Giovanni Pascoli

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Testo

Giovanni Pascoli → Vita, Poetica ed Opere
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una “cavalla storna”, rievocata in una poesia (X Agosto), fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e le due sorelle: e la famiglia, composta prevalentemente di ragazzi, cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea (‘82), grazie ad una borsa di studio (’73) che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Su questo fatto importante egli ha lasciato una commossa rievocazione nel racconto “Ricordi di un vecchio scolaro”.
Certamente le vicende tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente sulla sua poesia.
Da professore insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, partecipando ai primi moti socialisti, fu trasferito a Messina. Ma non fu un ribelle, infatti non si dedico alla politica attiva, anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti.
Compose sin da quando era studente le sue opere, scritte soprattutto tra il 1876 e 1880. Scrisse numerose liriche, tra cui Romagna, uno dei componimenti più celebri. Il periodo più creativo e più intenso è tra il 1885 e il 1900 in cui compose le sue poesie più significative raccolte in : “Myricae”, una raccolta di centocinquantasei liriche nell’edizione definitiva.
Scrisse poi nel periodo in cui fu a Bologna come successore del Carducci nella cattedra di Letteratura Italiana (1885-1911) : Poemetti ampliati e sdoppiati in seguito in : Primi poemetti e Nuovi poemetti, i Canti di Castelvecchio, i Poemi conviviali, Odi e Inni, i Poemi Italici, le Canzoni di re Enzio, i Poemi del Risorgimento.
Da ricordare in particolare sono i poemetti in latino (Carmina) per i quali il poeta fu più volte premiato. Seppe fare del latino una lingua poetica viva, nella quale esprimeva la sua inquietudine di uomo moderno, la sua perplessità davanti al mistero e la sua ansia sempre delusa.
Accanto alla poesia, che non può essere definita in un’evoluzione, c’è la prosa suddividibile in : saggistica letteraria e discorsi di varia umanità.
Alla prima appartengono i volumi di critica dantesca, dei saggi molto impegnati, nei quali il P. propone una complessa chiave di lettura della Commedia, importante per la conoscenza del P. d’autori paralleli a Dante. Importanti sono anche i saggi leopardiani e manzoniani. Altrettanto importanti furono i saggi dedicati alle letterature classiche.
Il mondo classico, diviene per il P. una sorta di mondo primitivo, in cui i poeti vedono le cose per la prima volta, con lo stupore di fanciulli. Il Pascoli teorizzò questa sua concezione nella celebre prosa "Il Fanciullino", dove propose un’estetica di stampo simbolistico.
Alla seconda appartengono i discorsi (successive ripubblicazioni : Pensieri e Discorsi, Antico e sempre nuovo, Patria e umanità) i testi in cui viene illustrata la concezione pascoliana del mondo.
Infine è importante ricordare il discorso La grande proletaria s’è mossa, del 1911, pronunciato in occasione dell’impresa libica, ispirato a un vago socialismo umanitario e nazionalistico non contrario nell’approvare una guerra colonialistica, anche se il P. come altri socialisti appariva con idee incoerenti davanti al primo conflitto mondiale.
IL PENSIERO DI PASCOLI
Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento.
La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del "nido" familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.
La sua ribellione fu un senso di ripulsa e di avversione per una società, l’ingiustizia in cui era possibile uccidere impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse nella sofferenza e nella miseria.
Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo, delle meditazioni. E' l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.
L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto.
Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita.
Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi.
La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione, sicché la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.
LA POETICA
Pascoli usa ancora forme classiche come il sonetto, ma la sua poesia costituì la prima reale rottura con la tradizione. Al di là della sua apparente semplicità, è dalla poesia di Pascoli che genera buona parte della poesia del Novecento. Le numerose pause che generano spezzature all'interno del verso, oppure le frequenti rime sdrucciole che producono accelerazione; l'uso insistito delle onomatopee, la presenza di parole ricavate dalla lingua dei contadini così come da quella dei colti, l'introduzione di temi fino ad allora rifiutati dai poeti importanti, tutto concorre a produrre una poesia che è rivoluzionaria nella sostanza e nelle intenzioni più che nella forma esteriore.
Il poeta è, per Pascoli, colui che è capace di ascoltare e dar voce alla sensibilità infantile che ognuno continua a portare dentro di sé pur diventando adulto. La poesia scopre nelle cose rapporti che non sono quelli logici della razionalità e attribuisce ad ogni cosa il suo nome. Essa, senza proporsi direttamente scopi umanitari e morali, porta ad abolire l'odio, a sentirsi tutti fratelli e a contentarsi di poco, come avviene nei fanciulli.
Si può dire che la poetica del Pascoli è espressa sostanzialmente nell'opera: Il fanciullino.
“Vi è in tutti noi un fanciullo musico (il "sentimento poetico") che fa sentire il suo tinnulo campanello d’argento nell’età infantile, quando egli confonde la sua voce con la nostra” – non nell’età adulta quando la lotta per la vita ci impedisce di ascoltarlo (l’età veramente poetica è dunque quella dell’infanzia).
Infatti, è tipico del fanciullo vedere tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta; scoprire la poesia nelle cose, nelle più grandi come nelle più umili, nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le loro lacrime (la poesia la si scopre dunque, non la si inventa).
Il fanciullino è quello che alla luce sogna o sembra di sognare ricordando cose non vedute mai; è colui che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi alle nuvole, alle stelle, che scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose, che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alle nostra ragione (la poesia dunque ha carattere non razionale, ma intuitivo).
Il sentimento poetico, che è di tutti, fa sentire gli uomini fratelli, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro e ad abbracciarsi, per questo la poesia ha in sé, proprio in quanto poesia una suprema utilità morale e sociale. Non deve proporselo però, in quanto la poesia deve essere "pura", non "applicata" a fini prefissati; il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro.... La poesia ha una funzione consolatoria: fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato. E per questo il poeta è per natura socialista, o come si avrebbe a dire umano.
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
Myricæ (1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.
Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del 1891.
Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento: «Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane», scrisse il poeta nella Prefazione del 1894.
E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi "impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino).
Vi compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale - avvertito come paura e mistero - per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere).
Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle 156 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si apre con Il giorno dei morti, il giorno in cui il poeta si reca al camposanto.
Canti di Castelvecchio (1903) [Il gelsomino notturno - Nebbia]: raccolta in cui sono compresi e approfonditi i temi di Myricæ ma ha particolare incidenza il tema del nido familiare e delle memorie autobiografiche e compaiono parecchi componimenti di impianto narrativo; finito il vagabondaggio per la campagna di Myricæ se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino, entro i cancelli e entro il suo orto.
Il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte, si traduce ora in una sorta di allucinazioni, nel ricordo dei morti, ora nell’auscultazione di richiami impercettibili, ora nello sconfinamento dei ricordi -suggeriti ad esempio dal suono delle campane- ai limiti del preconscio. Sono trasalimenti dell’animo e simboli che però lievitano frequentemente da notazioni realistiche, espresse attraverso un discorso addirittura narrativo. Si può dire che nei Canti sta il punto del massimo compenetrarsi tra i due aspetti della poesia pascoliana: il simbolo e la realtà.
Poemetti (pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904 e Nuovi poemetti, 1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul modello delle Georgiche virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di Rosa per il cacciatore Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa, La piada, L’accestire).
Poemi Italici (1908): affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso riflesso di quello del nido) dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità, spogliato delle sue connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra la vita patriarcale che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della metropoli americana, tutta tesa agli affari e al successo. Il contrasto si risolve sul piano linguistico in un audace sperimentalismo.
A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo insistito, e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata definita «una poesia astrale», aperta a «voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco» (La vertigine).
Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista "Convivio" di Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il convito senza canto). Richiamano miti e figure del mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra, piange, perché non può più "guardare oltre, sognare"; così l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei figli non nati; e "l’odissea" di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia), ma verso l’orrenda morte.
Odi e Inni: contengono componimenti scritti a partire dal 1903. Pascoli qui assume il ruolo di poeta con il suo impegno etico, sociale e storico, politico nell’educare il popolo con una sorta di messaggio dettato appunto dalla poesia – celebra gli eroi nazionali, le realizzazioni del lavoro e della tecnica, le grandi esplorazioni;
Carmina: è la raccolta delle poesie latine di Pascoli pubblicate dalla sorella Maria;
ELEMENTI DELLO STILE
Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.
Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).
Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.
La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.
Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.
Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.
GIOVANNI PASCOLI
Il Pascoli pervenne al Decadentismo per istinto, non per influenze esterne, come si verificò per il D'Annunzio che fu sensibilissimo ad assimilare tendenze e mode straniere: egli visse in sé la crisi del Positivismo e da essa fu portata ad elaborare una visione del mondo e una poetica che rientravano, senza che se ne rendesse conto, nelle grandi correnti irrazionalistiche del suo tempo. fra i maestri del Decadentismo, il Pascoli ebbe solo una conoscenza superficiale di Poe e di Baudelaire.
gli elementi del Decadentismo pascoliano sono:
1) il senso smarrito dell'infinito e del mistero e la sensibilità a percepire le voci arcane provenieti degli abissi dello spazio o dalle zone profonde ed inesplorate dello spirito;
2) la concezione della poesia come rivelazione dell'ignoto;
3) il Simbolismo, ossia la tendenza a vedere la cose non nel loro aspetto realistico, ma come simboli o segni della realtà che è al di là di quella percepita dai sensi;
4) una certa fiacchezza di temperamento, che conferisce al suo pessimismo un tono querulo e femmineo, lontanissimo dalla virile malinconia del Leopardi e del Carducci.
Pascoli e D'Annunzio
Sono due poeti che, pur movendosi nell'ambito del Decadentismo, presentano notevoli differenze. Il Pascoli, come si è detto, ha una percezione ansiosa e trepida della solitudine, che lo porta ad unirsi agli altri e ad invocare la solidarietà degli uomini tra loro;
D'Annunzio ha una percezione orgogliosa e arrogante della solitudine che lo porta ad isolarsi e ad affermare sugli altri la propria superiorità di individuo eccezionale.
Inoltre il Pascoli ha un carattere riservato, schivo e introverso, che lo costringa e ad una vita raccolta e umbratile; D'Annunzio ha un carattere estroverso che lo porta ad assumere atteggiamenti teatrali e a compiacersi del bel gesto e del motto per attirare su di sé l'attenzione, o comunque per sottolineare la propria eccezionalità.
Da questa differenza di caratteri deriva la differenza della loro poesia. La poesia del Pascoli è intima e raccolta, tutta vibrante della vita interiore del poeta; quella del D'Annunzio è opulenta e lussureggiante, «disumana», nel senso che è volta ad esaltare la vita e le esperienze eccezionali del poeta, al di là del bene e del male.
Il Pascoli è «il fanciullino» che guarda il mondo con occhi stupiti e «vede» sotto il velo della realtà il palpito di una vita più profonda; il D'Annunzio, è sempre l'uomo d'eccezione, esperto di raffinatezze e volottà, è l'eroe-centauro, mezzo uomo e mezzo bestia, un mostro cioè di «Volontà, Voluttà, Orgoglio, Orgoglio, Istinto», le quattro ruote della «quadriga imperiale» sulla quale corre al vento la sua vita e la sua opera.
INTRODUZIONE PAASCOLI
Abbiamo accennato nel Profilo all'importanza che nell'ideologia e nella poesia del Pascoli ha il mito (tradotto in una metafora) del "nido". Esplicitamente nominato in questa lirica, il nido come caposaldo ideologico, come groviglio di legami tra i familiari viventi e tra questi e i loro morti ritorna in tante liriche di Pascoli (La voce, La cavallina storna, Romagna, Il nido dei farlotti, ecc.). Su questo argomento ha scritto Giorgio Barberi Squarotti:
Nella dissoluzione della società che non sa dare misura e valori e propone costantemente la volgarità o la pena, il dolore o il male, l'estremo e unico rifugio appare al Pascoli, appunto, il «nido» familiare, a cui partecipano, legati dagli affetti e dalle complicità irrazionali del sangue, i vivi e i morti della famiglia, costituendo il luogo caldo e accogliente di un rifugio (non idillico, tuttavia, mai) di fronte a una storia che presenta immagini d'orrore, d'oppressione, di morte, e di fronte a una condizione umana che è dominata dal terrore onnipresente della morte, che rende illusioni i gesti degli uomini, e ne segna d'inutilità ogni tentativo d'emergere, anche il male e il dolore inflitti (si leggano Nel carcere di Ginevra, Il Negro di Saint-Pierre, Al Re Umberto). I rapporti sociali si riducono al nucleo «privato», avulso da ogni contatto, che è il «nido» (e il simbolo ornitologico è proprio dal Pascoli insistentemente usato per indicare tale stato). Dapprima, il «nido» è esclusivamente quello familiare, popolato di pochi vivi e di un'infinità di morti dolenti e aggressivi (i maligni, aspri, insistenti, queruli morti familiari del Pascoli): fra i quali sono anche la madre, i fratelli, le sorelle, tutti ugualmente connotati dal pianto e da un inesauribile rancore: quello ferito a morte dalla malvagità degli uomini (Il giorno dei morti; accenni in Romagna; X agosto; La notte dei morti; La tovaglia; Il nido di «farlotti»). In essi domina, custode, la madre: che è la depositaria delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca il giovane figlio al rito crudele e inesorabile dell'investitura della vendetta contro l'assassino del padre (La cavalla storna), quella che viene con la «voce stanca, voce smarrita, Col tremito del batticuore» a rimproverare più che a confortare il figlio tentato di morire.
L'ASSIUOLO
L'assiuolo è un rapace notturno (in Toscana detto popolarmente "chiù" per il verso che emette) spesso presente nella poesia di Pascoli e generalmente sentito - come d'altra parte nella tradizione popolare - quale simbolo di tristezza e di morte. Il suo verso inquietante scandisce la lirica e via via si carica di valenze simboliche: dall'iniziale «voce dai campi» (v. 7) diventa «singulto» (v. 15) e infine «pianto di morte» (v. 23). Come primo avvio alla lettura di questa lirica tramata di sottili rapporti ci sembrano pertinenti queste osservazioni di E. Gioanola e I. Li Vigni: «Siamo alle soglie dell'alba un'alba di luna - e il lugubre grido dell'assiuolo, annunciatore di morte nella credenza popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti, tutte più o meno riferibili alla realtà, ma travolte nella loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte vento d'angoscia. E naturalmente i versi, che nascono su un materiale così poco coordinato come quello onirico, svolgono un discorso per elementi staccati; non logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a blocchi giustapposti. L'origine dello stile pascoliano è proprio qui».
La lirica fu inclusa nella quarta edizione di Myricae (1903).
Ad integrazione di quanto si è detto neila presentazione, per aiutare a cogliere meglio la cifra di questa lirica- il trasformarsi del dato naturale in dato simbolico -, aggiungiamo alcune osservazioni, derivate e opportunamente mediate da un famoso saggio di Gianfranco Contini. Il quale rileva che alla base della poesia del Pascoli c'è una dialettica fra determinato e indeterminato, fra precisione e imprecisione, fra oggetti «determinatissimi e computabili» e «sfondo effuso» sul quale essi si situano. Dato, questo, che risulta con particolare evidenza in liriche come Nebbia, Gelsomino notturno, L'assiuolo.
«E che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta imprecisione qui condizionata da un'alta precisione, è questo un dato che ricollega Pascoli al maggior laboratorio simbolistico: diciamo, a Mallarmé e alla sua condanna del "sens trop précis", oppure al programma verlainiano ("De la musique avant toute chose", "De la musique encore et toujours")» (Contini).
Per creare questa indeterminatezza e questa imprecisione il poeta ricorre a vari sintagmi, riconducibili più o meno al paradigma «nero dì nubi» (v. 6). E a questo proposito il Contini scrive:
Non da «nubi nere», ma «da un nero di nubi»: è cioè estratta la qualità, e i sostantivi servono soltanto a determinare, come se fossero essi gli epiteti, la qualità fondamentale. Questo procedimento non è evidentemente invenzione di Pascoli, benché sia stato elaborato non molti decenni prima di lui, nella cultura francese, e più precisamente, secondo la constatazione d'uno specialista tedesco, dai fratelli de Goncourt. È questo uno fra gli istituti tipici di quello che gli studiosi di stylistique, e in particolare uno dei fondatori della scuola ginevrina, Charles Bally, definiscono impressionismo linguistico. Il proverbiale esempio del Bally è une blancheur de colonnes per des colonnes blanches, dove si vede che il rapporto di sostanza ed epiteto si inverte, perché fondamentale è l'epiteto e le sostanze servono soltanto a caratterizzare l'epiteto. Tra le formule che nella loro essenza ho detto sinonime di questo tipo sintagmatico, ve ne sono anche di quelle che sono costituite da onomatopee, per esempio fru fru (pur promosso qui a sostantivo), per di più «sentivo un fru fru tra le fratte», presenta una serie allitterante, per gruppo consonantico identico in fru fru e fratte, e affine se si aggiunge tra. Ma vedete: «sentivo un fru fru tra le fratte» è in parallelo a «sentivo il cullare del mare» e a «sentivo nel cuore un sussulto». Cullare, come sussulto è un vocabolo dei vocabolari, semantico dunque, tuttavia fornito di un plusvalore onomatopeico; e, in aggiunta a questo fonosimbolismo naturale, altro ne ricava dalla collocazione, poiché cullare, rimando, all'interno dello stesso verso, con mare, fissa l'ansito della marea, e sussulto, gettando un'assonanza al verso successivo, fu (assonanza normale, a fine di fusione mistica, nella prima metà della strofe: rare con latte, come cielo con perla, vette con vento), segna un crescendo dell'azione. Di più: i sintagmi impressionistici o fenomenici come nero di nubi (con aggettivo sostantivato) o cullare del mare (con infinito sostantivato) o anche soffi di lampi o sospiro di vento hanno la medesima struttura formale dell'altro tipo concorrente alba di perla o nebbia di latte, o anche sistri d'argento o pianto di morte.
Queste osservazioni chiariscono a sufficienza la sapienza tecnica e la raffinata preziosità della migliore poesia pascoliana. Ma si presti attenzione anche al gioco dei parallelismi (vv. 11, 12, 13) e delle allitterazioni (vv. 12, 13, 15, 19), all'utilizzazione del linguaggio pre-grammaticale (chiù) in funzione fonosimbolica.
La rappresentazione paesistica complessiva è ottenuta attraverso I'accumulazione di singoli dati, di notazioni isolate che però nel contempo si legano analogicamente l'una all'altra; la prima - isolata - è una notazione acustica, tutte le altre che seguono e fanno corpo sono impressioni visive. Si noti che la riduzione all'essenzialità dell'impressione si risolve nell'adozione di uno stile nominale (tranne che per il v. 2, che contiene l'unico verbo predicativo della lirica) e che «perfino la similitudine tra il bianco del casolare e l'ala del gabbiano (vv. 6-7) si scompone in due momenti diversi che valgono in se stessi, solo per l'impressione di colore» (Melotti).
ITALY
Della produzione pascoliana orientata verso moduli epico-narrativa; verso il "poemetto", Italy, lungo componimento in due canti (450 versi) che il poeta completò nel 1904 e volle - come suona la significativa epigrafe che vi premise - «sacro all'Italia raminga». La vicenda cantata è infatti il ritorno di una famiglia di contadini della Garfagnana, emigrati da anni in America, all'antico focolare, al paese di origine. Da questa situazione iniziale si snoda la trama: la guarigione, nella terra dei padri, della piccola Molly arrivata malaticcia in Italia; la morte della vecchia nonna; il ritorno degli emigrati in America.
Per un primo approccio al testo sarà sufficiente premettere che Italy é di straordinario interesse sia per gli sperimentalismi linguistici che Pascoli vi realizza, sia per l'attenzione che dimostra verso un problema fondamentale della società italiana tra Otto e Novecento quale l'emigrazione.
Per quanto riguarda lo sperimentalismo linguistico di Italy, che oggi, dopo le prove di un Gadda (solo per fare l'esempio più prestigioso), non sembra più "scandaloso" come era parso a Croce, è di notevole interesse questo testo di Gian Luigi Beccaria:
Di Pascoli «virtuoso, che può giocolare a sua posta con le difficoltà metriche e stilistiche più paurose» discorreva quel finissimo lettore di Pascoli ch'è stato Renato Serra. Prima di lui già D'Annunzio, retore grande, aveva avuto sentore del virtuosismo sotteso. Di «magia pratica», «maestria», «esperienza [...] infinita», «destrezza [...] infallibile», «sapienza» nella « tecnica compositiva», di «fucina del grande artiere», di «laboratorio» dell'«uomo di lettere», di «presenza del demone tecnico» parlava D'Annunzio: le attitudini appunto che si concretavano nel suo sperimentalismo continuo, «in quella vocazione di sperimentatore» riconosciutagli poi da Debenedetti. Uno sperimentatore anticlassico, sappiamo, che ebbe a tratti, per l'epoca in cui visse, un potere d'urto non indifferente. C'è chi [Contini] ha richiamato in proposito la novità del plurilinguismo pascoliano che ebbe allora del sorprendente, e dello scandaloso «per chi lo misuri sulla norma della tradizione letteraria italiana». La trasgressione alla norma monolinguistica compiuta ad esempio con gli ardimenti di Italy parve appunto scandalosa al Croce proprio per la vistosissima eccezione alla norma del linguaggio poetico istituzionale (la presenza della lingua straniera o di una lingua speciale come quella dell'emigrante lucchese che contamina italiano e americano). Introdurre nel discorso letterario parole straniere e termini tecnici, parole della vita quotidiana e dialettismi, già mutava il sistema consueto di segnalazione del linguaggio letterario, infrangeva uno stereotipo. Appunto in Italy, per restare nell'ambito della metrica cui si limita il nostro discorso, la trasgressione alla norma monolinguistica era esposta in posizioni anche forti e scoperte di rima (in Italy, V 5, 7 e 9 Molly, rima con colli: molli, ed ibid. I 1, 3 febbraio con Ohio, III 23 e 25 luì con Italy, V 1 e 3 flavour con Never, VI 13 e 15 gelo con fellow, 23 e 25 tossì con Italy). Vistosa era dunque la deroga alla poetica normativa; e l'eccezionalità doveva costituire tosto l'autorizzazione per nuovi principi costruttivi, se si pensa alla esposizione cercata di parole straniere in rima nei crepuscolari e negli epigoni di questi.
Va inoltre precisato che l'operazione linguistica di Pascoli - il far parlare i suoi protagonisti in un gergo italo-americano, dilatando così i confini della lingua poetica tradizionale - non è gratuita, ma nasce da una necessità poetica: questo stridente impasto linguistico è la testimonianza e il mezzo più valido per rendere quell'intima lacerazione, quel doloroso offuscarsi della voce e del sentimento della terra natale» (Getto) che si sono prodotti nell'animo degli emigrati. La soluzione linguistica è quindi in stretto rapporto col tema di fondo del poemetto.
Per quanto riguarda le implicazioni ideologico-politiche di Italy, basterà ricordare che qui in un modo abbastanza singolare è già evidente quel processo che porta Pascoli dall'ideologia del "nido" alle posizioni nazionalistiche, e che sarà chiaramente enunciato nel discorso La grande proletaria si è mossa. In Italy infatti c'è la solidale rappresentazione del prezzo di dolore e di mutilazione affettiva che l'emigrazione comporta, dell'estraneità e della solitudine dell'emigrato condannato a correre per «terre ignote con un grido / straniero in bocca», ma sempre anelante a ritornare con un gruzzolo per farsi «un campettino da vangare, un nido / da riposare»; ma c'è anche l'auspicio che l'Italia, l'antica madre, un giorno «in una sfolgorante alba che viene / con un suo grande ululo ai quattro venti /fatto balzare dalle sue sirene» riscatterà i suoi figli dispersi (e qui il lirico poeta di Myricae si assume il pesante ruolo di poeta vate, dirottando in una direzione di generico nazionalismo il suo umanitarismo socialisteggiante).
Lavandare
È autunno. La terra sembra essere stata abbandonata dalla mano dell'uomo; l'unico segno di vita viene dal canto delle lavandaie: "è autunno, fa freddo e senza di te mi sento abbandonata".
La forma metrica è quella del madrigale (due terzine più due distici), scelta per la sua vicinanza alla cultura popolare di cui il componimento evoca alcuni elementi: quello onomatopeico, espresso dal verbo "sciabordare"; quello delle cantilene dialettali dei due distici finali. Essi sono la citazione italianizzata dello strambotto «Retorna, Amore miè»1[1] che Pascoli trasse da una delle numerose raccolte poetiche di folklore popolare che da Carducci in poi la scuola positivista bolognese andò ordinando, alla luce del suo interesse per le radici storiche della lingua poetica.
La scelta dell'immagine finale evoca un altro dei temi fondamentali della poetica pascoliana: quello dell'erotismo represso. La tecnica poetica è quella dell'analogia, attraverso la quale il significato principale - emotivo ed esistenziale - della donna abbandonata come un oggetto dopo l'esperienza dolce e violenta dell'amore, viene evocato da un'immagine simbolica - la terra ferita dall'aratro e poi abbandonata - collegata al contesto lessicale del discorso dalla congiunzione "come". L'analogia è uno dei mezzi privilegiato della poetica simbolista; essa non serve a "spiegare" ma semplicemente ad alludere, lasciando all'immaginazione del lettore l'opera di approfondimento del senso.
Novembre
È l'11 novembre, l'"estate di San Martino"; ma all'illusione dei richiami di luce e di gioia portati dall'aria la natura non risponde: tutto è secco, e il colore funebre dell'autunno fa da cornice al ricordo di coloro che non ci sono più.
Una prima osservazione concerne la forma metrica del componimento: sono tre strofe saffiche di tre endecasillabi più un quinario a rima alternata ABAb. Per "strofa saffica" si intende l'imitazione italiana (basata sul conteggio delle sillabe e la posizione degli accenti tonici) del modello ritmico creato dalla poetessa greca Saffo, basato sulla seguente successione di vocali lunghe e brevi: _ e _ _ _ / // _ _ . Della struttura greca rimane la cesura - o pausa - dopo la quinta sillaba.
Questa rigorosa determinazione formale costituisce per Pascoli nello stesso tempo un'occasione per sperimentare una forma poetica rara (se ne trovano altri esempi in Parini e Carducci), e per circoscrivere nei limiti di un modello severo e contenuto l'espressione di sentimenti altrimenti inafferrabili e oscuri. Abbiamo già visto che la poesia simbolista tende in generale a isolare l'oggetto poetico nel "silenzio" del verso isolato, quando non della pagina bianca; lo stesso effetto Pascoli lo ottiene, in perfetta aderenza a quello che era il gusto italiano, restringendo i termini poetici nei limiti imposti dalle ferree regole della versificazione classica.
In quest'ottica va letta la cesura all'interno del primo verso: «Gemmea l'aria / il sole così chiaro //», il cui effetto diventa quello di isolare con estrema evidenza il tema poetico iniziale, l'"estate" di San Martino. La limitazione del numero dei termini, come l'isolamento grafico, genera concentrazione dei contenuti, aumenta la loro evidenza, li fornisce di un'aura di significato che favorisce la profondità della lettura simbolica.
L'area semantica che caratterizza questo componimento è la stessa che predomina in tutta la produzione pascoliana: il culto della morte come "situazione di assenza" (Nava), cioè come sistema di segni che rimandano costantemente al ricordo di chi non c'è più. In questo senso Novembre è emblematica: qualunque sia l'occasione del canto, in questo caso l'improvviso incanto dell'"estate di san Martino" [aria gemmea - sole chiaro - albicocchi in fiore], quel breve periodo di belle giornate che si hanno spesso ai primi di Novembre, l'esito è ancora e sempre quello dello smarrimento e dell'angoscia [pruno secco - piante stecchite - cielo vuoto - terreno cavo].
L'impressione di semplicità che si ricava dalla struttura linguistica (fonetica e sintassi) della poesia dev'essere spiegata alla luce della nostra collocazione storica. Pascoli è già un poeta del Novecento, e questo lo fa apparire semplice (fino al semplicismo) alla nostra sensibilità. La novità della lingua pascoliana si fa evidente se paragoniamo la sua sintassi con quella dei poeti precedenti. Ciò che in Pascoli viene meno quasi completamente è l'ipotassi, ovvero i costrutti dipendenti da una proposizione principale; in Novembre riconosciamo solo una consecutiva tra primo e secondo verso, mentre tutta la struttura del componimento si regge sull'uso assonanzato della congiunzione coordinante "e". L'agilità paratattica è funzionale all'effetto visivo che il poeta vuole ottenere nell'accavallarsi impressionistico delle apparizioni: la vicinanza improvvisa delle cose evoca analogie profonde.
ARANO
La lirica, come tante altre di Myricae, trae spunto dalla vita dei campi: qui, l'aratura autunnale. Ma il paesaggio e il lavoro degli uomini sono immersi in un clima, in un' "aura particolare, e ciò che si sarebbe potuto risolvere in un semplice e scontato bozzetto dì maniera realistica diventa espressione di uno stato d'animo, di un sentimento del vivere segnati di intensa malinconia.
Richiamiamo l'attenzione su un aspetto fondamentale di Myricae: la frantumazione, l'atomizzazione dell'endecasillabo tradizionale, ottenuta non tanto con il frequente ricorso all'enjamblement (elemento, questo, non nuovo nella poesia italiana) quanto con la spezzatura sintattica, cioè con un andamento paratattico che comporta l'accostamento di brevissimi enunciati (vv. 4-6) fortemente staccali l'uno dall'altro, e con l'insistente punteggiatura (un caso limite è il v. 9; «e il pettirosso»).
Sulla stupita, assorta staticità che con queste tecniche il poeta riesce a creare ha scritto Giacomo Debenedetti:
Ma la la terzina che noi vorremmo isolare, quella dove si afferma singolare e tutta nuova l'originalità pascoliana è la seconda:
arano: a lente grida, uno le lente vacche spinge; altri semina; un ribatte le porche con sua marra paziente.
Troveremo altrove pitture ottenute con la stessa grafia, questo disegno piuttosto statico che dinamico, e i valori determinati piuttosto col chiaroscuro che col colore; il quale, semmai, è colore senza colore, senza vivacità cromatica di tinte vistose, impastato su una tavolozza di gamme sull'ocra e sul bruno - quei colori che i pittori chiamano «terre». Troveremo altri quadri e composizioni analoghi: si tratta di un modo di visione tipico del Pascoli, e che cercheremo di precisare, quando avremo raccolto altri esempi. La Benedetti cita questa terzina a mostrare come la poesia Arano sia «una visione infinita in cui le persone si muovono con un ritmo eternamente uguale, come di sonnambule» a cui si contrappone il pettirosso che «dalla siepe, nell'immensità silenziosa» innalza, «primo di una innumerevole serie di uccelli pascoliani»,
il suo sottil tintinno come d'oro.
Alla base del commento della Benedetti c'è una percezione giusta, che ci sembra risulti un po' tradita dal modo com'è espressa. Più che l'impressione di sonnambuli, quei contadini che nell'immensità silenziosa si muoverebbero con ritmo eternamente uguale, creano una visione miracolosamente stupita, perché quel loro muoversi genera il senso di una trasecolata, vastissima immobilità. E la vastità è ottenuta con figure minute, da scena fiamminga: e quelle figure, quantunque presentate con tratti sommari, essenziali ci paiono vedute, osservate in
proporzioni minori del vero con un binocolo rovesciato. E infine uno grida, e uno batte con la marra; l'aria è piena di voci e di rumori, eppure il senso è di silenzio, quei suoni si rapprendono nell'atmosfera come se un cristallo si frapponesse fra noi e quella scena, o uno strato d'aria non conduttrice di suoni. Quelle voci e rumori ci pare di vederli, piuttosto che di sentirli, come se invece di propagarsi, rimanessero scritti nei gesti dei contadini.
E ancora si potrebbe osservare che la composizione del quadro è raggiunta attraverso notazioni staccate, slegate, come colte casualmente a grande distanza una dall'altra: distanza che è segnata anche dalle forti pause che cadono tra l'una e l'altra: arano... uno le lente vacche spinge... altri semina... (uno... altri... poi di nuovo uno...). Per trascrivere quelle distanze, ci pare che in prosa non avremmo che gli odiosi punti di sospensione. Ma il Pascoli, che scrive in versi, non ne ha davvero bisogno. Ha frantumato al massimo slegata la sintassi; ha preso a martellate ogni complessità del periodo, ottenuto proposizioni elementari, soggetto, predicato: un predicato scarno che segna l'azione senza colorirla, né muoverla, insomma si comporta come un predicato di esistenza. Poi dispone quei frantumi come schegge irte, asciutte; orientate a contrariare l'andamento, la fluidità del verso, quasi a risalirla all'indietro, in senso opposto a quello che la attira verso la cadenza. In lingua povera, pare che le singole notazioni, cioè le singole frasi diano il contropelo al verso.
Nello scritto intitolato Il fanciullino, pubblicato nel 1897 e nella sua redazione definitiva nel 1902, Pascoli espresse meglio che altrove i canoni della sua poetica.
Vale la pena sottolineare la «dimensione riduttiva» che ha questa poetica. Pascoli qui si inquadra cioè in tutta una corrente di Fine Ottocento (particolarmente operante in Francia) che mira a superare i confini logico-razionali entro i quali prima sembrava dovesse limitarsi la poesia; ma egli, anziché imboccare, in questo superamento, la dimensione visionaria o teorizzare l'impegno di dar voce all'inesprimibile (si pensi a Rimbaud), fa regredire l'attività poetica a stupori infantili, a capacità prelogica, a tinnulo squillo di campanello che ancor può echeggiare nell'incallito animo dell'uomo adulto (ed è qui l'origine di tanti suoi atteggiamenti «pargoleggianti», di quei toni fastidiosamente queruli che di frequente si incontrano nella sua produzione). Visione, questa, che da un lato non può approdare alle arditezze espressive consentite ad altre poetiche anch'esse irrazionalistiche, dall'altro va collegata a quella scoperta dell'infanzia (o regressione nell'infanzia) come fuga dalla storia che è tanta parte dell'ideologia pascoliana.
Sul «fanciullino» ha scritto Giorgio Bàrberi Squarotti:
L'interpretazione del discorso sul «fanciullino» è sempre stata (dal Croce al Binni fino al Salinari) poco comprensiva per le ragioni del Pascoli: il linguaggio volutamente dispersivo, non raziocinante, ma procedente per intuizioni, spunti, illuminazioni improvvise, ha portato gli interpreti a restare sul piano della lettera (cioé all'immagine del «fanciullino», usata allora per definire la poetica e la poesia del Pascoli come una sorta di bamboleggiamento, ovvero come l'esplicazione di un'attenzione per le piccole cose, immediataménte colte con vergine sguardo), senza scendere nel reale significato del simbolo. In realtà, il Pascoli, mentre respinge l'idea di una poesia «applicata» (cioè civile, morale, politica, ecc.), e dichiara che la grande poesia è rara e di breve durata, in consonanza con la linea ottocentesca e novecentesca della «poesia pura» (come ha molto felicemente indicato l'Anceschi), si serve dell'immagine del «fanciullino»-sia per segnalare il modo assolutamente nuovo della sua ottica poetica, che è rovesciata rispetto a quella consueta, normale, obiettiva (cioé «adulta», nel senso della conoscenza razionale e scientifica), e privilegia l'apparire sull'essere, onde può capovolgere i rapporti fra le dimensioni, i luoghi, gli oggetti. In più, il «fanciullino» significa il privilegio accordato a ciò che è pre-razionale di fronte alla scienza e alla ragione: l'invenzione rispetto alla riproduzione realista, iI sogno rispetto al «vero», la «distrazione» rispetto alla logica, l'arbitrarietà del segno e della parola contro la normalità comunicativa. In questa prospettiva, la stessa «poetabilità» degli oggetti è sottoposta a scelta: che è, appunto, quella arbitraria di uno sguardo che si è liberato ormai completamente dalle buone regole di decoro di «classe», a cui la tradizione italiana aveva sottoposto il «poetabile». E' un'idea anti-realistica della poesia e delle sue funzioni: ma è anche uno dei punti più avanzati (alla dine dell'Ottocento) della meditazione di poetica in Italia in consonanza con la poesia moderna in Europa.
Temporale
Il temporale non è ancora scoppiato, ma incombe minaccioso all'orizzonte, come la mano nera del destino sulla mia vita.
Piccola ballata di settenari. È una miniatura nella quale troviamo concentrati gli elementi significativi del lavoro poetico pascoliano; nell'ordine:
ü L'onomatopea: "bubbolìo" (il rombo lontano del tuono);
ü La sintassi breve: c'è un solo verbo, "rosseggia";
ü Le parole del lessico quotidiano: "pece", "stracci";
ü Il tema della casa, metonimia della famiglia ma soprattutto della madre, intese come rifugio e fuga dal mondo. È il marchio poetico pascoliano, legato da un lato al trauma infantile della perdita drammatica di entrambi i genitori, e dall'altro al costante tentativo di ricostituire il mondo perduto che ispirò tutta la sua esistenza2[1].
ü L'analogia: "un'ala di gabbiano", qui scelto per la sua qualità di volatile capace di contrastare alla violenza della bufera. È da sottolineare l'efficacia di questa locuzione che si staglia, nella brevità di un singolo verso, a suggellare l'idea della forza protettiva.
Questa poesia è connessa a molte altre, sia di «Myricae» (Dopo l'acquazzone, Pioggia, Sera d'ottobre, Ultimo canto, Il lampo, Il tuono, Lontana, I ciechi), che dei «Canti di Castelvecchio» (Temporale, La mia sera). A esemplificazione del procedimento analogico nella scrittura pascoliana, proponiamo l'accostamento di due figure analogiche parallele tratte dai versi finali dei due componimenti contrassegnati dal medesimo titolo di Temporale:
«Myricae»:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano
«Canti di Castelvecchio»:
…mentre, col suo singulto
trepido, passa sotto
l'acquazzone una chioccia
[…] tra il vento e l'acqua, buono,
s'ode quel croccolare3[2]
co' suoi pigolii dietro.
L'uso dell'analogia è nei due casi molto diverso: l'ala di gabbiano si sovrappone in modo gratuito e soggettivo sul proprio "analogo" - la casa - suscitando, con la sorpresa del suo apparire improvviso, l'idea del contenuto profondo che il poeta vuole evocare. La chioccia è invece una figura perfettamente aderente al contesto descrittivo della poesia: lo scrosciare della pioggia sui campi. Ma tuttavia essa si presta a una lettura simbolica, che Pascoli stesso conferma, se non nella stessa poesia, in numerosi altri momenti della sua produzione.
IL GELSOMINO NOTTURNO
Per acquisito giudizio critico questa lirica è da considerare uno dei risultati più alti e originali della produzione pascoliana. Per essa più che per qualsiasi altra del Pascoli è difficile indicare la trama, produrre una traduzione prosastica: ciò perché vi è portato all'estremo quel processo di rarefazione dell'elemento logico-narrativo che è una caratteristica fondamentale della poesia moderna e che Pascoli (in tanta parte della sua produzione) ha introdotto nell'ambito della poesia italiana. La lirica quindi - che deriva il suo esile pretesto realistico dalla caratteristica del gelsomino notturno, che solo di notte apre la sua corolla per richiuderla ai primi raggi del sole - è tutta una trama di impressioni apparentemente disordinate e casuali nel loro succedersi,, ma in realtà legate reciprocamene da sottili e rarefatti rapporti; da una logica del sentimento più difficile da cogliere, ma forse più vera della logica della ragione.
Per una prima lettura basterà ricordare che questi versi furono scritti dal Pascoli per le nozze dell'amico Raffaele Briganti e in essi è adombrato - con mirabile levità simbolica - il tema dell'unione di due esseri; e del conseguente germogliare, dentro l'urna molle e segreta, di una nuova vita.
La lirica venne pubblicata in un opuscolo "per nozze" nel luglio 1901, e poi inclusa nei Canti di Castelvecchio (1903).
Su questo testo esiste una produzione critica che ne ha messo in luce - a volte con sofisticata sottigliezza - l'originalità e la complessità. Noi ci limitiamo a sottolineare alcuni dati fondamentali.
La tematica affrontata si collega in un certo senso a quella di Digitale purpurea: è anche qui dominante - sia pure attraverso una complessa trama di mediazioni simboliche - il tema dell'eros aI quale il Pascoli si accostò sempre con una sensibilità turbata e adolescenziale, con un complesso rapporto di attrazione e frustrazione. Questo componimento cioè mostra con risultati poetici di alta suggestione «quali sono le condizioni, sempre anomale, ma sempre straordinariamente acute, dentro cui Pascoli sente l'esperienza erotica: come sofferenza, morte, violazione, rinunzia, esperienza misteriosa e preclusa» (Tropea). L'atteggiamento del poeta dinnanzi all'atto nuziale, all'unirsi degli sposi nella loro casa, è quello di un adolescente ,"è un morboso coesistere di vaghe e conturbanti idee di violenza (vv. 21-22: «i petali / un poco gualciti») e di attrazione voyeristica (vv. 19-20:-«Passa il lume su per la scala; / brilla al primo piano: s'è spento...»). Ma questo tema di fondo - il morboso turbamento di fronte all'eros è inserito nella rappresentazione di un "notturno" fitta di voci, di sensazioni, di corrispondenze (v. 1, .«i fiori notturni»; v. 9, «i calici aperti»; v. 10, «l'odore di fragole rosse») che analogicamente ad esso si collegano.
Per quanto riguarda l'aspetto metrico, va sottolineata la differenza di ritmo che si instaura tra versi che pure sono uguali (tutti novenari): in ogni strofe i primi due novenari hanno un ritmo incalzante, concitato, ascendente, con quell'impennata prodotta soprattutto dall'accento sulla seconda sillaba e poi sulla quinta e sulla ottava («E s'àprono i fiòri notturni»); gli ultimi due invece sono caratterizzati da un ritmo discendente, fortemente pausato nel mezzo con accento sulla terza, quinta e ottava sillaba («Sono appàrse in mèzzo ai vibùrni»). L'alternanza ritmica è sottolineata dal fatto che costantemente si susseguono unità ritmico-sintattiche costituite da due versi (1-2, 3-4; 5-6, 7-8; ecc.). Questa alternanza si spezza solo nell'ultima strofa, nella quale il v. 21 (« È l'alba: si chiudono i petali») ha una forte pausa dopo la terza sillaba ed è ipérmetro, per cui la sillaba li di petali si elide con la prima del verso seguente e permette la rima di peta con segreta.
A proposito di questa alternanza ritmica il Vicinelli ha osservato (ma è ormai un dato critico acquisito) che «nella movenza impennata dei primi due versi il Pascoli ha rinvenuto il grafico, l'immediata significazione musicale dell'aggressività con cui la natura e la notte stringono l'assedio dei loro inviti d'amore. Negli ultimi due con quel gorgo lento che la sosta centrale produce ha trasfuso un crollare smemorato e blando». L'anomalia ritmica dell'ultima quartina (dei v. 21 soprattutto) servirebbe a sottolineare questo "crollare", questo smemorato languore, dopo la notte nuziale. (A chi ritenesse discutibile o eccessiva questa attenzione ai dati metrici, ricorderemo col Debenedetti che questa è «una poesia, dove le figure metriche sono altrettanto significative quanto le immagini».).
ANALISI DEL X AGOSTO:
La poesia è composta da sei quartine in cui si alternano endecasillabi e novenari piani in rime alternata.
Prima strofa:
Nei primi 2 versi abbiamo una consonanza della lettera " L" e un' assonanza tra le parole " arde e cade".
"San Lorenzo" oltre ad essere un vocativo , costituisce una cesura.
Nel 3 verso abbiamo un enjambement
Seconda strofa:
In tutta la strofa c'è una consonanza della lettera "R" e nel 2 verso si ha una cesura ad " uccisero"
Terza strofa:
Nel primo verso si ha un enjambement una similitudine nelle parole " come in croce"
"Il suo nido che pigola" è una metafora.
Quarta strofa:
"Al suo nido" c'è una metafora e tra il 1 verso con il 3 c'è un chiasmo.
Nel 2 verso ci sono 2 cesure.
Quinta strofa:
Nel 2 verso c'è un'anafora e nel 3 un climax ( immobile, attonito)
Sesta strofa:
La vocazione"e tu"è una cesura si ha un climax nel 2 verso.
In tutta la poesia si ha un climax ascendente.
COMMENTO:
Pascoli, nella poesia “10 agosto” , descrive e “racconta” un episodio personale ovvero la morte del padre. Infatti il 10 agosto è la data sia della notte di San Lorenzo, che è caratterizzata sia dalla caduta delle stelle, sia la morte del familiare. La lirica si apre con una strofa tranquilla la quale descrive la serata, ma andando avanti con la lettura il clima cambia fino a diventare sempre più cupo e tragico concludendosi nell’ultima strofa con una figura potente e immortale come il cosmo o forse un dio, che bagna la terra con un pianto paragonato alla caduta delle stelle. Secondo noi, emergono in questa poesia i tre grandi temi di Pascoli su cui, incentrava la sua poesia: il simbolo del nido, il martirio innocente e il mistero del male.
Il nido che intendeva Pascoli era il nucleo familiare, la protezione dei conoscenti più stretti dove ogni uomo può rifugiarsi. Nella poesia il nido è evidenziato bene perché, oltre al padre che tornava alla propria casa, c’è un paragone con una rondine che torna al suo “nido” ; ma entrambi sono aspettati invano dai familiari: questi versi sono, secondo noi molto autobiografici perché descrivono una sensazione che lui ha provato veramente. Subentra in questo tema, anche l’amore familiare, la tenerezza e la gioia di un padre che torna a casa con doni, ma per Pascoli, quella sera, c'è stata una mancanza, una delusione, che si riflette sul suo senso di giustizia e nel mistero del male.
Nella poesia i personaggi uccisi sono innocenti e il padre, nonostante la morte inaspettata, chiede perdono: è una descrizione straziante che rende ancore più dolorosa la lirica. Anche nel mistero del male si giunge ad una sola conclusione: la terra, come la definisce il poeta, non è altro che “un atomo opaco del male in tutto il cosmo” , vista la cattiveria e l’ignoranza degli uomini.
Tutti i procedimenti stilistici usati come climax ascendente, cha ha il culmine alla fine della poesia, rendono la lirica forse più profonda e anche i diversi enjambement danno una leggera suspense ma anche una maggiore tragicità nella situazione. Sono ripetute più volte le “L” e le “N” ed entrambe vogliono dare continuità e rendere il momento ancora più straziante.

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Esempio



  


  1. Michele

    Parafrasi il giorni dei morti G pascoli

  2. lisa

    spigazione la piccozza pascoli

  3. giorgia

    parafrasi il mare pascoli

  4. Giusj

    sto cercamdo il piano descrittivo e allusivo del gelsomino notturno