Il tempo dell'attesa di Loretto Rafanelli

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Testo

Il tempo dell’attesa
di Loretto Rafanelli

Il tempo dell’attesa, per Rafanelli, è stato lungo, ma ne valeva la pena. L’autore manifesta la metamorfosi di una poesia che, pur conservando il suo inestinguibile cuore lirico, definibile come il suo “combustibile”, assume contemporaneamente, in modo non vistoso, ma radicale, la forma cangiante e fluente del poema. Nello specifico, questo profondo spirito poetico risulta particolarmente evidente nella terza raccolta di poesie, il cui titolo, E riconoscere le stelle, consente immediatamente di comprendere come lo scrittore voglia soffermarsi, dal punto di vista più simbolico che reale, proprio su quegli elementi che racchudono in sé centinaia di generazioni e costituiscono, pertanto, la nostra storia, la storia del mondo. In particolare, due risultano le opere sulle quali può essere utile ed interessante soffermarsi al fine di comprendere completamente il significato di tale affermazione. Nella prima poesia, La stella, l’autore, che esprime abbastanza chiaramente (anche se senza dichiarazioni dirette) la propria volontà di rimanere estraneo al campo della fisica, non classifica infatti la stella in qualità di corpo celeste risplendente di luce propria, bensì la identifica come testimone della memoria collettiva, che tuttavia viene trascurato, determinandone così la voce incrinata.
La stella
È come una voce incrinata
la stella che sbianca la notte
nel lontano vertice del cielo,
in una luminescenza reclinata
nella linea che pare uno squarcio.
Poi la pensi nei suoi capelli
di latte, nei fianchi che sono fina
neve del mattino, mentre
ti consegna il suo istante.
E ti accorgi che è come l’erba
fragile del prato novembrino,
col suo colore di cenere e il freddo
che si fa profilo di un buio
abbraccio. Nel suo passaggio
abbagliante c’è il lieve segreto degli anni,
il transito disarmato della fugace
volta rosata che scava.
La distante stella ora pare
un’ostia pietosa, o l’alba visitata
da un segreto o il colore infinito
dello stupore. O solo una lacrima
d’intesa, eppure abbandonata.
Malgrado questa iniziale e sintetica definizione, Rafanelli dimostra però le proprie difficoltà nel rappresentare realisticamente un fenomeno: da questa convinzione scaturisce quindi la decisione di conferire al testo un senso di pesantezza tramite termini quali sbianca, reclinata e squarcio, i quali, attraverso le coppie di consonanti che li compongono, rallentano e spezzano il ritmo della lettura. Trattando il problema della parola che non riesce ad esprimersi, è inoltre possibile richiamare alla mente il ricordo di due grandi poeti, come l’ottocentesco Leopardi ed il novecentesco Montale, che si erano anch’essi dedicati, come l’autore, alla contemplazione della Luna e delle stelle e, più in generale, allo studio ed alla descrizione della bellezza di una natura che rimane impassibile di fronte alle sofferenze ed ai drammi dell’uomo. In particolare, secondo il Leopardi, era necessario ammaestrare questa natura ostile raccogliendo ed apprezzando ogni minima felicità quotidiana. Di conseguenza, appare inevitabile ricollegarci al soggetto inizialmente trattato, la stella, inserendo questa stessa idea di addomesticamento all’interno del capolavoro dello scrittore francese Saint-Exupéry: Il Piccolo principe. In tale testo, infatti, poco prima della loro separazione, la volpe sorregge l’animo del ragazzo scegliendo una stella, la “sua” stella, come punto al quale fare riferimento, come per rivedere l’amico lontano, nei momenti di sconforto e tristezza. Si materializza così una forte contraddizione attorno a questo elemento naturale: all’idea di eternità ed infinito conferitagli dall’autore francese, si oppone infatti il concetto di transitorietà e brevità affibbiatogli da Rafanelli mediante il ricorso all’aggettivo fugace. Tuttavia, lo scrittore bolognese contraddice poi sé stesso qualificando il corpo celeste come il colore infinito dello stupore, definizione con la quale si realizza il collegamento con la poesia successiva, La campagna infinita, in cui le diverse sfumature di colore ricoprono un ruolo fondamentale. Alla distesa buia, che si può quindi esplorare solo poco alla volta e che è comparabile al ritmo della vita, caratterizzata da capolinea sparsi (momenti della giornata), si alternano infatti molti ricordi, rappresentati attraverso emozioni e sensazioni:
1) cenere nera: delusioni;
2) rossi chicchi di canto: speranze;
3) chiome antiche di sole: aspettative;
4) pallidi fuochi: pensieri più remoti di felicità passate. Nel dettaglio, il riferimento è alla stagione estiva, in cui, sebbene il vento costituisca la fine, un cambiamento è sempre possibile (…bagnarsi è possibile…), in modo tale da contrastare la monotonia dei nostri giorni.
Proprio in queste immagini è rintracciabile il tentativo dell’autore di superare la difficoltà circa la rappresentazione del reale, che in passato afflisse anche i simbolisti, ai quali Rafanelli si ispira per comporre la seconda poesia oggetto di analisi, intitolata Falò.
Falò
Se amore è il soffio di vento
nel lungomare lontano e il volto
è il pane dolce dell’offerta,
ricorda la mattina dei canti
nuziali, il saluto nei capelli
raccolti di quell’estate.
E tu chiedi chi ancora verrà
nella nostra terra, dove scenderà
lo sguardo, dove sarà l’acqua
della fonte. E amore ancora
si dirà nella sera dei falò
della calda stagione
che sfuma. Quando il lume si perde,
e quiete si chiede allo smarrito
passaggio che è muta falce.

L’autore decide qui un cambiamento di prospettiva: abbandona perciò l’ambiente naturale e gli elementi che lo caratterizzano per affrontare un campo ancora più arduo e complesso da studiare: il mondo dell’uomo e, soprattutto, dei suoi sentimenti. Egli riesce comunque ad infondere nei propri versi un senso di grande leggerezza: sembra quasi di sfiorare le parole, immagini intangibili, lontane ed evocate che costituiscono pertanto un’icona, ossia una rappresentazione simbolica. Interessante ed importante notare, a questo punto, come lo scrittore italiano sia convinto che la donna possa divenire un’effigie. Lo dimostra seguendo tre diversi percorsi: innanzitutto, all’interno di un contesto di ricordi circa luoghi e persone, identifica in oggetti (quali scialle e labbro) una persona, la donna, che è un modello; in secondo luogo, paragona il canto della madre al respiro, quindi alla vita, donandole una funzione quasi divina; infine, inserisce la donna all’interno del contesto matrimoniale, come descritto nella poesia che ci si accinge ora ad analizzare. Qui, il concetto di amore consente una doppia interpretazione, di cui la prima in opposizione con la seconda. L’amore può infatti essere considerato il soffio di vento che spegne il falò: di conseguenza, si perde il lume ed avviene il passaggio della muta falce, identificabile come il momento della morte e del lutto. D’altro canto, però, l’amore è presente anche nella scena del matrimonio, identificata tramite i canti nuziali ed il pane dolce dell’offerta, dalla quale si passa poi ai progetti del futuro, come la fame di conoscenza (…dove scenderà lo sguardo…) o il desiderio di procreare figli (…dove sarà l’acqua della fonte…). Nel corso dell’intera opera, lo scrittore ripropone più volte l’immagine della donna, raccontando la storia personale dell’individuo cui si riferisce:
1) durante la Shoa, la donna è memoria, ascolto e canto: possiede quindi qualcosa di importante che deve essere salvaguardato;
2) con la sua fragilità, la donna indica la precarietà dell’uomo sulla Terra, senza celare il suo inevitabile destino di morte;
3) evocatrice della bellezza e della storia, la donna costruisce e trattiene la memoria. Ella è il grembo della vita e, con la figura della Madonna, rappresenta il cardine della redenzione, la liberazione verso il cielo che l’uomo raggiunge molto raramente e che, insieme alla responsabilità della poesia, costituisce la risposta dell’uomo ai drammi ed alle sofferenze che lo affliggono;
4) malgrado la morte, con la donna sopravvive la bellezza e resiste l’amore oltre il confine della vita.
Infine, un ultimo riferimento alla donna è rintracciabile nella poesia Sorriso di donna, in cui ella è inserita in un contesto che conferisce alla vita una duplice valenza: infatti da un lato l’esistenza è paragonata allo scorrere di un fiume; dall’altro, invece, si cerca un aggancio con la realtà ed essa viene quindi collegata agli ospedali da campo, dove si materializza la pena del silenzio. La poesia, quindi, diventa racconto (in particolare nella seconda raccolta, inerente la guerra) ed assume le caratteristiche della prosa; si mescolano inoltre elementi realistici con riferimenti evocativi: il demone alato che rappresenta il terrore e la morte si ricollega infatti all’immaginario del mondo etrusco e la vicenda viene “mitizzata”. Per concludere, può risultare interessante studiare brevemente la poesia dal punto di vista metrico – strutturale. Soprattutto nella prima serie, la raccolta intitolata Memoria, è individuabile una struttura ciclica, consistente nel “ripescaggio” dell’ultima parola di una poesia nella prima frase della composizione successiva. Rafanelli vuole quindi dare continuità ad un contenuto che è sempre il medesimo, nel quale le parole più ricorrenti, come lutto, colpa e peccato, sono in contraddizione nel significato con pace: fatti ed esperienze negative contrastano perciò con la speranza di un’umanità ferita e sofferente. Le tragedie del mondo contemporaneo, la memoria autobiografica, mai privata, sempre esemplare, le fulminanti e carezzevoli visioni del cielo, fanno di questo libro una realtà poetica ricca e nuova, motivo di conforto e di speranza.

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