Osservazioni sulla tortura, Pietro Verri

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Testo

Veronica Tamburini, 4 PL

Analisi de “Osservazioni sulla tortura” di P. Verri, 1770.

Nell’introduzione Verri pone alcune questioni di metodo.
Verri parte dal presupposto che molti uomini, i quali hanno scritto contro le atrocità delle torture, si basano su principi di ordinamento giuridico, alla portata quindi di poche persone colte.
La maggior parte degli uomini quindi tenderà ad ignorare questi manoscritti rimproverando “il genio della novità”.
V. trae insegnamento da essi, in quanto capisce che come scrittore si deve porre alla pari del lettore, cominciando da idee comuni. Starà poi al lettore giudicare se le opinioni sono veritiere o meno.
Lo scopo del libro sta nel far capire all’opinione pubblica che bisogna trovare un altro metodo per “rintracciare i delitti”.
V. divide la materia trattata in due parti:la prima tratta la crisi dello stato di Milano nel 1630 con la grande pestilenza con il relativo processo per cui vennero condannati molti uomini; la seconda è un’arringa contro l’uso della tortura.
I documenti evidenziano come l’origine dell’epidemia non fosse in quel tempo individuata nel solo contagio – inevitabile conseguenza della lunga carestia precedente e dell’ignoranza per quanto riguarda l’igiene -, ma soprattutto nella dispersione di “unzioni venefiche”, allo scopo di infettare e di far ammalare la gente di peste, da parte sicari o inviati del demonio.
La convinzione era approvata da popolo e magistrati, tanto che nessuno si oppose all’opinione regnante. A pagare quella terribile accusa, furono solo modesti cittadini: il commissario della sanità Guglielmo Piazza fu accusato da due donne di aver unto le muraglie della città. Fu arrestato, condotto in tribunale e sottoposto a tortura.
Verri sostiene che qualsiasi persona avrebbe potuto passeggiare vicino al muro, e chi ha commesso questo delitto non avrebbe corso il rischio di compierlo di giorno per farsi scoprire. V. afferma che, se fosse stato lui, si sarebbe messo subito in fuga.
Dopo un lunghissimo e crudelissimo supplizio Piazza negò, fino a quando i giudici non gli promisero l’esenzione dalla pena nel momento in cui avesse confessato. Piazza davanti ai giudici ammise che l’unguento gli era stato pervenuto dal barbiere Gian Giacomo Mora, e che vi erano altri tre o quattro complici.
G. G. Mora benne arrestato con l’accusa di conservare nel giardinetto un contenitore metallico contenente l’unguento giallastro, mentre Mora sosteneva fosse l’acqua del bucato.
V. dichiara che così potente veleno, non l’avrebbe tenuto a portata di moglie e figli; inoltre sostiene che sarebbe potuto scappare visto che erano passati sei giorni dall’arresto del Piazza.
G. G. Mora venne sottoposto a tortura, confessa ma subito ritratta, e confessa definitivamente quando viene nuovamente esposto a tortura. Il Piazza denuncia anche Stefano Baruello, che a sua volta inventa storie fantastiche di diavoli. Egli morì di peste prima della fine del processo, comunque ritrattando tutto.
Piazza denuncia anche Girolamo Migliavacca e il figlio Gaspare, che vengono sottoposti a tortura: mentre il padre confessa e coinvolge altre persone, il figlio nega sempre. Infine accusa come responsabile il nobile spagnolo Giovanni de Padilla, il quale, troppo importante per essere esposto alla stessa maniera degli altri, dopo tre anni riesce finalmente a provare la propria innocenza.
I poveretti, ritenuti “rei confessori” e “untori”, vennero condannati a una morte atroce e disonorevole. Mora e Piazza vengono condannati a morte il 27 Luglio: l’esecuzione ha luogo il 1° Agosto, pubblicamente, con tormenti atroci.
La “colonna infame”, è una colonna che viene eretta nelle vicinanze della casa del Mora, a ricordo delle presunte ingiurie che in essa si sarebbero commesse.
Verri in questo capitolo riporta le testimonianze di Riapamonti, il quale condivide l’opinione comune del popolo.
Nella seconda parte dell’opera Verri introduce un discorso contro l’uso della tortura. Nell’8° capitolo l’autore nega che la si possa considerare un mezzo per raggiungere la verità, attraverso un serie di esempi:
• “Il Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. De Torturis, n.2 dice: la tortura debb’essere più grave, che si tagliassero entrambi le mani; (...)”
Con questo V. ci vuol fare capire che nessuna legge limita o abolisce la pratica
Della tortura;
• “ Veggasi con qual crudeltà il Zigler descrive questa inumanissima pratica: Oltre lo stiramento, con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo;(…)”
• “Paride del Pozzo riferisce d’aver egli stesso visto un giudice che afferrava il reo per i capelli, per le orecchie e, battendogli la testa contro una colonna, diceva: confessa ribaldo, dì la verità”Bossi Milanese
• “ Il citato Bossi asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene”
Il reo comunque sarebbe sottoposto a tortura;
• “Il Tabor dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la tortura, purchè non accada diminuzione di alimenti al bambino”
• “Claro Milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: un giudice può, avendo in carcere una donna sospettata di delitto,farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla, accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d’indurla ad accusarsi del delitto(…)”
Nel 9° capitolo V. sostiene che la tortura è un mezzo del tutto inadeguato sia per raggiungere la verità nei processi sia per tutelare la società dal crimine, e che inoltre è intrinsecamente ingiusto. Egli fa notare che molti rei confessarono sì le proprie colpe, ma solamente per sottrarsi alle atroci sofferenze fisiche inferte loro dai giudici.
Ne riporto alcune righe:
“Ma i sostenitori della tortura [...] peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato. Ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti proposizioni: 1° Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità. 2° Che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità. 3° Che quand'anche poi in tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.
Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità comincerò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di rado accade, che de' rei robusti e determinati soffrano tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare sé medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto.
[...] Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti.
[...] Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.
Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Qual è il sentimento che nasce nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Piú sarà violento lo strazio, tanto piú sarà violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Qual è il mezzo col quale un uomo torturato può accelerare il termine allo spasimo? Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato.
Verri si sofferma nel 10° e nell’ 11° capitolo anche sull'aspetto etico della questione, cercando di dimostrare che "quand'anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto". Il ragionamento è molto semplice e si basa su due assunti basilari: la tortura è, in ogni caso, una crudeltà, poiché se colpisce un colpevole certo, gli infligge sofferenze non necessarie; e se colpisce un colpevole solo probabile, rischia di abbattersi contro un possibile innocente. E poi la tortura è eticamente inaccettabile e contro natura, poiché costringe gli accusati a rinunciare alla istintiva (naturale e sacrosanta) difesa di sé, facendosi accusatori e traditori di se stessi.
Nel 12° capitolo Verri sostiene Che non esisteva l’uso della tortura nei tempi antichi, dagli ebrei ai greci e ai romani. Al contrario noi, ritenendoci cristiani, dovremmo vergognarci in quanto anche la Bibbia sostiene che dovremmo seguire il buon esempio del Signore dalla vita paziente, benefica, umana, compassionevole nei confronti del fratello.
Le idee di Verri si accomunano con quelle di Montesqieu, il quale afferma inoltre che la tortura nasce per mezzo di un “meccanismo governativo dispotico”, argomento che sarà trattato nel capitolo che segue, ossia l’origine della tortura.
Come già detto nel 13° capitolo si arriva alla conclusione che la tortura nasce dalla corruzione del sistema di Roma; nel momento in cui si abbatté la Repubblica si formò un governo dispotico; nel momento in cui “nessun inciampo potè essere alle voglie illimitate del despota”.
Verri ricorda che prima del secolo XIV nessuno abbia messo in esame il modo di tormentare gli accusati.
Dopo arrivarono i criminalisti a parlarne, ma la maggior parte del popolo era ignorante e non poteva capire la gravità della situazione.
E’ certo comunque che niente sta scritto nelle leggi, ma trotto si basa sulla “somma” autorità del giudice.
V. inoltre fa presente che molti uomini hanno scritto “la scienza di tormentare altri uomini”; questi libri con il tempo hanno acquistato valore di legge.
Nel 14° capitolo Verri ci spiega che non mancano però gli uomini illuminati indignati: Cicerone, S. Agostino, Quintilliano, Seneca e molti altri.
Inoltre ci riferisce che in moltissimi stati, come la Prussia, l’Inghilterra, l’Austria, ecc. hanno abolito l’uso della tortura.
Nel 15° capitolo Verri propone alcune alternative riguardanti le procedure dei processi:
1. Vi devono essere dei testimoni che lo accusano di qualche delitto;
2. Poi si deve condurre il prigioniero davanti a molti fra i suoi pari destinati a giudicarlo;
3. L’accusato dev’essere interrogato;
4. Si invita l’imputato a giustificare dove era nel momento in cui è stato commesso il delitto;
5. Si decide se l’imputato è innocente o meno.
Questo modello che Verri segue si usa in Inghilterra e nel Milanese per i reggimenti italiani.
In conclusione le ultime righe dell’ultimo capitolo sintetizzano la tesi dimostrata nel saggio:
“Mi pare impossibile, che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora, dopochè si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera (…)che questo non è mezzo per avere la verità”.

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