ITALO SVEVO, Pseudonimo d'Ettore Schmitz

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Testo

ITALO SVEVO
Svevo, Italo Pseudonimo d’Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di Livenza, Treviso 1928), scrittore italiano, di padre renano e di madre italiana; e scegliendo questo pseudonimo, egli vuole indicare la stretta unione fra tradizione italiana e tedesca che dichiara di avere in comune con Trieste. La cui opera costituì un momento di passaggio tra le esperienze del decadentismo italiano e la gran narrativa europea dei primi decenni del Novecento. La coscienza di Zeno, in particolare, avrebbe influenzato la narrativa italiana degli anni Trenta e del dopoguerra. Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come Trieste, allora parte dell'impero austro-ungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Trieste era considerata una città aperta, per la sua posizione geografica e politica. Abitata da diversi gruppi etnici: oltre agli italiani, in maggioranza, sono numerosi gli slavi e i tedeschi, ebrei, croati, greci e levantini. Linguisticamente l’unità è costituita dal dialetto triestino, ma la campagna circostante parla sloveno e la lingua ufficiale, quella della burocrazia è il tedesco. L’identità di Trieste è quella di una città borghese, dedita ai commerci. Al centro di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall'altra, l'interesse per i maestri del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori russi quali Gogol', Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij e Čechov.Parlando de “La Coscienza di Zeno” è Svevo a notare come alla lettura di Freud fosse stato spinto dal fatto di vivere in Austria, dove operava l’inventore della psicoanalisi. Svevo compì o approfondì queste letture nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro d’impiegato in banca, iniziato nel 1880 dopo il fallimento della ditta paterna. Intanto collaborava come critico teatrale e letterario a "L'indipendente", giornale triestino sul quale nel 1890 comparve a puntate la sua novella "L'assassinio di via Belpoggio". La sua esperienza d’impiegato gli ispirò la prima opera pubblicata in volume, Una vita (1892). Il romanzo, che portava in origine il titolo "Un inetto", è incentrato sul personaggio di Alfonso Nitti, incapace di adattarsi alle leggi e all'ambiente dell'ufficio e infine sconfitto dalla sproporzione tra le alte aspirazioni (la pubblicazione di una grande opera, il successo in società) e la sua incapacità di tradurre l'ideale in azione. Il romanzo successivo porta il titolo Senilità (1898), dove il riferimento non è al dato anagrafico bensì alla patologica vecchiaia psicologico-morale di Emilio Brentani. Questa seconda figura sveviana dell'"inetto" è circondata da altri personaggi che acquistano nuovo spessore rispetto al romanzo precedente: la sorella Amalia, malinconica e "incolore"; Stefano Balli, scultore di poca fama ma uomo energico nella vita e fortunato con le donne; e la procace, sensuale ed esuberante Angiolina. Emilio, letterato di scarso successo, prende a modello l'amico Balli e, nel tentativo di riscattare la mediocrità e il grigiore della propria vita, intreccia con Angiolina una relazione che si rivelerà fallimentare per l'incapacità di Emilio di tradurre in pratica la lezione dell'amico e per la tenacia con cui proietterà nella donna i propri sogni idealizzanti.
L'insuccesso dei primi due romanzi indusse Svevo a circa vent'anni di silenzio letterario, ma, nonostante le responsabilità imposte dalla sua nuova posizione di dirigente nella ditta di vernici del suocero, Svevo non cessò del tutto di coltivare la letteratura, come testimoniano alcuni suoi racconti: l'inizio della stesura della Madre, ad esempio, risale al 1910, sebbene il racconto sia stato pubblicato postumo, nel 1929, nella raccolta "La novella del buon vecchio e della bella fanciulla"; e prima del 1912 si colloca anche la scrittura di alcune delle prose brevi raccolte nel volume “Corto viaggio sentimentale”, pubblicato nel 1949.
Dissesti familiari indussero lo Svevo ad impiegarsi prima in una banca, poi nell’industria di vernici sottomarine dei parenti della moglie. Lo scarsissimo eco ottenuto dai primi componimenti lo dissuase addirittura dal continuare a comporre. Tuttavia, proprio in questo lungo corrucciato silenzio, egli maturò dentro di sé i suoi temi, e arricchì la sua cultura assorbendo a fondo lo spirito del decadentismo europeo; notevole importanza ebbe la relazione con James Joyce, che allora dimorava a Trieste, dal quale nel 1903 prese lezioni d’inglese, con il quale rimase sempre in amicizia, e il quale, più tardi si fece primo banditore della fama dell’amico italiano. Nell’opera di Svevo troviamo la coscienza tragica della crisi che caratterizza la civiltà del Novecento, la meditazione sull’impotenza dell’uomo, sulla senilità, sulla morte, sulla propria “indifferenza per la vita”. Fu durante la prima guerra mondiale che Svevo cominciò ad elaborare La coscienza di Zeno (1923), unanimemente considerato il suo capolavoro. In questo romanzo l'autore sviluppa un'analisi psicologica di straordinaria profondità e costruisce tecniche narrative modernissime, soprattutto per la tradizione del romanzo italiano. La prima pagina, scritta nella finzione letteraria dallo psicoanalista di Zeno, presenta la narrazione come un'autobiografia del paziente, una rievocazione del passato richiesta dal medico come tappa preliminare alla terapia analitica. Attraverso la rappresentazione interiore della nevrosi del protagonista e narratore, l'autore riesce a rendere la soggettività del pensiero e dei ricordi, in una narrazione che appare ormai quasi completamente svincolata dalle convenzioni realistiche ottocentesche. Ma la novità di Svevo sta anche nella sua dissacrante ironia, nella costruzione di un protagonista radicalmente antitragico e antieroico.
Furono Eugenio Montale e Joyce ad avviare la "scoperta" di Svevo, il primo pubblicando nel 1925 Omaggio ad Italo Svevo sul periodico milanese "L'Esame" e il secondo parlando dello scrittore triestino agli amici Benjamin Crémiex e Valéry Larbaud, che nel 1926 dedicarono a Svevo un numero della rivista parigina "Le Navire d'Argent". Tuttavia la fortuna critica ebbe consacrazione ufficiale un anno dopo la morte dello scrittore - avvenuta in un incidente automobilistico - con un numero speciale dedicato a lui dalla rivista fiorentina di letteratura "Solaria".

RAPPORTO CON LA PSICANALISI
Svevo non condivise pienamente le teorie freudiane, accettandone solamente quelle che confermavano quanto lui già pensava della psiche umana; il suo rapporto con la psicanalisi può essere definito duale, infatti, da un lato egli ne fu affascinato, poiché n’apprezzava l'attenzione riservata ai gesti quotidiani più banali (lapsus, vuoti di memoria.); d'altro canto Svevo fu turbato dalla psicoanalisi, perché l'analisi dell'inconscio spesso porta il soggetto a prendere coscienza di verità rimosse, e quindi molto sconvolgenti, ma anche perché diffidava della possibilità di guarire le malattie psichiche con qualsiasi mezzo. Per questi motivi Svevo decise di seguire la teoria psicoanalitica non tanto come terapia medica ma come mezzo letterario; l'analisi psicologica diventa l'argomento principale dei suoi romanzi, e questa analisi è resa dal punto di vista letterario con il "flusso di coscienza", reso grazie alla tecnica del monologo interiore che consiste nel narrare le idee del personaggio così come si presentano alla sua mente, senza cercare necessariamente un legame logico fra le cose narrate, ma raccontando per "associazione d’idee", come avviene realmente nella nostra psiche. Un altro elemento che Svevo rese dalle tesi di Freud fu la coscienza della complessità della psiche umana: ogni singolo individuo è quello che è e causa delle innumerevoli esperienze che ha vissuto durante la sua esistenza, e fra queste un ruolo fondamentale lo ha la società per questo motivo Svevo analizza la società a partire dalla psiche dei suoi personaggi e può quindi criticarne i difetti, cosciente del fatto che essa non dice sempre la verità e possiede degli aspetti di cui il soggetto non ha piena padronanza.
Proprio l’episodio del funerale di Guido (nella “Coscienza di Zeno”) e l’errore compiuto da Zeno, che segue un feretro sbagliato, rappresentano il culmine della lunga serie di dimenticanze, lapsus e atti mancati che scandiscono il racconto di Zeno e che devono essere ricondotti all’analisi di Freud. Si può osservare che Svevo consideri Freud più interessante da un punto di vista “letterario” che “medico”.

RAPPORTO CON LA SOCIETà
Il nome "Italo Svevo" è uno pseudonimo creato da Ector Schmitz per due motivi: distinguere l'impiegato (Ector) dal letterato (Italo), ma soprattutto per evidenziare la multietnicità delle sue origini, egli, infatti, unì in sé le culture italiane, tedesca, ebrea e slava. Questa sua peculiarità gli permise di conoscere e apprezzare diverse culture, ma a ciò contribuì anche la città in cui egli visse: Trieste, appartenente all'Impero Austro-Ungarico, ma al confine con l'Italia e la Jugoslavia, un crocevia commerciale e culturale. Trieste ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di Svevo, ispirando e limitando al tempo stesso il suo modo di vedere la vita e l'arte: fu ispiratrice fornendogli diverse culture cui fare riferimento e fornendogli anche una serie di problematiche su cui riflettere, ma lo limitò, appunto perché le problematiche che offriva potevano essere capite solo se viste entro i limiti di Trieste stessa, caratterizzata da un forte provincialismo. Nello studio di Svevo non bisogna però sottovalutare un altro aspetto importante: il suo ebraismo, Italo fu ebreo fin dalla nascita, ma questa sua fede non appare nelle sue opere, quasi come se egli nello scrivere rinunciasse ad una parte fondamentale di sé, risultando meno vero da un punto di vista artistico; in realtà Svevo non nascose il proprio ebraismo, egli era talmente amalgamato nella cultura triestina, si sentiva talmente accettato in un clima culturale così aperto, da non aver bisogno di sottolineare quest’aspetto della sua vita. In realtà, osservando bene, si possono sì scorgere nelle opere di Svevo alcuni elementi che potrebbero richiamare il suo ebraismo: la passività, l'inettitudine e la femminilità dei suoi personaggi, tutti ritratti tipici della psicologia ebraica.

TEMATICHE DEI ROMANZI
Le opere di Svevo furono inizialmente dei grandi fallimenti, forse perché andavano contro i gusti del tempo, stimolando i lettori ad osservarsi, confrontarsi con personaggi scomodi, perché mostrano difetti e problemi comuni a tutti.
Il periodo in cui Svevo scrisse era caratterizzato da una profonda crisi sociale (la "crisi delle certezze"), dovuta alla perdita d’importanza del positivismo e alla crisi della borghesia. Egli decise di parlare e descrivere l'uomo in crisi, così com'era, dandone un'immagine in cui gli uomini del suo tempo obbligati a riflettere su se stessi non amarono rispecchiarsi.
La tipologia che ne emerge è quella dell'"inetto", che costituisce il tema cardine di tutta l'opera sveviana, in pratica dell'uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti.
L'inettitudine dell'uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da lei come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e del successo personale. Questo non riuscire ad adattarsi alla società diventa negli individui una vera impotenza psicologica, perché non riesce più ad identificarsi con la figura vincente tipica della borghesia, e si auto-esclude, rifugiandosi in mondi fittizi (grazie alla letteratura) e vedendo in ogni altro uomo un antagonista. L'inetto diventa dunque colui che sa osservare il mondo dal di fuori, e può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo guidano, e per questo diventa un personaggio positivo, grazie al quale si possono dedurre gli elementi negativi della vita. Svevo sostiene che i veri malati sono coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza e che non sanno analizzare se stessi, pertanto il confine fra sanità e malattia si assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto ad una generale degradazione. L’individuo scopre di possedere aspetti di cui neanch’egli è pienamente cosciente, tutto ciò rende il soggetto "multisfaccettato" e non più unico, ma è questa sua complessità che lo rende degno di interesse letterario.

L’IDEOLOGIA POETICA
L’autore vuole fornire una rappresentazione della solitudine e dell'aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. Della vita dell'uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell'agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l'alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una "malattia mortale" che corrode non solo i singoli individui, ma l'intera società borghese, per cui non c'è alcuna speranza che la situazione possa migliorare. Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell'inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo. Svevo s'interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui il protagonista dell'ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento.

LA LINGUA E LO STILE
La prosa di Svevo è caratterizzata da costrutti e da vocaboli estranei alla lingua italiana e da “durezza” espressiva che suscitano delle riserve nei lettori, egli deve essere analizzato facendo riferimento alla sua particolare formazione linguistica nel contesto triestino. A Trieste i ceti borghesi parlavano un dialetto di origine veneta nella vita quotidiana e usavano il tedesco per l’attività economica e i rapporti amministrativi con l’impero austro-ungarico. La sua formazione si manifesta nelle opere con l’oscillare da un repertorio lessicale ricercato e libresco all’uso del parlato, in cui ricorrono germanismi, dialettismi, termini di carattere burocratico-commerciale. A modelli toscaneggianti si alternano costruzioni di derivazione tedesca. Gli studi critici più recenti concordano tuttavia nel riconoscere che il “barbarismo linguistico” di Svevo non diminuisce la sua efficacia espressiva ma, tranne in pochi casi, la esalta. Il linguaggio diventa infatti strumento per una rappresentazione immediata, disadorna e impietosa di quanto si presenta o accade nell’animo del protagonista.

“LA COSCIENZA DI ZENO”
“La coscienza di Zeno”, nel quale il protagonista, Zeno Cosini, ormai vecchio a prepararsi ad una cura psicanalitica, richiama a se in un apparente disordine la sua vita sebbene quale si rivela e si fa nel momento in cui viene rivissuta, intrecciata indissolubilmente al presente. Zeno non è che “La coscienza di Zeno”, e la sua vita è quell’intreccio di presente e passato, quel fondersi e riflettersi di ogni atto proprio e altrui in un gioco di stati di coscienza ogni volta diversi. Questa concezione nuova dell’uomo si accompagna in Svevo ad una sfiducia acuta nella razionalità della storia e del mondo, e quindi a quel senso di solitudine e di “alienazione” , come si è detto più tardi , che caratterizza la letteratura del Novecento. Appunto perché la crisi di Zeno è esistenziale, vi è il senso, nel libro, di uno sconvolgimento universale, nel quale siamo tutti travolti e che dovrà sfociare un giorno in una catastrofe cosmica. In base alle novità di psicologia e di concezione Svevo innovò i suoi mezzi espressivi, appoggiandosi soprattutto al monologo interiore: il filo della narrazione si spezza e si riannoda continuamente, i piani narrativi s’intersecano nei modi più vari, presente e passato si scambiano le parti, episodi oggettivamente di scarsa importanza acquistano un rilievo insolito e divengono emblematici di una psicologia e di una vita.
Non è Zeno che somiglia a Svevo, ma l’autore che si cala nei panni del suo personaggio fino a imitarne i gesti, fino a confondersi con lui.
“La Coscienza di Zeno” è costituita da otto capitoli, di cui i primi due, la Prefazione e il Preambolo, hanno carattere introduttivo. Il romanzo ha la forma dell’ autobiografia che Zeno Cosini, io narrante, scrive su sollecitazione del suo psicoanalista, il dottor S.
Nella Prefazione la voce narrante è rappresentata dal dottor S, che introduce il racconto autobiografico che il suo paziente ha scritto come preludio alla terapia psicoanalitica.
A partire dal Preambolo il narratore è Zeno, che racconta i primi tentativi di attuare il compito assegnatogli dal medico.
Il terzo capitolo (il fumo) è dedicato al rapporto di Zeno con il fumo, ai suoi tentativi di smettere e al rituale dell’”ultima sigaretta”, che accompagna le ricorrenze della vita del protagonista.
Nel quarto capitolo (la morte di mio padre) Zeno affronta l’avvenimento più importante della vita, la morte del padre appunto, che giudica una vera catastrofe. Zeno, infatti, si trova davanti a un avvenimento immutabile che lo costringe a lasciare la condizione filiale. Rievoca quindi il difficile rapporto con il genitore, oscillando tra un atteggiamento reale di conflitto con il padre e ostentate dichiarazioni d’affetto, e ne delinea un ritratto negativo: il padre appare al figlio come un debole a cui questi contrappone la propria forza. Il racconto della morte costituisce l’episodio centrale del capitolo.
Zeno sentendo un bisogno indeterminato di “rinnovamento”, pensa al matrimonio come al modo per acquistare la salute (è questo il tema del quinto capitolo, La storia del mio matrimonio). Frequentando la Borsa conosce Giovanni Malfenti , un ricco commerciante dalla salute ferrea, che gli appare come un perfetto lottatore e che diventa per lui un sostituto del padre. Invitato in casa Malfenti , conosce le figlie ( Augusta, Alberta Ada e la piccola Anna). Decide di dichiararsi ad Ada, ma viene respinto; chiede allora in moglie Alberta, ma anche con lei fallisce; alla fine rivolge ad Augusta la frase che aveva preparato per Ada: si ritrova così fidanzato e poi sposato.
Nel sesto capitolo (la moglie e l’amante) Zeno, dopo il matrimonio, vede in Augusta il ritratto della perfetta salute, che spera di conquistare sotto la sua guida. Decide di mettersi a lavorare, ma deve smettere perché si trova in conflitto con l’Olivi, che secondo il testamento del padre amministra la sua azienda. Zeno conosce una giovane povera, Carla Greco, che aspira a diventare una cantante e ne diventa l’amante . Il rapporto con Carla riattiva i rituali relativi al fumo: Zeno si propone a ogni incontro che sarà l’ultimo, in questo modo sentendosi innocente. Carla non si accontenta di un rapporto saltuario, ma Zeno rifugge dai tentativi della ragazza di legarlo a sé e questa decide infine di abbandonarlo, sposando il suo maestro di canto.
Zeno racconta poi il suo impegno nel mondo del lavoro (settimo capitolo: La storia di un’associazione commerciale): egli accetta di collaborare all’attività commerciale di guido Sperier, un tempo suo rivale nel corteggiamento di Ada e adesso suo cognato, avendo infine sposato proprio Ada. Gli affari vanno male e Guido si suicida; Zeno si dimentica del funerale, arriva tardi alla cerimonia e segue un feretro sbagliato, suscitando i rimproveri di Ada, che lo accusa di aver sempre odiato Guido. Zeno gioca in borsa e in breve recupera gran parte delle perdite.
Nell’ultimo capitolo (Psico-analisi) al racconto del passato secondo il criterio tematico si sostituisce la forma del diario, che va dal 3 maggio 1915 al 24 marzo 1916. Zeno dichiara di essere in procinto di interrompere la cura. Egli nutre un grande risentimento nei confronti del dottor S, che gli ha diagnosticato il complesso edipico; dopo sei mesi di cura, respinge la diagnosi e conclude cha la cura è fallita perché la esperienze vissute sono irreversibili e, nel tentativo di rievocarle, sono falsificate dalla memoria. Nelle ultime sue annotazioni, il 24 marzo 1916, Zeno afferma di non aver più bisogno di cure; durante la guerra ha imparato l’arte di comperare e il successo nel commercio l’ha guarito. Non è lui, Zeno, ad essere malato, ma è la vita che “somiglia” alla malattia. La vita attuale è inquinata alle radici: l’uomo, sottrattosi al suo naturale processo di evoluzione, inventa gli ordigni al di fuori del suo corpo. Ma lo sviluppo tecnologico ha carattere distruttivo e causerà la fine della terra e il suo ritorno alla forma di nebulosa.
“La coscienza di Zeno” è un titolo che può avere valore referenziale indicando così l’argomento dell’opera che è l’analisi della vita psichica del protagonista, oppure può essere interpretato come espressione dell’ambivalenza nei confronti della psicoanalisi che caratterizza il romanzo: Zeno non è curato dalla psicoanalisi, ma dalla sua coscienza, ovvero dalla consapevolezza di se e della sua condizione di “malato”. Il titolo può essere letto in chiave antifrastica, quindi come “L’incoscienza di Zeno”, che equivale a “cattiva coscienza”, allusione alle motivazioni ambigue con cui il protagonista giustifica i propri comportamenti.
“La coscienza di Zeno” rappresenta una violazione costante delle strutture tipiche del romanzo ottocentesco: l’unità psichica del personaggio, lo svolgimento temporale, il rapporto tra gli avvenimenti e le cause che li determinano. La soppressione del nesso causa /effetto è la regola nel comportamento di Zeno: poiché vuole smettere di fumare, fuma; chiede la mano di Augusta perché non vuole andarsene da casa Malfenti senza essersi fidanzato; non uccide Guido per non essere disturbato nel sonno dal rimorso. Zeno fornisce molte giustificazioni delle sue azioni, ma tutte le volte è chiaro che le cause addotte non sono quelle reali, che vengono occultate. La rappresentazione della vita è destinata all’incompiutezza; Zeno afferma: “ Ricordo tutto, ma non intendo niente”. L’autobiografia terapeutica dovrebbe chiarire e ordinare le esperienze e i momenti significativi della sua vita ma in realtà li scompone e li altera.

TECNICA NARRATIVA
I ricordi del narratore sono presentati non secondo un nesso temporale, ma tematico. Nell’autobiografia si alternano il racconto e la riflessione; all’avvicendarsi della narrazione e dell’autoanalisi del protagonista corrisponde l’uso di due livelli temporali: i tempi storici per la rievocazione e il presente per il commento del protagonista. In realtà nell’analisi della coscienza coesistono vari livelli temporali: il passato dei fatti, l’eco che hanno avuto e hanno nella coscienza stessa, il presente della narrazione, il condizionale che segnala il possibile giudizio o il dubbio. Svevo ha definito questa mescolanza dei tempi grammaticali “tempo misto” perché, mentre pretende di recuperare gli avvenimenti trascorsi, il lavoro della memoria li trasforma attraverso il desiderio e li reinterpreta alla luce delle nuove esperienze. Il fatto che sia Svevo a smascherare i propri autoinganni e non una voce esterna ha un significato rilevante, in quanto implica la negazione di un punto di vista oggettivo e l’impossibilità di una verità certa. Nel racconto di Zeno i pensieri/ricordi sono organizzati secondo un criterio razionale. Il monologo di Svevo si differenzia perciò dal “flusso di coscienza” dell’”Ulisse” di Joyce, che vuole riprodurre il fluire del pensiero secondo un ordine casuale che imita il procedimento delle libere associazioni.
L’ironia è prodotta nel romanzo attraverso vari espedienti, ma lo strumento privilegiato è la sproporzione delle motivazioni addotte da Zeno per i propri comportamenti: ad esempio quando, dopo essere stato rifiutato da Ada, prova l’impulso di uccidere Guido, suo rivale, egli afferma che è il timore dell’insonnia a impedirglielo. Vi è poi il fenomeno dell’autoironia che nasce dal fatto che Zeno si sforza di razionalizzare il suo comportamento e di darne una rappresentazione normale, pur essendo nello stesso tempo consapevole della propria mistificazione.
Nella coscienza l’ironia non riguarda solo Zeno: lo sguardo critico del narratore protagonista è rivolto anche al mondo che lo circonda, ai borghesi come il suocero, Guido, e la moglie Augusta, di cui invidia la salute, cioè le certezze esistenziali, ma per metterle in dubbio subito dopo.
Nella prefazione il dottor S. avverte che il racconto del suo paziente è intessuto di verità e bugie, fornendo così una chiave di lettura preventiva dell’opera. Ma come può il lettore distinguere le verità dalle menzogne di Zeno? E perché Zeno mente? Il testo è disseminato d’indizi rivelatori: le auto-giustificazioni del protagonista risultano spesso poco convincenti, oppure è l’abbondanza delle stesse a renderle sospette; segnali sono anche le negazioni, le ammissioni subito negate e infine le bugie vere e proprie, poi smascherate. L e bugie di Zeno corrispondono alla strategia di occultamento dei suoi impulsi inconsci negativi e perciò inconfessabili.

PERSONAGGI
Il protagonista di questa vicenda è Zeno Cosini, ricco commerciante triestino, bizzarro e intelligente, non troppo dotato di capacità pratiche, condannato a vivere con i proventi di un'azienda commerciale vincolata, per disposizione testamentaria del padre, all'amministrazione Olivi. È un malato, una persona che soffre autentici dolori fisici e conduce un'esistenza, se non sregolata, disordinata come dimostra il problema del fumo. Zeno è una presenza ridondante che occupa con le sue prodezze e lamentele la scena del romanzo. Zeno sa ridere di se stesso e si ritrova spesso , volontariamente o involontariamente, nella parte del giullare. Zeno si presenta esplicitamente come bugiardo. È una figura di inetto, molto particolare. Egli possiede particolari caratteristiche quali:il vizio inguaribile del fumo, le promesse non mantenute, l’ossessione per le “date speciali”, alle quali fa corrispondere un proposito, il desiderio di guarire da una malattia morale di cui non si conosce l’ origine. Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti. La sua rappresentazione rasenta la caricatura. Il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure. Il personaggio maschile che ha più rilievo per il nostro protagonista è il signor Malfenti, idealizzato da Zeno come il figura maschile ideale e padre delle tre donzelle tra le quali dovrà scegliere le sua futura consorte. Socialmente Zeno è un conformista cui è impedito di esprimere fino a fondo i propri gusti; da represso, ha sposato Augusta, dolce e paziente ma non bella, e reagisce con l'adulterio, causato da un interesse verso la cognata, Ada. Altri personaggi che appaiono nel romanzo sono le figure di Tacich corresponsabile dello spettacoloso dissesto commerciale del solfato di rame, di Guido odiato in quanto rivale, ma in fin di conti oggetto di una sorta d’invidia, dato che è bello, disinvolto e persino capace di suonare bene il violino. Carla l'amante usata cinicamente senza il minimo affetto, cui può essere addebitata soltanto la scarsa cultura e, s'intende una condizione sociale inferiore. Infine gli ultimi personaggi sono i medici: nessuno veramente umano e comprensivo, spregevoli quando dalla loro scienza pretendono di assurgere a giudici di questioni di vita e rivelano le proprie meschine propensioni e i propri egoismi; accettabili, rassicuranti e innocui, come nel caso del dottor Paoli , che diagnostica a Zeno, dopo scrupoloso esame di laboratorio che non ha il diabete.

LA MALATTIA
La malattia assume nelle opere di Svevo le forme dell’inettitudine, della debolezza, della volontà, della nevrosi. La definizione d’”inetti”, usata dallo scrittore stesso per i suoi personaggi vuole indicare il loro rapporto problematico e contraddittorio nei confronti dell’esistenza. Ne “La coscienza di Zeno”, che è stata definita il racconto non di una vita, ma di una malattia, il tema è annunciato fin dall’inizio: la Prefazione s’incarica di informare il lettore che il protagonista, Zeno Cosini, è vecchio e malato, e quindi bisognoso di cure. Nell’autobiografia che egli scrive per incarico del dottor S in preparazione della terapia psicoanalitica, la “malattia” ha un posto privilegiato. Quale sia la “malattia” di Zeno è in realtà difficile da stabilire, in quanto diverse sono le forme che assume nello svolgersi degli avvenimenti; il protagonista stesso, all’inizio del romanzo, ne anticipa l’impossibilità di una precisa definizione con un lapidario assioma: “la malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione”. Nel racconto a posteriori degli sforzi fatti per smettere di fumare, Zeno narratore rivela, anche se in forma di dubbio, la consapevolezza del conflitto interiore che gli ha impedito di abbandonare la sigaretta, nonostante il proposito, sancito dal rito dell’ultima sigaretta.
La malattia è il tema centrale de “La coscienza di Zeno”: fin dall’esordio il racconto del protagonista è presentato come il preludio a una cura e il protagonista stesso come malato; Zeno intrattiene il lettore sulla sua malattia, descrive i suoi sintomi, racconta gli incontri con i medici e la ricerca della salute. Ma qual è la malattia di Zeno? La risposta non è univoca, perché nel corso della narrazione, la sua identificazione cambia continuamente, così come si trasforma la definizione della salute. Nel terzo capitolo Zeno identifica la sua malattia con il vizio del fumo e si reca dal medico per avere conferma del veleno che inquina il suo sangue; il medico spiego che la sua vera malattia era il proposito, non la sigaretta. Zeno mette allora in pratica i suoi suggerimenti, ma senza riuscire a smettere di fumare. Nei capitoli successivi la malattia è identificata dal protagonista ora nei suoi comportamenti, ora nei disturbi fisici, che rappresentano la somatizzazione dei suoi conflitti. Mentre racconta la sua malattia, Zeno continuamente si confronta con coloro che gli stanno vicino e nei quali vede incarnarsi la salute. Zeno aspira alla salute intesa come normalità, ma non riesce a identificarsi totalmente come gli altri nella parte di borghese, buon padre e abile uomo d’affari.
Il rapporto di Zeno con i “sani” è dunque ambivalente: se all’inizio sembrano un modello da imitare, ben presto sono sottoposti a una critica impietosa e la loro salute si trasforma in debolezza. La critica del protagonista si esercita anche suoi medici cui sottopone i propri mali: tutti gli appaiono inadeguati al compito di curarlo, compreso lo psicoanalista, che viene abbandonato. Ma il desiderio di Zeno di guarire è più apparente che reale, anche perché la salute è un valore ambiguo, mentre la malattia è per Zeno la possibilità di conoscere la sua vera identità: “Soltanto noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi”.
La malattia di Ada risulta essere un pretesto per un ennesimo ritorno su questo tema e , come sempre, la malattia è in correlazione alla salute. La malattia di Zeno viene proiettata sullo sfondo di un’umanità per meta laboriosa e per metà inoperosa, in cui egli rappresenta il polo dell’inerzia. La salute è una sosta tra questi due estremi, cioè è identificata in un equilibrio instabile tra il dispendio e il risparmio delle energie vitali. Nel finale la malattia coincide con la vita stessa dell’uomo: la conclusione di Zeno è che non lui è malato, ma l’umanità intera per colpa dell’eccessivo sviluppo tecnologico.

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