Leopardi: domande

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Testo

GIACOMO LEOPARDI
Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798, primogenito della più illustre casata del piccolo centro marchigiano. Il padre, austero e politicamente reazionario, fu, insieme con i precettori ecclesiastici, il suo primo insegnante.
Ma l'ingegno precocissimo del giovane Giacomo e la sua estrema sensibilità, frustrati dalla freddezza parentale, lo indussero ben presto a riversare tutta la sua passione sui libri della biblioteca paterna (sette anni di studio "matto e disperatissimo") e ne fecero un fenomenale autodidatta, esperto in lingue classiche, ebraico, lingue moderne, storia, filosofia e filologia (nonché scienze naturali e astronomia).
Divenne saggista e traduttore, specialmente di classici. Del 1816 fu il suo passaggio 'dall'erudizione al bello', ossia dallo studio alla produzione poetica, e nello stesso anno è da datare la sua missiva alla 'Biblioteca Italiana', con la quale il Leopardi difendeva le posizioni dei classicisti in risposta alla de Stäel. L'anno dopo avviò una fitta corrispondenza con Pietro Giordani ed iniziò la stesura dello Zibaldone; sempre in questo periodo si innamorò di Geltrude Cassi, alla quale dedicò la poesia Il primo amore.
Il suo corpo, ormai minato dai molti anni di studio e di semi-volontaria reclusione, aveva già cominciato a mostrare i segni di quella deformazione alla colonna vertebrale che farà così soffrire il poeta, anche se la malattia, per il Leopardi, non rimase mai un motivo di lamento individuale ma si trasformò in uno straordinario mezzo di conoscenza. Del '18 sono le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante, nonché lo scritto Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
L'anno seguente, il 1819, segnò un periodo di profonda crisi per il poeta: esasperato dall'ambiente familiare e dalla chiusura, soprattutto culturale, delle Marche, governate dal retrivo Stato Pontificio, il Leopardi tentò di fuggire da casa, ma il progetto venne sventato dal padre. A questo stesso periodo appartengono la composizione degli idilli L'infinito, Alla luna ed altri e la sua conversione 'dal bello al vero', con il conseguente intensificarsi delle sue elaborazioni filosofiche, tra cui la teoria del piacere.
Nel 1822 il padre gli concesse un soggiorno al di fuori di Recanati e fu così che il poeta poté andare a Roma, ospite di uno zio. La città si rivelò estremamente deludente e, dopo aver invano tentato di trovarvi una sistemazione, il Leopardi nel 1823 fece ritorno nelle Marche, dove iniziò a comporre le Operette morali. Proprio le Operette segnarono la piena formulazione del 'pessimismo storico', che vedeva nell'uomo e nella ragione le vere cause dell'infelicità, e del 'pessimismo cosmico', che al contrario accusava la Natura di essere la fonte delle sventure umane, in quanto instilla nelle persone un continuo desiderio di felicità destinato ad essere sistematicamente frustrato.
Nel 1825 riuscì a lasciare Recanati grazie all'avvio di una collaborazione con l'editore Stella che gli garantì una certa indipendenza economica: fu a Milano, Bologna (dove conobbe il conte Carlo Pepoli e pubblicò un'edizione di Versi), Firenze (dove incontrò il Manzoni e scrisse altre due operette morali) e Pisa (dove compose Il Risorgimento e A Silvia). Costretto a tornare a Recanati nel 1828, proseguì nella produzione lirica che aveva iniziata a Pisa con l'approfondimento delle tematiche della 'natura matrigna' e della caduta delle illusioni.
Nel '30 uno stipendio mensile messogli a disposizione da alcuni amici gli permise di lasciare nuovamente Recanati e di stabilirsi a Firenze. Qui s'innamorò di Fanny Targioni Tozzetti (la delusione scaturita dall'amore per lei gli ispirerà il ciclo di Aspasia) e strinse amicizia col Ranieri. In risposta a chi attribuiva alla deformità la sua concezione pessimistica della storia e della natura, il Leopardi compose il Dialogo di Tristano e di un amico. Del '36 sono La Ginestra, Il tramonto della luna e probabilmente I nuovi credenti.
Morì a Napoli il 14 giugno del 1837.
Era figlio del conte Monaldo Leopardi, intellettuale appartenente all'ala più reazionaria e clericale della nobiltà dello Stato della Chiesa.
Il giovane Leopardi seppe mettere a frutto la notevole-biblioteca-del padre, a Recanati, e dalla più tenera età si distinse come filologo classico e studioso delle lingue moderne.
Visse in varie città italiane (Firenze, Roma, Bologna, Milano, Napoli, Pisa) collaborando con vari editori.
Vittima dall'infanzia di deformità fisiche e malattie croniche, che periodicamente gli impedivano di portare a termine i suoi impegni di lavoro, non riuscì per questo mai a raggiungere l'indipendenza economica dalla famiglia, cosa che lo obbligò a scendere a compromessi con il suo dotto quando reazionario padre. L'infelicità derivante da queste circostanze (e, aggiungo io, dai suoi amori omosessuali non ricambiati) hanno contribuito a fargli appiccicare la sbrigativa etichetta di "poeta del pessimismo".
Classico nella sua formazione intellettuale, Leopardi è Romantico nella sua sensibilità.
I suoi ideali "patriottici", come quelli espressi nella poesia "All'Italia" (1821), lo resero popolare fra i lettori risorgimentali e dopo l'Unità d'Italia (1860) gli garantirono un ruolo come "poeta nazionale"; tuttavia nel corso della vita lo resero sospetto alle autorità.
Fra le sue opere, sia in poesia che in prosa, vanno ricordate almeno: Canzoni (1824), Versi (1826), Operette morali (1827), Canti (1818-1831).
Morì a soli 39 anni a Napoli, dove s'era stabilito alla ricerca di un clima più mite.
La sua tomba, proclamata "monumento nazionale", si trova nel Parco Virgiliano di Napoli.
Il punto di partenza privilegiato per trattare il nostro tema è ovviamente la grande passione amorosa di Leopardi, quella che occupò gran parte della sua vita adulta: il "sodalizio" con Antonio Ranieri (1806-1888).
Non sono il primo a parlare di questa "strana coppia" da un'ottica gay [1]. Eppure non ritengo inutile ristudiare questa amicizia, perché ho l'impressione che non sia stata ancora detta l'ultima parola. Da un lato, infatti, chi tenta una lettura gay a volte trascura i dotti studi dedicati alla strana amicizia; dall'altro tali studi eludono, puramente e semplicemente, la domanda "scabrosa".
Ho voluto perciò riaffrontare la questione usando infine i "dotti studi" [2] per porre quelle domande "scabrose" che essi evitano, e spero di esser riuscito a trovare una risposta convincente.
Cominciamo dai fatti noti.
Leopardi conobbe a Firenze nel 1827 il napoletano Antonio Ranieri, studente ventunenne, che un biografo descrive così: "giovanissimo, bellissimo, aitante della persona" e con "quell'ardor giovanile dell'animo che tanto piace al bel sesso" [3] ("e non solo"... aggiungo io).
Nel 1830 la frequentazione si fece assidua, e nell'inverno 1831/32 i due trascorsero cinque mesi a Roma[4], ufficialmente per la salute del Leopardi, in realtà perché Ranieri voleva star vicino all'attrice Maria Maddalena Pelzet (sposata!) per cui smaniava.
Quando nel 1832-33 Ranieri tornò a Napoli dalla famiglia, che versava in dissesti finanziari sempre più gravi, Leopardi gli scrisse da Firenze frequenti lettere d'amore. In esse leggiamo dichiarazioni come questa:
"Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo ben essere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo" [5].
Un'"amicizia" così "accesa" non passò inosservata, come emerge da un'altra lettera che accenna alle "derisioni" che scatenava:
"Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia.
Oh Ranieri mio! Quando ti ricupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio, anima mia, con tutte le forze del mio spirito. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi" [6].
E ancora:
"Ranieri mio, non hai bisogno ch'io ti dica che dovunque e in qualunque modo tu vorrai, io sarò teco [con te]. Considera bene e freddamente le tue proprie convenienze (...) e poi risolviti. La mia risoluzione è presa già da gran tempo: quella di non dividermi mai più da te. Addio" [7].
E quando infine Ranieri parte alla volta di Firenze per andare a prendere l'amico, al quale ha proposto di vivere a Napoli insieme, Leopardi gli scrive:
"Ranieri mio. Ti troverà questa ancora a Napoli? Ti avviso ch'io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un'impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti avuto. Addio addio" [8].
Dirò subito che leggendo queste e le altre lettere di solito si ricava l'impressione che fra i due esistesse una relazione. Si ha un bel ricordare che nell'Ottocento l'amicizia si esprimeva in termini molto più calorosi che ai giorni nostri. Ciò è vero, ma è altrettanto vero che qui si era comunque passato il segno anche delle convenzioni dell'amicizia Romantica, come dimostrano le considerazioni del Leopardi a proposito delle "derisioni" a cui andava incontro il loro "sodalizio"!
Anzi, per maggior chiarezza Ranieri si affannò a rivelarci da cosa nascessero "scandalo" e derisione: dall'eccessiva intimità fra i due. Appena arrivati a Napoli assieme, nel 1833:
"io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui" [9].
Tanta premura suscitò i sospetti della padrona di casa che
"Mi dichiarò: ch'io le aveva introdotto un tisico in casa; che, amandolo tanto da fargli le nottate, non altra poteva essere la cagione onde non gliele facessi in casa mia [non c'era ragione per non fargliele a casa mia]; ch'essa voleva, ad ogni costo, essere sciolta dall'affitto" [10].
Un incidente simile era già accaduto durante il già citato soggiorno comune a Roma nel 1831/32: un maligno parrucchiere compaesano di Leopardi, stupito della convivenza fra i due, s'era premurato di riferire certi pettegolezzi a Ranieri:

""Io sono", mi disse, "di Recanati. (...) Com'è ch'ella ha con sé il figliuolo del conte Monaldo?".
Percosso dalla improvvisa ed inattesa interrogazione, io levai su il capo, e lo guardai! E scorgendogli una certa ciera maliziosa, n'ebbi un momento di stupore! Poscia, raccolto l'animo:
"Con me?..." risposi, con severità. "Non so che cosa vogliate intendere. Vuol dire, che siamo due amici ch'è s'è preso un quartiere [appartamento] insieme".
Ignaro che s'era prossimi alla camera del mio amico, e però [perciò] non parlando basso quanto avrebbe dovuto, egli replicò, sorridendo:
"Ho detto così, perché conosco assai bene le cose di colà, gli umori del padre e del figliuolo; l'odio implacabile di costui al clima ed agli abitatori di quel paese...".
E soggiunse, con importuna loquacità, ch'io repressi raddoppiando di severità, assai altri particolari, i quali o io conosceva assai meglio di lui, o non m'importava né punto né poco di conoscere" [11].
Appena uscito il pettegolo, piomba Leopardi e si sfoga:
"Sappi, ch'io divento un forsennato, al solo sognare di andarne per le bocche di quella gente [i recanatesi]; sappi, che io inventai, invento ed inventerò tutte le favole, tutti i romanzi di questa terra, per salvarmi da questa orribile sciagura!" [12].
(con buona pace delle "favole" e i "romanzi" su Silvia e compagnia bella). Ranieri gli riconferma la sua amicizia, però aggiunge velenoso:
"Ma, io confesso, che non avrei mai inteso concedergli quella che mi si riferisce leggersi in alcune delle sue lettere. E dico: mi si riferisce; perché, insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre" [13].
Eccoci allora al dunque: quali che fossero le convenzioni dell'amicizia dell'Ottocento, è Ranieri stesso a dirci che le lettere di Leopardi andavano oltre l'accettabile, al punto che la sola lettura gli procurava la febbre decenni dopo!
Ma allora i due stavano assieme o no? A giudicare dal fatto che Leopardi aveva bisogno di certe misteriose "passeggiate" e di certi incontri con sconosciuti proletari, non direi proprio che fra i due ci fosse, o ci fosse più, una relazione erotica:
"Mi parve di scorgere, prima in Roma, poscia [poi], assai più di frequente, qui, che altre ragioni gli destavano l'inesplicabile desiderio di andar fuori solo, e che queste fossero certe più libere confabulazioni con certa gente verso la quale, prima io da solo in Roma, poscia insieme con l'aureo Margàris, qui, non si era mancato di dire la mente [opinione] nostra.
Ma ciò era niente. (...).
Leopardi era tenerissimo, gelosissimo de' suoi segreti (...). Noi, d'altra parte, s'era sdegnosissimi di saper novelle [notizie] de' fatti altrui, e rispettosissimi della sua libertà. E non ci avanzò altro partito [non ci rimase altra scelta] se non, ad amendue, in generale, di astenerci da qualunque altro motto [commento] in proposito; ed a me, in particolare, di uscire costantemente dalla stanza quando qualche innominato sopravveniva"
Fin qui i dati che i protagonisti ci hanno lasciato. Vediamo ora d'integrarli con ciò che i biografi hanno scoperto.
Un'altra immagine di Antonio Ranieri in età matura.
Un primo dato che emerge leggendo le biografie è che Ranieri fu un donnaiolo accanito e sconsiderato, come esemplifica la sua avventura con la Pelzet (che non fu la sola). Leopardi, al contrario, non ebbe notoriamente avventure o storie con donne.
Un secondo dato è che le memorie scritte da Ranieri sono inattendibili. Esse furono scritte non per tramandare, ma per occultare "qualcosa". Forse una relazione omosessuale?
Ahimè, purtroppo no: si tratta più banalmente una relazione parassitica. Ciò che Ranieri non solo tace nelle memorie, ma anzi occulta descrivendo Leopardi come suo ospite spesato di tutto, è che la sua famiglia era alla bancarotta. Negli anni in cui i due convissero, fu Leopardi a pagare i conti. Anzi: a un certo punto si trovò in casa pure la sorella di Ranieri, Paolina [15].
Questa "scoperta" cambia l'ottica in cui leggere la relazione. Che Leopardi fosse cotto di Ranieri, ce lo dicono a sufficienza le lettere. Che Ranieri, perso nei suoi amori con donne, reciprocasse tale amore, lo nega la sua biografia. Se dunque amore ci fu, esso fu a senso unico.
Si capisce perciò anche perché Ranieri, della sua pluriennale convivenza con Leopardi, ci abbia lasciato solo pettegolezzi e insinuazioni: la reale grandezza di Leopardi in parte gli sfuggì. Per lui Leopardi fu soprattutto un "ricchione" innamorato, della cui debolezza umana approfittare. Si capisce anche perché egli ci abbia tenuto a tramandare i fatterelli che ho sopra citato: per stabilire che "o' ricchione era isso", Leopardi, non lui.
In quest'ottica assumono dunque un preciso significato le sibilline lamentele del Ranieri per i "soliloqui amorosi" (in circostanze "di cui è assai bello tacere") con cui Leopardi lo tormentava.
Gli studiosi eterosessuali hanno inteso che i "soliloqui" riguardassero "amori impossibili" per donne. Mi permetto di dubitarne, e noto di essere, per fortuna, in buona compagnia:
"I soliloqui amorosi nei cui scabrosi anfratti il Ranieri dice di essersi spesso e con sua grande angoscia trovato, non s'hanno altrimenti a interpretare che come vaneggiamenti d'amore che egli sarebbe stato spesso costretto a udire dalla bocca del sodale.
Ma perché e come costretto? Queste sono le circostanze che egli dice assai bello tacere.
Se è vero ciò che, cercando, ho udito vociferare, non solo il giovinetto congiunto di Aspasia, di cui parla il Carducci, avrebbe rappresentato il simulacro di lei alla mente allucinata del poeta ed eccitatone il delirio loquace, ma eziando [anche] il sodale [amico] Ranieri; ciò che chiarirebbe la reticenza di questo luogo che altrimenti rimarrà sempre inesplicabile" [16].
Anzi, sentiamolo direttamente, Giosuè Carducci, che in una sua conferenza su Jaufré Rudel, a proposito dell'amore del Leopardi per "Aspasia", testimoniò:
"Raccontavano a Firenze che egli, quando più ardea dell'Aspasia, solesse affazzonare con uno scialle un giovinetto congiunto di lei che molto le somigliava e stesse contemplando a lungo quell'immascherato e dicendogli ciò che non osava all'Aspasia. No 'l credo, e mi pare indegno" [17].
Non posso non sottolineare l'importanza di questa testimonianza, che ci viene da chi aveva accesso a testimonianze dirette. Da essa veniamo finalmente a sapere che esistettero "vociferazioni" sull'innamoramento di Giacomo, a Firenze, non per "Aspasia" (che cantò nelle sue poesie), bensì per il "giovinetto congiunto".
E veniamo anche a sapere che "si vociferava" che tale amore riguardasse "eziando il sodale Ranieri". Eccoci, finalmente!
Di nostro aggiungiamo che ci pare bizzarro che Leopardi, innamorato invano della bella Fanny Targioni-Tozzetti alias "Aspasia" (con la quale Ranieri aveva una tresca amorosa!), preso da furore amoroso travasasse la passione sul "giovinetto congiunto" solo perché... le assomigliava. Anzi, arrivasse a travestirlo da Aspasia. Anzi, già che c'era trasferisse tale ardore su Ranieri. E a questo punto, perché non sul cavallo della donna amata?
A furia di voler "salvare" Leopardi dal sospetto di omosessualità s'è finito per farne un pazzo fatto e finito, un autentico caso clinico capace di buttarsi a corpo morto su qualunque cosa camminasse su due gambe e respirasse.
A chiunque conosca la realtà, e non le fantasie omofobe dei critici letterari eterosessuali, appare assai più plausibile che nell'aneddoto riferito dal Carducci Leopardi, semmai, amasse tout-court il "giovinetto" e per sviare l'attenzione ostentasse di amarne la "congiunta"!
Arrivati a questo punto, però, ci rendiamo conto di avere raccolto indizi sulle preferenze omosessuali di Leopardi, ma non su quelle di Ranieri. Insomma, l'idea d'una relazione fra Leopardi e Ranieri, bella, poetica, romantica... purtroppo non regge. Peccato, perché l'avremmo augurata come unico raggio di sole e fonte di gioia nella travagliata vita di Giacomo.
Aveva ragione Ranieri: "o' ricchione" era davvero solo Giacomo. Su lui va dunque concentrata la nostra attenzione.
C'è qualcos'altro, allora, su Leopardi?
Sì. Innanzi tutto, pochi lo sanno, esiste una serie di documenti inediti che gli attuali conti Leopardi rifiutano di mettere a disposizione degli studiosi. Si tratta, affermano i conti, di opere giovanili irrilevanti, che nulla aggiungono alla comprensione dell'artista.
Le tesi è bizzarra, dato che se davvero fossero cose "irrilevanti" non ci dovrebbe essere nessun motivo per non farle consultare... a meno che esse contengano fantasie e confessioni che gli eredi non vogliono che diventino pubbliche [18]!
E il fatto che Leopardi fosse benissimo capace di scrivere apertamente di omosessualità lo rivelano tre appunti dallo Zibaldone, in data 1821 e 1824 che, a mio parere, documentano il tormentato tentativo del giovane Leopardi di venire a patti con una certa parte di sé.
Il primo appunto, con tono falsamente asettico, anzi cosparso di qualche debita esecrazione, nota come l'amore vero, per l'antichità, fosse quello omosessuale:

"Il vantato amor platonico, sì sublimemente espresso nel Fedro, non è che pederastia.
Tutti i sentimenti nobili che l'amore ispirava ai greci, tutto il sentimento loro in amore, sia nel fatto sia negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia, e negli scritti di donne (...) all'amor di donna verso donna.
Basta conoscere un sol tantino la letteratura greca da Anacreonte ai romanzieri, per non dubitar di questo, come alcuni hanno fatto" [19].
Subito dopo queste righe, forse temendo di essersi spinto troppo in là, Giacomo aggiunge un'altra noterella:
"Forse all'esuberanza di vita si può attribuire la grande universalità della pederastia nella Grecia (...) mentre fra noi bisogna convenire che questo è un vizio antinaturale, un'inclinazione che il solo eccesso di libidine snaturante i gusti e l'inclinazione degli uomini, può produrre" [20].
Sul tema Giacomo ritornò infine nel 1824, ribadendo i due corni del dilemma:
"Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame (...); non fu solo propria de' barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo (lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono d'amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlare di questo siffatto" [21].
Per Leopardi ventitreenne e poco più, insomma, l'omosessualità è quella cosa che è nobilissima fra gli amatissimi greci, ma che oggi è sordida e turpe.
Come risolvere la contraddizione?
Forse amando "castamente" gli uomini (ad esempio Ranieri) ma negandosi il sesso. O forse come milioni di omosessuali di tutti i tempi: prima cedendo ai sensi, e poi vergognandosi di quel che s'è fatto. O forse ancora in altro modo, che solo le carte inedite degli eredi Leopardi possono svelarci, o che al contrario non sapremo mai...
Purtroppo Leopardi divenne, già in vita, una sorta di "santino patriottico", una gloria nazionale italiana sulla quale era consentito dire solo "bene". Ci manca perciò nel suo caso il "pettegolezzo storico" che di solito emerge, magari decenni dopo i fatti narrati, da lettere, diari, memorie di contemporanei. "Spettegolare" sulla sua vita sessuale sarebbe stato sacrilego [22]; l'unico che osò farlo, Ranieri, fu costretto a dire e non dire.
Eppure sono convinto che una lettura in ottica gay delle opere del Leopardi vada fatta.
A ben pensarci, cos'è "Il sabato del villaggio" se non la lamentela di chi vede "la gioventù del loco" (etero) che "mira ed è mirata", mentre lui è escluso dalla festa d'amore?
E cos'è "Il passero solitario" se non l'espressione dell'isolamento d'ogni omosessuale che si sente "unico al mondo"?
Forse i documenti più significativi della condizione omosessuale del Leopardi sono proprio lì, sotto gli occhi di tutti: sono le poesie che abbiamo studiato dalle elementari in poi.
Ci hanno raccontato che Leopardi fu solo perché era gobbo. Balle. Era se non ricco benestante, era nobile, era stimato: una donna che lo sposasse, in un'epoca in cui il matrimonio era ancora visto come un affare economico, l'avrebbe trovata, se l'avesse voluta.
Invece insistette a far la corte a donne o sposate o "impossibili".
Tipica strategia per non essere reciprocato...
Solo se Antonio, il bell'Antonio, avesse accettato di sposarlo, la sua vita avrebbe potuto essere davvero diversa...

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