romanzo neostorico

Materie:Altro
Categoria:Italiano
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Data:12.01.2007
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Testo

Cava de’ Tirreni a.s. 2006/07
Liceo scientifico “A. Genoino”

Premessa
Affrontare il discorso sul “romanzo neo-storico” e i suoi rapporti con la storiografia e il Postmoderno, è alquanto arduo almeno per due motivi:
una certa difficoltà da parte del corpo docente ad inoltrarsi in tracciati culturali e letterari lontani dai percorsi di studio affrontati negli anni liceali prima e universitari dopo;
una certa diffidenza da parte degli allievi nel familiarizzare con testi e autori dell’ultimo scorcio del secolo appena terminato, per l’inadeguata trattazione ad essi riservata dai testi e dai programmi scolastici.

Il presente lavoro si augura di suscitare almeno curiosità sul fenomeno del romanzo “neostorico”, in modo che le lezioni di seminario possano avvalersi sempre di un dibattito costruttivo, i cui contenuti saranno successivamente rielaborati dagli allievi con il supporto di questionari, consegnati al termine di ogni lezione .
Il percorso, articolato in quattro sezioni, più la conclusione e un’appendice, dedica
la prima parte al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, perchè questo romanzo (pubblicato nel 1958 dopo oltre un anno dalla morte del principe di Lampedusa) è da considerarsi l’ anello di congiunzione tra il romanzo storico dell’Ottocento (I promessi sposi di Manzoni, Marco Visconti di Tommaso Grossi, La battaglia di Benevento di Guerrazzi, Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio) e del primo Novecento (I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello) con il romanzo “neo-storico” del secondo Novecento.
La seconda sezione introduce alla conoscenza del Postmoderno, quindi seguono
le sezioni che trattano del romanzo “storico” e “neostorico”.
Il percorso avrà delle finestre sull’arte figurativa (Van Gogh, Magritte, Warhol …) e sul cinema (L. Visconti, F. F. Coppola, Q. Tarantino …) di cui è prevista la proiezione di opere o aspetti significativi.

Pasquale Amendola
Parte prima
Tomasi di Lampedusa1 Il Gattopardo2
“Un’allegoria di dissoluzione e di morte”
Ridurre il tempo allo spazio è per Tomasi di Lampedusa una soluzione narrativa e compositiva, messa in pratica nel romanzo, di fondamentale importanza. Fissare il tempo nello spazio significa escludere l’articolazione e gli snodi dell’evoluzione e della successione temporale. Il suo narratore onnisciente non rivela alcun interesse allo scorrimento, al ritmo della durata progressiva, all’accumulo produttivo del tempo della narrazione. Il transito del tempo non è mai articolato narrativamente: viene confinato fuori dalla narrazione nella didascalia in corsivo che accompagna il numero di ciascuna Parte del romanzo, mentre, al suo interno, è oggetto solo di allusione attraverso l’indicazione indiretta delle stagioni.
Tagliare il tempo in segmenti brevi e calarlo nello spazio, consente all’autore di alternare l’atteggiamento nobiliare, ironico-epigrammatico, e quello borghese, descrittivo, realistico e analitico, il tempo veloce e quello lento della narrazione. Fornire un’impressione globale nello spazio piuttosto che nella successione temporale induce a tagliare la narrazione in una serie di blocchi, che l’autore chiama «Parti», unificati dalla ragione spaziale e poi montati in un ordine cronologico. Si tratta di segmenti diversi, separati fra loro, tanto da potere essere immaginati come «novelle» autonome. In ciascuno di essi vige l’unità di luogo, congiunta — con un’unica eccezione — all’unità di tempo.
La Parte prima copre 24 ore nel maggio 1860 e si svolge nel palazzo di Palermo; nella Parte seconda la durata dell’azione è ancora di 24 ore nel mese di agosto dello stesso anno ed è ambientata nella campagna e nella dimora signorile di Donnafugata; di analoga o più breve durata è la Parte terza in cui l’azione si svolge (siamo nell’ottobre del 1860) sulle colline e nel palazzo di Donnafugata, suddivisa fra il colloquio con Ciccio Tumeo e quello immediatamente successivo con Calogero Sedara; nella Parte quarta l’unità di luogo è garantita di nuovo dal palazzo di Donnafugata, mentre il resoconto del «ciclone sensuale» sembra estendersi per più giorni del mese di novembre (ancora del 1860); nella Parte quinta (febbraio 1861) il luogo è S. Cono e la durata ancora di 24 ore; nella Parte sesta (novembre 1862) lo spazio fisso è quello del palazzo dei Ponteleone a Palermo e il tempo si limita alle sette-otto ore del ballo; nella Parte settima (luglio 1883) l’ambiente è quello dell’albergo Trinacria di Palermo e il tempo corrisponde alle poche ore dell’agonia del Principe; con la Parte ottava si torna al Palazzo dei Salina a Palermo e l’azione copre 24 ore fra il 13 e il 14 maggio 1910.
Il romanzo è dunque costruito in modo circolare: per quanto riguarda lo spazio, questo si apre e si chiude nel palazzo palermitano dei Salina; per quanto riguarda il tempo, al maggio dell’incipit corrisponde, mezzo secolo dopo, quello dell’explicit. Inoltre la regola che vuole la vicenda narrativa condensata in ogni Parte in un numero di ore corrispondente o inferiore a 24 è violata solo nella Parte quarta, in cui peraltro il ritmo narrativo segue il procedimento dell’evocazione all’ imperfetto di azioni più volte reiterate.
Si tratta di una struttura narrativa poco ottocentesca. Alla velocità con cui scatta il tempo fra un blocco narrativo e un altro si accompagna la lentezza all’interno di ciascuno di essi. Quest’ultima poi appare determinata non solo dalla minuzia analitica della descrizione degli spazi, ma anche dalle procedure della memoria e del monologo interiore, attraverso le quali si recuperano, per analessi, gli avvenimenti intercorsi negli intervalli non direttamente rappresentati. Così lo scorrimento del tempo non è mai portato sulla scena in modo oggettivo, ma è sempre soggettivizzato attraverso la prospettiva del protagonista. Se nel taglio complessivo del tempo narrativo si intravede la lezione di Stendhal (autore prediletto da Tomasi), in quello dei singoli blocchi si percepisce invece l’insegnamento novecentesco di Proust e della Woolf. Né va trascurata, in una struttura costruita per montaggio di episodi, l’influenza del modello verghiano di Mastro-don Gesualdo.
Data l’organica connessione del motivo del tempo a quello dello spazio, è utile una ricerca sui cronotopi del Gattopardo. Si può ricordare che tre sono gli spazi privilegiati del Principe di Salina: l’osservatorio da cui contempla le stelle, la campagna siciliana arsa di sole, le case signorili di Palermo e di Donnafugata. In questi tre luoghi il Principe si distacca dagli altri uomini per tendere a una prospettiva universale e alla misura dell’eterno. Tutt’e tre, infatti, si legano alla stessa immagine del tempo: il cielo stellato, la campagna, il palazzo sembrano sfidare e vincere lo scorrimento temporale, e comunicare una sensazione di durata, di stabilità, persino di perennità. Il palazzo di Donnafugata, con le sue mura, i suoi giardini e le sue fontane, assume per il Principe un valore preciso: quello di significare il tempo congelato. Se il cronotopo del castello nel romanzo gotico e in quello storico ottocentesco si presenta saturo di «storicità» quello della casa signorile di Tomasi tende invece al tempo pietrificato, all’immobilizzazione del presente.
Quanto alle stelle, esse rappresentano per il Principe la regola della ripetizione e del sempre-eguale che non può tradire. Esse consolano e rassicurano. Ossessivo timore del Principe è che qualcosa non ritorni come prima, che la storia proceda e produca qualche cambiamento. La voce narrante ne teorizza la vanità delle trasformazioni e la ciclicità della storia e delle classi, sostenendo altresì che anche i borghesi diventeranno nobili e si trasformeranno a loro volta in «gentiluomini indifesi». L’unica rassicurazione possibile per il Principe — si legge nella Parte seconda — è che «tutto sia come al solito», poiché il tempo delle stelle è quello fisso dei cicli naturali, può essere dominato dai calcoli astronomici e tenuto sotto controllo dalla ragione. Viceversa il tempo della storia fa terrore, perché il Principe prova un senso di impotenza nei suoi confronti. Il mito di una Sicilia sempre immobile nel tempo3 è anzitutto una difesa, psicologica e ideologica insieme. Esso si rispecchia simbolicamente nella campagna di Donnafugata.
Questa tendenza alla fissità e all’evasione dalla storia coincide con quella alla morte. Contemplare la luce fredda delle stelle e riflettersi nella fuga sempre eguale delle colline flagellate dal sole nasconde il corteggiamento della morte. L’autore traspone in termini esistenziali e universali una crisi storica, in cui la decadenza della nobiltà si riflette in quella dello scrittore. Il principe e il letterato s’incontrano nel vagheggiamento di un punto fermo al di là della storia in cui confluiscono tanto l’idealizzazione del gusto e dello stile quanto la coscienza del loro irrimediabile anacronismo. Lungi dall’essere una meta, il sempre-eguale è la fine di tutto. Il senso malinconico della morte, l’attrazione persino morbosa che essa suscita nel Principe, il fermo nichilismo rivelano quanto profondamente lo scorrimento del tempo abbia segnato il destino del protagonista: la borghesia, e la sua concezione del tempo, hanno già vinto, anche dentro di lui.
Per il Principe di Salina l’idoleggiamento della nobiltà, quello del cielo stellato e quello della morte coincidono perfettamente. La morte, la donna intravista negli spazi stellari, si concretizza nell’immagine femminile che pone fine all’agonia del protagonista: il lungo corteggiamento è concluso. La sola permanenza possibile è quella dell’estinzione.
Tuttavia questo asse mitico-ideologico su cui è costruito il romanzo non è la sua unica prospettiva. Si direbbe che esprima l’ottica del personaggio piuttosto che quella dell’autore. E infatti il narratore, che pure aderisce al suo eroe, lascia intravedere un’altra interpretazione della sua vicenda. Accanto al tempo ciclico dell’eterno ritorno, compare nel romanzo il tempo della storia. Esorcizzato, eluso, rimosso, esso si fa strada anzitutto nell’anima del Principe, minandone le antiche certezze, e si afferma poi con forza nella Parte ottava del romanzo.
È in punto di morte, nel momento del bilancio esistenziale della propria vita, che la verità si fa strada nel Principe, com’era accaduto in un’altra famosa agonia, quella in cui Gesualdo scopre il fallimento e l’insensatezza dell’ordine economico e, con esso, della propria vita. Anche il Principe, come Gesualdo, muore in un ambiente estraneo: se il mastro arricchito muore in un palazzo nobiliare, il nobile agonizza in un albergo borghese diretto da uno «svizzerotto seccatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio». La verità che gli si rivela è lo scacco dell’aspirazione alla perennità perseguita nella forma storica della tradizione nobiliare: «Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto». Se Tancredi già da tempo era venuto a patti con il mondo degli affari e con il tempo della produzione, l’erede maschio più diretto, il nipote Fabrizietto, per quanto a lui caro, gli risulta «tanto odioso», con i suoi istinti goderecci e «con le sue tendenze verso un’eleganza borghese».
Ma, quel che è peggio, è che Garibaldi aveva vinto, da tempo, anche dentro di lui. Nel profondo il Principe avverte che la logica utilitaristica del compromesso e degli opportunismi ha aperto contraddizioni e brecce nel proprio comportamento, instillando in lui il senso borghese, o, peggio, piccolo-borghese di una certa inettitudine. Sin dall’inizio del racconto, si dice che il Principe «viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minore voglia di porvi riparo». Ma questa scontentezza si traduce a poco a poco, da un lato, in un sentimento d’impotenza individuale e, dall’altro, in ammirazione per il senso pratico non solo dell’amato Tancredi ma persino dell’orribile Sedara. A insidiare la sicurezza del Principe è proprio la contemplazione notturna delle stelle che lo costringe a un doloroso confronto fra la loro distaccata purezza e la meschinità dei compromessi a cui Tancredi e lui stesso sono costretti:

L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro [le stelle], verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano […] “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene”, pensò con le sue formule mondane. “Chi pensa di preoccuparsi per le doti delle Pleiadi, della carriera politica di Sirio, delle attitudini all’alcova di Vega?” […] Il frack di don Calogero, gli amori di Concetta, l’infatuazione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità, financo la minacciosa bellezza di Angelica. Brutte cose, pietruzze in corsa che precedono la frana. E quel Tancredi aveva ragione, d’accordo, e lo avrebbe anche aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi.

Le stelle, dunque, sono «pure» perché «non barattano», mentre Tancredi e lo stesso Principe sono per certi aspetti “ignobili”, il contrario di “nobili”. La parola-chiave, il verbo “barattare”, torna all’inizio della Parte quarta, riferito ancora a Tancredi, «giovane nobile […] capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui» e poi verso la fine del romanzo, quando Concetta contempla «gli acquarelli di case e luoghi in maggior parte venduti, anzi malamente barattati, da nipoti sciuponi». Ne escono confermate, da un lato, l’equivalenza fra l’ordine rassicurante delle stelle e quello della nobiltà e, dall’altro, la radicale incompatibilità dell’uno e dell’altro con il “baratto” borghese a cui, per «pusillanimità», cede invece il Principe. L’etica impura dello scambio economico e della logica produttiva non solo si è storicamente affermata, ma ha travolto una parte, almeno, delle difese del Principe, mettendone in discussione l’integrità e l’identità stessa.
Nella Parte terza, nelle pagine dedicate al colloquio con Ciccio Tumeo, la coscienza aristocratica e la vocazione snobistica del gran signore subiscono un altro scacco: il Principe ha barattato la propria sicurezza con l’adeguamento politico ai nuovi tempi, ha votato a favore dell’annessione all’Italia e sta per accingersi a un altro baratto: quello del nome nobiliare di Tancredi con la ricchezza di Angelica Sedara. Don Ciccio, ben «più signorilmente» di lui, ha invece espresso il proprio “no” al Referendum e manifesta la propria disapprovazione al matrimonio. Da questo momento qualcosa si spezza nell’anima del Principe, che appare condannato a una permanente ambiguità fra ideologia e realtà, fra mito del ruolo aristocratico e cedimento alle esigenze borghesi del “baratto”. Di qui i sentimenti contrastanti nei confronti di Calogero Sedara, a un tempo disprezzato e ammirato. Si coglie in questo punto l’ideologia del darwinismo sociale, non senza echi della prefazione verghiana ai Malavoglia: l’inadatto alla vita considera con ammirato stupore l’avanzare impetuoso di don Calogero, che «procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti». Di fronte a questa immagine di forza e di spregiudicatezza il Principe finisce per rientrare nella categoria dei «nobili-pecora», disposti a lasciarsi tosare per la «mollezza e l’incapacità a difendersi» tipiche della propria classe in rovina. Siamo di fronte a un vero e proprio topos che circola nella letteratura di fine Ottocento e inizio del Novecento: da un lato, i vincitori, che, adeguandosi darwinianamente all’ambiente e aderendo nietzschianamente al ritmo vitale, procedono nel senso del progresso; dall’altro l’indifferenza esistenziale degli inetti sveviani, montaliani e moraviani, con i quali il Principe di Salina viene a rivelare insospettate affinità. Probabilmente, dietro il mito del gran signore si cela l’esperienza della frustrazione del ruolo intellettuale.
In quanto autore, Tomasi stabilisce con il Principe di Salina un rapporto complesso di adesione e di distanza critica. Si riconosce nella sua ideologia di corteggiatore delle stelle, della nobiltà e della morte, e ne stigmatizza invece l’inettitudine e la vocazione «ignobile» al compromesso. L’inettitudine del Principe sta nel non saper mantenere fede al pathos della nobiltà o viceversa nel non sapere essere come Tancredi e magari come Sedara; nell’incapacità di abbandonarsi sino in fondo al senza-tempo e al sempre-eguale, oppure in quella, opposta, di accettare il ritmo della storia e del cambiamento.
Illuminante è al riguardo – nella Parte quarta - il discorso di Don Fabrizio al funzionario piemontese Chevalley, giunto a Palermo per proporre al Principe la nomina a senatore col fine di dare prestigio all’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. Nel discorso di Don Fabrizio è sintetizzata la storia della Sicilia fra dominazioni straniere e fatalismo: i popoli invasori hanno imposto religioni lingue costumi, ma soprattutto duri sistemi fiscali; di conseguenza la civiltà da essi portata è stata un’opera di colonizzazione, che non è mai «germogliata» autonomamente. Gli stessi monumenti dei conquistatori restano «magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti».
« Accanto a questa storia di invasioni stanno i siciliani, le cui oscure vicissitudini, le cui “fatalità esteriori”, coniugate alla loro “insularità di animo”, si sono trasformate in un abito mentale, vale a dire in un senso di stanchezza e di svuotamento, in una senilità interiore dovuta al peso millenario di civiltà differenziate, che hanno generato la presenza di una latente tendenza al sogno, ma anche il “desiderio di immobilità voluttuosa”. Tale stato di immobilismo si trasforma nelle parole del principe in una “colpa” dei siciliani, che ha determinato il “prepotere di certe persone, di coloro che sono semi-desti”, in ciò includendo sia uomini politici (Crispi) che intellettuali, i quali, superati gli iniziali fervori, ricadranno fatalmente nell’atavico “voluttuoso vaneggiare”. Ma la presenza dei “semi-desti” ha comportato anche l’innescarsi di un potere locale che col tempo avrebbe avuto connotazioni mafiose. Ed è ancora “colpa” dei siciliani il ristagno culturale, la strenua convinzione di non volere migliorare perché si è convinti di essere perfetti. L’unica possibilità di sfuggire a questa «colpa», avvertita come fatalità incombente, si ha solo per quei pochi che per ventura o per scelta debbano lasciare l’isola da piccoli ed essere così preservati da ogni retaggio negativo, perché “a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta” »4.
Nella Parte ottava è dominante il sentimento della morte: il Principe, durante il grande ballo al palazzo Ponteleone, mentre osserva ballare Angelica e Tancredi, medita riflessioni a carattere esistenziale e li vede «sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione».
Se sin qui potevano sembrare prevalenti il mito del gran signore, l’idoleggiamento della morte e la critica alla «pusillanimità» del Principe, la Parte ottava rovescia questa impressione, e sottolinea piuttosto la ragione storica della sconfitta del Principe. Cosicché la forza della conclusione costringe a una rilettura del romanzo. Il Gattopardo non è un romanzo ottocentesco che narra in modo organico la vita di un eroe, viceversa il cuore del romanzo sta nel tema moderno del tempo, della persistenza e dell’estinzione, quale si rivela nella durata delle grandi famiglie e, in specie, di una casata nobiliare: la storia privata del Principe è la sua allegoria.
La Parte ottava, allargando lo sviluppo narrativo sino al 1910, riduce a episodio la vicenda di don Fabrizio Salina (che muore già nel 1883) e, collocandola in un arco cronologico più vasto, ne pone a nudo il carattere crudelmente temporale. La storia raccontata nel romanzo assume così tratti più netti di provvisorietà e di frammentarietà non ricomposta né ricomponibile: lo sperpero e la caducità della vita si rivelano come tempo di tutti gli uomini e, insieme, come cronaca nuda e dissipata, senza possibilità di redenzione o di riscatto. Contemporaneamente proprio questa presa di distanza dall’ideologia del proprio eroe consente all’autore di acquistare in modo più deciso quella «extralocalità» nei suoi confronti che invano egli aveva cercato di realizzare nelle Parti precedenti del romanzo. La parte finale fa emergere la contraddizione che percorre la logica del racconto fra evasione metatemporale e coscienza storica.
Uno dei motivi fondamentali del romanzo, la sconfitta di don Fabrizio di Salina, viene portato a piena luce solo ora, anni dopo la morte del protagonista, attraverso un episodio che pone in implicito le mitologie del Principe e le smentite che esse subiscono a opera del tempo storico. Per questo la pagine conclusive sono fra le più crudeli del libro, e certo le più moderne.
La sconsacrazione delle reliquie, gelosamente custodite dalle tre figlie di Don Fabrizio, fa parte della più generale dissoluzione del sacro provocata dai processi di modernizzazione. Ma il sacro stesso appare, agli occhi dell’autore, incapace di difendersi perché privo di autenticità e di vigore, e ridotto a culto comico di vecchiette. A essere posta sotto tiro non è tanto la logica del moderno, quanto la degradazione della nobiltà. Il pathos della distanza viene travolto da ciò che c’è di più terribile per il nobile: il ridicolo. La prova fallita delle reliquie assume dunque un significato emblematico: è un’intera classe che non regge alla prova del tempo della storia. Fa naufragio definitivo l’ideologia che tutto deve cambiare perché tutto resti inalterato, in cui spesso, a torto, si riassume il senso dell’intero romanzo: «quel barbuto Vulcano» ha davvero vinto. Le pagine finali hanno il sapore di uno spietato contrappasso. Infatti, è un cardinale non siciliano, e neppure meridionale o romano: un settentrionale che impone un sistema di chiarezza scientifica e di efficienza pratica anche in campo religioso; e a metterla in atto è il suo segretario, don Pacchiotti, un piemontese che svolge «un lavoro lungo e accurato» di accertamento.
La tradizione nobiliare è diventata inutile reliquia. La sua fine è quella stessa della pelliccia di Bendicò gettata dalla finestra e trasformata in un «mucchietto di polvere livida». Dietro la vicenda delle false reliquie e della pelliccia di Bendicò ridotta in polvere s’intravede un’allegoria barocca di dissoluzione e di morte.
I versi di Montale «una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione» appaiono in Piccolo testamento, della raccolta Bufera e altro, 1956. Essa esprime una ideologia simile a quella presente anche nel Gattopardo, fondata sull’intuizione di un catastrofico cambiamento epocale destinato a sommergere un intero mondo di valori. Unico baluardo è la ricerca di uno stile tendente al classico che fronteggi la modernità, salvaguardando un’esigenza di distacco, di controllo e di decenza. Montale, infatti, recensendo Il Gattopardo, presenta il romanzo come «il libro di un gran signore», di «un poeta-narratore dotato di un sentimento dell’esistenza ch’è insieme stoico e profondamente caritativo». A metà degli anni Cinquanta questa formazione e questo gusto letterario non avevano più possibilità di sopravvivenza.
TOMASI di LAMPEDUSA, Il Gattopardo un’allegoria di desolazione e di morte
SCHEDA SINTETICA
1. Ridurre il tempo allo spazio:
• il nobile e lo scrittore rifiutano ogni idea produttiva o progressiva del tempo
• il nobile e lo scrittore possiedono il tempo
• Tomasi di Lampedusa è nobile ed è scrittore: è padrone del tempo.
2.Fissare il tempo nello spazio per dominarlo è - per Tomasi di Lampedusa - una scelta strutturale de Il Gattopardo:
• Rifiuto del tempo come successione o evoluzione
• Il narratore onnisciente non è interessato allo scorrimento del tempo
• Il tempo è infatti indicato nelle didascalie che accompagnano ciascuna delle Parti del romanzo.
3.Atteggiamento nobiliare vs atteggiamento borghese:
• L’atteggiamento nobiliare (del Principe di Salina) o asse verticale frantuma il tempo in segmenti per uno sguardo ironico dall’alto
• L’atteggiamento borghese o asse orizzontale distende il tempo in descrizioni narrative dal basso.
4.Tomasi di Lampedusa taglia la narrazione in otto blocchi:
• I blocchi sono chiamati PARTE, tra di loro autonomi.
• Ogni PARTE rispetta l’unità di luogo (con una eccezione)
• Ogni PARTE rispetta l’unità di tempo, corrispondente all’unità di luogo.
PARTE PRIMA
• Tempo: 24 ore, maggio 1860
• Spazio: palazzo dei Salina a Palermo
PARTE SECONDA
• Tempo: 24 ore, agosto 1860
• Spazio: dimora signorile a Donnafugata
PARTE TERZA
• Tempo: 24 ore, ottobre 1860
• colloquio con Ciccio Tumeo
• colloquio con Calogero Sedara
• Spazio: colline e palazzo di Donnafugata
PARTE QUARTA
• Tempo: più giorni, novembre 1860
• Resoconto del « ciclone sensuale »
• Spazio: palazzo di Donnafugata
PARTE QUINTA
• Tempo: 24 ore, febbraio 1861
• Spazio: località di San Cono
PARTE SESTA
• Tempo: sette/otto ore novembre 1862
• tempo dedicato al ballo
• Spazio: palazzo Ponteleone a Palermo
PARTE SETTIMA
• Tempo: poche ore luglio 1883
• agonia del Principe
• Spazio: albergo Trinacria a Palermo
PARTE OTTAVA
• Tempo: 24 ore 13/14 maggio 1910
• Spazio: Palazzo dei Salina a Palermo
CIRCOLARITA’
Il romanzo è dunque costruito in modo circolare:
➢ Tempo: maggio dell’ incipit
maggio di mezzo secolo dopo dell’ explicit
➢ Tempo: scandito in numero inferiori o superiori alle 24 ore (eccezione nella Parte quarta dove domina l’imperfetto e non il pass. Remoto)
➢ Spazio: palazzo dei Salina a Palermo nella prima
Parte
➢ Spazio: palazzo dei Salina a Palermo nell’ultima
Parte
IL TEMPO
1. Velocità del tempo nello scatto verticale fra un blocco narrativo ed un altro
vs
La lentezza interna del tempo:
a. Descrizione minuziosa degli spazi
b.Tempo dilungato (memoria, monologhi, analessi…)
2. Il che permette una lettura soggettiva della storia da parte del protagonista sulla storia.
3. Cronotopoi: spazi privilegiati del Principe Salina
a) Osservatorio per contemplare le stelle
b) Campagna siciliana arsa dal sole
c) Case signorili di Palermo e Donnafugata
Questi spazi allontanano il principe dagli uomini per una prospettiva universale (vedi Leopardi)
I tre spazi infatti rappresentano
a) La perennità dello scorrere del tempo
b) Il tempo ne risulta pietrificato nel presente
c) Le stelle sono la regola dell’eterno ritorno, del
sempre uguale che non tradisce (vedi Verga)
I cronotopoi rassicurano perché il Principe teme che
a) qualcosa non ritorni come prima
b) la storia procedendo produce cambiamenti
nella Parte seconda, il Principe assume tale prospettiva anche per spiegare certi processi storici:
a) I borghesi diventeranno nobili e poi diventeranno
Fuori da questo schema di tempo assolutizzato o mitizzato, il tempo della storia spaventa.
Nobiltà – cielo stellato – morte del Principe
coincidono
Nichilismo esistenziale:
la borghesia ha vinto
la borghesia ha vinto anche dentro la sua anima
Il Principe e il letterato (Tomasi di Lampedusa)
qui si incontrano
nella idealizzazione dello stile e del gusto; e nel loro anacronismo
L’OTTICA fino ad ora esaminata
è soprattutto del personaggio, cioè del Principe.
Il narratore lascia tuttavia intravedere, accanto al tempo ciclico, il tempo della storia, che risulta:
➢ esorcizzato, eluso, rimosso ma sempre presente, e, nella Parte ottava, è vincente
➢ vincente nell’imminenza della morte quando il Principe fa il bilancio della propria vita:
1) Il Principe agonizza e muore in un ambiente estraneo, un albergo borghese di uno (vedi la morte di Mastro-don Gesualdo);
2) La coscienza che la perennità dei Salina è finita: Garibaldi ha vinto nella storia, ma ha vinto anche dentro di lui;
3) È costretto a prendere atto della logica del compromesso, infatti egli ammirava il senso pratico del nipote Tancredi;
4) Contemplazione delle stelle nella loro purezza
Vs
la meschinità dei compromessi
> è la parola chiave
• L’etica impura dello scambio economico e della logica produttiva
non solo ha vinto storicamente
ma
ha travolto alcune difese dell’integrità del Principe.
• Nella Parte terza: colloquio con Ciccio Tumeo (p. 6)
metafora dei
• L’inettitudine del Principe:
1) Non sa mantenere fede al pathos della nobiltà fino in fondo
2) Non sa, come Tancredi, accettare il cambiamento della storia
MA
La Parte ottava costringe ad una rilettura di questa “pusillanimità”:
1) Il Gattopardo non è un romanzo ottocentesco che ha al suo centro un eroe da celebrare
2) Il Gattopardo è un romanzo novecentesco che ha al centro il tempo:
• tempo della persistenza
()
• tempo dell’estinzione
(la storia privata del Principe ne è una metafora)
La Parte ottava – infatti –, allargando lo sviluppo narrativo al 1910, riduce a episodio la vicenda di Don fabrizio Salina (che muore nel 1883).
Per questo le pagine conclusive sono le pù intense e crudeli del libro, e certo le più moderne.
La sconsacrazione delle reliquie custodite dalle tre figlie di Don Fabrizio documenta la più generale dissacrazione del sacro provocata dai processi di modernizzazione.
Il sublime tonfa in basso: è un’intera classe che non regge alla prova del tempo della storia.
ALLEGORIA
La tradizione nobiliare e diventata una reliquia inutile
come
la pelliccia di Bendicò gettata dalla finestra e trasformata in un .
L’eroismo di Tomasi è un disperato scatto d’orgoglio
Lo stile, elegante e classico, è un disperato baluardo contro la morte della poesia
Atteggiamento identico a quello di Montale che rinuncia a scrivere versi per un decennio.
Parte seconda
Il Postmoderno
Il termine Postmoderno ha avuto usi molteplici, col variare degli ambiti culturali e dei punti di vista: fu usato già nella storiografia degli anni Trenta per indicare i caratteri della civiltà occidentale a partire dalla fine dell’Ottocento. Ma il suo uso si è imposto solo nell’ultimo ventennio per definire i caratteri delle forme culturali delle società industriali avanzate, che vedono giungere ad esaurimento tutte le forme sperimentate dalla modernità; il mondo della cultura nel suo complesso si sente nella posizione di chi viene « dopo », di chi fa i conti con una realtà che ha bruciato le tendenze, gli ideali, le scelte su cui si era retta la dialettica della modernità.
In questa accezione, il termine postmoderno si è diffuso in primo luogo nell’ambito dell’architettura, già in America alla fine degli anni Sessanta. Nel campo della filosofia e delle scienze umane, il suo uso si collega a quegli orientamenti teorici che sottolineano la fine delle filosofie e delle ideologie «forti» proprie di questo secolo, e delle conseguenti visioni globali, normative e totalizzanti della realtà.
Nell’ambito della letteratura, gli usi del termine restano vari e piuttosto in-determinati, e rapportabili ai diversi tentativi di definire una situazione in cui l’esperienza letteraria è sganciata da ogni prospettiva storica e ideologica e da ogni possibilità di invenzione del nuovo, tendendo al riciclaggio e alla combinazione di forme già consumate. Più che per indicare particolari scelte stilistiche, la nozione di postmoderno si rivela proficua per designare ogni forma culturale che assuma su di sé i caratteri della comunicazione tecnologica, che ricombini indefinitamente elementi dell’immenso materiale teorico, tematico e stilistico del passato; essa sottolinea come all’affermazione della modernità siano succedute una impossibilità di creare il «nuovo» e una capacità di rielaborazione tumultuosa, polivalente e indifferente, di tutto quanto è già stato fatto e detto.

Seguono, in brevi sintesi, le riflessioni di tre studiosi che hanno tentato di fare il punto sulla genesi e sullo sviluppo del Postmoderno.

Guido Baldi da Dal testo alla storia /dalla storia al testo
[…] La storia dell’ultimo quarto del Novecento è caratterizzata dal crollo dei sistemi totalitari, dalla fine del colonialismo, dall’avvento della società delle comunicazioni, e dunque complessivamente da uno smembramento delle egemonie politico-culturali, dalla nascita di nuovi soggetti politici e dalla caduta di punti di vista “centrali”. Di fronte a tutto ciò i canoni “moderni” di interpretazione della realtà sono insufficienti.

[---] Uno dei più autorevoli teorici del Postmoderno è il critico americano Fredric Jameson, ma in filosofia fu Jean François Lyotard che con La condizione postmoderna del 1979 diede una prima definizione dell’età contemporanea come età postmoderna, fornendo il punto d’avvio al dibattito contro la postmodernità o a suo favore […]. La teoria postmoderna è per Lyotard essenzialmente una descrizione delle condizioni del sapere e della filosofia nella società informatizzata e postindustriale. A suo avviso il sapere, proprio come la società, la politica e la cultura, ha subito nell’ultimo trentennio del XX secolo, una profonda trasformazione. La situazione del sapere nel mondo contemporaneo risulta radicalmente mutata rispetto al suo statuto “moderno”: se la concezione moderna della ragione e del pensiero implicava che il presente potesse essere descritto in base a quelli che Lyotard chiama grand récits, o metaracconti (ovvero grandi discorsi legittimanti in grado di dare una descrizione unitaria e fondante dell’intera realtà), per il punto di vista postmoderno ogni pretesa di legittimazione e determinazione dell’attualità è resa impossibile dalla realtà stessa, che appare “esplosa”, complessa, non riducibile alla ragione.

[…] il critico americano Jameson ha definito il Postmoderno ideologia del tardo capitalismo e ha sottolineato la strettissima connessione tra la produzione di merce nel sistema capitalistico e la produzione estetica postmoderna. Il sistema capitalistico si fonda sulla necessità economica di produrre merci sempre nuove, con un giro di affari sempre più grande e assegna pertanto all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una posizione strutturale sempre più essenziale. In questa prospettiva la produzione artistica postmoderna risulterebbe tesa alla legittimazione e conservazione del sistema economico vigente.

[…] Remo Ceserani in Raccontare il postmoderno (1997) ha dato una interpretazione della cultura postmoderna in termini decisamente ottimistici, considerandola il risultato di una “svolta epocale” che interessa ambiti diversi della realtà, primo tra tutti quello del modo di produzione, che ha subito un vero e proprio “salto nello sviluppo”.

Il carattere positivo e ottimistico della lettura del Postmoderno è un tratto condiviso dallo stesso Umberto Eco, che ne svolge le implicazioni in arte e letteratura, ma viene messo in discussione da Romano Luperini ne Il professore come intellettuale (1998) in cui l’autore prende esplicitamente posizione sulle tesi di Ceserani. Per Luperini «c’è poco da essere ottimisti»: è vero che c’è stata una svolta nella realtà politica, sociale, culturale del secondo Novecento; il cambiamento non è però né a livello economico né politico paragonabile ad altri crocevia storici dell’ottocento (come la Rivoluzione francese) o del Medioevo (come la fine del feudalesimo).
Anche il romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) è un libro “fatto di libri”. I due protagonisti sono il Lettore e la Lettrice che hanno cominciato la lettura di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino ma, giunti a pagina 32, si accorgono che il libro è difettoso e che è composto da sedicesimi di stampa identici. Da qui si dipana una ricerca della parte mancante, in cui gli indizi sono forniti da altri inizi di romanzi sospesi e che si trasforma in una vera e propria avventura a lieto fine (il Lettore e la Lettrice si sposano).
Quest’opera di Calvino è un “romanzo sul romanzo”: essa dà voce a una letteratura (post-moderna) che si occupa di se stessa e della propria impossibilità di afferrare la realtà e un mondo che non sia quello “scritto”, e , appunto, letterario. L’ oggetto dei dialoghi, delle passioni, delle singole vicende e aspirazioni narrate nel libro è precisamente la letteratura (nella forma del romanzo interrotto, che il Lettore e la Lettrice devono ricostruire attraverso un collage di altri romanzi e una comparazione con altri testi). Ma la consapevolezza dell’impossibilità di dare una rappresentazione fedele del reale non si risolve in un atteggiamento passivo e di compianto, bensì in un ritorno euforico e in chiave ironica al romanzo di consumo.
Giulio Ferroni da Profilo storico della letteratura italiana
Il concetto di postmoderno rende conto in primo luogo delle trasformazioni antropologiche intervenute in seguito al recente sviluppo industriale. Esso designa infatti una condizione culturale in cui tutte le conquiste della modernità sono giunte a saturazione, in cui la realtà si sviluppa attraverso conflitti sparsi e incontrollabili, in cui viene messa in causa ogni logica e ogni coerenza ordinatrice: esso mostra come l’orizzonte attuale sia dominato da una comunicazione «vuota», televisiva, informatica, pubblicitaria, basata sul riciclaggio, sulla ripetizione, sullo spostamento di dati già elaborati. E una situazione in cui le forme della cultura di massa si confondono con quelle della cultura «alta»: i caratteri degli spettacoli più degradati possono coincidere con quelli della più ambiziosa attività artistica e filosofica, che non sembra mirare più alla ricerca del «nuovo», ma piuttosto alla ripresa e alla combinazione degli stili del passato, alla citazione e all’interpretazione.

[..] Il dominio assoluto delle immagini e delle registrazioni fa sì che non sia più possibile distinguere l’originale dalla copia, che ogni rapporto sociale si trasformi in uno scambio di «simulacri» vuoti, che valgono solo in quanto appaiono e i cui contenuti sono assolutamente indifferenti: al regno della logica, a un mondo umano basato sull’idea che ogni fenomeno sia retto da una «sostanza» profonda, che si debbano cercare «verità» trasparenti e autentiche, succede cosi una «società dei simulacri» (M. Perniola), in cui tutte le cose e le esperienze perdono spessore e sostanza. Dato che ogni momento della vita è dominato dall’apparenza, si può quasi parlare di estetismo di massa, di una spettacolarità diffusa, di una moltiplicazione incessante di sorprese che si confonde con l’indifferenza: una produzione che ha bisogno di rinnovarsi senza soste e che tende ad esibire qualsiasi oggetto come « estetico», ad attribuire a ogni prodotto un valore edonistico, una «bellezza» fittizia e degradata, che seduce per il suo puro apparire.
Romano Luperini
Lezioni sul Postmoderno in Allegoria, 1997, pp.9-33, breve e personale rielaborazione
1- Nascita del Postmoderno
Il presente lavoro fa perno sull’interpretazione del Postmoderno più accreditata, che fa capo a Luperini in Italia e a Jameson (Il postmoderno) in America.
Il filosofo Lyotard (La condizione postmoderna, 1979) fu il primo a sostenere che si era entrati in un’epoca in cui non erano più possibili le “lunghe narrazioni”, non era più possibile dare un messaggio forte, per quattro cambiamenti notevoli che stavano intervenendo.
Il primo consisteva nel superamento della critica desanctisiana che poneva la “centralità dell’autore” e nel superamento della critica strutturalista e dei formalisti russi che poneva la centralità del testo; la critica postmoderna poneva invece la centralità del lettore.
Il secondo consisteva nel prendere atto della “crisi dei fondamenti”, cioè delle tendenze culturali dominanti nel decennio precedente, e cioè dello strutturalismo, del marxismo (Krusciov, Mao), della psicanalisi (Lacan).
Il terzo consisteva nell’affermazione del “pensiero debole”, che, pur riallacciandosi a Nietzsche e ad Heidegger, non si poneva più il fine di conoscere le cause o di raggiungere la verità; esso è detto anche “nichilismo morbido” per distinguerlo da quello energico di Leopardi.
Il quarto consisteva nella critica alle avanguardie e al concetto stesso di avanguardia, perché queste implicano la conoscenza di un “senso” della storia, che invece non può più esserci.
Questi cambiamenti vanno valutati in relazione alle tre grandi fasi in cui la storia degli ultimi 150/160 anni può essere divisa.
La prima comincia attorno al 1840 ed è la fase dei motori a vapore.
La seconda è quella dei motori elettrici, dell’elettricità. Questa fase coprirebbe 50/60 anni (fine Ottocento – anni Sessanta).
La terza è quella degli apparati nucleari ed elettronici. Questa fase nascerebbe negli Stati Uniti nel 1945/46 e in Italia a partire circa dal 1971/72.
Questa svolta avvenuta negli ultimi quarant'anni è ottimistica nel giudizio di Ceserani e del filosofo Vàttimo, per i quali come la rivoluzione industriale e poi la rivoluzione francese hanno prodotto un grande cambiamento epocale così un grande cambiamento epocale si è verificato negli ultimi quarant'anni.
L'obiezione è che né sul piano economico, né sul piano politico, né su quello sociale sembrano avvenuti dei capovolgimenti epocali. Sul piano economico, si vive in un sistema che è pienamente capitalistico, esattamente come quello nato alla fine del Settecento; sul piano politico, siamo in piena esaltazione del liberalismo, che si e affermato nella seconda meta del Settecento dopo la rivoluzione francese; sul piano sociale, non si vede l'affermazione di una nuova classe, diversa dalla borghesia. La tesi di Luperini, e di coloro che si sono opposti a Ceserani, è che si è in presenza sì di una svolta, ma essa non è un cambiamento epocale come quello della Rivoluzione industriale e della Rivoluzione francese o dell'anno Mille nel Medioevo. Siamo, semmai, in un'epoca in cui tutte la caratteristiche del moderno si sono acutizzate. Il postmoderno dunque non è un momento in cui si è cancellato quel moderno, affermatosi con la rivoluzione industriale e con la rivoluzione francese, ma un momento in cui tutti gli elementi della modernità sono portati al limite parossistico; esso è la fase ultima del moderno, segnata dall'esasperazione delle tendenze della modernità, ma non dalla trasformazione in qualcosa di nuovo.
2. Le poetiche del Postmoderno
Il Postmoderno è nato innanzitutto nell'architettura. Gli edifici postmoderni sono spesso grandi costruzioni in vetro; le pareti di vetro opaco impediscono di vedere l'esterno, per cui si ha l'impressione di essere in un mondo autosufficiente, autonomo, quasi totalitario.

È opportuno illustrare dettagliatamente la grande costruzione postmoderna L'Eaton Center di Toronto, che risale agli anni Settanta.
Una sua prima caratteristica, comune a questo tipo di architettura e anche di urbanistica, è che ha un ingresso piccolissimo e inavvertibile dall'esterno. Si entra in queste enormi costruzioni in genere attraverso una metropolitana, oppure – è il caso dell'Eaton Center - si può arrivare anche in macchina, da una terrazza sul tetto. Sia che si arrivi con la metropolitana che in macchina, vi sono dei sistemi di scale mobili che portano nel centro della costruzione. Chi vuole può anche entrare dall'ingresso, cioè dalla piccolissima porta, però normalmente si entra attraverso grandi ascensori o attraverso sistemi di scale mobili. L’ Eaton Center di Toronto presenta un chilometro e mezzo/due di lunghezza e sette/ottocento metri di larghezza, si estende soprattutto sotto terra e per circa cinque piani sopra terra. È una costruzione totalizzante e autonoma in vetro opaco, che permette ai canadesi di passeggiare in maniche di camicia quando fuori ci sono venti gradi sotto zero, perché la temperatura interna e la stessa in qualunque stagione dell'anno. Nell'Eaton Center si trovano palme e ulivi, cascate d'acqua, ruscelli e piccoli fiumi, tutti rigorosamente veri e insieme artificiali. Non si ha mai rapporto con l'esterno, che non è mai visibile. Nell'Eaton Center vi sono diciassette cinema, circa trecento banche, un numero incalcolabile di shopping center e di ristoranti: è una città nella città.
Su questo modello, nordamericani e giapponesi hanno progettato di costruire un'intera città. La cosa presenta degli aspetti positivi, ad esempio quello di non esporsi ai rigori invernali o di godere di una sicurezza maggiore, perché si tratta di un territorio circoscritto e perciò controllabile.
Quali sono gli aspetti caratteristici di questo mondo in cui la natura e una "natura seconda", una natura ricostruita? Innanzitutto il movimento. Il fláneur di Baudelaire, che passeggiava sotto i passages di Parigi osservando le luci e i riti del consumismo, faceva ancora una «passeggiata narrativa». Il fláneur di Baudelaire faceva un percorso a piedi, con un inizio e una fine ben stabiliti, di cui lui era il responsabile. Invece ora gli spostamenti avvengono unicamente attraverso scale mobili e ascensori e la perdita di orientamento è costante, perché questi luoghi sono caratterizzati dal fatto che sono uguali in ogni punto.
Guardare da un punto o dal punto opposto è la stessa cosa. Questo disorientamento continuo necessita di una serie continua di informazioni; non ci si può muovere se non guidati. Nel medesimo tempo, questo essere guidati diventa una cosa completamente invisibile: dopo la seconda o la terza volta non si fa nemmeno più caso alle indicazioni, ma si seguono come un fatto assolutamente naturale. Quindi si ha una incapacità di dirigere da soli il proprio corpo, che però si accompagna all'idea opposta: l'idea di forza, di potenza, di possibilità di muoversi rapidissimamente da un piano ad un altro, di andare con la scala mobile senza fatica da una parte all'altra. Dunque compresenza dei contrari: da un lato si è eterodiretti e dall'altro si ha l'impressione di una totale gestione delle proprie scelte; da un lato si ha l'impressione di potersi spostare rapidamente in tutte le direzioni e dall'altro ci manca di continuo l'idea dell'insieme. Siamo come dentro un labirinto, ma dentro questo labirinto ci muoviamo da padroni; siamo spaesati, disorientati, ma abbiamo l'impressione di non esserlo. La città postmoderna è una grande metafora della civiltà occidentale, della propria onnipotenza e del proprio disorientamento; del fatto che recepisce informazioni da tutto il mondo, ma nello stesso tempo ignora ciò che accade in quattro quinti del mondo: si sa che in Africa si muore di fame mentre da noi si fanno le cure dimagranti, ma quest'aspetto non diventa coscienza; la guerra del Golfo è accaduta ma non è accaduta. Tra realtà e simulazione della realtà si è determinato un interscambio così fitto che è difficile sapere dove finisce la prima e dove incomincia la seconda.
Il fatto che la simulazione della realtà ha sostituito la realtà, il fatto cioè che la simulazione della realtà, attraverso la televisione o le parole, non corrisponde più alla realtà, è uno dei grandi problemi della società postmoderna. La frattura tra parole e cose, o tra segni e quello che un tempo si chiamava realtà, sembra diventata incolmabile. Tutti questi sono gli aspetti su cui è possibile insistere per dimostrare che c'e stata una rivoluzione antropologica, e che essa riguarda il modo dell'uomo di vivere e di immaginare la vita.
A questo punto bisogna considerare le differenze tra tre noti quadri di tre grandissimi pittori per comprendere in maniera tangibile questo fenomeno.
Fig. n.1:
Van Gogh,
Un paio di scarponi
Fig. n. 2: Magritte, Il modello rosso

Fig. n. 2: Magritte, Il modello rosso
Fig. n. 3: A. Warhol, Polvere di diamanti. Scarpe
Il primo è di Van Gogh (fig. 1). La caratteristica di questo quadro è che ci sono due scarponi di contadino in primo piano e nient'altro; non c'e più l'uomo, o almeno l'uomo non è nel quadro. In prima istanza possiamo dire cosi, poi vedremo che non è vero.

Il secondo è di Magritte (fig. 2): non siamo più nel momento di passaggio da impressionismo a espressionismo, ma nel campo del surrealismo. Sono scarpe da cui escono, chissà perché, delle dita di piedi. Non c'è l'uomo, ma le dita dei piedi dell' uomo; da qui l'aspetto surreale.

Il terzo è un'opera famosissima del maggior autore postmoderno americano, Warhol (fig. 3). Per capire questo quadro bisogna pensare che Warhol ha fatto il pubblicitario.
Che differenze ci sono fra i tre quadri? Il tema è lo stesso: le scarpe.
Nel quadro di Van Gogh, che è del 1887, è vero che l'uomo non c'è, però c'è la storia dell'uomo. Nel senso che chi vede queste scarpe ha un'idea della profondità e dello spessore che stanno dietro o dentro di esse. Osservandole si capisce che la classe sociale del loro proprietario è bassa, il suo lavoro è un lavoro contadino.
Nel quadro di Warhol le scarpe sono tutte uguali, potrebbero essere scarpe messe in una vetrina; sono senza identità, senza spessore, senza dimensione, uguali per tutti i mercati.
Nel caso di Magritte, invece, c’è la provocazione dell'avanguardia, che introduce un elemento abnorme e anomalo che produce uno choc su chi vede. Magritte, quindi, crede ancora alla possibilità della contraddizione, Warhol no.
In Warhol non c'è spessore, è la superficie che conta. Jameson infatti spiega che il postmoderno è "superficiale". Con questa parola Jameson non vuole avanzare una critica o pronunciare una condanna; vuol dire che le cose sono viste come superficie. Si è persa la nozione di profondità e di spessore, anche di spessore storico. Si vive in una situazione in cui le cose si danno naturalmente come merci, in cui tutto il mondo appare naturalmente come merce. Si vive cosi sprofondati nella "seconda natura", una natura prodotta dalla mercificazione, che naturalmente vediamo la realtà con gli occhi della merce.
Nel campo del cinema l'esempio che fa Jameson è Apocalypse now; Luperini preferisce citare un film più recente, Pulp fiction, che è considerato uno dei capolavori del postmodernismo.
La caratteristica di questo film è quella di usare, di citare di continuo le forme dei generi "bassi": i cartoon, i western, i film polizieschi, i film di mafia. È un film tutto costruito di citazioni: il citazionismo è una componente di fondo del postmoderno. Tuttavia qui si tratta di un citazionismo popolare, che non ha niente a che fare, ad esempio, col citazionismo raffinato di Gadda. Quello di Pulp fiction è un citazionismo tale per cui l'opera può essere letta a due livelli, esattamente come Il nome della rosa. Il libro di Eco è a due livelli: il livello dell'esperto di letteratura, che in ogni rigo trova la citazione da decifrare, e quello del lettore comune, a cui interessa solo la trama, gli "effettacci" di sangue, morte, violenza.
Nei film postmoderni, quindi, si ricorre a tutte le arti, al principio della interartisticità, ma questo principio, che è tipico dell'avanguardia, viene usato al di fuori della logica dell'avanguardia: ci si rivolge al grande pubblico, lo si vuole intrattenere e non provocare, si può usare la "Cavalcata delle valchirie" di Wagner come colonna sonora di una spedizione di elicotteri nel Vietnam. Questo mettere tutto in una specie di tritacarne che accoglie tutto e lo ricicla, l'essere collocati in una sorta di turbina che macina l'esistente e lo riproduce in modo vorticoso, è una delle caratteristiche del postmoderno, che poi si riscontra anche in letteratura: è quello che Jameson chiama pastiche.
Era uscito nel '56 La bufera e altro di Montale, in stile elevatissimo che tende al tragico; nel '61 escono I novissimi, che invece propongono un linguaggio comico, basso, giornalistico, babelico, volgarmente quotidiano, con un abbassamento drastico che presuppone però la contraddizione con l'alto. La contraddizione alto/basso non esiste più nel postmoderno: questo è il pastiche.
Quali sono state le conseguenze del postmoderno nel campo della critica letteraria negli Stati Uniti? Qui la critica letteraria ha preso la forma del decostruzionismo.
Il decostruzionismo parte dal presupposto che non esistono più significati e si vive in una realtà totalmente insignificante, dove qualunque significato che noi diamo a un testo è destinato ad essere immediatamente decostruito da un altro significato. Ogni interpretazione, quindi, è una interpretazione sbagliata. Ogni volta che noi cerchiamo di dare un significato e dunque un'interpretazione, il significato è arbitrario. Il decostruzionismo è una forma di critica nichilista.
3- Le trasformazioni nell’organizzazione della produzione e della cultura
L'elemento nuovo del Postmoderno è la tendenziale scomparsa dell'intellettuale in quanto detentore di un potere diverso. Nel postmoderno tutto il linguaggio è gestito da un'unica centrale: i detentori del potere economico e politico sono i detentori del linguaggio. Questo si vede chiaramente nel modo diverso in cui si è strutturata l'industria culturale. Il caso dell'Italia è esemplare: Berlusconi è il principale industriale che possiede non solo le sue aziende, ma, in un regime praticamente monopolistico, tutta la produzione di carta stampata, dalle case editrici alle librerie, ai giornali. È un processo che un giornalista non certamente di idee radicali come Bocca ha descritto perfettamente in un libro uscito intorno al 1990 intitolato Il padrone della redazione, in cui denuncia il venir meno - di fatto - del giornalismo. Un giorno il direttore del giornale era una cosa e il padrone era un'altra: oggi questa scissione non c'è più e il padrone è, in modo più o meno mascherato, il direttore, cosicché non è più possibile nessuna forma reale di autonomia del giornalismo.
4. Il Postmoderno nella critica, nella teoria e nella pratica letteraria
In genere la tendenza principale che ha prevalso da noi è quella di concepire la centralità del lettore, nel senso che il singolo lettore, soggettivamente, è autorizzato a dare qualsiasi interpretazione di ciò che legge, perché le interpretazioni sono infinite e perché il rapporto tra testo e lettore è sempre un rapporto assoluto. L'elemento di arbitrarietà dell'interpretazione viene dato per scontato e viene tranquillamente accettato. In questo rapporto testo/lettore non esiste mai un terzo; non esiste una classe a cui dobbiamo spiegare il testo, non esiste un pubblico a cui dobbiamo rivolgerci per chiarire il testo.

Parte terza
Il romanzo
a) Il Romanzo storico dell’Ottocento (ovvero epopea borghese)
Il romanzo storico nasce alla caduta di Napoleone (il Waverley di Scott fu pubblicato nel 1814). Prima mancava l’elemento storico specifico, perché solo la Rivoluzione francese ha fatto della storia un’esperienza vissuta dalle masse: le guerre napoleoniche provocarono ovunque un’ondata di risentimento nazionale. L’appello all’indipendenza è legato al risveglio della storia nazionale, ai ricordi e recuperi del passato glorioso.
Su questa concezione della storia nacque la produzione di Walter Scott: non narrazione degli avvenimenti, ma la rievocazione poetica degli uomini che in tali avvenimenti hanno figurato; perché < per rendere evidenti i motivi sociali e umani, gli avvenimenti di scarsa importanza esteriore e le circostanze in apparenza poco rilevanti servono meglio che i grandi drammi della storia universale > (scrive Gyorgy Lukàcs). Tesi questa sostenuta anche dal Thierry, lo storico della Rivoluzione francese.
Su queste motivazioni Scott scrive Ivanhoe (1819): il romanzo è un faticoso compromesso tra i Normanni conquistatori ed i Sassoni vinti (vicenda del 1194), e con esso Scott intende riportare l’amalgama nell’ ‘800 tra Inglesi e Scozzesi. Ivanhoe è un sassone che, bandito dal nobile padre, diventa crociato di Riccardo Cuor di Leone (normanno). Notare che il re Riccardo, Elisabetta, Maria Stuarda compaiono a vicenda già avanzata, mentre è il cavaliere medio Ivanhoe che interpreta il pensiero di Scott e i fatti della storia. Il popolo è così personaggio di rilievo, come lo sono Locksley (capopolo), frate Tuck, il rude Cedric, il buffone Wamba, il porcaro Gurth.
Compito del romanzo storico di Scott, secondo Lukàcs (1957), è stato quello di scoprire il passato come , preparando il terreno alla rappresentazione del .
Scott non possiede la grande e profonda dialettica psicologica dei caratteri […] I suoi grandi continuatori nel genere, Puskin e Manzoni, lo hanno di gran lunga superato per la poesia e la profondità delle figure umane individuali da essi creati. […] la grandezza di Scott sta nel dare vita umana a tipi storico - sociali. I tratti tipicamente umani, in cui si manifestano con evidenza le grandi correnti storiche, prima di Scott non erano mai stati rappresentati con questa grandiosità, con questa chiarezza e pregnanza. […] L’eroe dei romanzi di Scott è altrettanto tipico per questo genere letterario quanto Achille e Ulisse erano eroi tipici per la vera epopea.
La diversità dei due tipi di eroi mette in luce con grande evidenza la differenza fondamentale fra epos e romanzo. […] Gli eroi dell’epos sono –come dice Hegel- individui totali, che in modo spiccato riassumono in sé ciò che si trova altrimenti disperso nel carattere nazionale, e in questo rimangono grandi, liberi, umanamente belli […] anche le figure principali dei romanzi di Scott sono tipici caratteri nazionali, ma non nel senso di riassumere quanto vi è di più alto, bensì nel senso del buon livello medio. […] Achille è la figura centrale dell’epos, sovrasta tutti gli altri personaggi, è il sole intorno a cui i pianeti ruotano. Gli eroi di Scott, invece, hanno il compito di mediare gli estremi, il cui urto esprime una grande crisi della società” (tesi di Lukàcs).
L’epos interpretava un mondo originariamente poetico, il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata in prosa (Hegel), cioè condizionata dai bisogni primari della quotidianità.

b) Il romanzo neostorico Quadro storico, politico, culturale
Per comprendere alcuni aspetti della letteratura contemporanea è utile fermare l’attenzione sul momento di svolta economico, sociale, politico, letterario, culturale che avviene nel nostro paese tra il ‘56 e il ’63, di cui già si è data breve argomentazione nella parte seconda.

Sono gli anni del boom economico, o della seconda rivoluzione industriale italiana, anni nei quali l’Italia entra nel novero delle nazioni più industrializzate e in cui la differenza che la divideva dagli altri paesi viene a cadere. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta l’Italia cessa di essere un paese rurale e diventa un paese industriale; un quarto della popolazione in quegli anni si sposta dal Sud al Nord; viene introdotta la scuola media dell’obbligo; nel 1954 nasce la televisione; vengono costruite le prime autostrade. Il modo di vestire e di parlare cambia radicalmente: la lingua si standardizza secondo il modello televisivo. La popolazione scolastica triplica nel giro di cinque o sei anni.

Si ha un gigantesco cambiamento della fisionomia del nostro paese, a cui corrisponde un analogo cambiamento culturale. Fino alla fine degli anni Cinquanta, le tre culture dominanti — la cultura idealistica crociana, la cultura cattolica e quella marxista — per quanto tra loro antagoniste, erano tuttavia saldamente unite nell’opporsi alle nuove discipline dominanti nell’Occidente: la psicanalisi, la sociologia, la fenomenologia, il neopositivismo. Ciò significava, in letteratura, che esse erano contrarie, per esempio, al formalismo russo5 o allo strutturalismo6.

A un certo punto queste barriere, che avevano protetto ma anche isolato la cultura italiana, crollano. La crisi dello stalinismo, la fine della guerra fredda, la forza delle grandi personalità di Kennedy, Krusciov, Papa Giovanni determinano la fine di contrapposizioni storiche. Nasce il centrosinistra, si ha un allargamento delle prospettive politiche. Questo cambiamento implica che la fenomenologia, la sociologia, la psicanalisi, il neopositivismo e poi lo strutturalismo penetrano nella nostra cultura che diventa europea.

In campo letterario, questo cambiamento provoca innanzitutto l’immediata crisi del Neorealismo. Il Neorealismo era tenuto insieme da due elementi: da un lato la cultura marxista, ma dall’altro anche la cultura cattolica, che si riconosceva nel tema della solidarietà, della pietà verso gli umili; si tratta di temi, legati ad una realtà provinciale italiana.
La prima novità, in campo letterario, è legata alla rivista Officina, che nasce nel ‘56 ad opera di Pasolini, Leonetti e Roversi. La caratteristica di questa rivista è di proporre lo sperimentalismo, di proporre dunque forme di scrittura nuove, che si opponessero sia al Neorelismo, sia a quello che Pasolini chiama “Novecentismo”, cioè la tradizione lirico-simbolista-ermetica italiana.
Si tratta di un programma che era condiviso nella pars destruens, cioè la lotta contro il Neorealismo da un lato e l’Ermetismo dall’altro, anche da un’altra rivista, Il Verri, diretta da Anceschi, da cui nascerà poi la neoavanguardia. La differenza tra la rivista di Pasolini e quella di Anceschi è dovuta al fatto che Pasolini sosteneva ancora una posizione tradizionale di impegno contenutistico dello scrittore, dando importanza all’esplicita ideologia politica e morale. In questo IL Verri vedeva il limite di Officina e le ragioni del suo provincialismo. Ad esempio: Officina prende a modello Pascoli per i suoi poemetti narrativi, si rifà per certi versi ai vociani, a Gramsci; viceversa Il Verri si rifà esclusivamente ai modelli stranieri, a Joyce, a Proust, a Kafka, a Musil, alle avanguardie espressioniste primonovecentesche. Ancora: Il Verri esclude che abbia un senso l’impegno direttamente etico e ideologico, e insiste esclusivamente sul l’innovazione formale. Di qui la contrapposizione, che diventa a poco a poco sempre più profonda.
La prima manifestazione del nuovo fu l’antologia I novissimi che uscì nel 1961, che conteneva poesie di Giuliani, di Sanguineti, di Balestrini, di Pagliarani e di Porta. Questi poeti si chiamavano “novissimi” nel senso di “ultimi”, con una volontà anche di meravigliare e di provocare il pubblico.
Officina chiude nel ‘60, però una parte della sua eredità viene ripresa dal Menabò di Vittorini e Calvino, che tentano una mediazione. Vittorini guardava con simpatia alla neoavanguardia e dunque fa sì che il Menabò sia il punto d’incontro tra alcuni officineschi, come Leonetti, Volponi e Pagliarani e alcuni “novissimi”. Secondo Calvino, invece, la letteratura deve sfidare il “labirinto”, dare una risposta positiva alle contraddizioni della società capitalistica, senza rassegnarsi ad essere una mimesi del caos esistente, della «schizofrenia dominante».
È sul Menabò che Vittorini lancia il tema del rapporto tra industria e letteratura. Se l’industria, il boom economico sono il fatto nuovo, bisogna - secondo Vittorini - che gli scrittori facciano i conti con l’industria, anche quando scrivono. Il tema industriale, dunque, deve entrare nelle poesie e nei romanzi. Tra l’altro c’erano scrittori che lavoravano in fabbrica, come Sereni o Volponi; quest’ultimo aveva avuto grandi responsabilità nella Olivetti e successivamente nella Fiat.

Il passo successivo fu la fondazione a Palermo del “Gruppo 63”.
L’avventura del “Gruppo 63” copre tutti gli anni Sessanta. Il “Gruppo 63” entra in crisi nel ‘68. Una delle tesi di fondo del gruppo è che le contraddizioni sono finite e che l’unica contestazione possibile è letteraria. Il “Gruppo 63” è diviso in due posizioni prevalenti che si contrappongono.
La prima posizione prevalente è quella fenomenologica e positivistica, che è rappresentata da Barilli e da Guglielmi. Barilli e Guglielmi sostengono che non esistono più contraddizioni, che l’unica contraddizione residua è appunto quella letteraria, che agisce sul piano tecnico-formale. Per essi quello che conta è l’innovazione del linguaggio, prescindendo dai contenuti e dai messaggi. Questo comporta una serie di conseguenze. Per quanto riguarda il romanzo, viene proposto l’antiromanzo, cioè un romanzo dove non ci sia più la trama, non ci sia più il personaggio o ci sia un personaggio diverso dai soliti, che sia una pura maschera allegorica, oppure ci siano personaggi nominali, fittizi, puramente cerebrali. Il modello a cui si fa riferimento è il nouveau roman di Robbe-Grillet. Soprattutto si propone il pastiche, concepito come puro montaggio linguistico non contraddittorio. Da questo punto di vista nel “Gruppo 63” c’è una tendenza che anticipa il Postmoderno, la tendenza a fare del pastiche senza satira, senza ironia, come puro divertimento.

La seconda posizione prevalente è quella marxista, che fa capo a Sanguineti. La posizione di Sanguineti, con qualche eccesso maoista, è la più rigorosa. Per esempio, Sanguineti è l’unico che conosce e applica la teoria benjaminiana7 dell’allegorismo e che sostiene un “realismo allegorico”. Questa seconda posizione marxista (ma di un marxismo che non è più quello gramsciano, resistenziale di un tempo), è forte, ma non dominante. A dominare è la linea di Barilli e Guglielmi.

Questa situazione dura fino al ‘71/’72, poi c’è la crisi petrolifera, l’austerità. Comincia quella fase che Pasolini chiama di “restaurazione progressista”. E un ossimoro: da un lato abbiamo una restaurazione nei rapporti di forza tra le classi, dall’altro questa restaurazione viene gestita in modo progressista con l’obiettivo di arrivare al “compromesso storico” tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Dopo il ‘71 incominciano a svilupparsi le Brigate Rosse.

Un nuovo gruppo, fondato nel 1989, prende la definizione di “Gruppo 93” perché nel momento stesso in cui si fonda dichiara che nel ‘93 si scioglierà, come poi è avvenuto. Questo perché i suoi membri non credono che sia possibile l’avanguardia. Sono del tutto disincantati, però pensano che anche in questa situazione di sconfitta sia possibile sostenere alcune tesi:
• la letteratura possibile è solo di tipo allegorico e prenda atto dell’insignificanza del mondo che ci circonda.
• l’avanguardia non è più possibile, perché si vive in un mondo intasato di linguaggi e la poesia deve ripetere questo intasamento del linguaggio: aspetto tipico del Postmoderno.
• la poesia deve essere all’altezza anche delle innovazioni tecnologiche: anche questo è un aspetto del Postmoderno
È interessante l’uso che il “Gruppo 93” fa di Bachtin. Bachtin aveva teorizzato il plurilinguismo, ma solo in narrativa. La tesi di Bachtin è che in poesia il plurilinguismo non è possibile, perché la poesia lirica — in quanto tale — è monologica: non è possibile che nella parola del poeta risuoni la parola di un altro, come invece accade in narrativa. Il “Gruppo 93”, invece, riprende questo discorso e lo applica alla poesia lirica.
c) Il romanzo neostorico Genesi e sviluppo del romanzo neostorico
La narrativa – a differenza della poesia - è inquinata dalla logica di mercato, è diventata un fatto quasi esclusivamente industriale, in cui la prevalenza del momento economico è schiacciante. Nella narrativa il “libro d’editore” conta più del “libro d’autore”. È l’editore che confeziona il libro secondo la richiesta del mercato, e il condizionamento è fortissimo.
Ad esempio, nel ‘74 escono contemporaneamente La storia della Morante e Corporale di Volponi. Einaudi pubblica La storia in edizione economica con una tiratura di 100.000 copie; lo stesso editore fa uscire Corporale in 7.000 copie. Corporale è, insieme alle Mosche del capitale, il più grande libro di Volponi; mentre La storia è forse il peggior libro che abbia scritto la Morante, un’ottima scrittrice in cui però la differenza qualitativa tra primi romanzi, come Menzogna e sortilegio, e gli ultimi è netta. Nella Storia la Morante ha voluto ripetere Tolstoj, Manzoni, Nievo, il romanzo popolare. Decine di critici, più o meno legati alla casa editrice, scrissero su decine di giornali che si trattava di un capolavoro. Comincia il fenomeno per cui un libro è lanciato come una saponetta e deve avere successo.
L’episodio successivo a questo, ancora più grandioso perché è avvenuto su scala mondiale, è quello del Nome della rosa, che è del 1980. Con la differenza che Il nome della rosa è un romanzo per tutti i mercati; un romanzo che ha avuto un successo molto maggiore negli Stati Uniti che in Italia; un romanzo tradotto in arabo, in giapponese, in hindi, in russo, con diritti d’autore che arrivano a diversi milioni di euri l’anno; un romanzo da cui è stato tratto un film con Sean Connery. Si tratta di un’operazione tipicamente postmoderna, non solo sotto il profilo commerciale, ma anche sotto il profilo culturale, dietro cui c’è un autore estremamente sofisticato, colto, di eccezionale levatura intellettuale.
Eco ha dato così inizio a una forma tipica di romanzo Postmoderno: il romanzo neostorico.
Fra il 1980 e il 1982 escono undici romanzi storici. Il romanzo storico, dopo Scott, Manzoni, Rovani e Nievo sembrava finito. Era rinato in forme diverse con I vecchi e i giovani di Pirandello, I Viceré di De Roberto, o Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ma in realtà si tratta di romanzi “antistorici”, nel senso che non si crede più alla storia.

Ora invece, a partire dagli anni Ottanta, si assiste a un dilagare del romanzo storico. Questo fenomeno fa parte organicamente della cultura postmoderna, che è basata sull’idea e sulla pratica della riscrittura. Si pensi alla Chimera di Vassalli, in cui c’è una riscrittura dei Promessi Sposi, o allo stesso Nome della rosa, in cui c’è un’orgia citazionistica con una riscrittura di infiniti romanzi, anche moderni.
Umberto Eco
Umberto Eco si era accorto che la forma di romanzo di maggior successo era quella del romanzo neogotico, che riprendeva la tradizione inglese — il romanzo gotico era nato in Inghilterra intorno alla metà del Settecento — e che aveva un grandissimo successo di pubblico negli Stati Uniti. Eco si è laureato con una tesi su San Tommaso, conosce benissimo l’estetica medievale, è un filosofo. Tutti questi fattori sono stati uniti in un libro che è costruito con la tecnica della serialità televisiva, da Carosello alle Telenovelas, di cui Eco conosceva benissimo la suggestione. Questi elementi sono stati uniti ad altri elementi di tipo filosofico e culturale, sono stati montati in un libro che è costruito come un romanzo popolare e come un giallo, e al cui interno è inserita l’ideologia postmodernista.
Il nome della rosa è un romanzo neostorico che non ha nessuna delle caratteristiche del romanzo storico romantico: non c’è la fiducia nella storia, né il senso della storia, né una direzione storica. La tendenza, iniziata col Nome della rosa, incarna l’asse fondamentale del Postmoderno.

Nelle Postille a “Il nome della Rosa” (1984) Eco concentra la sua interpretazione del Postmoderno sul concetto di ironia. La consapevolezza della fine della storia e del progresso e dell’impossibilità di produrre qualcosa di nuovo in un’epoca in cui tutto è già stato detto e pensato, non implica per il filosofo (o critico, o letterato) postmoderno un atteggiamento di silenzio, ma comporta l’intento di rivisitazione ironica del passato. […] Eco adotta espressamente il principio della rivisitazione ironica del passato nel suo notissimo romanzo Il nome della rosa (1980), che è stato considerato uno dei più brillanti esempi di composizione postmoderna. La rottura della concezione moderna di storia come progresso fa sì che nell’opera postmoderna in generale, e nel romanzo di Eco in particolare, sia completamente e progettualmente assente la ricerca del nuovo e di soluzioni inedite a livello stilistico e di contenuto. La lucida consapevolezza della fine della storia deve implicare, secondo il principio dell’ironia spiegato da Eco nelle Postille, una ripetizione consapevole e distaccata del passato. Nel Nome della rosa il passato viene rivisitato in modo singolarmente anacronistico: il romanzo è una ricostruzione fedele della realtà medievale, personaggi sono però portatori di idee e talvolta vere e proprie teorie filosofiche novecentesche. È il caso del dotto francescano Guglielmo di Baskerville che alla fine del libro, quando afferma che la verità è come una scala, che, una volta usata, deve essere gettata via, ripete una famosa metafora di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1921). È anche il caso delle innumerevoli citazioni da altri testi della letteratura e della filosofia di tutti i tempi di cui è intessuto il romanzo, che dallo stesso Eco è stato definito «un libro fatto di libri».

Accanto alla rottura delle barriere tra epoche e tra generi, nel romanzo di Eco emerge con chiarezza un altro aspetto significativo della cultura artistico-letteraria postmoderna: la caduta della distinzione tra la produzione letteraria d’élite e quella di consumo, tipica della letteratura moderna e dell’avanguardia artistico-letteraria del Novecento. I movimenti avanguardistici assegnavano un ruolo di primo piano alla sperimentazione linguistica e teorica, alla scoperta di nuove forme narrative e di nuovi oggetti da rappresentare, e davano alla luce opere che raggiungevano un tale livello di astrazione e progettualità teorica da risultare inaccessibili a un pubblico non intellettuale. Se le opere di Yoyce, Kafka, Proust, Pound e Beckett erano destinate a un pubblico “alto”, perché presentavano tecniche narrative complesse, come il flusso di coscienza e l’uso di intricati monologhi interiori, Il nome della rosa presenta alcune caratteristiche che tradizionalmente appartengono alla cosiddetta paraletteratura (o letteratura bassa, di consumo): è impiantato su una trama, con personaggi a tutto tondo e una narrazione accattivante e avvincente, molto vicina a quella dei romanzi gialli o dei best-sellers.8

Analizzarne brevemente il testo in tre punti

Il primo: «e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia», riguarda il rapporto tra i testi altrui e il proprio testo.
Il secondo: «[…] non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno».
Il terzo punto da considerare è il nominalismo finale: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus».
L’Assoluto originario sta nella biblioteca che è bruciata. Al di fuori di essa vi sono solo frammenti. Fuor di metafora: la scrittura è un riflesso di questi frammenti, i quali a loro volta sono un pallido riflesso della biblioteca, per cui non «so più -dice l’autore - se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia». Questo è il nesso tra assoluto e contingente. La scrittura, il romanzo contemporaneo rimandano a una biblioteca originaria che è scomparsa per sempre.

Qui siamo alle radici ideologiche del citazionismo. Per questo è importante il primo punto. La biblioteca originaria è l’unità tra il “libro di Dio” e il “libro della natura”. Dopo che è bruciata resta soltanto il caos, e tutte le scritture sono frammenti di questo caos. Si slitta da un significante a un altro, si passa attraverso una catena di scritture, ma alla fine c’è una biblioteca originaria, o un libro originario, o una scrittura originaria che non riusciamo più a ricostruire. Questo è il messaggio che ci viene rivolto. Dietro la deriva dei significati c’è un punto di partenza a cui vogliamo risalire, ed è difficile se non impossibile farlo perché a un certo punto c’è stata una cesura: da una parte la biblioteca di Dio, i suoi frammenti, dall’altra lo scritto nostro, pallido riflesso dei riflessi della biblioteca di Dio.
Comunque c’è sempre la possibilità che qualcuno un giorno possa dare un senso alla “biblioteca minore”. «Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno». Può non esservi un senso, ma possono esservene tanti. Qualcuno, magari a posteriori, potrà trovare una chiave d’interpretazione.
«[...] un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti» non è affermativo, è nichilistico.
Se col ragionamento non si arriva alla soluzione, che viene solo dai fatti, è possibile che un giorno i fatti, configurandosi in un determinato modo, possano essere più facilmente compresi da altri. L’accento del discorso è volto a sottolineare l’impossibilità dell’uomo di giungere al significato.
«Nomina nuda tenemus»: se abbiamo a che fare solo con scritture e le scritture rimandano ad altre scritture, all’infinito, e Dio non è altro che la scrittura originaria, è chiaro che non ci restano che i nomi, non padroneggeremo mai le cose. Qui si torna all’attrito tra realismo, sostenuto dalla Scolastica, e nominalismo, sostenuto da Ockham.

Il nome della rosa è costruito sul modello del romanzo gotico, quindi l’ambientazione è medievale, ma al suo interno ha anche un altro modello: quello del romanzo giallo.
Il nome della rosa si basa su due strutture forti di consumo: il romanzo gotico e il romanzo giallo.
La mescolanza di due strutture, giallo e gotico, determina la leggibilità dell’opera, anzi la straordinaria leggibilità e gradevolezza dell’opera. Ma all’interno di questo primo livello, che si rivolge a un pubblico internazionale e a un mercato vastissimo, circola un altro livello di comunicazione che è squisitamente filosofico.
Il nome della rosa esprime il clima del postmodernismo trionfante, dunque ne esprime anche l’ideologia e la poetica: il citazionismo, il ripescare tutti gli elementi della tradizione letteraria per rimescolarli in modo indifferenziato. Il romanzo ha “volgarizzato” l’ideologia del Postmoderno, rendendola accessibile alle grandi masse.

Il nome della rosa è costruito su una struttura che si ripete di continuo, che risponde a quei criteri di serialità che Eco aveva teorizzato come fonte del successo.

La struttura che si ripete di continuo è quella della domanda e della risposta. C’è un allievo che parla con un maestro, il quale è un intellettuale che rappresenta nel Medioevo una situazione molto simile a quella di oggi. Traducendo nel linguaggio contemporaneo: il protagonista è un intellettuale di sinistra deluso che, avendo visto i propri ideali trasformarsi in dogmatismo — cosa che vale per la Chiesa nel Trecento come per lo stalinismo nel nostro secolo —, è arrivato a posizioni di razionalismo scettico: l’unica cosa che conta sono i segni, ma i segni non portano da nessuna parte.
Questo intellettuale per scoprire i responsabili degli assassini che accadono nell’abbazia si affida alla ragione. Ma i segni non portano da nessuna parte e la scoperta dell’assassino avverrà in un modo casuale. Qui ritroviamo l’ideologia che abbiamo anche in Malerba, del mondo che è un caso-caos, dove per orizzontarci abbiamo soltanto segni che non ci dicono niente.

Da un lato, dunque, abbiamo questa ideologia che sfuma nel nulla, dall’altro abbiamo sistemi di comunicazione basati sulla ripetizione, che invece sono estremamente leggibili, commerciali. Proprio la sovrapposizione di questi due elementi - da un lato un nichilismo sofisticato e morbido, dall’altro l’estrema funzionalità commerciale del prodotto - è una delle caratteristiche di fondo del postmodernismo.

Bisogna pensare a quello che viene immediatamente prima, cioè al fatto che il monaco che scrive, che poi è l’allievo del maestro protagonista, si è recato nel luogo in cui esisteva la grande biblioteca distrutta dall’incendio e ha raccolto due sacche di detriti, di resti di libri — quella che lui chiama “biblioteca minore” — che poi si è portato dietro per tutta la vita.

Il primo problema è se questi lacerti di libri della “biblioteca minore” hanno un significato, contengono un messaggio. Il secondo problema è se contiene un messaggio quello che scrive lui, Adso, quando racconta la storia degli assassinì e dell’incendio.

Più rileggo questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo, e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno.

Ma questa mia inabilità a vedere è forse l’effetto dell’ombra che la grande tenebra che si avvicina sta gettando sul mondo incanutito.

Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.

Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus9.
Luigi Malerba
A partire dalla Storia della Morante, quindi a partire dalla metà degli anni Settanta, comincia un’inversione di tendenza. Si torna dall’ “opera aperta” al romanzo chiuso, in particolare al romanzo storico, o meglio «neostorico»; si passa dall’antiromanzo a forme più tradizionali di affabulazione romanzesca, dal rifiuto al recupero della trama; si ha una normalizzazione linguistica; si torna al racconto in terza persona; ma su tutto domina un narcisismo narrativo.
Il fuoco greco10 di Malerba è un chiaro esempio di narcisismo narrativo. Il romanzo evoca una minuziosa e attenta ambientazione storica alla corte di Bisanzio durante la reggenza di Teofane, a partire dall’anno 957.

«Il “fuoco greco” era l’arma segreta dell’Impero Bizantino. Molto prima dell’invenzione della polvere da sparo, il “fuoco greco” prmetteva alle navi bizantine di lanciare per mezzo di lunghi tubi a sifone delle micidiali palle infuocate contro le navi nemiche. Qesti proiettili di fuoco non si spegnevano a contatto con l’acqua e perciò vennero usati quasi esclusivamente nelle battaglie di mare. Il “fuoco greco”, inventato nel 672 dopo Cristo da un ingegnere siriaco di nome Callinico, permise alla flotta bizantina di conquistare e conservare il dominio del Mediterraneo per più di cinque secoli, dal 673 quando venne usato per la prima volta dall’Imperatore Costantino Pogonato contro la flotta araba, fino al 1221 quando i Mussulmani riuscirono a impossessarsi del segreto di fabbricazione e lo usarono a loro volta contro le navi dei Cristiani. […] Forse mai nella storia un segreto militare venne conservato così a lungo come quello del “fuoco greco” la cui composizione, nota allora solo all’Imperatore e alle poche persone addette alla fabbricazione, non è stata tramandata ai posteri»11.

La pergamena con la formula segreta di composizione del “fuoco greco” è la protagonista indiretta di questo romanzo: essa circola a corte seminando il terrore, in quanto chiunque ne ve venga a conoscenza è condannato ad essere ucciso. Teofane, servendosi in modo astuto del possesso o del furto di tale pergamena, ordisce una serie di delitti per poter diventare Imperatrice. Ma l’avidità del potere diventa la sua rovina e, accusata dal nuovo Imperatore Zimisce dell’assassinio di Niceforo, «venne trascinata via a forza dalle Guardie della scorta imperiale. […] le Guardie la trascinarono per le braccia e la caricarono su un carro militare che partì alla volta di una prigione segreta. […] Il giorno dopo Teofane venne prelevata dalla sua prigione e caricata su una nave dove venne rapata a zero e rivestita con un abito monacale. Il luogo dove approdò quella nave venne tenuto segreto»12.
Da Il fuoco greco riportiamo alcuni prelievi: il primo è un brano di dialogo tra Leone Foca e l’eunuco Lippas13; nel secondo è l’eunuco che parla ed espone il punto di vista di Malerba sull’arte:
«I fatti che succedono sono soltanto un pretesto per la scrittura perché non sono veri» aveva risposto l’eunuco. «La verità sta nella mia penna e nelle parole che io scrivo su questi fogli di pergamena» (p. 187).

«Qualcuno leggerà questa storia, non importa quando. Le storie scritte, a differenza dei fatti della vita che voi chiamate realtà, sopravvivono a tutte le intemperie senza spegnersi mai, possono fronteggiare senza danno anche il Vento Assassino che vi ha fatto tremare durante il vostro viaggio verso un monastero inesistente. Le storie scritte possono venire rubate, trafugate, corrotte, riraccontate o riscritte con altre parole e in altre lingue superando il corso dei secoli, mentre i fatti della vita si consumano e scompaiono per sempre dopo che sono avvenuti» (p. 188).

«Questo significa che voi scrivete per i posteri. Anche gli scrittori antichi che voi mostrate di disprezzare tanto scrivevano per i posteri. Siete uno scrittore, e io non so se uno scrittore è anche un uomo» (p. 189).

«Quello che intendevo dire è che una storia, dal momento che è stata scritta, esiste. Non importa quante persone la leggeranno, non importa se le sue parole verranno dimenticate, a me basta un solo lettore che ne assorba il senso e che lo trasmetta ad altri. Quel lettore posso essere io stesso che l’ho scritta. Non occorre che lavorino schiere di copisti e di traduttori, le storie scritte continuano a viaggiare per il mondo e nella mente degli uomini che si fanno loro messaggeri senza saperlo» (p. 189).

Malerba invita ad individuare nella lettura del suo romanzo il passaggio da una poetica dell’avanguardia a una poetica del Postmoderno.
Il tema, indicato da Malerba, di come la letteratura debba riflettere su se stessa è fondamentale. Linda Hutcheon, una studiosa di Toronto, su questo argomento ha scritto un libro intitolato Narcisismo metanarrativo, in cui sostiene che il narcisismo metanarrativo è una caratteristica comune del Postmoderno. Se il discorso fatto nella narrazione sulla propria narrazione non è una novità - c’è in Sterne, in Pirandello, in Svevo, nell’avanguardia - nel Postmoderno la riflessione su se stessi assume aspetti narcisistici, di autovalorizzazione della parola. La vita, i fatti non contano, anzi non esistono più, esistono solo «interpretazioni». Ma se esistono solo interpretazioni, esistono solo le parole.
La letteratura postmoderna, dunque, secondo la Hutcheon riflette su se stessa in modo narcisistico. Potrebbe riflettere su se stessa in modo autocritico: si pensi alla doppia Premessa al Fu Mattia Pascal, in cui Pirandello dice che è assurdo scrivere oppure si può scrivere solo «per distrazione», perché l’uomo ha bisogno di distrarsi dalla terribile verità che tutto ciò che fa non ha senso. La scrittura collabora a una mistificazione, collabora a diffondere l’idea che il mondo abbia senso. Questa Premessa ha un punto fermo nella Prefazione alla Coscienza di Zeno, in cui il Dottor S. avvisa il lettore che tutto quello che leggerà sono bugie e verità mescolate che un nevrotico ha scritto nel proprio diario proprio per ribellarsi a lui.
Manzoni o Verga non avrebbero mai pensato a una cosa del genere, perché Manzoni e Verga volevano essere creduti. Viceversa, con Pirandello e Svevo nasce quel processo di “autocontestazione”.

Ma questo processo di autocontestazione non c’è più nel Postmoderno e, quindi, non c’è neppure in Malerba; c’è invece un cambiamento in senso narcisitico della valutazione che la letteratura dà su se stessa e dell’ assenza di significato. Si leggano i seguenti passi d’inizio e di chiusura del romanzo, che percorrono un tracciato circolare di «non-senso»:

Cap. 1° (pp. 9-12) Un cruccio che turbò a lungo i sonni dell’Imperatore Costantino VII Porfirogenito e ne tenne occupati molti pensieri durante gli anni che sedette sul Trono di Bisanzio, fu quello di correggere l’acustica della Sala del Triclinio, luogo eletto dei sontuosi banchetti che si tenevano in occasione delle visite di ospiti eminenti. […] le voci rimbalzavano contro le pareti e le colonne di marmo per ritornare agli emittenti con echi e risonanze, e si sovrapponevano e confondevano in un turbile di orribili muggiti. […] Gli architetti di Corte avevano ricevuto l’incarico di correggere l’acustica senza toccare i marmi e i mosaici. [ci riuscirono un architetto e un matematico persiani]. I due persiani vennero compensati con quattrocento nomismi d’oro come era stato pattuito e in più ebbero in dono due medaglie d’oro cesellate dall’Orafo di Corte.

Cap. 35° (p. 253) Senonché una mano ignota aveva strappato i sottili fili di seta che ne avevano corretto l’acustica al tempo di Costantino VII. Zimisce pronunciò il discorso senza dar segni di turbamento nonostante la confusione delle parole che rimbalzavano contro le colonne e le pareti di marmo e si diffondevano nella Sala trasformate in suoni disumani. […] Gli uomini della Corte e le Dame del Gineceo, dopo qualche momento di sconcerto, seguirono il discorso con viva attenzione e in riverente rispetto, ma senza capire nulla.
Sebastiano Vassalli
La chimera di Vassalli esce nel 1990, dieci anni dopo Il nome della rosa. La storia narrata ricalca, per tanti versi, I Promessi Sposi.

Riportiamo i momenti più significatividel romanzo:
>.
È importante la premessa del libro, intitolata Il nulla, perché già a partire dal titolo è evidente la filosofia del nichilismo.
Dalle finestre della casa dello scrittore, vicino a Novara, la nebbia circonda a tal punto la pianura, le colline e le montagne che non si vede nulla. Però eccezionalmente il cielo si schiarisce e d’improvviso appare un paese. Questo paese esiste o non esiste? Da un punto di vista oggettivo esisterà, ma se uno non lo vede mai può pensare che questo paese sia un’illusione, una chimera appunto. Nella premessa è detto anche che in questo paesaggio nebbioso è sepolta una storia, la storia di una ragazza che venne processata e condannata come strega all’inizio del Seicento. Vassalli si propone di raccontare questa storia.

In questo paesaggio che ho cercato di descrivere e che oggi come spesso capita è nebbioso, c’è sepolta una storia: una grande storia, d’una ragazza che visse tra il 1590 e il 1610 e che si chiamò Antonia, e delle persone che furono vive insieme a lei, negli anni stessi in cui lei fu viva, e che lei conobbe; di quell’epoca e di questi luoghi. Già da tempo mi proponevo di portare questa storia alla luce, raccontandola, tirandola fuori dal nulla come il sole d’aprile fa venire fuori la cartolina della pianura e il Monte Rosa, e avevo anche pensato di raccontare questi luoghi, e il mondo dove Antonia era vissuta: ma poi sempre mi dissuadevano la distanza di quel mondo dal nostro, e l’oblio che l’avvolge. Chi si ricorda più nel nostro secolo ventesimo mi dicevo — del vescovo Bascapè, del bandito Caccetta, del boia Bernardo Sasso, del canonico Cavagna. dei risaroli, dei camminanti, del Seicento? […]
Guardando questo paesaggio. e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è nulla che meriti di essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola «io». Io, io. io... Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un pò oltre il secondo cavalcavia, sotto il «macigno bianco» che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia. E così ho fatto14.

Nella storia sono evidenti molti momenti di riscrittura, dei Promessi Sposi innanzitutto e il citazionismo, come in Eco.
Come si spiega che dal nulla si salvi qualcosa? Chi è che salva?
Nel romanzo di Vassalli c’è una Premessa intitolata Il nulla e un Congedo che ha lo stesso titolo Il nulla. Nella premessa Vassalli dice che «nel presente non c’è nulla che meriti di essere raccontato» e che «le chiavi del presente» vanno cercate nel passato. Se Vassalli si avvicina alla storia è perché vuole trovare una spiegazione a questo nostro presente. Nell’ultima pagina si legge:
«Continuarono tutti a vivere nella gran confusione e nel frastuono di quel loro presente che a noi oggi appare così silenzioso, così morto, e che rispetto al nostro presente fu soltanto un po’ meno attrezzato per produrre rumore e un po’ più esplicito in spietatezze... Infine, uno dopo l’altro, morirono: il tempo si chiuse su di loro, il nulla li riprese; e questa, sfrondata d’ogni romanzo, ed in gran sintesi, è la storia del mondo.
Tutto finito?
Tutto finito, sissignore. O forse no. Forse c’è ancora da rendere conto di un personaggio di questa storia, in nome del quale molte cose si dissero e molte altre si compirono, e che in quel nulla fuori della mia finestra è assente, come è assente ovunque, o forse è lui stesso il nulla, chi può dirlo! È lui l’eco di tutto il nostro vano gridare, il vago riflesso d’una nostra immagine che molti, anche tra i viventi di quest’epoca, sentono il bisogno di proiettare là dove tutto è buio, per attenuare la paura che hanno del buio. Colui che conosce il prima e il dopo e le ragioni del tutto e però purtroppo non può dircele per quest’unico motivo, così futile!: che non esiste. Come scrisse un altro poeta, di questo secolo ventesimo: «Questi, che qui approdò, / fu perché non era esistente. / Senza esistere ci bastò. / Per non essere venuto venne / e ci creò»15.
Il nichilismo di Vassalli rivela un bisogno evidentissimo di assoluto.
Ma perché la storia? La risposta riguarda il nesso tra nichilismo ed essenzialismo, tra tutto e nulla. Il problema riguarda il perché venga salvata dal nulla una storia, anzi una «grande storia» come Vassalli la chiama.
Vassalli non è certamente uno storico, però nella storia Vassalli legge il presente, nel senso che in questo mondo senescente è inutile tentare qualcosa di nuovo, perché il nuovo è falso, artificiale, produce rumore. Non resta che ripetere all’infinito ciò che di bello è stato detto, da qui le citazioni e l’ambientazione nel passato. L’intellettuale rifiuta il mondo di oggi e dunque può solo leggere il presente in maniera critica, cioè denunziandolo. Ormai la letteratura non può essere guida di nulla, quindi diventa o consolazione o denunzia. La storia non ha più alcuna finalità: è narrazione, è retorica, è poesia. Il riferirsi a un episodio avvenuto nel passato risponde al piacere della narratività, della testualità pura.
Nella Chimera c’è, dunque, un presente in cui non c’è nulla che valga la pena di essere raccontato, un presente insignificante. Per cercare un senso bisogna trovare Zardino, questo luogo che ha un nome così edenico — giardino — ma che poi è un inferno. Si lascia il presente che è avvolto nella nebbia, che è inghiottito dal nulla, e si va nel passato, nel Seicento. Salvo poi scoprire che il viaggio fuori dal rumore, «in fondo alla notte», alla ricerca delle «chiavi del presente», ancora una volta conduce «nella gran confusione e nel frastuono», conduce alla desolante ammissione che «quel loro presente […] rispetto al nostro presente fu soltanto un po’ meno attrezzato per produrre rumore e un po’ più esplicito in spietatezze...»
In definitiva, perché Vassalli scrive?
Rileggiamo la fine «Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è nulla che meriti di essere raccontato. Il presente è rumore […] ».
Qui la parola “rumore” è l’equivalente di “chiacchiera”, “frastuono”. Il presente è vanità, è il mondo della tecnica che non riesce a trovare le ragioni della vita.
Se nel presente non c’è niente che meriti di essere raccontato, bisogna andare al di là del rumore, aldilà della chiacchiera, per trovare l’essenza: questa essenza è il nulla, Il rapporto tra tutto e nulla è alla base di questa regressione alla ricerca di un’origine in cui tutto e nulla s’identificano. Per capire la storia bisogna andare al di là della storia, bisogna perforare la cronaca per andare al di là della chiacchiera e trovare qualcosa che c’è e che non c’è, che appare e dispare come quel villaggio fantasma, che traspare nelle cose e che non si riesce mai a definire.
Perché solo lo scrittore salva? Perché solo lui può andare al di là della storia e porsi il problema dell’essenza. Qui si torna a quella valorizzazione forte della scrittura che è una delle caratteristiche del Postmoderno, soprattutto in Italia dove esso recupera echi della tradizione del passato. Un poeta che trafora la storia per fare intravedere al di là di essa il tutto-nulla, ha un elemento profetico, ma si tratta di un profeta assai simile a quelli che parlano dalle televisioni americane annunciando, tra uno spot e una rivelazione apocalittica, l’ora del successivo appuntamento.
Un breve excursus su un altro romanzo di Vassalli, Cuore di pietra,16 potrebbe aiutare a comprendere meglio il valore della storia nella narrativa del fine millennio.
Vassalli, in Cuore di pietra, pur affermando che gli abitano le nuvole e che il tempo scrive il copione della tragicommedia che gli uomini-attori rappresentano sul palcoscenico della vita, la storia – che lo scrittore racconta - non può essere definita , come invece succede nel manoscritto anonimo dei Promessi sposi. Ma se in Vassalli la storia non vince il tempo, ciò non significa che lo scrittore eviti di scriverne ricorrendo alla stessa finzione manzoniana (già presente ne La chimera in forma di alcune carte venute alla luce per caso). Una finzione che in Cuore di pietra è affidata ad manoscritto dai fogli che il professor Alessandro Annovazzi lascia al figlio Attilio
Attilio Annovazzi, che all’epoca del trasloco stava per laurearsi in filosofia, oggi è un professore universitario; ha i capelli grigi, e conserva in un cassetto del suo tavolo di lavoro quella cartellina piena di fogli scritti da suo padre che è all’origine del nostro racconto. […] È da lì, appunto, dai fogli un po’ ingialliti di quel manoscritto, che sono state tratte le nostre storie17

Se la storia non vince il tempo, ne registra però le azioni. La storia allora non ha altro compito che quello di annotare le chimere, le assurdità, le apparenze sfilacciate della condizione umana. Ma entro questi limiti trova almeno una sua possibilità d’uso, e Cuore di pietra, entro questi limiti, si presenta come un , nel senso che ripassa più di cento anni di storia (dall’Unità a 18) in un’interrogazione continua su ciò che sia il processo dell’identità nazionale.
Però il mondo di Cuore di pietra ha valore emblematico, perché esso rappresenta tutti i mondi affini, una piccola patria che evoca le tante piccole patrie sparse sul territorio nazionale: quella in cui avvengono press’a poco le stesse cose delle altre, quella in cui si muovono press’a poco gli stessi uomini e accadono gli stessi episodi. Poi perché rappresenta il palcoscenico del teatro degli dei, lo spettacolo che gli dei si divertono a frequentare, in cui solo gli accidenti possono variare. Infine perché, via via che il presente si avvicina, a prevalere sono la velocità e il rumore, l’anonimato che omologa le cose e le persone.
Cioè manca l’insegnamento della storia.
Poi c’è un’altra tendenza, molto più commerciale, che è la tendenza al recupero dei sentimenti (si pensi a Va’ dove ti porta il cuore) basata sulla rivalutazione di aspetti neoromantici. Si tratta di adottare dei moduli che la televisione ha affermato e che sono diventati di uso comune. Per esempio: costruire le scene di romanzo in modo che non durino mai più di un minuto, esattamente come in una telenovela dove una scena non dura mai più di cinquanta secondi, perché la percezione deve essere di continuo rinnovata. In narrativa, dunque, i libri sono montati in modo da venire incontro a questa nuova percezione “televisiva” della realtà. È nato un nuovo modo di percepire, legato all’audiovisivo, dove, tra l’altro, viene detto tutto. Pensate a una caratteristica dell’audiovisivo, anche questa postmoderna, per cui insieme alla musica viene fornita l’immagine che lo spettatore deve sognare. Non c’è più nemmeno la libertà di sognare. A livello più basso di questo fenomeno c’è il riso a comando degli spettacoli comici, la risata registrata a cui adeguarsi. Si unisce il massimo di piacere al fatto che tutto è eterodiretto; anche la fantasia è - per dir così - colonizzata.

Ma il romanzo d’arte, il romanzo di ricerca letteraria, che fine ha fatto? Un modo di difendersi del romanzo d’arte è quello di mimare la ripetitività, sì, ma anche l’insensatezza della ripetitività, e quindi di mantenere un atteggiamento critico. Pensate a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. In questo libro ci sono elementi della tecnica della ripetizione: gli incipit di dieci storie, il romanzo che contiene dieci romanzi, ma in realtà i romanzi sono tutti interrotti, quasi si volesse dire che questo è un mondo in cui le storie cominciano ma non finiscono o finiscono nell’assenza di significato.
L’altra linea di resistenza, quella che più a fondo ha fatto i conti con il Postmoderno, è quella delle Mosche del capitale di Volponi19. Volponi assorbe tutti gli elementi del Postmoderno — dall’architettura, all’artificialità, all’informatica — ma cerca di strutturare il montaggio di questo mondo caotico secondo una funzione allegorica. Il caos è “montato” per farne esplodere l’insensatezza, e quindi c’è una prospettiva critica. Ecco perché Volponi deve essere assegnato al postmodernismo critico.

Russo Claudio di 5ª ha così commentato: Siamo alla fine degli anni Settanta e Bruno Saraccini, dirigente della MFM (industria che richiama la Olivetti), viene nominato Consigliere Delegato dal Presidente Ugo Nasàpeti. Saraccini, scontento delle difficotà che incontra, passa ad un’altra industria (che richiama la FIAT): in questo contesto vive le tensioni della contestazione operaia di quegli anni, con tanto di arresti (tra cui Tecraso, condannato per favoreggiamento di imputati di terrorismo). Non volendo accettare il posto di Capo del Personale, Saraccini è costretto a tornare alla MFM, sconfitto e con minor potere. Intanto lo sciopero del 1980 fallisce per la mobilitazione dei ceti medi. Il presidente Nasàpeti muore e il suo potere passa ad altri mentre resta frustrata l’aspirazione del protagonista ad una forma più umana di lavoro, in una realtà in cui gli oggetti hanno una funzione pari o superiore a quella degli uomini:

Noi siamo le scope, le spazzole, gli stracci, i secchi, i detersivi in dotazione alla prima squadra pulizie del palazzo uffici, la più grossolana e derelitta, la più numerosa e che deve faticare di più è…
Le mosche del capitale, pubblicato nel 1989, descrive l’impossibilità di una democrazia industriale in un contesto dominato da uno spietato capitalismo alla fine degli anni Settanta. I dirigenti industriali, infatti, mostrano egoismo e disumanità nell’uso del potere, che viene rapportato ad un «ronzio di mosche»
Il «potere» è considerato da Saraccini l’unico personaggio, e oltre questa constatazione «non c’è niente da raccontare. Non si racconta più» (p. 123)
Già al primo risveglio sul lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce spinto dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del capitale. […] Ogni cinque minuti scatta il calcolo degli interessi, ogni dieci quello del tasso di inflazione, ogni mezz’ora, avendo intanto percorso il giro del mondo, l’indice di costo delle principali materie prime, ogni tre ore l’indice di valore del dollaro e del marco svizzero, seguito dopo venti minuti da quello di tutte le altre monete dei principali paesi industriali del mondo (pp. 6-7)
Parte quarta
Riflessioni sul fenomeno lerrario “neostorico”
1. Giustificazione del lavoro
La critica anglo-americana, respingendo la dicitura tradizionale di , in quanto il genere romanzo avrebbe subito nel Postmoderno una destrutturazione radicale, ha proposto la formula «historical fiction» o «historical narrative». In Italia sono stati coniati gli appellativi , e .
Il primo caso italiano di grande successo popolare del romanzo a sfondo storico è – come detto in precedenza - quello della Storia (1974) di Elsa Morante. È solo nel decennio successivo che si è prodotta una quantità cospicua di romanzi dedicati alla narrazione della storia. Apertisi con il clamoroso successo del Nome della rosa (1980) di Umberto Eco, gli anni Ottanta si sono chiusi all’insegna del nuovo genere: Retablo (1987) e Nottetempo, casa per casa (1992) di Vincenzo Consolo, Il fuoco greco (1990) di Luigi Malerba, La chimera (1990) di Sebastiano Vassalli, La lunga vita di Marianna Ucria (1990) di Dacia Maraini, Le strade di polvere (1987) di Rosetta Loy, La lepre (1988) di Vincenzo Cerami. A questa proliferazione corrispondono inoltre un forte successo di vendite e riconoscimenti di premi letterari.
Il fenomeno, denominato “romanzo neostorico” o “poststorico”, si presenta quanto mai eterogeneo: diversa la qualità delle opere (si va dal romanzo di consumo alle opere d’autore), diverse le epoche storiche di ambientazione (il Medioevo di Eco, la corte di Bisanzio di Malerba, il Seicento di Vassalli e di Cerami, l’Ottocento di Loy, Maraini e Consolo) e diverse le strategie narrative e stilistiche scelte dagli autori.
È interessante il fatto che esso si afferma in una fase culturale, quella postmoderna, che tende a marginalizzare la storia, a decentralizzarla e a sfaldarne la compattezza.
Perché allora, in questa congiuntura storico-culturale, si presenta la “rinascita” di un genere come il romanzo storico, che invece tende a fare della storia il centro della narrazione?
Innanzitutto questa produzione non può essere considerata come esclusiva espressione delle richieste del mercato editoriale. Come corollario a questo pregiudizio circola l’idea che la storia presente nell’attuale romanzo storico sia usata sempre come scenario, come un fondale senza profondità sul quale gli autori adagerebbero i loro intrecci in qualche modo autonomi rispetto all’ambientazione.
Vi sono in effetti dei romanzi (La lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini) in cui la storia, oltre ad essere scarsamente presente nell’economia del testo, resta molto lontana dalla narrazione: essa rimane effettivamente uno sfondo su cui adagiare la trama del romanzo senza che i due piani siano strettamente collegati. Si tratta dunque di romanzi che presentano una “quantità” di storia, ma da questa ambientazione non ricevono un’impronta forte: le vicende potrebbero svolgersi in qualunque altro momento storico e non si avrebbe una mutazione significativa dell’opera.
Al contrario la scelta dell’ambientazione storica presuppone in autori come Eco, Malerba, Vassalli, Cerami, Consolo una ricerca documentaria seria che viene restituita nel tessuto della narrazione. Un esempio è Il nome della rosa: il lettore è trasportato in un’immensità di oggetti storici, dai volumi della biblioteca alla visita alla stanza delle reliquie, alle cucine, agli attrezzi di lavoro, ecc.
Dunque, in certi romanzi “neostorici” gli autori riescono a creare una dimensione storica, tanto che mentre per alcuni l’ambientazione in un diverso tempo storico non inciderebbe minimamente nell’economia del racconto, altri romanzi al contrario sarebbero profondamente modificati da un tale cambiamento: Il nome della rosa, se non fosse ambientato nel Medioevo, sarebbe certamente un romanzo diverso, intere pagine del testo (e sono moltissime) ne risulterebbero profondamente modificate, perché esse sono il frutto di una imponente documentazione storica che ha presieduto alla creazione. Tutto questo non significa che siamo di fronte ad una concezione della storia, aderente alle categorie del romanzo storico classico, ma senza dubbio la storia in alcuni romanzi “neostorici” emerge ancora come centro della narrazione.
D’altra parte è da evitare di interpretare la produzione attuale secondo le categorie lukàcsiane: è logico che le conclusioni di Lukàcs non possano adattarsi a un fenomeno letterario contemporaneo perché sono profondamente mutate le condizioni strutturali e ideologiche in cui esso si produce; per questa via si arriva solamente a dire che il romanzo “neostorico” “non è” il romanzo storico classico di Lukàcs; è necessario invece definire “cosa è” il nuovo romanzo storico.
2. Romanzo “neostorico e storiografia contemporanea
Da molti anni ormai la storia si è contaminata a tal punto con altri settori (dall’antropologia alla sociologia, dalla statistica all’economia) da rischiare di perdere un proprio specifico campo di indagine. Lo statuto della storia si è fatto talmente debole da essere considerata, già dagli anni Settanta, semplice narrazione, fino ad arrivare alle postmoderne concezioni di una vera e propria “fine della storia”.
In alcuni dei romanzi storici postmoderni più significativi sembra scomparire la dialettica tra macro e microstoria, una scomparsa dovuta all’oscuramento di uno dei due termini in questione: in alcuni romanzi la narrazione è tutta schiacciata sulla storia ufficiale, sui grandi avvenimenti trattati a livello specialistico; un altro gruppo di romanzi invece schiaccia la narrazione sul piano della storia sociale, senza che gli avvenimenti trattati abbiamo un collegamento con la storia ufficiale.
Prendiamo il caso del romanzo La lepre di Vincenzo Cerami20, una delle opere più citate a proposito della rinascita del genere: l’autore ambienta la vicenda nel XVII secolo in una piccola comunità di malati di sifilide del basso Lazio. Il luogo sembra completamente isolato dal punto di vista geografico: è uno spazio angusto dal quale i protagonisti non possono uscire; Tommaso e Bianca Maria in fuga cercano infatti in più direzioni di oltrepassare i confini dello Stato Pontificio, ma restano chiusi nel loro micro spazio locale. Questo spazio geografico limitato è inoltre uno spazio storicamente determinato: il bosco dei Ciampi (nel quale poi finiranno per rifugiarsi i protagonisti) è il luogo storico dei briganti, inaccessibile ai controlli polizieschi. Lo studio storico di aree ristrette (dove anche il paesaggio è considerato una fonte storica) è il tipico approccio della storia sociale, che è poi il tipo di storia che interessa a Cerami come dimostrano anche i documenti che l’autore esibisce: un diario privato, delle lettere, il riferimento ad una fonte orale come quella di una tradizione popolare:

Allora vigeva un’usanza — che ancora oggi sopravvive sotto segni diversi - per la quale, durante la Sagra delle Torce, nella notte dell’Ascensione a Sonnino e nei dintorni, un viarolo, esperto conoscitore delle cronache locali, esponeva ai pellegrini in processione i fatti di sangue avvenuti nelle varie contrade del territorio. E quando il corteo si trovava a passare dalle parti di San Clemente, l’indiscreto oratore evocava, a suon di parolone vibranti e minacciose, la storia dei due innamorati maledetti. E io, andando a scovare tra le carte e le memorie perdute dei viaroli, ho potuto ricostruire l’epopea di Tommaso e Bianca Maria.”21
Anche la bibliografia posta a conclusione del testo22 costituisce una testimonianza del tipo di interessi storici di Cerami: si tratta di strumenti tipici dell’indagine propria della storia sociale, e infatti troviamo ricostruito nel lazzaretto (e si noterà la cifra postmoderna del citazionismo) uno spaccato che ambisce a rappresentare la storia sociale della fine del Seicento. Ma la cosa che qui interessa sottolineare è come sia assente un qualunque riferimento alla storia ufficiale di quegli anni: non sappiano cioè assolutamente niente delle dinamiche storiche che si muovono oltre le vicende dei personaggi del romanzo. La distanza che l’autore pone tra questo piano storico e quello della storia ufficiale è ribadita dall’incipit del testo, che come ogni incipit deve essere considerato una dichiarazione di poetica:
«Chi fosse Papa a quell’epoca non è importante saperlo. Un Sisto, un Gregorio, un Benedetto fanno lo stesso per la nostra storia, che è storia di gente periferica, abituata da sempre a confondere le leggi dei governanti con quelle del destino»23.
Lo stesso potrebbe essere dimostrato per il romanzo La chimera di Vassalli: anche qui l’autore ambisce a ricostrure una storia sociale, quella della pianura padana tra il 1590 e il 1610; Vassalli ha l’ambizione di restituire le dinamiche sociali di Zardino, un luogo che, come già in Cerami, funziona come un recinto geografico e allo stesso tempo come fonte storica: anche in Vassalli infatti lo spazio è storicamente determinato (si pensi alla descrizione dei sistemi di irrigazione, alla disquisizione sulla disposizione delle risaie, ai tabernacoli dipinti agli incroci delle strade di campagna, ecc.). Anche qui i documenti, riportati in corsivo, sono quelli tipici della storia sociale: si tratta fondamentalmente degli atti del processo per inquisizione subito da Antonia; ma l’autore fa anche riferimento a biografie dell’epoca, a un libro di rime di un autore assolutamente minore (che entra come personaggio secondario nella finzione letteraria), a un atto notarile che riguarda la riscossione delle decime. Ma anche nel caso di Vassalli mancano riferimenti alla storia ufficiale, la quale non resta sullo sfondo, ma è sostanzialmente assente.
Ne Il fuoco greco di Luigi Malerba assistiamo invece esattamente al procedimento contrario: la narrazione storica è completamente schiacciata sulla storia ufficiale, quella ricavabile da accurati manuali storiografici. In Malerba abbiamo la ricostruzione degli intrighi politici alla corte di Bisanzio alla metà del X secolo: si potrebbe quasi vedere un’affinità con la storia diplomatica, la storia degli atti ufficiali e ufficiosi, ma che sempre riguardano il livello superiore della storia, quello delle classi dirigenti; se volessimo cercare le fonti della ricostruzione storica di Malerba (ma lo scrittore non cita i suoi documenti di riferimento) esse coinciderebbero con quelle degli storici ufficiali che ripercorrono i passaggi di potere del trono imperiale di Bisanzio. In modo esattamente speculare a Vassalli e a Cerami, la storia sociale è completamente esclusa dal testo. Altrettanto specularmente anche la dimensione geografica si dissolve: il palazzo di Bisanzio è collocato sì geograficamente, ma esso potrebbe trovarsi in qualunque altro posto del globo: l’unico spazio percorso dai personaggi è quello delle sale e dei corridoi del Palazzo ed è significativo che Leone Foca, l’unico personaggio che ne esce per un ipotetico esilio in un monastero isolato, finisca il suo breve viaggio esattamente nel punto di partenza, nel Palazzo: la meta del viaggio coincide col punto della sua partenza, in uno spazio che si chiude sui personaggi in modo totalmente claustrofobico24.
Abbiamo quindi due modi diversi di vedere la storia e di rappresentarla: da una parte la storia ufficiale, dall’altra la storia sociale. Ma ciò che interessa è notare che, in ogni caso, manca la dialettica tra i due poli proprio perché uno dei due viene a mancare25.

Dunque la storia rischia di perdere un proprio statuto come disciplina e in questa sua debolezza facilmente si inseriscono le teorie della fine sella storia. Vattimo afferma:

Esempio



  


  1. teresa

    marsina stretta analisi e commento