Montale: vita e poetica

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Testo

EUGENIO MONTALE:

Eugenio Montale nacque nel 1896 a Genova da una famiglia dell’alta borghesia. Il padre possedeva una ditta e Montale seguì studi che non lo avviavano alla letteratura, si diplomò ragioniere.
Nel 1915 si arruolò come volontario in guerra, si era già mostrato il suo interesse per la letteratura e fu influenzato da poeti liguri, soprattutto da Camillo Sbarbaro.
Tornato dal fronte nel 1917, perché malato, cercò un lavoro e continuò a occuparsi di letteratura; nel 1925 cominciò la collaborazione con una rivista torinese “Il Baretti”, fondatore e direttore della quale era Pietro Gobetti, che gli fece pubblicare sulla rivista la sua prima raccolta poetica, “Ossi di seppia”.
Nel 1925 ottenne il lavoro a cui aspirava, divenne collaboratore di una casa editrice fiorentina e si trasferì a Firenze, dove prese parte attiva alla vita intellettuale della città, collaborò a riviste importanti, quali “Solaria” e “La fiera letteraria” e conobbe anche scrittori di rilievo.
Nel 1929 fu nominato direttore del Gabinetto di Viesseux a Firenze, ricoprì questo incarico per dieci anni, fino al 1939, anno in cui fu licenziato per il suo antifascismo. Cominciava per Montale un periodo difficile, i suoi unici guadagni erano derivati da traduzioni e dalla scrittura di saggi critici.
In questo periodo Montale conobbe Drusilla Tanzi, che poi divenne sua moglie, e conobbe anche una studiosa americana di letteratura italiana, Irma Brandeis, che fu la sua ispiratrice più importante, Montale la canta con il nome di Clizia, Drusilla invece è cantata con il nome di Volpe.
Dopo la guerra Montale iniziò la collaborazione al “Corriere della sera” (1947).
Nel 1975 ottenne il premio Nobel per la letteratura e morì a Milano nel 1981, dove risiedeva dalla fine della guerra.

POETICA: In uno scritto intitolato “Intervista immaginaria” Montale definì i punti essenziali della sua visione poetica. Egli afferma che la sua poesia non ha mai lo scopo di ricercare una verità universale bensì una verità puntuale, ovvero una verità del proprio io, che avesse significato per l’individuo, posto in relazione con gli altri uomini, ma pensata e vissuta in modo irripetibile.
Su Montale ebbero grandissima influenza di Bergson e Boutroux -teorico del cosiddetto contingentismo-. Di Bergson, Montale accoglie la tendenza esistenzialistica e il rifiuto della ragione come strumento di conoscenza. Dunque l’interesse per Bergson può essere definito come interesse per l’antipositivismo bergsoniano. Montale infatti nutrì un particolare interesse per l’antipositivismo, la realtà non può essere studiata sulla base delle leggi scientifiche in quanto la realtà, e qui interviene il contingentismo di Boutroux, è dominata dalla casualità ed è dunque paradossalmente aperta al miracolo. Il miracolo infatti è un intervento imprevisto e liberatore che spezza la catena delle ore, dei gesti, degli eventi, tutti caratterizzati dall’inautenticità.
Ma tale possibilità di miracolo è assai remota, in realtà la vita dell’uomo è oppressa dalla falsità delle convenzioni sociali e priva di ogni illuminazione trascendente.
Montale sin dall’adolescenza ebbe l’impressione di vivere come sotto una campana di vetro, escluso dalla realtà nella continua ricerca di una “parola verità”, che costituisse un varco che individuasse il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, e lo mettesse in mezzo a una verità che liberasse l’uomo dall’ illusorietà del mondo, concepito come rappresentazione, si percepisce quindi l’influsso di Schopenhauer.
Montale interpreta però Schopenhauer a suo modo, come a suo modo interpreta anche il contingentismo di Boutroux, che era volto a liberare l’uomo dalla catena di cause-effetti, ma la possibilità di libertà per l’uomo è a Montale remota, la sua non è tanto speranza quanto un’ansia di verità sempre frustrata. In realtà l’esistenza dell’uomo è prigioniera dei “triti fatti”, quella sequela di gesti, ore, eventi, che sono privi di significato e tolgono significato anche all’esistenza, per cui l’uomo non può trovare un significato all’esistenza ma si trova immerso in un nuovo determinismo, non più dominato dalla causalità ma lo stesso oppressivo nella sua mancanza di significato, il “solido nulla” leopardiano.
Montale mantenne per tutta la vita la percezione della realtà che ebbe sin da giovane quando scrisse “Mereggiare pallido e assorto”, dove dice che la realtà è una muraglia con in cima cocci di bottiglia, ovvero invalicabile.
La differenza con Leopardi consiste nella crisi dell’io, propria di tutta la cultura novecentesca, in Leopardi invece è presente un forte senso della personalità, propria della cultura romantica, che consiste in primo luogo nella memoria. In Montale il nulla che incombe sull’esistenza fa sì che l’uomo perda la sua individualità, la memoria così si sfolla, perde il proprio contenuto, si vanifica, è così impossibile approdare alla posizione eroica a cui approda Leopardi, ma invece Montale richiama alla necessità della coerenza, o meglio “decenza”, prendendo coscienza del suo destino di vanificazione ma facendo ciò con fermezza morale.
L’opera di Montale è l’espressione della crisi dell’uomo del Novecento, indirettamente infatti ha interpretato la crisi postbellica, il travaglio del ventennio tra le due guerre, la terribilità della seconda guerra mondiale, della guerra fredda, del consumismo, considerato da Montale non meno degradante delle esperienze precedenti.
Montale non ha mai collegato la sua poesia alla situazione contingente ma ha sempre conferito alla poesia un valore metastorico. La poesia è l’unica occasione di riscatto da una condizione degradata, è espressione e difesa della superstite dignità dell’uomo in una realtà alienata, la poesia esprime una “speranza avara”.
Montale ha della poesia una visione fortemente aristocratica e da qui deriva il mito del poeta come “prigioniero non domato”, che non si rassegna alla propria condizione. In questo quadro bisogna interpretare anche la presenza delle figure femminili: Annetta o Arletta, sotto questo nome si nasconde una ragazza conosciuta in gioventù, la perse poi di vista, questa donna morì nel 1956 ma non è escluso che il Montale ritenesse fosse morta prima. Irma Brandeis, italianista italo americana, con la quale intrecciò una lunga relazione, si cela sotto il nome di Clizia, nome della mitica donna trasformata in girasole. La moglie invece, Drusilla Tanzi si cela sotto il nome di Volpe, perché è capace di orientarsi nelle varie situazioni riuscendo sempre a scovare una qualche salvezza.
La donna, nella poesia montana, è una presenza di luce, quindi una presenza salvifica. L’amore è promessa di salvazione. Interviene in ciò la tradizione poetica italiana, l’influsso dello stil nuovo e in particolare la visione della Beatrice dantesca, la figura della donna angelo viene però spogliata di ogni valore religioso.
Tutta la poesia di Montale si configura in un’opposizione tra il Bene e il Male; ma cos’è il Bene? Il Bene non può essere definito, ma Montale lo intuisce soltanto, infatti l’uomo può giungere solo a una verità puntuale, il Bene è dunque una luce lontana. Il Male invece sono i “triti frutti”, ovvero la mancanza di significato. Tale visione ha dei precedenti, si può riscontrare l’influenza del Pascoli per quanto riguarda il rifiuto della poesia come costruzione enfatica e anche per quanto riguarda il rifiuto della figura del poeta come vate o come il demiurgo dannunziano.
Pascoli richiamava alle cose semplici che si sottraggono all’inautenticità del vivere quotidiano.
L’influsso del Pascoli forse si può riscontrare anche nella concezione che il Montale ha dell’oggetto poetico, ovvero come contenente in sé l’emozione poetica che però non viene espressa. Meno influsso su Montale ebbe D’Annunzio, Montale infatti rifiuta l’idea del poeta come demiurgo. Si può dire che Montale abbia “attraversato” D’Annunzio, senza però essere da lui contaminato.
Molto invece influirono su di lui i poeti crepuscolari, con la loro scelta di usare un tono poetico basso; infatti se la poesia montaliana è espressione della condizione umana, tagliata fuori da ogni significato è logico che da ciò ne consegua un ritmo stento, Montale tuttavia non si abbandona mai a al canto disteso. I suoi versi comunicano il senso di una realtà arida, priva di motivi di canto; in questo si può riscontrare l’influsso del modello leopardiano ma Montale era risalito in particolare a Dante, alle “Rime petrose”.
“Farfalla di Dinard” (pagina 664) La poesia montaliana spesso acquista le caratteristiche di un’allegoria, che è sintomo dell’intuizione della realtà come ambigua.
Montale quando la scrisse si trovava in vacanza in Bretagna.
La prima raccolta poetica di Montale è “Ossi di seppia”; la raccolta fu pubblicata nel 1925 da Pietro Gobetti sul giornale “Il Baretti”, alla cui rivista collaborò anche Montale, curò poi una seconda edizione nel 1928. Fra la prima e la seconda edizione ci sono delle differenze, il pessimismo montaliano infatti si approfondisce sempre di più.
I motivi fondamentali di questa prima raccolta sono tre:
_il primo motivo è la rinuncia alla sacralità della poesia, intesa in senso drammatico. La sua poesia si volge alle cose semplici e umili, il poeta infatti non è vate o demiurgo ma è un umile voce che si interroga sul significato, o sulla mancanza di significato dell’esistenza;
_il secondo motivo consiste nel rimpianto, nella nostalgia di un’originaria fusione tra l’uomo e la natura, di cui ormai non restano altro che segni inariditi, questo motivo è particolarmente presente in “Ossi di seppia” e il titolo per l’appunto allude proprio a questo;
_il terzo motivo: da ciò consegue che la poesia non può esprimere un messaggio di vita, è testimonianza priva di illusioni, il messaggio può essere puramente negativo. La poesia non può esprimere nessuna verità perché il poeta è impossibilitato a conseguirla.
Il ritmo di questa prima raccolta è spento, quasi arido perché esprime la disillusione, il tormento della vita.
La lirica montaliana si svolge tra due spinte opposte, da una parte la volontà di canto, dall’altra la prosaicità della vita.
Raramente affiora una lontana speranza di poter recuperare l’identificazione armonica tra uomo e natura.
La prima edizione terminava con la lirica “Riviere”, dove questa possibilità è presentata come realizzabile, seppur lontanamente; invece nella seconda edizione, le liriche aggiunte insistono sul concetto di realtà in conoscibile e sulla visione dell’uomo come condannato al caos, condannato alla mancanza di significato della contingenza. Ci sono dunque due poli che convivono, da una parte la constatazione del vuoto, dall’altra l’ansia del recupero di un’identificazione armonica con la natura, anche se è pur sempre una vanificazione.
Nel nulla gli oggetti si scagliano nitidi, conservano tuttavia l’aridità del paesaggio in relazione al suo pessimismo. Il paesaggio è quello ligure e spesso mantiene una certa solarità, che rappresenta l’indomita vitalità della natura, della quale però il poeta non sa cogliere il significato.
“I limoni” (pagina 674) La lirica ha valore programmatico.
La prima parte ha carattere polemico, Montale va contro i “poeti laureati”, ovvero i poeti ufficiali chiamati a celebrare la corte. Questi poeti presumono di avere un messaggio universale da trasmettere, ma in realtà sono asserviti a un potere che li gratifica con pubbliche riconoscenze.
Montale, invece presenta una figura diversa del poeta; un poeta che si volge alla vita elementare, agli oggetti più umili e per questo non toccato dall’ inautenticità.
L’immagine del poeta offerta da Montale rifiuta ogni artificio e di parlare di pianti illustri.
In questa realtà di tanto in tanto balena una promessa di significato, una rivelazione, anche se poi la vita riprende il sopravvento e quella promessa si vanifica.
Già qui troviamo i motivi tipici della poesia montaliana:i limoni, che rappresentano la scelta per le cose umili, la possibilità di trovare un varco, la negazione della liberazione. Nell’esercizio della poesia l’uomo trova il suo riscatto perché essa è ricerca di verità.
La visione che Montale ha della realtà è quella che espresse a venti anni in “Mereggiare pallido e assorto” (pagina 675) .
È un meriggio d’estate, tutto è immobile nella sua indifferenza. Il paesaggio è arido, arroventato dal sole, che sembra folgorare gli oggetti, dissolverli nel ritmo di una vita implacabile e misteriosa.
Appare una parvenza di movimento, in quel paesaggio impietrato: le formiche, le serpi, il mare; ma è un moto soltanto apparente, simile a quello che il Leopardi definiva un incomprensibile e incessante girare delle cose “per tornar sempre là donde son mosse”, cioè verso il nulla.
Non c’è in una visione così pessimistica nessuna possibilità di Bene, che può consistere solo nella “divina indifferenza”, ovvero nella sospensione del pensiero e della sensibilità.
“Spesso il male di vivere…” (pagina 676) Il dolore, la sofferenza di tutti gli esseri sono una realtà oggettiva, dal ruscello impedito nel suo libero fluire, al cavallo stramazzato, alla foglia inaridita. Non esiste bene se non nell’indifferenza, in un esistere simile al dissolversi della morte.
“Arsenio” (pagina 680) La lirica risale al 1927 ma fu aggiunta alla raccolta nell’edizione del 1928.
Arsenio è il protagonista ma non viene mai identificato, rappresenta l’uomo in senso generale di cui non si può dire il nome perché manca di individuazione.
Arsenio rappresenta il male di vivere, significativo anche il nome, l’arsenico è un veleno.
La lirica ha come sfondo una cittadina balneare della riviera ligure dove si intravedono caffé eleganti, alberghi, carrozze.
In questo ambiente sembra delinearsi una possibilità di liberazione consistente nel dissolversi dell’uomo, nella vita della natura, è sempre una possibilità di vanificazione ma anche di libertà, ma la vita riprende poi il sopravvento e tutto ritorna al noto delirio di immobilità.
La seconda raccolta poetica del Montale è intitolata “Le occasioni” e risale al 1939. La raccolta era stata preceduta dalla pubblicazione di una breve raccolta di liriche intitolata “La casa dei doganieri ed altre poesie”, raccolta pubblicata nel 1931 e che gli valse il conseguimento di un premio letterario.
Con “Le occasioni” cambiano i moduli espressivi del Montale. Egli ricorre al correlativo oggettivo, secondo una personale interpretazione dell’idea del correlativo oggettivo del poeta anglo americano T.S. Eliot derivatagli dalla lettura della sua poesia “La terra desolata”, ovvero una poesia che supera ogni fusione di tipo romantico.
Montale si propone di esprimere l’oggetto e tacere l’occasione spinta. Non vuole descrivere l’emozione della poesia, ma essa è calata interamente nell’oggetto.
I motivi della poesia non vengono rivelati, o meglio “spiattellati”. Si tratta quindi di una poesia complessa e difficile, molte liriche non sarebbero neanche potute essere comprese se non grazie ad alcune note lasciate da Montale stesso.
La poesia di questo genere è l’unica possibilità di riscatto per l’uomo, quindi anche se siamo ben lontani dalle visioni estetizzanti dannunziane la visione della poesia per Montale non è meno aristocratica.
Ma in che rapporto è la storia con questa raccolta?
Siamo nei decenni in cui prende sempre più piede il diffondersi delle dittature ma Montale non accenna mai a questa situazione e si ritira nella dimensione della poesia, come se essa fosse una “roccaforte”, la sola di cui dispone l’uomo in una realtà degradata.
Grande rilievo ha in questa raccolta, più della prima, la figura femminile, simbolo di salvezza, è l’angelo liberatore che esprime l’ansia di riscatto del poeta in un mondo così degradato. Permette così la possibilità di colloquio, di uscire dall’io e mettersi in contatto con l’Altro, ovvero l’uomo ma in un certo senso Dio -escludendo ogni relazione trascendente-. Se infatti l’uomo riuscisse a vincere l’incomunicabilità cui lo condanna il caos della contingenza potrebbe raggiungere la liberazione. L’ipotesi di una lontana figura femminile si configura come promessa di una lontana salvezza.
“Non recidere, forbice, quel volto” (pagina 686) Il poeta, rivolgendosi alla forbice, la prega di non eliminare dalla sua memoria, che man mano si sfolla, quell’ultima immagine che gli è rimasta.
Si afferra a quell’immagine che è la sola superstite nella sua memoria e non vuole quindi che si disperda. L’immagine è il volto di una donna. Il poeta dice alla forbice di non fare che il caos della contingenza disperda quel volto. Il giardiniere taglia la vetta di un’acacia e l’acacia cade a terra, taglia anche il ricordo di un volto, lo getta nell’oblio, diventa figura del tempo come cammino di morte e declino. Dall’acacia si scrolla il guscio della cicala, un’immagine di vita, che va nel primo fango novembrino, che è immagine dell’indifferenza della vita. Ciò crea l’occasione spinta e il correlativo oggettivo, tra l’acacia e la memoria privata di quel ricordo corre, dice Montale un “cortocircuito”.
“La casa dei doganieri” Esisteva veramente la casa dei doganieri a Monterosso, Durante l’estate, Montale aveva conosciuto una donna, Annetta. Forse Montale quando scrisse la lirica la riteneva già morta, anche se la donna in realtà morì nel 1956, oppure era a conoscenza che non era morta ma per lui era come se lo fosse, quella donna dileguata dalla sua vita e che ora si stava dileguando anche dalla sua memoria.
Montale immagina di essersi incontrato con Annetta nella casa dei doganieri, ma ora quell’esperienza è per lui irrecuperabile. Vorrebbe rivivere quel tempo ma è impossibile.
La vicenda diventa emblema di una realtà più profonda. Montale non rievoca qui una concreta vicenda d’amore, ma l’ansia che ebbe un giorno di liberarsi dalla ruota del destino che vanifica la vita in un giro d’ore, di atti inutili di ritrovare un “varco”, una via di fuga che gli consentisse di vivere in modo libero e autentico.
Ma il varco è una liberazione della vita o nella vita? Chi va è Arletta, chi resta è il poeta che però non conosce se stesso perché non riesce a trovare un varco, apparentemente resta lì ma è vanificato anche lui come Arletta.
L’ultima lirica de “Le Occasioni” è “Dora Markus”, che fu scritta in due tempi diversi, la prima strofa nel 1926, la seconda strofa nel 1939. Dora Markus è un’ebrea che Montale aveva conosciuto a Ravenna, nella prima strofa Montale si riferisce al porto Corsini di Ravenna, questa donna era però della Carizia, la regione più sud dell’Austria confinante con il Friuli.
La descrizione ha un andamento antilirico per eccellenza, è un’atmosfera senza memoria, dominata dalla nebbia in cui tutto si sfalda. La crisi è la crisi di una civiltà, crisi che coinvolge ogni individuo e fa perdere ogni speranza sia sul piano razionale che sul piano dei sentimenti.
È comunque insopprimibile lo slancio vitale.
L’ultima raccolta della prima fase della poesia montaliana è “La bufera ed altro”.
Durante la guerra in Svizzera, nel 1943 era uscita una raccolta di poesie intitolata “Finisteo”, nel 1956 poi Montale pubblicò la sua terza raccolta che comprende anche la raccolta del 1943.
La bufera è la guerra. Montale aveva presentato la poesia come il rifugio dell’uomo di cultura, un rifugio lontano dalla storia, la guerra però aveva inciso profondamente nelle coscienze ed ora era quindi necessaria una contromissione con la storia. La cultura chiedeva un atteggiamento diverso, gli uomini di cultura dovevano chiarire la loro posizione dentro la storia.
Montale prende quindi atto degli avvenimenti di quel periodo, ma egli continua a sostenere lo stesso il carattere metastorico della poesia; è vero che l’ispirazione è condizionata da quanto accade ma il messaggio che trasmette il poeta ha pur sempre un carattere universale.
Il Bene e il Male sono in perenne conflitto tra di loro, e Montale indica nella poesia l’unico rifugio possibile dalle barbarie, la poesia ha il compito di rivelare l’uomo a se stesso e di indicargli una via di coerenza e di dignità in mezzo alle barbarie.
Come tutti i poeti del Novecento Montale considera la poesia come espressione suprema dell’uomo, come esperienza assoluta.
“La Bufera” ripropone il dramma conoscitivo-esistenziale del poeta, come ripropone la figura di Clizia-molto rilievo, nella poesia montaliana, ha la figura della donna-, speranza di salvazione sempre più avvolta nella luce fulgida, ma anche nella nebbia d’un mito personale. È vero che c’è la coscienza del nulla ma c’è anche l’aspirazione a valori alti, è presente un’ansia di comunicazione, di colloquio, un’ansia nel provare ad uscire dalla prigione dell’io.
“L’anguilla” (pagina 698) Montale in questa lirica stabilisce un’analogia tra l’anguilla e la donna. L’anguilla risale dal Baltico, da dove è originaria, i torrenti per giungere fino agli Appennini, per la riproduzione. L’anguilla affronta questo viaggio lunghissimo guidata da un istinto di vita, che nonostante tutto si ravviva. Allo stesso modo anche la donna trasmette la vita.
Infatti, nell’una e nell’altra creatura il poeta scorge l’oscura e inarrestabile vocazione a perpetuare la vita e in entrambe constata l’ansia elementare d’esistere che pervade l’universo.
Come dunque non considerare l’anguilla sorella della donna? In una visione del genere la poesia è testimonianza di coerenza e di decenza.
Nell’ultima sezione della raccolta “La bufera” si trova la lirica “Piccolo testamento” (pagina 701). In un momento di crisi profonda e alla vigilia dell’autodistruzione del mondo, Montale traccia un bilancio della propria vicenda poetica ed umana. Nella lirica il poeta definisce la poesia come una “traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato” ovvero come una luce non fulgida ma appena percettibile.
Non è luce che provenga da un credo religioso o politico (siamo nel 1953, quando era vivace lo scontro tra i cattolici e i comunisti) ma la poesia è intesa come testimonianza autentica dei valori spirituali, e umile, anche se incrollabile perché non presume di rivelare supreme verità che sono fuori del tutto dalla limitata esperienza umana.
Il poeta esorta poi l’amata, Clizia, a conservarla quasi come un amuleto nel suo specchietto; lascia cioè la sua fede e la sua speranza come un dono a colei che ha amato.
Seguono varie immagini: lo spegnersi d’ogni luce, la danza infernale, l’affranta figura di Lucifero, non più angelo della luce ma della tenebra alludono all’uomo che ha tradito se stesso e precipita verso la morte.
La fede del poeta non pretende di essere assoluta, è un fatto morale, anch’esso soggetto al continuo mutarsi della natura, nulla rimane se non immergendosi nel continuo fluire della vita, anche il messaggio del poeta, per durare, deve entrare nella relatività dell’esistere. Resta tuttavia intatta la certezza che era giusto il segno verso il quale ha diretto la propria vita e chi è capace di riconoscerlo non può fallire nel ritrovarlo. Negli ultimi versi, egli, si rivolge a chi, coltivando i suoi stessi valori, è degno di riconoscerlo e di riconoscerli. E afferma che l’orgoglio che lo isolò da chi sbandierava facili miti non era fuga dal mondo e dalle sue responsabilità, ma accettazione d’un distacco e di una solitudine in nome d’una vocazione morale.
All’ ultima fase poetica del Montale risalgono “Satura”, che fu pubblicata nel 1971, seguita dalla pubblicazione di “Diario” nel 1971-1972 e “Quaderno di quattro anni”, opera pubblicata nel 1977.
Ormai è cambiata la scena della letteratura, la letteratura ha perso la sua aurea di rivelazione di un messaggio. In cosa può ormai consistere la voce del poeta in una società ridotta ai puri interessi materiali? Non può comunicare né i valori né l’ansia per i valori, tutto è come spento e inaridito. Il poeta mantiene una forte lucidità di fronte a un mondo che lo ripugna; è una voce gelida, fredda, sarcastica, che smaschera falsi valori di una società ancora più involgarita.
Si possono riscontrare soprattutto in “Satura” delle vere gemme liriche, soprattutto in una sezione intitolata “Xenia” (“doni agli ospiti”) dedicata alla moglie appena morta. La moglie aveva chiamato un prete, e questo chiese al Montale se la donna pregava, Montale rispose che pregava Sant’Antonio per le cose perdute ma anche per i morti e per lui. Il prete dice che ciò è sufficiente, basta anche solo un’aspirazione alla fede, uno slancio per il divino, in un periodo ormai così travagliato.

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