Shoah

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SHOAH
Nel settembre del 1943, gli Ebrei nell'Italia centro-settentrionale erano ormai circa 33.000 tra cittadini italiani e profughi stranieri.
Già da qualche anno la situazione per gli ebrei locali era tragica dal punto di vista materiale e piena di disagio dal punto di vista morale. A partire dal settembre del 1938 infatti, quando da parte del governo fascista erano state emanate le leggi antriebraiche, regnava l'insicurezza e l'inquietudine: i bambini e gli adolescenti non avevano la possibilità di frequentare la scuola pubblica, i capofamiglia di prestare la loro opera negli uffici della pubblica amministrazione, nella scuola e nelle università, erano impediti nelle loro attività, che fossero imprenditori o venditori ambulanti. Gli ebrei erano stati radiati dall'esercito, dagli albi professionali, dalle banche, dalle imprese di interesse pubblico. I matrimoni con cattolici erano proibiti. Tutto ciò avveniva nel quadro di una campagna di stampa diffamatoria e umiliante cui davano manforte anche ambienti colti e universitari.
La legislazione antiebraica, che non aveva certo molto da invidiare quanto a durezza e puntiglio a quella messa in atto dalla Germania nazista, fu accompagnata da una miriade di piccole ordinanze e circolari amministrative che rese difficile e umiliante anche la vita quotidiana, come quella che proibiva di pubblicare gli annunci funebri sui giornali, conservare il proprio nome nell’elenco telefonici, frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare nel mondo dello spettacolo, operare in qualità di ostetrica o infermiera, per non fare che qualche esempio casuale. E, ancora, via dai libri scolastici testi scritti da ebrei, via dalle strade nomi di ebrei illustri, via dalle lapidi di ospedali o asili i nomi di benefattori ebrei.
I cittadini ebrei vennero anche accuratamente schedati, registrati, contati, da prefetture, questure, amministrazioni comunali, uffici locali del fascio.
Quanto ai profughi stranieri, furono sottoposti a decreto di espulsione e quando questo si dimostrò impossibile da realizzare per la chiusura delle vie marittime, il 10 giugno del 1940, furono sottomessi a provvedimento di internamento in appositi campi o luoghi di prigionia.
Insomma, il quadro fino alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, era di una pesante persecuzione amministrativa, politica e civile da parte dello stato.
Con l’8 settembre del 1943, l’occupazione tedesca e la creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), la persecuzione antiebraica subì una decisa svolta verso l’assassinio. Le prime violenze antiebraiche furono messe in atto sul Lago Maggiore e a Merano a metà settembre, ma la vera e propria estensione, dopo gli altri paesi occupati, della politica della “soluzione finale della questione ebraica” fu praticata a partire dal 26 settembre 1943 a Roma.
In tale data, il comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler convocò il presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche, Dante Almansi e il Presidente della Comunità Israelitica di Roma Ugo Foà per comunicare loro l’imposizione di una taglia di 50 chili di oro da versare entro 36 ore, pena la deportazione di 200 membri della comunità stessa.
Dopo un'affannosa corsa contro il tempo per raccogliere il prezzo del riscatto, la somma fu consegnata, con la remota speranza per gli ebrei che nulla di peggio sarebbe accaduto loro. Invece, proprio il giorno dopo il pagamento del riscatto, il 29, i tedeschi irruppero nei locali della comunità portando via carte, schedari e denaro contante. II 13 ottobre successivo furono le due biblioteche, del Collegio rabbinico e della comunità, a ricevere una sgradita visita, culminata nella rapina di preziosi libri antichi.
Nell’ambito dello Stato nazista, il compito di affrontare e risolvere la cosiddetta questione ebraica fu affidato, in ogni paese occupato, alla Gestapo (Geheime Staatspolizei-Polizia Segreta di Stato) una delle sezioni dell'Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), e precisamene al suo Ufficio IVB4, capeggiato da Adolf Eichmann.
A Roma però, la polizia tedesca, da subito alle prese con una situazione precaria dal punto di vista dell'ordine, non era pronta a tali compiti. Sicchè da Berlino, all'inizio di ottobre, fu mandato in Italia uno speciale piccolo distaccamento di polizia all'ordine di uno specialista in retate di ebrei, Theodor Dannecker.
Egli scatenò il 16 ottobre 1943, con il suo distaccamento, coadiuvato da 365 uomini della polizia tedesca a Roma il grande rastrellamento che ebbe nel quartiere ebraico, l'antico ghetto, il suo epicentro. Gli arrestati furono 1.035, dopo il rilascio di alcuni prigionieri (perché non ebrei o perché coniugi o figli di matrimonio misto o perché titolari di nazionalità neutrale), alla fine rimasero nelle sue mani 1.022 ebrei. II 18 ottobre i prigionieri, stanchi e disperati, furono trasportati su autofurgoni a uno scalo ferroviario secondario di Roma (Stazione Tiburtina) e caricati su di un convoglio formato da 18 carri merci.
Per la prima volta, gli ebrei italiani venivano sottoposti al progetto di sterminio comunicato alle alte sfere naziste da Reinhard Heydrich a Gross Wansee (periferia di Berlino) il 20 gennaio 1942 e, dalla primavera precedente, operativo negli altri paesi occidentali. Nell'ottobre del 1943 infatti 56 convogli carichi di ebrei erano già partiti dalla Francia e 13 dal Belgio. La destinazione di tutti era il campo di sterminio di Auschwitz in Alta Slesia (Polonia) dove il regime nazista aveva sistemato impianti per l'assassinio di massa vieppiù sofisticati: a partire dal marzo 1942 erano state messe in funzione le camere a gas sistemate in due vecchie case agricole e dal marzo 1943 i grandi “moderni” edifici, appositamente costruiti che comprendevano sia locali per asfissiare quotidianamente i deportati, sia crematori per bruciarne i corpi.
Ad Auschwitz (sottocampo di Birkenau), la morte a ciclo continuo raggiunse una spaventosa scala industriale: si calcola che tra la primavera del 1942 e la sospensione dell’assassinio nel novembre del 1944, le vittime ebraiche furono circa un milione e centomila.
La determinazione del loro numero è molto difficoltosa perché il procedimento di sterminio era radicale e messo in atto in maniera da non lasciare nessuna traccia: i convogli pieni di famiglie deportate erano scaricati sulla rampa di arrivo (nei pressi del campo in un primo tempo e prolungata all'interno quando il ritmo frenetico degli arrivi lo richiese), le valigie, i fagotti, tutti gli averi portati in un settore dove venivano smistati per genere e riciclati: da una parte gli indumenti, da un'altra i giocattoli, gli occhiali, le scarpe, le protesi, perfino i capelli tagliati ai nuovi arrivati. Inoltre, documenti di identità venivano bruciati immediatamente.
I gruppi di ebrei giunti da tutta l’Europa occupata subivano una affrettata selezione: l’80-85% era avviato direttamente verso la morte tramite camere a gas, il restante spogliato e tatuato, introdotto nel campo come manodopera schiava. I corpi degli uccisi erano immediatamente cremati.
Il treno degli ebrei romani giunse sulla banchina dello scalo ferroviario secondario di Auschwitz la notte del 22 ottobre 1943; qui rimase fermo e sigillato fino all'alba del giorno dopo. I deportati, dopo un viaggio particolarmente penoso perché tra loro c’erano decine di bambini di tutte le età, tormentati dalla fame, dalla sete, dalla sporcizia, dal puzzo dei corpi rimasti in promiscuità per 5 giorni e 5 notti, subirono la selezione. I destinati al gas furono ben 839. Alla liberazione, solo 16 persone del convoglio di Roma furono trovate in vita.
La notizia del rastrellamento del 16 ottobre 1943 giunse immediatamente in Vaticano dove il giorno stesso il Segretario di Stato, Cardinale Luigi Maglione, convocò l'ambasciatore tedesco Ernst von Weiszaecker chiedendogli di "voler intervenire in favore di quei poveretti" e comunicandogli che "è doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre comune siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata...". Weizsaecker domandò allora: "Che cosa farebbe la Santa Sede se le cose dovessero continuare?", la risposta di Maglione fu: "la Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione". II giorno dopo, l'ambasciatore riferì ai suoi superiori nei seguenti termini la temuta reazione vaticana: "...Gli ambienti a noi ostili di Roma approfittano dell'accaduto per forzare il Vaticano ad uscire dal suo riserbo. E’ noto che i vescovi delle città francesi dove si erano verificate azioni analoghe hanno preso nettamente posizione. II Papa nella sua qualità di pastore supremo della Chiesa e vescovo di Roma non potrà mostrarsi più discreto di loro..." Oltre ad una ferma lettera di protesta di Monsignor Alois Hudal, rettore della Chiesa tedesca a Roma, al Generale Stahel, però, l'unica reazione ufficiale fu il 25-26 ottobre uno sbiadito fondo su "L'Osservatore romano" con accenni quanto mai vaghi alla deportazione degli ebrei romani, in maggioranza già assassinati due giorni prima ad Auschwitz.
L’ambasciatore, il 28 ottobre inviò di conseguenza al Ministro degli Esteri tedesco un tranquillizzante messaggio nel quale diceva: "...si può ritenere che la questione spiacevole per il buon accordo tedesco-vaticano sia liquidata...".
Gli arresti a Roma continuarono, pur se in maniera meno sistematica e repentina, anche dopo la grande razzia.
II "distaccamento operativo" si spostò verso Firenze, entro la fine di novembre le maggiori città del Nord avevano subito una “judenaktion”. Dannecker organizzò, dopo quello da Roma, altri due trasporti: per il convoglio partito il 9 novembre 1943, gli ebrei rastrellati furono portati dalle locali carceri alle stazioni ferroviarie, rispettivamente di Firenze e di Bologna; per il convoglio partito il 6 dicembre 1943, il carico avvenne a Milano, Verona e Trieste. Per tutto il periodo in cui fu lui a organizzare i carichi, di fatto, le carceri delle grandi città funzionarono come luoghi di transito per i deportandi.
Alla fine di dicembre del 1943 egli giunse con i suoi uomini a Verona dove terminò il suo compito di organizzatore esperto della

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