quella di imparare un mestiere e di esercitarlo in modo cosciente, con bravura ed anche un pizzico di fantasia. Proprio nel 1918, alla fine della grande guerra, sotto consiglio del suo maestro Vito Santoro, la madre ed il padre lo mandarono fuori casa per proseguire gli studi. La partenza, "con le tasche piene di confetti", ma con il cuore in gola, nel 1918, alla volta del Collegio Salesiano di Caserta, fu una lacerazione drammatica. Lontano dalle sue colline e dai suoi genitori, assaporò il veleno della solitudine ed tentò di avere pensieri che gli suggerissero la vista del suo nuovo orizzonte. Per diversi anni non ricevette la visita di un parente, ma un giorno, mentre faceva esercizi di calligrafia, riscrivendo più volte i nomi ed i luoghi del paese, lo venne a trovare il padre, che tornava a casa dopo quindici anni trascorsi in America. In collegio, dunque, preparò la "bellissima licenza" che conseguirà a Napoli nel 1925. La sua media risulterà la più alta dell'intera Campania. Visti gli eccellenti voti conseguiti in matematica e in disegno (10), e in altre materie, si iscrisse a Roma presso la facoltà di Matematica. Qui segue, rapito, i corsi di analisi, di geometria, di matematica di Fantappié, Levi-Civita, Castelnuovo, Severi, dei quali era allievo prediletto. Ma, ultimato il biennio, in preda ad una crisi, passò ad Ingegneria, in cui si laureò nel 1932, anche se solo in ingegneria meccanica, perdendo l’occasione di frequentare l’istituto di Via Panisperna, dove Enrico Fermi stava conducendo le sue ricerche sulla fissione nucleare. Si innamorò di Sergio Corazzini, il più struggente dei poeti crepuscolari, e a tale poeta, che sempre verrà ricordato con affetto da Sinisgalli, si ispirò per i suoi primi componimenti che pubblicò in autoedizione nel 1927, con il titolo Cuore. Invitato da Enrico Fermi, nel 1929, ad entrare nell'Istituto di Fisica di via Panisperna, preferì rinunciare, allo studio dei "neutroni lenti e della radioattività artificiale" per seguire "pittori e poeti", ma non senza incertezze e dubbi: confesserà che non riusciva a vederci chiaro nella sua vocazione, e che gli sembrava di avere "due teste, due cervelli, come certi granchi che si nascondono sotto le pietre...". Collaborò all’’Italia letteraria" di Angioletti e Falqui. È del periodo romano la frequentazione con Libero de Libero, con Scipione, con Arnaldo Beccaria e Mario Mafai.
Il primo periodo milanese (1932-1940) Dopo la laurea in Ingegneria elettronica ed industriale, passò alla "conquista di Milano"; ma i primi tempi sono difficili, nonostante qualche collaborazione a "L'Italia letteraria" e a "La lettura". Determinante fu l'incontro con Ungaretti, poeta già famoso, che all'inizio del '34, urlò tutto il suo entusiasmo per il talento poetico di quel giovane ingegnere lucano, prima con una corrispondenza da Lucera, sulla "Gazzetta del Popolo", sui primi versi di Sinisgalli, poi a Torino, in occasione di una conferenza su Petrarca. Nel '34, su suggerimento di Zavattini, partecipò ai Littoriali per la gioventù a Firenze, e una giuria composta da Ungaretti, Bacchelli, Palazzeschi decreta a Firenze la vittoria di Interno Orfico, la poesia di Leonardo Sinisgalli. Attilio Bertolucci è secondo, mentre Alfonso Gatto è primo nella prosa. Si rifugiò a Montemurro, dove nel '35 scrive Quaderno di geometria e molte delle 18 poesie che pubblicherà l'anno successivo. Ma le insistenze di Cantatore, di Zavattini e altri amici, lo riportarono a Milano dove iniziò per lui una stagione particolarmente fortunata. Le 18 poesie furono pubblicate per le edizioni dell'amico Giovanni Scheiwiller. Ed aprirono la prestigiosa collana "All'insegna del pesce d'oro", dal nome dell'osteria toscana presso cui Sinisgalli, Cantatore, Quasimodo, e Scheiwiller si incontravano la sera. Quelle poesie si imposero all'attenzione di critici quali De Robertis, che gli dedicò un famoso saggio sul primo numero di "Letteratura", ed Emilio Cecchi. Nel contempo intensificò la sua attività pubblicistica su riviste d'architettura e d'arredamento, interessandosi d'arte, d'allestimenti, di grafica. Nel periodo milanese, così prodigo di occasioni e di amicizie, aveva frequentato lo studio Boggeri e la Galleria del Milione, era diventato amico di Persico, di Pagano e Terragni, di Lucini, di Nizzoli, di Munari, di Veronesi, di Giò Ponti, il grande architetto, con cui pubblicò “Ritratti di macchine”, per le Edizioni di Via Letizia, e “Italiani”. “Ritratti di macchine” e “Quaderno di geometria” rappresentarono il primo tentativo di Sinisgalli di superare la dicotomia tra le due culture. Su consiglio dell'amico Alfonso Gatto, rispose ad una inserzione: all'inizio del '37 venne assunto dalla Società del Linoleum per organizzare convegni e collaborare alla redazione di una rivista specializzata. Nasce così il lungo sodalizio che legherà Leonardo Sinisgalli al mondo della grande industria fino agli anni Settanta. L'anno successivo, il grande Adriano Olivetti, lo chiamò a sé alla Olivetti, con il prestigioso incarico "di cui andò sempre particolarmente fiero" di responsabile del'Ufficio tecnico di pubblicità. I due anni passati alla Olivetti furono segnati da una straordinaria vitalità creativa: l'umore di Sinisgalli fu alle stelle. Le sue vetrine a Milano e a Roma, così come i manifesti pubblicitari, che anticiparono le tecniche della pop-art, diventarono un evento mondano, atteso e commentato. Pubblicò nello stesso periodo, sempre per le edizioni del Pesce d'Oro di Scheiwiller, Campi Elisi (1939) aderendo pienamente al gusto ermetico. Di “Campi Elisi”, scrissero subito Contini, Anceschi e Bo.
La guerra (1940 – 1944) Innanzitutto bisogna porre l’attenzione su quali fossero i rapporti di Sinisgalli col Fascismo. C’è , però, da premettere che non è semplice individuare il livello ideologico del Nostro, soprattutto per l’assenza di vere e proprie prese di posizione e, per questo, possiamo farne solo una ricostruzione sommaria attraverso le opere. A Firenze, Sinisgalli fu molto apprezzato per il suo giovane talento, anche se alcuni critici del regime lo avevano considerato un imitatore di Quasimodo e, per questo motivo, da questo momento in poi provò un sentimento di avversione per tali critici. È, però, evidente da alcune sue liriche del ’27 che provasse una qualche ammirazione per il Fascismo, diretta più verso Mussolini che nei riguardi degli apparati del regime ed infatti, egli, ne “L’aurora appena”, esaltò la figura carismatica del duce. Come già detto, non è facile ricostruire il suo pensiero, giacchè nei suoi scritti non ha mai fornito consistenti dati su orientamento politico. Con lo scoppio della guerra, Sinisgalli venne richiamato alle armi con il grado di ufficiale, prima in Sardegna e poi a Roma, dove nel '42 pubblicò, sulle riviste "Primato" e "Prospettive", alcuni racconti dei Fiori pari, fiori dispari, nonché gran parte di “Horror Vacui” e alcuni saggi di “Furor mathematicus”. Contemporaneamente conobbe Giorgia de Cousandier, la bionda baronessa, ammiratrice di Trilussa, e in seguito traduttrice, pubblicista, poetessa e narratrice. Separata dal marito, diventò la compagna di Leonardo e lo sposò nel 1969. Un mese prima che sua madre morisse, uscì per i tipi di Mondadori, Vidi le Muse, con la prefazione di Gianfranco Contini, nella prestigiosa collana dello "Specchio". Ignaro della morte della madre, in una Roma ancora frastornata dalla firma di Cassibile dell'8 settembre, iniziò la convivenza con Giorgia. Il 13 maggio del '44 venne tratto in arresto dalle S.S. che vollero informazioni su un amico scrittore. Solo la prontezza di Giorgia, e la sua discreta conoscenza del tedesco, lo salvarono. Rientrato a Roma, iniziò un periodo di grande attività: pubblicò “Furor Mathematicus” (la prima versione è piccola), “Fiori pari, fiori dispari”, "28 capitoli di prosa confidenziale" come ebbe a definirli, e “Horror vacui”. Si dedicò, inoltre, a traduzioni e a collaborazioni giornalistiche, partecipò alla redazione del periodico "Il costume politico e letterario" ed aperto ad ogni nuova esperienza, creò, con il conterraneo Giandomenico Giugni, una rubrica radiofonica culturale, all'insegna dell'eclettismo, che avrà notevole successo, il "Teatro dell'usignolo" che fu diretto da Leonardo insieme a Rossi e Modigliani. Nel 1947 pubblicò “I nuovi Campi Elisi”.
Il secondo periodo romano (1945 – 1948) Nel 1945 si stabilì definitivamente a Roma, con l’intento di riacquistare il suo posto nella cultura dell’epoca e, così, riprese la collaborazione con riviste e giornali. Si impegnò della traduzione di autori stranieri, tra cui J. Green e P. Valere, ricavando spunti dalla lettura de “L’anima e la danza” di quest’ultimo. Dopo questo periodo dedicato alla lettura, Sinisgalli intraprese varie attività culturali, dando prova della sua straordinaria adattabilità alle diverse forme di arte ed espressione. Si dedicò anche all’attività cinematografica, che per due anni consecutivi gli consentì di vincere il primo premio al Festival Internazionale del Cinema di Venezia con i cortometraggi “La lezione di geometria” e “Un millesimo di millimetro”.
Il secondo periodo milanese (1948-1952) Nel 1948 Luraghi, divenuto direttore generale della Pirelli, ed estimatore del poeta-ingegnere già dai tempi della Linoleum e della Olivetti, lo assunse come Art director. Insieme con Arturo Tofanelli, Sinisgalli fondò l'house organ "Pirelli", la rivista aziendale del gruppo e laboratorio sperimentale per "Civiltà delle macchine" del 1953. Nel 1949 realizzò un sogno: girò un documentario scientifico, una sorta di Quark ante litteram, dal titolo Lezione di geometria, sui solidi "superiori"; il documentario venne premiato alla Mostra del Cinema di Venezia. Stessa fortunata sorte avrà Millesimo di millimetro, cortometraggio, anch'esso scientifico, che gira con Virgilio Sabel e che di nuovo viene premiato alla Mostra del Cinema del 1950. In quest'anno uscì il Furor mathematicus presso Mondadori: fu una versione ampliata del primo Furor ed incluse tutti gli scritti di matematica, di geometria, di architettura, di arte e artigianato, di tecnica e storia della scienza, antesignana della "Civiltà delle macchine", la prestigiosa rivista che inventò nel 1953 e diresse per cinque anni (32 numeri).
Civiltà delle macchine (1953 – 1958) Proprio in quegli anni nacque il bimestrale Civiltà delle macchine, una rivista particolare che venne ad occupare un posto speciale nella storie delle riviste italiane del nostro secolo, giacchè ebbe anche una risonanza internazionale. Infatti in molti paesi, tra cui Giappone , si parlò di “nuovo illuminismo”. Civiltà delle macchine rivelò l’intenzione di Sinisgalli di fondare, per l’appunto, un nuovo illuminismo che conciliasse il mondo dell’arte con quello della tecnica, ricercando una difficile sintesi tra gli studi umanistici e quelli scientifici. Diresse tale rivista fino al ’58, dopo il quale la direzione venne affidata a Francesco D’Arcais , sforzandosi di conservare gli indirizzi del fondatore, ma alla fine si ridurrà ad essere un semplice notiziario aziendale.
Il ritorno a Roma (1959-1963) Con un unico redattore, il fratello Vincenzo, due segretarie e un fattorino, inventò per la Finmeccanica, ispirandosi al "Politecnico" di Cattaneo, la rivista delle due culture, la rivista che apriva agli umanisti il mondo delle macchine, e ai tecnici lo spirito delle litterae. Nell'agosto del 1953 morì il padre. Furono anni di grande movimento e di grande impegno; per le aziende della Finmeccanica (che raggruppa 29 aziende) curò lo slogan, escogitò nomi ("Giulietta" e "Romeo" dell'Alfa sono suoi), mostre tra cui nel 1955 quella dedicata all’ "Arte e industria", in collaborazione con Enrico Prampolini presso la Galleria d'arte moderna di Roma. Collaborò assiduamente al "Corriere d'informazione" su invito di Gaetano Afeltra. Con l'uscita di Luraghi, suo nume tutelare, dalla Finmeccanica, e con il passaggio della testata all'Iri, iniziò la ristrutturazione e con essa il lento declino. Nel 1958, con il numero di marzo-aprile, Sinisgalli abbandonò la direzione, indignato e amareggiato, non senza aver lottato per mantenere integra la fisionomia. L'uscita di Sinisgalli dalla rivista, che continuò le pubblicazioni fino agli anni '80 mutando però indirizzo, coincise con il suo ingresso all'Agip, dove fu chiamato da Enrico Mattei. Iniziò la collaborazione a "Paese sera". In questo periodo la Musa ispiratrice dei suoi versi, così generosa negli anni della gioventù, sgorgò con crescente fatica, senza però comprometterne gli esiti, ed fu per questo che si volse ad un'altra passione: quella del ritratto e del disegno, che iniziata come ludus, insieme a Filippo, suo figlio, lo accompagnerà, sempre più intensamente, fino alla fine dei suoi giorni. Nel maggio del 1962, a Milano nella Galleria Apollinaire, iniziò ad esporre i suoi lavori.
Parentesi milanese Il 1963 fu un anno di difficoltà, anche per i problemi di salute del figlio Filippo: abbandonata l'Eni, ritorna a Milano, Collaborò al "Mondo" di Pannunzio e, al "Tempo Illustrato". .Il 1967 fu l'anno del pensionamento, ma anche l'anno dell'infarto occorsogli mentre era in compagnia di Cantatore a Bari. Nonostante i pressanti consigli dei medici non ridusse il ritmo delle sue attività: ritornò alla radio con un programma settimanale che curò insieme a Vincenzo dal titolo "La lanterna". Il programma monotematico e di circa mezz'ora raggiungerà le 98 puntate e i due anni di programmazione. Contemporaneamente, viaggiò per lavoro, disegnò e scrisse articoli, poesie, prose. Gli anni '70 furono gli anni del dolore, (prima la laringectomia totale di Giorgia nel 1970 poi la sua morte nel 78), ma anche dei riconoscimenti letterari. Nel 1971 vinse, alla sua prima edizione, il Premio Gubbio-Inghirami per la poesia; nel 1975 vinse il Premio Viareggio per Mosche in bottiglia e il Premio Basilicata per Un disegno di Scipione e altri racconti. Con Dimenticatoio nel '78 vinse il Premio Vallombrosa. Nel 1975, il nobel a Montale, invece che a Ungaretti, fu motivo di grande delusione, ed fu motivo di scontro con Vanni Scheiwiller che gli indirizzò una focosa Lettera aperta. Ma lo screzio durò poco. Collaborò al "Settimanale" con una sapida rubrica d'arte, e al "Mattino" di Napoli a cui inviò memorie rielaborate, scritte anni prima, e nel 1980 pubblicò le Imitazioni della Antologia Palatina per le Edizioni della Cometa. Non meno intensa fu la sua passione per il disegno che ormai coltivava con assiduità e con non pochi riconoscimenti: espose a Milano, a Matera, a Roma, dove fondò nel 1980 con la nuora Ida Borra e Roberta Du Chene la galleria d'arte "Il millennio". La mostra d'apertura, che ebbe uno straordinario successo, fu dedicata ai pastelli e agli acquerelli di Sinisgalli. Fu proprio durante la seconda personale presso la sua Galleria che un infarto il 31 gennaio 1981 stroncò la sua vita. Venne sepolto, come espressamente chiesto più volte, a Montemurro, nei suoi Campi Elisi.
IV CAPITOLO UN’INTEGRAZIONE DIFFICILE
LA LETTERATURA D’IMPEGNO E SINISGALLI, POETA D’EVASIONE
Molti anni fa, in occasione del 59° Congresso della Società Dante Alighieri, che ebbe luogo a Potenza nel 1968, per la prima volta si affrontò un discorso sulla letteratura lucana per portarne a conoscenza precisi riferimenti ad opere ed autori lucani, che fino a quel momento erano stati del tutto assenti. Già nei primi anni Sessanta vennero fondati istituti regionali ed organizzati congressi, pubblicazioni, tavole rotonde per rivelare e chiarire l’identità della Lucania stessa. L’impegno, infatti, di tutti gli storici e critici diede fin da subito il suo frutto, basti pensare alla “Storia letteraria delle regioni d’Italia” ad opera di Sapegno e Binni , ma in particolar modo è grazie ad U. Bosco che, analizzando la storia letteraria dal Duecento in poi, ha identificato in Sinisgalli, Scotellaro e Pierro i principali autori della letteratura lucana del ‘900. Come possiamo ben notare, Sinisgalli è al primo posto di questa triade perché è proprio grazie alla sua figura e alle sue opere che la Basilicata è entrata a far parte della storia letteraria italiana. Per quanto riguarda, invece, Scotellaro e Pierro, possiamo ben dire che il primo deve la sua notorietà più al clima culturale e storico del suo tempo che allo specifico spessore della sua arte, infatti nella sua scrittura poetica spesso il livello ideologico sovrasta quello letterario; il secondo, di cui non tanto la materia ed i contenuti quanto l’ utilizzo del dialetto rendono alquanto problematico la lettura e l’approccio alla sua lirica. Sinisglli, inoltre, si distacca da loro non solo per una cultura più profonda ed un’arte lirica più intima e più pura, ma anche e soprattutto perché, pur avendo come punto di partenza la sua terra, poi è uscito dai suoi confini regionali, fino ad ottenere una posizione di rilievo a livello della letteratura nazionale.
Erano quelli gli anni ’50 in cui si diffondeva l’idea di una “letteratura d’impegno” e soprattutto in cui nasceva il concetto gramsciano di “letteratura nazional – popolare”, che accesero forti dibattiti fra gli intellettuali di tutta la cultura postbellica. Come lo stesso Asor Rosa affermava, erano gli anni in cui non solo bisognava sanare i dolori e le ferite a seguito della guerra, ma soprattutto nasceva la forte esigenza di edificare una nuova società, creare una nuova cultura e capire quale fosse il nuovo ruolo che il letterato, da questo momento in poi, avrebbe dovuto assumere. Una iniziale proposta fu quella della critica di orientamento marxista, la quale riteneva bisognasse rileggere in modo più concreto i testi e ricavarne gli strumenti adatti per analizzare i mutevoli rapporti tra gli scrittori e la società.
Contemporaneamente continuava a diffondersi il concetto di “impegno” (engagement), attraverso anche il saggio di J. P. Sartre “Che cosa è la letteratura”, in cui dichiarava che il nostro scopo era quello di produrre mutamenti nella società circostante e che quindi la letteratura continuava ad avere la stessa funzione che aveva fin da sempre assunto, ossia una funzione sociale. La riscoperta, inoltre, dell’opera gramsciana poneva in Italia la necessità di una letteratura nazional popolare. Bisogna, però, notare che in molti paesi, “nazionale” e “popolare” erano termini assunti come sinonimi, ma in Italia ciò non era possibile perché gli intellettuali erano lontani dal popolo, non si sentivano legati ad esso e non ne sentivano i bisogni, le esigenze, le aspirazioni, i sentimenti. Nei Quaderni, infatti, Gramsci afferma che in Italia non era mai esistita una letteratura nazional popolare, in cui il popolo potesse riconoscervi i propri problemi, perché era da sempre mancata un’identità di concezione tra il mondo degli scrittori e quello del popolo. Pertanto, ci si domandava che tipo di impegno dovesse essere quello dell’intellettuale, se sociale, culturale, politico. La polemica a riguardo divampò su molte riviste, in primis sul “Politecnico”, che uscì nel 1945 con un articolo di Elio Vittorini intitolato “La nuova cultura” , ma, giacché i numeri successivi non corrispondevano alle aspettative del PCI, Togliatti fece notare a Vittorini che il compito degli intellettuali non doveva essere come quello delle cicale, bensì come quelle delle formiche, che, anziché produrre un’arte creativa, dovevano lavorare per trasformare la società.
Ed era proprio in questo contesto che venne affrontata la situazione del Sud d’Italia, in particolare, della Lucania, che era, insieme a tutti gli altri paesi meridionali, decisamente arretrata rispetto al nord e qui ogni innovazione, ogni novità ed ogni idea arrivavano sempre in ritardo. Fu proprio grazie al “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi , pubblicato nel ’45, che si pose l’attenzione sull’arretratezza che aveva sempre caratterizzato la Lucania, portandone alla luce i problemi e facendo riaprire la cosiddetta “questione meridionale”, fatta passare sotto silenzio dal regime fascista.
Non tutti, però, apprezzarono il lavoro dello scrittore torinese, in primis Mario Alicata, il quale criticò Carlo Levi di non essere in grado di affrontare le ragioni dell’inferiorità del Mezzogiorno e di poterne trovare soluzione; soprattutto lo accusò di aver trattato la società meridionale con una “rappresentazione metafisica e misticheggiante”, anziché darne una descrizione più veritiera, che mostrasse le reali condizioni di vita del mondo contadino.
Chi anche, nelle proprie opere, rappresentò la vita contadina del sud fu Leonardo Sinisgalli, che, come Scotellaro, era nato da un sarto contadino costretto ad emigrare. Ma tra i due autori, al di là di questa analogia, esistono molte divergenze, basti pensare che Scotellaro può essere definito come un “poeta della libertà contadina”, mentre Sinisgalli prediligeva una poesia pura e il ritiro in se stesso.
Da alcune fonti, si evince che il primo fu un grande ammiratore del poeta di Montemurro, infatti ciò è proprio evidente in una lettera da lui spedita a Sinisgalli nel 1946, in cui dichiarava la sua profonda stima ed amicizia, dandogli del tu. Inoltre, proprio nel periodo, tra il ’38 e il ’43, in cui Scotellaro compose le sue poesie su “carta da macellaio”, uscirono le prime è più importanti raccolte di Sinisgalli, tra cui “Cuore” (’27), “18 poesie” (’36), “I nuovi Campi Elisi” (’47), “Vigna Vecchia” (’52), che esercitarono una forte influenza sul poeta più giovane il quale, spesso, in alcune sue opere, ne riprese alcuni motivi formali, facendone addirittura delle autentiche trascrizioni.
Si può fare ancora una differenza tra i due scrittori per quanto riguardo la rappresentazione della Lucania. Il sud di Sinisgalli è immerso in una dimensione mitico- arcaica, quasi fuori dal tempo, di cui ama la campagna, i paesaggi naturali, i quartieri, le piazze, la gente, e l’autore fa continuamente dei richiami alla stagione della sua infanzia, momento di beatitudine che non potrà mai più ripetersi. Al contrario, il sud di Scotellaro è concreto in quanto ne esamina approfonditamente gli innumerevoli problemi di fronte cui si trova e per lui è un luogo reale, politico e sociale, abitato da uomini che difficilmente riescono ad inserirsi nella società.
Egli fu, come anche ammise, privo di “passione civile e storica” e disimpegnato rispetto al sud ma ciò non significa che non avesse delle proprie idee, ma che, al contrario, preferisse esprimerle agli amici piuttosto che nei suoi scritti.
Una prima ragione di questo disimpegno è senz’altro la natura stessa della sua poesia che, per lui, rappresentava una consolazione sia per il dolore dovuto alla situazione storica della guerra, sia per l’angoscia che si manifestava nell’anima. Ma il motivo principale si può dedurre dalla sua stessa storia, in quanto egli, pur interessandosi delle novità e delle mode che si sviluppavano proprio agli inizi della sua notorietà, voleva intraprendere delle proprie strade, raggiungendo risultati originali.
Egli rientrava nel tipo d intellettuale “integrato” ed eteronomo, che doveva essere un esperto, un tecnologo letterario, capace di utilizzare gli strumenti fornitigli dalla tecnologia più avanzata (erano infatti gli anni in cui si potenziavano i mass-media, in primis cinema, stampa ed entrava in crisi la classica figura dell’intellettuale, che non era più guida e portavoce della società di fronte al potere). Egli si sforzava di risolvere in maniera personale il cosiddetto “miracolo economico” che aveva sì procurato vantaggi, ma nello stesso tempo aveva causato non pochi problemi, tra cui lo spopolamento del sud, la rovina dell’ambiente, la trasformazione del tenore di vita degli uomini sempre più legati al consumismo, l’urbanesimo. Sinisgalli, infatti, non assunse mai un atteggiamento polemico o critico né tanto meno una posizione politica né ebbe mai l’intenzione di contrapporre al processo di industrializzazione l’idealizzazione di una vita semplice.
Nella prima fase della sua attività il suo intento fu quello di conciliare due mondi socio-cultuali letteralmente opposti, quello della scienza e quello dell’arte. Ben presto, però, si rese conto dell’impossibilità di tale conciliazione giacchè vi era un abisso che divideva e distingueva nettamente l’intellettuale tecnologico e il poeta. Pertanto, è da questo momento in poi che cercherà di tenere separati i due campi: la cultura d’impegno e la professione tecnologica da una parte e l’esperienza del poeta dall’altra.
Molti hanno ritenuto che questa scissione sia stata una scelta di convenienza, sia forse per acquistare notorietà e successo sia forse per una possibile evasione nel mondo della poesia. Ma lo sbaglio di questi critici sta proprio nel fatto di considerare ogni cosa solo su basi economiche e, pertanto, l’arte stessa non può trovare giustificazione solo in cause economiche. Dunque bisogna soffermare l’attenzione su quale sia la reale genesi dell’atteggiamento di Sinisgalli. Quest’ ultimo, infatti, non ha scelto come oggetto delle sue opere la materia sociale né tanto meno i problemi del sud perché i suoi intenti erano del tutto diversi da un proposito di denuncia verso la società. Si è servito, quindi, della poesia non per condannare i mali della società, bensì solo come conforto, consolazione, soluzione ai propri problemi esistenziali e a quelli dell’uomo moderno. Certamente le vicende storiche-culturali degli anni ’50 non lo avevano lasciato indifferente; talvolta condivise i sentimenti degli intellettuali lucani, seguendone lo sviluppo delle idee dagli iniziali entusiasmi fino alla delusioni finali ed ha sicuramente provato le loro stesse angosce, le loro stesse paure, ma dopo le prime difficoltà, al contrario degli intellettuali emigrati, conobbe il successo e la ricchezza.
Solo negli ultimi anni della sua vita si fece più acre il suo pessimismo che lo portò a dubitare della scienza, ma alla poesia non rinunciò mai, anzi, il suo proposito fu sempre quello di salvare la letteratura dalla politica e dalla sociologia, affinché non fosse contaminata. In questo rimase sempre fedele al suo modello di arte lirica perfettamente pura e non diversa da quelli che erano i suoi modelli di riferimento, ossia Leopardi ed i Simbolisti.
SINISGALLI E L’ERMETISMO
In quegli anni, dal punto di vista letterario di grande rilievo era senz’altro la figura di Giuseppe Ungaretti, che fu un punto di riferimento per tutti i giovani della cosiddetta Scuola ermetica romana, di cui fa parte anche Leonardo Sinisgalli. Giacchè Ungaretti fece coincidere la storia con la letteratura e creò una nuova sintassi lirica dopo il crollo di quella tradizionale logico naturalistica, fu proprio lui l’artefice di una rivoluzione stilistica che lasciò sicuramente il segno nei poeti della stagione ermetica.
L’Ermetismo, nato inizialmente con accezione negativa, finì per assumere, grazie alle giustificazioni di Carlo Bo, un’accezione positiva ed una concreta poetica. Tuttavia, nonostante i suoi interventi, la critica sull’ermetismo continuò senza trovare una soluzione definitiva e probabilmente questo è dovuto al fatto che non tutti i poeti da noi definiti ermetici, cui Montale e Quasimodo, possono rientrare nella sfera di questa qualifica.
Anche se non è facile la determinazione dell’estetica dell’ermetismo, tuttavia possiamo per comodità individuarne due periodi ben precisi:
1. dal 1930 al 1936, quando, diffondendosi in Italia il termine ermetismo, la poesia ermetica venne identificata con la poesie pura, ma entrambe vennero giudicate negativamente per la loro incomprensibilità.
2. dal 1938 al 1945, quando il critico Carlo Bo diede alle stampe il saggio Letteratura come vita che segnò la fondazione del movimento che giunse fino al 1945 (molti ritengono addirittura fino al 1950).
In questo saggio, si delinea l’identificazione della poesia come vita, intendendo con questa espressione che la poesie è l’unica possibilità di vita nell’impossibilità di vivere nel tempo in cui la libertà è completamente limitata dal regime fascista. Proprio per questo, esso venne definito il manifesto per eccellenza di quella tendenza, che si prolungò per almeno tre stagioni e, per completarne le caratteristiche, dobbiamo tener conto anche della dislocazione geografica in riferimento ai poeti. Cominciando da nord a sud, indicheremo:
1. Ermetismo settentrionale: gravitante alle riviste Circoli e Correnti.
2. Ermetismo fiorentino: di tendenze spiritualistiche e neosimboliste, facente capo alle riviste Frontespizio e Campo di marte.
3. Ermetismo meridionale: che per opera di Alfonso Gatto, la poesia ermetica dei fiorentini si estendeva al resto dell’Italia coinvolgendo anche i poeti del sud.
All’interno di quest’ultimo raggruppamento, secondo il Mengaldo, è necessario fare un’ulteriore distinzione tra i poeti, non solo da un punto di vista geografica ma anche e soprattutto per le diverse tematiche da essi affrontate. In esso riconosciamo anche la presenza di Leonardo Sinisgalli e quanta importanza abbia avuto nell’avanguardia la mescolanza delle estetiche si può capire proprio dalla sua opera, infatti nella sua esperienza umana ed artistica andò a confluire tutta la lezione più moderna delle arti che ebbe modo di esaltarsi nel momento culminante di una poesia purissima che, pur recuperando la più grande lezione dell’avanguardia novecentesca, non è disposta a rinunciare a una somma di affetti che vengono tradotti in un’originale poetica, nella quale vengono affrontati temi quali l’infanzia, la terra madre, la famiglia, il paese. Per queste ragioni la poesia di Sinisgalli, oltre a definirsi ermetica, è anche una poesia che esalta la memoria e il recupero di una mitografia, da noi molto amata, che si concentra sull’elegia dell’esule e sul mito della città considerato dalla parte di un provinciale. Subì l’influsso di Ungaretti e Montale e possiamo delineare , già dal suo esordio, alcune caratteristiche della sua poetica:
• La rottura degli schemi metrici tradizionali. Egli infatti utilizza l’endecasillabo, il nostro metro più classico ma, modificando gli accenti, li colloca in posizione errata o diversa rispetto alla loro originale scansione, col proposito di alleggerire il verso.
• Le rime vengono spesso variate e talvolta nascoste, a tal punto da non essere sempre facile poterle individuare, poiché sono celate o sostituite da frequenti assonanze.
• L’uso della parola poetica evoca gli oggetti che sembrano disposti dal poeta in ordine di importanza ma che in effetti sono isolati e senza effettivo legame fra loro.
• La perenne presenza di analogie e l’uso frequente della sinestesia.
• La presenza di oggetti simbolo o di valore fonosimbolico.
• Un panorama desolato e mortale con scarse pause elegiache.
Nonostante ciò, non è agevole inquadrare Sinisgalli all’interno della sola corrente ermetica e, soprattutto, non è facile definirne la poetica.
V CAPITOLO
SINISGALLI E LA POETICA
Sinisgalli fu poeta diverso dagli altri perché intese a suo modo personale la poesia e se ne fece un’idea tutta sua. Capì che era difficile fissare le regole e le leggi di una materia così sfuggente e, per questo motivo, decise di adottare, come Valery, l’analogia. In particolar modo,,trasse da quest’ultimo la convinzione che tra scienza e arte non vi fosse distinzione ma che, al contrario, non fossero nient’altro che la variazione di un fondo comune. Tuttavia non è facile definire la poetica di un così originale poeta, infatti anche i critici molto spesso vacillano di fronte alle sue austere metafisiche. In ogni modo, ci è giunto un elenco di addirittura 30 proposizioni,di cui portiamo qui di seguito quelle più significative, che ci dà un’idea della sua poesia,
1. la poesia non si estende ma si edifica.
2. la sostanza della poesia è inalterabile.
3. la poesia è esclusa dal tempo, nel quale non si muove.
4. nella formazione la poesia non si lascia forviare.
5. la poesia ha necessità del sostegno di leggi perfette.
6. solo la poesia esiste senza la minima interruzione del suo modo di essere.
7. impossibile determinare l’istante della nascita della poesia.
8. la poesia non è una nascita, è un accidente, un disastro.
9. la poesia nasce da una grande volontà di conservazione.
10. la storia degli uomini si edifica sulle rovine dei versi.
Per capirla fino in fondo bisogna leggere non una volta sola le sue prose ma occorre penetrare nell’opera per intendere il suo originale modo di concepire l’invenzione poetica. Innanzitutto, il poeta nasce in una situazione solitaria e appartata, in cui vi è la contemporanea presenza della fantasia e del pensiero che insieme danno origine ad una sorta di precipitato illuministico romantico, di irrazionalismo favoloso.
Tra le opere più importanti, rilevante è senz’altro il Furor Mathematicus che ci spiega la genesi della poesia sinisgalliana. Il problema è inizialmente quello di capire come l’ispirazione si manifesti nel Nostro.
Per lui la poesia è una discesa nell’irrazionale, come anche ci testimonia lo stesso titolo dell’opera. Infatti per furor si vuole intendere quel dato dell’irrazionalità pura, per mathematicus quell’attributo che ci riporta alla necessità di razionalizzare il momento dell’inconscio. C’è da sottolineare inoltre che altre due sono le componenti presenti nella sua personalità: da una parte la sua meridionalità, quindi quell’amore e calore verso la propria terra, dall’altra la sua razionalistica fiducia nel calcolo del numero e della linea, la sua apertura ad ogni sorta di proposta della civiltà delle macchine. Egli crede che al poeta sono indispensabili la solitudine ed il vuoto ma questo non può bastare. Per fare poesia, dunque, è necessario che ci siano anche la memoria e il pensiero.
Nell’ Immobilità dello scriba e in Cineraccio egli riesce meglio ad enunciare la sua difficile poetica. Il suo intento è senz’altro quello di rovesciare sia l’immagine del poeta vate del Romanticismo, sia quello del veggente del Decadentismo.
In ogni modo, scrivere versi per lui è un compito faticoso ma nello stesso tempo una piacevole giornaliera follia.
Non è certo possibile, nella breve economia di questa segnalazione, ripercorrere, fosse pure per sommi capi, la complessa questione dei rapporti tra scienza e poesia, due domini la cui separazione (che data almeno da quando, per alludere a certi versi di Eliot su cui medita anche il Morin della Tête bien faite, la Sapienza si è declinata in scienza, e la scienza si è frantumata in miriadi di saperi) segna un trauma forse immedicabile - una sorta di "ferita fonda", come direbbero Ungaretti e Jaspers - della civiltà moderna. È però interessante almeno accennare ad uno degli aspetti più rilevanti su cui si è imperniata, dal Richards di Science and poetry al celebre saggio dello Snow (ma si pensi già a quella pagina del Saggiatore sulla natura che "non si diletta di poesie" e rigetta "favole e finzioni") la polemica intorno ai rapporti e agli equilibri che si pongono fra le "due culture": quello del conflitto di linguaggi che si crea fra queste due modalità di espressione delle facoltà umane, fra gli "statements" referenziali, concreti, tendenti ad uno statuto di oggettività quantitativa e descrittiva, propri del discorso scientifico, e gli "pseudo-statements", evocativi, allusivi, analogici, di cui si avvale quello poetico. Sinisgalli è forse, accanto all'ultimo Calvino (che peraltro il poeta di Montemurro, in un diario inedito reso noto proprio nel volume ora in questione, accusava di usare, nel suo "dilettantismo" e nella sua "tenera confusione", la scienza come materia, se non puro pretesto, di "fantascienza"), uno degli scrittori italiani del Novecento che con maggior convinzione hanno tentato - in modo tenace, assiduo, pienamente autocosciente, e si potrebbe quasi dire sistematico - di assottigliare le barriere fra questi due emisferi della ricerca intellettuale, facendoli interagire in una sorta di cortocircuito o di processo osmotico.
Proprio questo ampio e ricco volume, che raccoglie diversi contributi (tra cui ricordo almeno quello, finissimo come di consueto, di Silvio Ramat, che ricostruisce i rapporti del poeta con Milano, intesa sia come fonte di suggestione e d'ispirazione che come crocevia di rapporti, contatti e sodalizi culturali, e quello di Antonio Di Silvestro, che muove da minuti rilievi di natura lessicografica e concordanziale per approdare ad una intensa illuminazione della "geometria interiore" del poeta, della sua "armonica dissonanza", della quasi matematica "misura" compositiva e strutturale che egli impone alla sua "voce") e presenta per la prima volta al lettore moderno materiali inediti, può sollecitare, nell'attesa che veda finalmente la luce il "Meridiano" da troppo tempo auspicato, un'interpretazione d'insieme dell'opera di Sinisgalli, che comprende, accanto ai versi, e in organica e quasi sistematica connessione con essi, anche la saggistica di vario argomento, la prosa d'invenzione e di memoria e una critica figurativa condotta secondo quelle stesse modalità, raziocinanti e insieme immaginose, che troviamo nell'Éluard di Donner à voir o nel Valéry interprete di Degas.
È stato già sottolineato più volte come la poetica di Sinisgalli sviluppi al proprio interno (in stretto contatto con la riflessione di Valéry da L'Âme et la danse a Eupalinos ou de l'architecture a Monsieur Teste, e prima ancora con la linea di pensiero che dal Poe della Philosophy of composition conduce al Baudelaire della Genèse d'un poème, risoluto nel porre alla radice del fatto poetico la "sobrietà crudele" dell'"espit analytique") una sorta di geometria delle sensazioni, di algebra dell'ispirazione, di calcolo razionale e progettuale che domina e coordina i sussulti dell'afflato lirico e il discontinuo fluire delle esperienze e delle memorie; "geometria barocca", peraltro, come la definisce l'autore stesso, non euclidea, aperta alle dissimmetrie, alle anomalie, agli imprevisti, finanche alla casualità della mano e della penna che inseguono se stesse e il proprio estro - un po', si potrebbe dire, come nell'ininterrotto e infinitamente variato discorso figurativo dell'amico Lucio Fontana, dedicatario di un'Ode del poeta, e i cui Concetti spaziali accolgono, nelle strutture profonde e nelle pieghe segrete celate sotto la loro razionalità e le loro geometrie severe e quasi ostentate, anomalie, squilibri, impure e contaminanti irruzioni di materiali e di scorie.
Mi pare che proprio questa interazione e questa sintonia di invenzione poetica e lucida coscienza critico-estetica (accanto all'identificazione, comune anche agli ermetici, di vita e letteratura, esistenza e poesia, attestata, in questo volume, da una splendida lettera inedita del '47 ad Alberto Mondadori, in cui Sinisgalli confida di avere dolorosamente decantato e trasfuso, "parola per parola", tutta la propria esistenza in quella poesia che sola sapeva donargli una ungarettiana "rara felicità") possa rappresentare, per così dire, l'ardente crogiolo, il calor bianco che accende e rastrema, fondendoli nella sua fiamma unita e duplice, il pensiero della scienza e quello dell'arte.
I 4 TEMPI DELLA POESIA DI SINISGALLI
Il 1931 viene definito come l’annoda cui si può parlare della sua vera e propria poetica.
I primi versi composti a Roma furono gozzaniani. Era questo il tempo in ui aveva come punto di riferimento i crepuscolari, che reputava “poeti bellissimi”. Nei componimenti di questo periodo notiamo l’inizio del suo esordio poetico, infatti sono del ’27 quelle poesie nate dall’incontro del poeta con i crepuscolari. In questa prima fase non dobbiamo pensare solo ed esclusivamente al repertorio crepuscolare perché in quegl anni il poeta stava valorizzando gli accenti propri dei crepuscolari, elaborando così una nuova poetica,grazie anche all’influsso dei simbolisti Valery e Verlain. Pertanto, il suo esordio può essere collocato nell’area ermetica. Infatti, nelle 18 Poesie vi sono situazioni liriche analoghe a quelle di Quasimodo e degli altri ermetici meridionali, tra cui l’immagine della terra madre,luogo incantato fuori dal tempo, luogo di pace e riposo, paradiso della memoria infantile. Però, allo stesso tempo, Sinisgalli si distacca da essi per l’assenza della disposizione descrittiva, del colorismo pittorico e della contabilità. Poiché la sua opera subisce l’influsso di diverse culture, essa non può essere sempre uguale a se stessa. Pertanto la prima operazione da fare è la periodizzazione.
Possiamo dividere la scrittura del Nostro in 4 tempi.
I STAGIONE: Produzione delle 18 Poesie, dei Campi Elisi, Vidi le Muse.
II STAGIONE: I nuovi Campi Elisi, Fiori pari e fiori dispari, Belliboschi, Furor Mathematicus. Horror vacui.
III STAGIONE: La vigna vecchia, Il Quadernetto alla polvere.
IV STAGIONE: Ceneraccio, l’età della luna, Il passero e il lebbroso, Mosche in bottiglia, Dimenticatoio.
RACCOLTE POETICHE
CAMPI ELISI: è il nome del paese dove sorgeva la casa dei Sinisgalli, ma poi con esso si intese tutto il paese. A distanza di otto anni ne riprende il titolo per ribadire la continuità dei miti a lui più cari. Successivamente aggiunge l’aggettivo nuovo che indica la ricerca di una nuova strada poetica, innanzitutto rifiutando la retorica dannunziana, poi polemizzando contro i compagni ermetici. Ne I nuovi Campi Elisi il motivo elegiaco prevale su quello epigrammatico, si coglie una disposizione ad eludere il frammento poetico e la tendenza a distendersi in organismi lirici più complessi.
QUADERNETTO ALLA POLVERE: l’autore ci fornisce le ragioni storico-culturali che hanno dato origine alla strana mescolanza tra prosa e poesia. Ha come motivo centrale la polvere, segno tangibile di ogni naturale dissoluzione e dove il poeta aveva significativamente annotato un isterilirsi nella capillarità delle similitudini.
FUROR MATHEMATICUS: L’Autore arriva ad una definizione della poesia in generale, ma anche, sforzandosi di risolvere il difficile problema del rapporto scienza arte, ad una determinazione della sua originale poetica.
LA VIGNA VECCHIA: Pur conservando le vecchie tematiche del mondo lucano, il Nostro aggiunge un dato nuovo che fa pensare ad una crisi rispetto agli anni passati. Vi è un atteggiamento pensoso alternato talvolta all’ironia, che pone in primo piano l’inesorabile fuga del tempo, il senso della morte e una certa nostalgia del divino che servono a limitare l’assoluta fiducia della scienza.
L’ETA’ DELLA LUNA: Indica il nuovo corso nella poetica di Sinisgalli, che mescola poesie di varia lunghezza. Il tema della vecchiaia, ricorrente nelle poesie e ripetuto in maniera ossessionante, rivela la natura autobiografica del libro, dato alle stampe quando egli aveva da poco compiuto 54 anni. Vi è inoltre un piccolo brano in formato di commiato che riassume lo stato del poeta giunto quasi al termine del suo viaggio.
IL PASSERO E IL LEBBROSO: Riprende le tematiche de L’età della luna, ma segna anche l’acuirsi dello stato doloroso del poeta. Ora il tono è più amaro, significata dal ricorrente motivo delle malattie. Ma un poeta come Sinisgalli non può indulgere alla rappresentazione realistica della malattia, pertanto o vi sottrae guardando indietro per revocare con rimpianto il tempo del sole o esclude la luce per battere insistentemente sul tema della morte.
VI CAPITOLO
SINISGALLI E LA CRITICA
Il 31 gennaio ricorrono i vent'anni dalla scomparsa di Leonardo Sinisgalli, poeta lucano abbastanza centrale nel Novecento italiano, eppure, come spesso accade, assai poco ricordato dopo la morte. Chi non lo ha mai dimenticato è un altro lucano, Giuseppe Appella, che gli ha dedicato numerosi titoli postumi nelle sue Edizioni della Cometa. Per celebrare l'anniversario, Appella dà ora alle stampe Infinitesimi, la raccolta cui Sinisgalli stava lavorando al momento della scomparsa. Un libro denso (oltre duecento liriche), dove fa piacere ritrovare la voce essenziale del poeta, il suo procedere per immagini rapide, scattanti, mai sentenziose. È l' occasione per ripercorrere alcuni temi tipici di Sinisgalli, a partire dal furore per la matematica. Senza eccessi, tuttavia, perché nel tardo Sinisgalli ogni passione sembra diminuita dalla sensazione della morte. Una presenza incombente, soprattutto dopo la scomparsa della moglie, avvenuta nel 1978. La sua mancanza i spira alcune delle poesie più toccanti: "Non fa che piovere / dopo che sei morta. / Siamo già a febbraio / il cielo è sempre triste / ci sono pochi rami fioriti / sparsi qua e là"; "Non c' è niente / che ti convinca a tornare". Il poeta non sa rasseg narsi alla nuova condizione di vedovo: "Ho ripetuto il tuo nome / tra me e me / tutta la giornata... / Vado a leggere le tue lettere / sparse per la casa". E questo continuo ripensare alla morte della moglie porta a immaginare la propria: un presagio che occupa ampia parte del libro, soprattutto nella sezione intitolata Più vicino ai morti: "Fai di tutto per attrarmi, / nemica mortale"; "Passa la voglia di vivere, / viene la voglia di dormire". Eppure, Infinitesimi non è un libro cupo. In nanzitutto perché questa sensazione di sofferenza non diviene mai affliggente, come suggerisce Giuseppe Tedeschi, al quale si deve il non facile riordino di questi versi. Inoltre, il dolore viene costantemente superato proprio attraverso la poesia. S inisgalli è lettore onnivoro e curioso: rilegge Rimbaud, riflette su Pound, su Apollinaire, ripensa a Cardarelli. E poi c' è la poesia scritta, naturalmente. Quella che sola sa generare immagini liberatorie: "Sulla mia testa / il bambino galoppa / a cavallo di una scopa". È il 21 gennaio 1981: dieci giorni più tardi, Sinisgalli muore.
BRANDELLI DI VITA
I frammenti qui proposti sono tratti da prose di Sinisgalli, a cui si rimanda in nota. Arbitrariamente è stato dato un titoletto. Non c'è ordine. È tutto casuale, è una sorta di piccolo vocabolario autobiografico, non alfabetico e non autorizzato, dell'esistenza e delle passioni di Sinisgalli.


Il terrore delle valanghe
... Siamo cresciuti attorno al fuoco fino ai nove o ai dieci anni nel terrore delle valanghe di creta che inghiottono case e alberi e lasciano un immenso vortice di fango che si chiude via via fino a ridursi a una pozzanghera, e poi a un buco che si riempie da sé...
La dolce collina
... Per qualche anno vissi bambino dietro una finestra separata dalla collina di fronte da un profondissimo baratro che raccoglieva nei giorni di pioggia le acque tumultuose del torrente. La dolce collina punteggiata di ciottoli, cosparsa di piccoli ulivi del colore di cenere, era solcata da una strada che soltanto a tratti veniva a sporgere sul precipizio...
Angeli neri
... Noi non avevamo l'aureola... ma delle vere teste di turco e pidocchiose per giunta. Angeli eravamo senza dubbio, ma non di questa specie bionda, angeli neri e lucidi come i calabroni...
Le vigne
... In quelle nostre due strisce disposte a differente livello, un paio di metri spezzettati in gradini dentro una murgia, riuscivano a ricavare un tomolo di grano, un centinaio di litri d'olio, ceste di fichi, un cofano di cotogne, un paniere di noci. Non c'erano che poche viti sparse e qualche riquadro per le fave e le patate...

Il prezzo della fuga
... Rimossa la mia inerzia infantile con l'accettazione di una sorte imprevedibile e un distacco che sarebbe divenuto ineluttabile, non ho più trovato l'energia per un ripensamento. Non mi sono potuto più fermare. Al ragazzo reveur, al sonnambulo, si sostituì progressivamente un personaggio volitivo, deciso, anche spietato. Mi feci ripagare dal mondo un po' per volta il prezzo sacrificato non alla mia, ma all'ambizione di mia madre e dei miei tutori spirituali...
***
I professori delle scuole pubbliche di Caserta e di Benevento ... mi ammiravano e mi detestavano ... i miei successi erano accolti con disagio, perché creavano troppi problemi per la tranquilla convivenza con gli altri. Come succede in tutte le comunità gli sconfitti fanno lega e tentano con tutti i mezzi, ma soprattutto in ragione del numero, di umiliare il più forte. La memoria i riporta a tratti i malvagi tentativi di burle, di dispetti, di ricatti che imbastirono i miei nemici nel periodo più critico, dai tredici ai quindici anni, contro di me.
Scrivere
... C'è l'aria leggera che mi sta intorno nel mio Camerone dove cominciai a scrivere e scarabocchiare verso il 1922 quando c'era appesa la camomilla alle travi e c'erano mucchi di castagne per terra...
SINISGALLI E QUASIMODO ( Clelia Martignoni)
La grande mostra Quasimodo, che si inaugura mercoledì a Milano a Palazzo Reale, rappresenta un' ottima occasione per una riflessione finalmente unitaria sul poeta. La mostra raccoglie infatti, oltre a un ricco percorso artistico (con opere di Morandi, Sironi, Guttuso, Manzù, Cantatore, etc.), una sezione biografico-letteraria con imponenti testimonianze autografe del lavoro di Quasimodo, ricostruito nelle sue articolazioni interne e nel suo sviluppo cronologico. Gli autografi provengono dal Fondo Salvatore Quasimodo del Centro Manoscritti dell' Università di Pavia, acquisito per una recente donazione della Cariplo, del Gruppo L' Espresso e della Regione Lombardia. Di questi materiali la mostra offre ora una vasta rassegna, completata da libri, documenti, immagini. Certo il loro esame si rivelerà molto produttivo per gli studi su Quasimodo, poiché ne riguarda tutti gli aspetti (con particolare ricchezza dopo l' arrivo a Milano nel 1934), dalla formazione vivace e ibrida in Sicilia (dove Quasimodo nacque nel 1901) all' esperienza ermetica, al rinnovamento civile-resistenziale, alle ultime raccolte meditative più asciutte e desolate. Notevolissime, si sa, le traduzioni, di straordinaria varietà (dato questo che colpisce), e che non solo sono eccellenti per l' intrinseca qualità, ma hanno spesso comportato fecondi ritorni sul personale lavoro creativo di Quasimodo, in una movimentata partita di dare e avere. Penso all' esemplare incontro con i Lirici greci (1940), in sintonia con la poetica della "poesia pura" e del "frammento", ma anche, valicato il ristretto ermetismo, all' allargamento pluristilistico, comunicativo e drammatico, indotto dalle traduzioni dell' epica omerica, del Virgilio georgico, del teatro (antico e moderno), degli epigrammisti palatini, della poesia civile, magnanima ed enfaticamente sostenuta di Pablo Neruda, di altri vari e disparati moderni. Ma si rinvia per tutto ciò sia alla mostra sia al relativo catalogo (ed. Mazzotta). Il documento che qui si riproduce ci trasporta nel cuore della stagione ermetica, elaborata nella piccola capitale Firenze dove la raffinata rivista Solaria pubblicò nel 1930 il libro d' esordio di Quasimodo, dal bellissimo e "primordiale" titolo Acque e terre, già mitizzante. Nel decennio che segue Quasimodo, con le raccolte successive (Oboe sommerso, Erato e Apòllion), ha una grande responsabilità nella fondazione del linguaggio ermetico (che tante polemiche avrebbe poi suscitato per la sua "separatezza"), e in particolare nell' individuazione di certi tratti indeterminati, allusivi, analogici, frammentari, e della altrettanto rarefatta e anti- realistica mappa dei contenuti. La giovane "scuola", naturalmente provvista di varietà e distinzioni interne, costituiva un forte sodalizio. La guida critica è fornita soprattutto da Carlo Bo (è del 1938 l' intenso saggio Letteratura come vita), con il vivace contributo dell' ispanista Oreste Macrì. Le maggiori presenze poetiche sono quelle dei toscani Luzi, Bigongiari, Parronchi, del salernitano Gatto, del più defilato e anziano Betocchi, e di altri compagni di strada come Sinisgalli e De Libero. L' esperienza è unitaria soprattutto in quel decennio; quindi ognuno cerca laboriosamente la propria strada, spesso impegnandosi in forti cambiamenti di rotta e rinnovamenti. L' inedito qui proposto (che si troverà anche in mostra) è un appunto autografo senza data, ma steso nel 1936 o poco oltre, in cui Quasimodo, molto consapevole del suo ruolo egemone, annota con non innocente puntiglio una serie di riprese e recuperi di sue immagini (dalla raccolta Erato e Apòllion del 1936) nei testi del più giovane Leonardo Sinisgalli, lucano, che nello stesso anno stampò per Scheiwiller le 18 Poesie. La tavola dei debiti (puntualissima, con tanto di rinvio alle pagine, e che coinvolge anche un riscontro di Leopardi non riprodotto) è piuttosto convincente. E' significativo ad esempio il recupero in Sinisgalli di un tema-chiave quasimodiano, l' "esilio"; o la corrispondenza di un' altra immagine tipica, la "pace d' acque"; o l' affinità tra "tempo d' api" (Quasimodo) e "tempo delle vespe d' oro" (Sinisgalli); eccetera. Ma non può emergere di qui una valutazione riduttiva di Sinisgalli, allora pressoché esordiente, però già dotato di grandi qualità e di una sua precisa autonomia. Del resto Sinisgalli non avrebbe tardato a rivelare la sua personalissima misura, all' incrocio - lui ingegnere e matematico - tra arte ed esattezza scientifica, e sempre più incline in seguito a coltivare fantasie poetiche ironico-amare e una limpida vena epigrammatica. Certo, nel 1936 non poteva non avere assimilato profondamente la lezione di Quasimodo, e, oltre a Quasimodo, l' insegnamento di ciò che era più in generale nell' aria, cioè l' intero e coeso linguaggio immaginoso, astratto, ellittico, vigente nella "scuola" e dintorni, dunque ricco di altre interferenze e di scambi. Meglio ne emerge, insomma, al di là delle intenzioni di Quasimodo, che peraltro con Sinisgalli era in cordialissimi rapporti (una fotografia esposta alla mostra, e circa coeva, ce li fa vedere in una amichevole gita in barca nella Riviera Ligure), ciò che resta il dato criticamente più interessante: la solidarietà stilistica e immaginativa di quell' esperienza, l' aria di famiglia comune, al di là dei tratti singoli. Una curiosità. Sul fondo della carta è appuntato di corsa, con scrittura più affrettata, un indirizzo: quello perugino di Gianfranco Contini, che infatti dopo gli studi universitari a Pavia e il perfezionamento a Parigi, insegnò per qualche anno, tra ' 34 e ' 38, italiano e latino in un liceo di Perugia. E' ben noto che Contini fu parecchio vicino all' ermetismo fiorentino (infatti rappresentato con larghezza e consenso nella sua sempre preziosa antologia Letteratura dell' Italia unita del 1968). Dunque il riferimento qui al suo nome non è affatto esterno né casuale.
“VIDI LE MUSE”
Esiste soluzione di continuità tra la poesia antecedente all'ermetismo e l'ermetismo? Qualche ricordo, alla buona: della poesia di D'Annunzio furono gloriosamente salvi lo studio accanito della forma, l'esemplare e costante premura d'osservazione. I crepuscolari ne subirono, a loro fisiche spese, l'impetuosità del contenuto. Gozzano lasciava i libri di Nietzsche per aiutare le disperate cetonie capovolte: doveva egli aver ben letto e sofferto Nietzsche se sapeva tradirlo così opportunamente (gli elementi in contrasto su un piano di convinzioni sono sempre uno all'altro complementari: Gozzano aveva nel sangue il "metodo" poetico del Poema paradisiaco e delle Elegie romane) A fianco, i "vociani", tanto distanti tra loro da formare un tutto di incertezze positive: crepuscolare Palazzeschi, pieno di tutto e ribelle alle sue condanne Papini, impressionista Soffici, ecc. Pascoli era nell'orecchio di tutti. Il suo tono, meno inquinato dalle barderie del costume, lasciava pure una traccia. Da Pascoli a Boine è breve il cammino. Ci vedo in mezzo Mario Novaro, un altro responsabile che è impossibile dimenticare, che cantava: È l'alba incantata apparizione del mondo! oh che a Dio nei cieli, freccia d'oro, io mandi un saluto Sfrondata la sua poesia da un intimo bagaglio di impressioni goethiane e naturalistiche, dagli echi pascoliani e talvolta carducciani, egli ha un posto ben evidente nel susseguirsi delle nuove scoperte poetiche, Boine gli si accosta, con un caratteristico frasario (un rosario) dolorante, un'incuria del verso, una particolare cura del nascosto ritmo: l'impressionismo italiano ha qui una voce ben distesa, lo conferma il frammentismo di Boine, quello di Sbarbaro. L'endecasillabo con i liguri, i toscani, con i futuristi, s'era già rotto: le estreme illazioni ne furono tratte da Ungaretti.
Comincia qui la particolar avventura degli "ermetici". È assai interessante seguirne il respiro. (Ne estraggo subito Montale. Entrato nella storia letteraria con una incrollabile fede musicale rotta e sussultoria, ma sempre intonata il ligure è l'unico dei contemporanei che abbia soverchiato la sua esperienza sulle lezioni degli antecessori. L'occasione poetica, a tratti simile all'ispirazione crepuscolare, si personalizza nei risultati finali: vedi il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case, la farfalla entrata nella stanza. Certe sue prove dannunziane anche qui il contrasto è evidentissimo: staticità per conclusione ragionata di fronte a dinamicità per partito preso, sospirata divina indifferenza di fronte a perpetuo bollore non durano mai più d'un verso, si perdono nell'inondante sua aria. Montale ha usato la sua tecnica per ricchezza spontanea e ne ha regalato un po' a tutti. Del resto, oggi, in tanti poeti, laureati e novizi, il calcar le impronte di Montale mi par più improntitudine che obbedienza a giusti dettami. Ungaretti dunque, partito da certe sue esclamazioni a mo' di poesia, attrasse le voglie ricostruttive dell'endecasillabo così provato o della musicalità in tono classico: notevole quindi ogni sua dichiarazione d'attaccamento al leopardi. Toltagli però quella ben nota lucidità francese, il suo lavoro di riallacciamento invece di raggiungere al primo salto la sponda leopardiana, rivelò a fior d'acqua lo scoglio di quel primo impressionismo che nulla aveva di rivoluzionario, almeno nei programmi. Si pensi che gli ultimi appunti di Boine, pubblicati postumi sulla "Riviera Ligure", erano stati affiancati dal destino impaginatore alle prime liriche quasi monostrofiche di Ungaretti Il ritorno alla storia dell'uomo, alla felice ("allegra") scoperta delle proprie inquietudini, non ci pare ormai extra ordinario: pure, Ungaretti uomo di pena, il cui sentimento appena bastava per un bozzetto lirico (il poco bene che mi nasce così piano mi nasce da cui non si può trarre gran dissetamento, se non l'esame del "come" gli nasce), attento solo alla sua schiavitù di parole, avaro persino con la propria espressione, formò realmente il clima di una nuova poetica i cui termini fissi erano sì, l'illuminazione favolosa, il mito, la divinazione metafisica, ma i cui risultati però imponevano una secchezza di umanità a stento sufficiente al poeta per scoprirsi in epigrammatiche conclusioni là dove un altro poeta più libero, più abituato alla verità, più confidente sarebbe corso via senza scandali né allarmi. Da queste spinte non nacque mai quell'ermetismo maudit che sarebbe stato facile immaginare pensando ai casi di Rimbaud, ma se ne supplì un altro, piuttosto dolente agli inizi e attratto da un lene senso diaristico dell'impegno creativo del poeta, vicino a piccoli spunti iniziali, a riferimenti naturali, a private avventure; non mai giudizio o entusiasmo e neppure serenità o idillio (charme) lo contenevano, ma uno sconsolato senso di solitudine, di labilità, di dubbio sistematico: la formula dell'analogia, l'elisione del "come", la trasposizione dei valori e le proposizioni, il contatto insomma tra ciò che più è distante servivano alla sua poetica: la lontananza tra le creature, l'impossibilità di movimento (ed io son gerbido; oppure ed il cuore diventa, o forse è già, la pietra; come gli ossi di seppia svanire poco a poco; è folle e usata l'anima) ne accentuavano l'eccentricità.
Viene posta oggi alla luce delle librerie la poesia di Leonardo Sinisgalli, presentata da una chiara introduzione di Gianfranco Contini, meravigliosamente acuto come non mai, poesia nata in un decennio poco più, con inizi contemporanei a quelle del Sentimento del tempo, di Oboe sommerso. Porremo per questo Sinisgalli come una risultante dell'addizione Ungaretti più Quasimodo più il tono surrealista, che allora aveva profumo nuovo? Le differenze sono innanzi tutto metriche, in parlar povero; che qui l'endecasillabo è una rara scoperta, né la parola irradia musica Più dimesso e di facile accontentatura. Sinisgalli iniziò il suo cammino poetico con un attaccamento alla natura solito ormai alla poesia dei contemporanei, ove pensassimo ad un esilio giovanile, una nostalgia di terra e tardo commemorare una rozza felicità di sangue in pena, sensuale traccia d'una giovinezza perduta di cui si ricerca il filo istintivo: "tra noi è il tanfo della terra e il triste sangue fa ressa col sereno", "il lamento del sangue", "l'ombra del mio triste sangue", "la sera sulle selci calda è come sangue", "l'ombra del sangue fa oscura siepe alla nostra estate sulla terra". Il sangue è testimonio avvertitore di percezioni, motore poi di sensazioni, misura preferita in servizio di sineddoche. Di questa fatta, dunque, i segni del primo Sinisgalli: la concreta persona assorbiva i miracoli occasionali della poesia, risolvendoli e dandosene ragione, mischiando ai valori descrittivi la coscienza di sé: "la tua voce ci cresce nelle ossa", "l'alba preme sul petto", "dai nostri corpi nasce il giorno", "la rondine ti garriva tra le vesti", "tu muovevi la polvere dietro le spalle", "alle spalle muovevi il prato", "la sera incendia le fronti, infuria i capelli", "fa radice la sera e il suo acre sentore mi risale sul dorso", in cui i capelli, le ossa, le spalle, il dorso erano elementi d'un simbolo oggettivo pari al destino del tempo ridotto in momenti entusiasmanti, sera, alba, giorno che nasce; per giungere ad un culmine: "la luce ha la sua statura e regge il gesto", "il giorno prende in terra misura del tuo passo" in cui è più evidente una parentela tra la storia dell'uomo e la storia del tempo. Ricordiamo il Sentimento del tempo di Ungaretti: la lontananza aperta alla misura Anche in Sinisgalli dunque un sentimento (un sentore) del tempo misurò il movimento dell'uomo: in ogni sua poesia il tempo è stato colto nei suoi momenti di transizione, alba, tramonto, corsa notturna della luna, quando cioè la luce, mutando, trasforma (rinnova) uomini e natura. In Ungaretti era (con ben altra nobiltà di tono) l'invito ad una conclusione morale, e vi si sentiva la faticosa responsabilità: "t'affretta, o tempo, a pormi sulle labbra le tue labbra ultime". Ciò in Sinisgalli resta soltanto come scoperta della momentaneità, un rifiuto ad esser deciso con i propri sentimenti: "sgocciola il giorno dalle cime dei tetti", "chiamavi l'ultima luce all'inganno della fonte", "l'aurora è appena uscita dai forni" Colore: che par qui la maggior preoccupazione di Sinisgalli. A tratti nasce poi una rottura, un colpo violento, ed è il primo passo verso una maggior maturazione: "infanzia gridata dagli uccelli", "la luce era gridata a perdifiato", "i fanciulli gridano a squarciagola".
Dalle prime poesie, stese su una discorsività assai semplice; con punteggiatura comunissima di punti e rare virgole; con aggettivazione sostantivata ("ansia di foglie", "insidia delle cisterne", "insidia delle serpi"); con metrica assolutamente libera, in cui l'incontro dell'endecasillabo e dei suoi derivati è casuale, quasi gratuito, Sinisgalli passò ad un gioco più accessibile di stesure, obbedendo a certi richiami autobiografici in cui veniva dolce la rima al mezzo, capitavan buone altre facili rime a fondo verso, nasceva cordialmente una cadenza di canzone: "Fresca è la ghiaia: sui passi tuoi la ruota non la spezza. Perduta alle spalle la fanciullezza si fa più lontana, ombra cieca nella polvere" (notiamo qui una coincidenza: "In un pulviscolo, indietro cavo mi volgo! Mi abbandona irraggiunto": è di Laurano). Ecco le illuminazioni sulla propria sorte di uomo: "Ora e sempre più viva sarà la smania di far notte in me solo e cercar scampo e riposo nella mia storia più remota", "la mia vita è questo esilio che chiama le dolci erbe", "mi ritorna la triste vocazione ad esistere, la brama di cercarmi in ogni luogo". (Simile ricerca potremmo trovare, negli stessi anni in Quasimodo).
Da certe aperture poetiche ("Il cielo è una roccia aperta e l'occhio un'ape chiara") che sarebbero bastate a dargli un tono esclusivo, Sinisgalli trasse ancora l'impressione delle sue immagini più ostinate e precise: "Sera stremata in rive morte", "l'alba indugia a sollevarsi come una vela fresca sul mio corpo" e, più bella ancora: "siamo in fondo alla valle come in fondo ad un lago". Pure, la facilità dell'ispirazione rendeva molto larga e quasi ambigua l'accettazione dei simboli poetici: "Naturalmente ogni cosa, anche un sasso una rosa potrà bastare al mio cuore". Sinisgalli pagò quindi il suo tributo alle occasioni montaliane annotando con l'ordine e i propri ricordi: "la cagna bianca sulla cenere dei forni, le bugie sotto le ascelle, gli anni belli sulla nuca, il lezzo delle fave calpestate dai cavalli"; a tutto Montale: "Un baleno verde che s'apre a uno schiocco di frusta", "il tuo piede legato alla staffa del cavallo fulminato", "bello e fiero tu eri e dritto come le penne dello sparviero fucilato" (simili a "così suona talvolta nel silenzio della campagna un colpo di fucile" all'"infanzia dilaniata dagli spari": la chiusa della poesia nello schiocco, nello sparo, nel colpo inaspettato e violento è di effetto sicuro!), "mia madre su quest'aia ha battuto la mazza" ("al mio paese a quest'ora si sentono fischiare le lepri"). Dirò che il gusto di invocare un personaggio, com'è di Montale, è il lato che più s'offre a Sinisgalli per tentare una maggiore distensione, quasi di trama: legga il lettore "Strepita la campana al capolinea" (occorrerà aggiungere che la poesia di Sinisgalli ha da essere detta a bassa voce, lentamente? Già è superato il minimum ungarettiano, poesia da legger senza voce, secondo gli esperimenti di De Robertis): "eccoti sola, e la piazza ti sperde al bivio, e tu non sai più vivere, non sai dimenticare", "stravolta tu cammini, io ti chiamo".
Abolito insomma il cerchio privato, la poesia segue una sua legge di libertà che le sproporzioni surreali non penseranno ad ostacolare. Sinisgalli non perderà nulla di sé, insomma, rivedendo con maggior vigore quelle muse che tanto cautamente lo hanno sino ad oggi meravigliato.
“AL SERVIZIO DI DUE MUSE”( Silvio Ramt)
Leonardo Sinisgalli moriva, settantatreenne, il 31 gennaio del 1981. Da allora, un velo di disattenzione è colpevolmente calato sulla sua opera, che "Poesia" oggi ricorda, invece, nella straordinaria originalità che la caratterizza tanto nei registri del verso che in quelli della prosa. Di professione ingegnere, Sinisgalli ha còlto e celebrato l'avventurosa poeticità della scienza, fin dal giovanile Quaderno di geometria, svolgendo con pari calore un'esperienza di poesia, che privilegia e accerta la fisicità elementare della parola, del costrutto (donde, in qualche critico, l'impressione forse fallace, di un'appartenenza di Sinisgalli alla linea essenzialistica ungarettiana)
L'antologia che abbiamo approntata (l'articolo introduce, oltre ad altri contributi, una silloge di poesie, ndc) a vent'anni dalla scomparsa dello scrittore non può render conto appieno della genialità della sua dedizione alle due Muse congiunte. Calliope e la Matematica. Ma b asti ad accreditarla questa citazione: "La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formula dell'acqua e del sale. Dio è laconico". E, a specchio, potremmo leggere questo frammento, molto più tardo, che riconduce 1'autobiografia all'immortale Matematica: "Siamo qui per dividerci / un'eredità di stenti. / Non spezziamo quello che intero. / Diventa zero".
In attesa che un grande editore si prenda il compito di pubblicare, col doveroso corredo filologico, l'opera omnia di un grande poeta (e prosatore), il suggerimento ai volonterosi è di cercare tutte già edite presso Mondadori almeno le Poeie di ieri, 1966, rielaborato regesto dei versi dal '31 al '42, in cui Vidi le Muse assume il giusto risalto. E L'età della luna, raccolta di liriche e prose riflessivo-aforistiche (1962): senza trascurare i racconti-ricordi di Un disegno di Sczpione dove anche ha spazio il mondo dei pittori, lungamente praticato da Sinisgalli. Infine, fra i titoli dell'ultimo periodo, Mosche in bottiglia, sempre del '75, con insorgenze del pathos della "terza età" fatalmente al centro dei successivi Il passero e il lebbroso e Dimenticatoio che realizza, con materiali minimi, una serie di asciutti capolavori, come "L'albero secco: "È tornato il cardellino / a cantare su1le nostre teste. Abbiamo detto ai guardiani / di riporre le scuri, / ci teniamo lo scheletro".
“LE MUSE DI SINISGALLI” (Giuseppe Pontiggia)
A Sinisgalli le Muse apparvero per la prima volta su una collina, "appollaiate tra le foglie", intente a "mangiare ghiande e coccole": "Vidi le Muse su una quercia / secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / chiesi al mio cuore meravigliato / io dissi al mio cuore la meraviglia".
Lo sviluppo della sua poesia è già contenuto in questo incontro: dalla posizione di rilievo, arcaica e insieme modernamente visionaria, di quel passato remoto in prima persona ("Vidi") all'essere e al divenire fusi nella "quercia / secolare", dalla meraviglia che gli antichi ponevano all'origine della conoscenza e che qui viene trasferita ai moti del cuore (alla mente matematica sarà riservato il "furor": "il giuoco intellettuale mi inebria", dirà in una intervista a Camon) alla metamorfosi grottesca, quasi sarcastica, delle Muse che "appollaiate... gracchiavano": una presenza che ristabilisce, ma per deformarli ed esorcizzarli, sottili e complessi legami con l'antichità. L'etimologia di Musa ci riporta infatti a "mons", alle solitudini montane della Grecia e al sentimento di smarrimento e di paura che esse suscitavano nel viaggiatore. L'incontro con le ninfe dei monti fu sempre sentito come un rischio, giacché esse potevano dare la luce della poesia, ma togliere quella del sole, come accadde a Demodoco (0dissea, VIII, 63 sg.); oppure potevano essere menzognere, come confessarono a Esiodo sulle falde dell'Elicona (Teogonia, 22 sg.). Le Muse di Sinisgalli sono state invece svuotate di pericolosità, non sono più divinità, ma simulacri, proiezioni che rivelano la loro natura di doppio; esse invecchiano perciò con il poeta, che, circa trent'anni dopo, in Commiato, scriverà: "O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco, il tuo riso è una smorfia Calliope nel losco mattino. Su una striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il poeta reumatico stenta a cogliere a volo un pensiero, sempre meno matematico, sull'essenza dello Zero".
Sono rimaste la dimensione grottesca ("decrepita", "reumatico"), la visività della poesia (evocata dal suo contrario, il poeta che è sempre più cieco), ma il tono si è fatto più grave e le immagini domestiche e familiari care a Sinisgalli, gli improvvisi primi piani che ingigantiscono un particolare, qui appaiono percorsi da una crudeltà ironica (il gatto e le mosche), anche se attenuata e resa sommessa dalla striscia di sole e dal diminutivo dell'animale: mentre fa la sua tardiva apparizione nella poesia, in presenza di Calliope, l'altra Musa di Sinisgalli, la Matematica: ma solo ora che il pensiero sembra eluderla e superarla con una meditazione, sempre più torpida e passiva eppure sensibile e desta, sull'essenza dello Zero.
Nella letteratura del nostro Novecento le due Muse di Sinisgalli furono una presenza inquietante e perciò, non poche volte, elusa: stupiva che potessero convivere e coabitare e che non solo lo scrittore ascoltasse le voci di entrambe, ma pensasse talora di fonderle in un unico suono. Né la cosa ha finito di disorientare, abituati come siamo a separare idealisticamente (e sempre in nome dell'unità dello spirito) i campi in cui spazia l'energia mentale e le discipline che si sogliono definire con un nome. Eppure uno dei titoli della grandezza di Sinisgalli è proprio di avere percepito con una intuizione radicale e perseguito con una eccezionale libertà di movimento in tempi politicamente e culturalmente sfavorevoli, Quaderno di geometria è del 1935, l'unità più profonda che è sottesa alle diverse aree di ricerca. Questo spiega anche il suo interesse per Leonardo, per i suoi trionfi e i suoi scacchi. E se un altro poeta del Novecento, Valéry, aveva tentato, nella Introduction à la métòde de Léonard de Vinci, di imprigionarne la sregolatezza in un metodo, Sinisgalli scoprì invece che "egli ci diede i primi suggerimenti per comporre una fisiologia del poeta, capì innanzi tutto la fulmineità dell'atto creativo. Troppi eventi nella natura e nell'intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l'immagine".
L'intervento tardivo della coscienza potrebbe in questi casi essere catastrofico: "soltanto l'intelligenza del corpo può abolire anche il minimo ritardo di registrazione di tutta l'immensa vita dell'universo in sussulto".
Perciò Leonardo "non poteva lasciarci altro che una fisica (una fisica perfino della pittura, come i poeti, i grandi poeti, non ci lasciano che una grammatica (una fisica delle parole)".
Poetica di Leonardo si intitola il capitolo di Furor matematicus (1944) da cui sono tratti questi passi: e già il titolo da un lato suggerisce la mobilità fantastica che precede l'intuizione scientifica, dall'altro collega al suo retroterra la novità della prosa leonardesca, enigma di straordinaria concentrazione allusiva.
A questa chiave di lettura, unica pur nella duplicità apparente, converrà attenersi per penetrare nel mondo di Sinisgalli stesso e, sul versante della sua attività "matematica", verificare la "poetica" che la precedeva ("La non-poesia è il territorio segreto della Poesia. La geometria s'ingrandì con la croce di Cartesio, positiva e negativa. L'algebra toccò il cielo con gl'immaginari. Trovò una scrittura per le forze, oltre che per le forme, scoprì la metrica dell'invisibile"); sarà così possibile ripercorrere anche il senso delle sue scelte: a cominciare dal 1926, quando si iscrisse alla facoltà di matematica dell'Università di Roma ("Posso dire di aver conosciuto giorni di estasi tra gli anni 15 e gli anni 20 della mia vita, per virtù delle matematiche") per arrivare alla crisi del 1929, quando rifiutò l'invito di Fermi a frequentare il suo istituto di Fisica: "Potevo trovarmi nel gruppo dei ragazzi che hanno aperto l'era atomica, preferii seguire i pittori e i poeti e rinunciare allo studio dei neutroni lenti e della radioattività artificiale".
Così se, in Quaderno di geometria del 1935, si occupa delle soluzioni impossibili di un'equazione, quali furono individuate da Diofanto alessandrino, è per metterle in rapporto con il germe dell'immaginario, se cita il principio di continuità della retta, quale fu postulato da Dedekind, uno dei "legislatori dell'infinito", lo enuncia con una battuta di Apollinaire, tratta dalla sua commedia presurrealista Le mammelle di Tiresia, se in Furor matematicus illustra la chiave dell'universo trovata dal suo insegnante di matematica Fantappiè (il regno dell'invisibile è fatto di coni) illumina nel contempo un paragrafo del proprio Horror vacui ("il regno del visibile è fatto di coni"), facendo balenare una unità di invisibile e visibile che "dovrà somigliare a quell'autoritratto di Jean cocteau contenuto nelle tavole della Maison de la Santé".
Con lo stesso sincretismo, quando, in un contesto pratico, progetterà la pubblicità della Olivetti, allestirà a Milano, tra il '36 e il '40, vetrine che anticipano le tecniche della pop-art. E se dal '53 al '59 fonderà e dirigerà, per le Aziende della "Finmeccanica", la rivista "Civiltà delle macchine", considererà suo precedente il "Politecnico" di Cattaneo, mentre il suo programma di spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti muoverà dal presupposto, come dirà nell'intervista a Camon del 1965, che "c'è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario". Questa simbiosi darà un significato unitario anche alla sua attività successiva, all'ENI di Mattei e come direttore di "La botte e il violino", un bimestrale dedicato al design ("La fantasia deve trasformarsi in ferramenta. L'universo è in subbuglio; la spirale è la sua linea guida").
Destino curioso, ma esemplare, di Sinisgalli è di essere stato generalmente considerato un poeta che sconfina nella scienza e nella tecnologia e di non essere stato adeguatamente riconosciuto nella sua funzione eccezionale di precursore: eppure si tratta di non pochi anni di anticipo su orientamenti cui il tempo e la moda daranno l'autorità e l'invadenza, anche se non la qualità, del numero. Inoltre, oggi, strutturalisti e tecnologi tendono soprattutto a ridurre a scheletri la varietà dei corpi, alle cui sparse membra non sanno spesso restituire alcuna vita. Oppure, per converso, la sterminata quantità dei materiali forniti dall'analisi stimola le ipotesi più azzardate e gratuite, da cui c'è solo da aspettarsi l'elisione dell'una ad opera dell'altra. Mentre in Sinisgalli l'ampiezza circolare dell'orizzonte è direttamente proporzionale alla organicità della visione e alla mobilità del suo centro.
La stessa "poetica" orienta la sua attività creativa sul versante letterario: nelle prose autobiografiche e narrative (da Fiori pari, fiori dispari del 1945 a Belliboschi del 1948), dove le distanze della memoria si fondono con le prospettive spaziali ("La bambina dall'altra parte della vasca era un piccolo punto bianco, reclina a buttare sassolini nell'acqua. La sagoma di un cigno bastava a nasconderla"); nelle pagine geniali di quel Furor mathematicus che nella nostra cultura appare come un masso erratico di altre epoche, quasi un planisferio rinascimentale in cui l'unità del sapere si realizza ancora una volta in ogni direzione, dai rapporti tra ottica e metafisica nei Greci alle "macchine oniriche", dalla esperienza torricelliana del vuoto all'"horrore" dell'abisso in Pascal (e creando una sorta di genere particolarissimo, che ricorda il gusto di Borges per la "contaminatio" di mondi apparentemente remoti, ma, a differenza di Borges, conserva, al di là delle suggestioni fantastiche, il reticolo dei nessi nella loro legittimità); la stessa "poetica", infine, è anche il centro, segreto e arduo, della sua poesia.
Già in una Lettera a Gianfranco Contini, scritta a Milano il 6 novembre 1941, Sinisgalli accennava a una coscienza vettoriale della poesia come energia, esprimibile mediante il binomio a - bj, dove a e b sono quantità reali e j è "il famoso operatore immaginario", anfibio tra l'ente e il non ente, somma di un reale e di un immaginario, che "ci darebbe un'idea di quella che è l'alterazione prodotta dal linguaggio sulla realtà", certo seguirlo su questa difficile linea di demarcazione tra i due versanti risulta, almeno per i non matematici, più un presagio che una esperienza della verità. Tuttavia in una Seconda lettera a Gianfranco Contini di alcuni anni più tardi questa coscienza fisico-matematica della poesia sembra diventare più accessibile al linguaggio della parola: "... nell'azione del poeta, per la nascita e lo sviluppo della poesia, entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari". E comunque l'essenziale non è tanto di verificare la convergenza dei linguaggi del numero e della parola, quanto di percepirne la correlazione e scoprire dietro a entrambi un'unica intuizione del reale: "La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell'acqua e del sale. Dio è laconico".
Per questa via sarà forse più agevole cogliere il particolare peso specifico che la sua parola possiede già nei primi versi, il retroterra che contribuisce a differenziarla da quella pascoliana e crepuscolare e poi da quella di Ungaretti e Montale (con cui pure la critica maggiore, da Anceschi a Bo, da De Robertis a Contini, l'ha giustamente posta in un vitale e dialettico rapporto).
Tale retroterra è percepibile fin dalle 18 poesie del 1936 che, precedute dal consenso di Ungaretti e seguite da quello di un critico come De Robertis, valsero a Sinisgalli l'immediata collocazione nell'area più interessante e vitale dell'ermetismo, accanto a Betocchi, Gatto, Sereni, Luzi. Al di là però delle comuni ascendenze (al crocevia delle linee Pascoli-crepuscolari e Mallarmé-Valéry) e delle suggestioni esercitate dai contemporanei Ungaretti e Montale, "l'antieloquenza" che fu subito riconosciuta come uno dei tratti distintivi dell'analogismo di Sinisgalli non era solo un correttivo di ogni enfasi retorica, ma affondava le sue radici in strati più profondi. L'evidenza fisica che le sue figure sprigionano non è infatti tanto visiva e sensoriale, quanto riconducibile a quel capovolgimento della gerarchia anima-corpo che Sinisgalli aveva attribuito a Leonardo.

1

Esempio



  


  1. SPAIDERMAN

    SALVE VORREI SAPERE PROSA E COMMENTO DELLA POESIA DI LEONARDO SINISGALLI PIU PRESTO POSSIBILE PLEASE

  2. francesca

    parafrasi delle opere di caproni

  3. francesca

    parafrasi delle opere di caproni