L'amore platonico nella trattatistica rinascimentale

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Testo

L’amore Platonico nella trattatistica rinascimentale

Introduzione

Nella trattatistica rinascimentale l’argomento dell’amore, più precisamente l’amore platonico, fu molto dibattuto.
Nel secondo Quattrocento, infatti, assistiamo alla diffusione della filosofia platonica e neoplatonica per opera di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.
Quest’ultimo utilizzò la villa di Correggi,
donatagli da Cosimo de Medici nel 1462, dapprima per tenervi discussioni filosofiche e in seguito per consacrarla a sede dell’Accademia Platonica.
Inoltre sia Ficino, nella “Theologia platonica”, che Pico della Mirandola, dedicarono parte della loro produzione scritta alla filosofia.
Le dottrine neoplatoniche riprese dagli umanisti, imbevute profondamente dall’ideologia cristiana, consideravano tutta la realtà che ci circonda emanazione di Dio.
L’uomo, nello specifico, è considerato un microcosmo che ha in sé tutte le caratteristiche del macrocosmo, quindi sia quelle terrene che divine.
Il compito dell’uomo è quindi, secondo il pensiero espresso sia dal Bembo negli “Asolani” che dal Castiglione nel quarto libro del “Cortegiano”, quello di liberarsi delle sue scorie terrene ed ascendere a Dio.
In questo contesto si inserisce la visione dell’amore, che, come nel Simposio platonico, è considerato un mezzo per raggiungere il divino.Sia le teorie espresse dal Bembo che dal Castiglione partono da questo presupposto fondamentale, anche se la critica ha individuato nell’opera del Bembo un’accentuazione della dimensione mistica prevalente sulla visione dell’uomo nella sua totalità, anche corporea, che invece è considerata dal Castiglione.
Per comprendere questa differenza sostanziale analizzeremo un testo del Castiglione tratto dal quarto libro del Cortegiano,
dove Pietro Bembo, nei capitoli 51,52 e 68, espone la tematica amorosa.

Analisi dei capitoli 51,52 e 68 del Cortegiano

Nel capitolo 51 egli definisce l’amore come desiderio di bellezza:
“Dico adunque che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, amor non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza…”.
Successivamente parla dei vari modi in cui l’uomo aspira alla bellezza.
La prima forma di conoscenza di essa è il senso, che gli uomini hanno in comune con gli animali e dal quale consegue l’appetito:
“Dal senso nasce l’appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti”.
La seconda forma di conoscenza è l’intelletto, che stavolta gli uomini hanno in comune con gli angeli: “…dall’intelletto, per lo quale l’uom po communicar con gli angeli, nasce la voluntà”.
Esisre poi una terza forma di conoscenza, ovvero la ragione, che implica la scelta tra l’abbassamento all’amore dei sensi e l’elevazione a quello dell’intelletto, poiché l’uomo è posto in mezzo a queste due nature: quella angelica e quella animale.
Infatti dice il Castiglione: “L’omo, di natura razionale, posto come mezzo fra questi due estremi, po per sua elezione, inclinandosi al senso o vero elevandosi allo intelletto, accostarsi ai desideri dell’una or dell’altra parte”.
Ma come la contemplazione della bellezza può condurci al divino?
Bembo, nel capitolo 52, definisce questa caratteristica, che noi ritroviamo nei corpi e nei volti umani e che si ricollega all’ideale di simmetria e proporzione rinascimentale, un “riflesso di Dio”: “Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della vontà divina…”.
Dunque per il Castiglione la bellezza corporea non è condannabile in sé, ma quando fa analizzare al Bembo il primo livello di conoscenza, quello dei sensi e dell’appetito carnale, spiega che l’uomo che si ferma ad esso va incontro a due gravi inconvenienti.
Il primo è quello di provare fastidio verso il partner una volta consumate le proprie voglie, poiché si rende conto che ciò che gli appetiti animaleschi gli hanno fatto considerare una cosa giusta in realtà è sbagliata:“..subito che son giunti al fin desiderato, non solamente senton sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata”.
Il secondo inconveniente dell’amante sta nel non essere mai sazio e continuare a provare lo stesso desiderio, poiché quello non era veramente il fine a cui aspirava: “o vero, restano nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti veramente al fine che cercavano”.
Proprio su questo punto insiste Bembo, dicendo che “dal possedere il bene desiderato nasce sempre quiete e satisfazione nell’animo del possessore” , dunque ciò che l’uomo veramente cerca non è la bellezza carnale.
Il livello più alto di conoscenza rispetto al primo, a parere dell’umanista, consiste nella contemplazione non della bellezza di un corpo solo, ma in quella di tutti i corpi, al fine di giungere all’idea stessa della bellezza, definita in questo caso “universale”.
Quando l’uomo sarà giunto a questo gradino, potrà volgere i suoi occhi alla visione della bellezza angelica e poi Divina, anche attraverso lo studio assiduo e costante della filosofia, che permette di distaccarsi dalle cose terrene:
“…però l’anima, aliena dai vicii,purgata dai studi della vera filosofia[…] apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano, e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la vera immagine della bellezza angelica”.
Colui che s’innalza a questo tipo di visione della bellezza, però, la contempla col suo solo intelletto e dunque non può ricevere che un’ombra della bellezza universale e divina: allo stesso modo della contemplazione di un solo corpo che diviene contemplazione di tutti i corpi, così anche la contemplazione del divino raggiunge il suo culmine e l’uomo va ad unirsi completamente alla natura angelica a cui anela, tanto da non aver più bisogno della ragione per scegliere a quale tipo di bellezza accostarsi.

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