Frasi sentenziali nell'Inferno

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Testo

Individua le frasi sentenziali che si trovano nei canti letti della Divina Commedia e commentandole esponi il pensiero di Dante
Dante, per esprimere i suoi pensieri, scrive delle frasi molto spesso sentenziali, ma le fa dire quasi sempre ai personaggi che trova lungo il suo cammino apparendo così innocente di fronte alle calunnie espresse su tutti i dannati incontrati.
Fino ad ora noi abbiamo letto solo i primi otto canti dell’inferno della Divina Commedia ma abbiamo già trovato molte sentenze.
Dopo un’attenta lettura troviamo la prima sentenza ai versi 4-7 del primo canto. Qui Dante sta descrivendo la selva nella quale si era smarrito e esprime il suo primo giudizio del libro: “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte;…” che letteralmente vuol dire: Ahi quanto è difficile descrivere come era questa selva orrida, intricata e difficile a percorrersi, che solo a ripensarci mi ritorna la paura! Tanto la selva è piena di tormentosa angoscia che di poco più angosciosa è la morte;… Così questo è il primo pensiero di Dante sul luogo in cui si trova che sicuramente non lo rendeva molto tranquillo.
Proseguendo la lettura arriviamo ai versi 16-18 dove troviamo questa frase: “…guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.” In questo modo Dante spiega che, avendo paura in quel luogo sconosciuto, l’unica salvezza era Dio; ciò è espresso all’inizio della frase “guardai in alto”: infatti questo gesto simboleggia una richiesta di aiuto poi successivamente esaudita con l’arrivo di Virgilio.
Subito dopo, al verso 27 troviamo un’altra osservazione di Dante sul luogo in cui si trova: “…lo passo che non lasciò già mai persona viva.” Questa frase va a chiudere una prima parte del canto nella quale Dante descrive il paesaggio che lo circonda con un significato un po’ duro: da quel luogo non è mai tornato indietro nessuno. Tutte queste prime sentenze hanno una allegoria che le accomuna: la selva tanto descritta da Dante rappresenta il peccato. Lui si accorge che nella propria vita ha commesso troppi peccati e che oramai solo un aiuto divino lo può aiutare.
Così proseguendo arriviamo ai versi 49-51: “Ed una lupa, che di tutte brame sembrava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,…” Qui Dante esprimere un giudizio sulla lupa che rappresenta la cupidigia: la considera uno dei peccati più gravi che si possano commettere, quello che oscura la coscienza e la ragione, genera l’odio, la violenza, la guerra e contamina le istituzioni civili e religiose.
Al verso 72, invece, è Virgilio a parlare delle proprie origini e del periodo in cui lui viveva: “Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto nel tempo de li dei falsi e bugiardi” che letteralmente si traduce: Nacqui al tempo di Giulio Cesare, sebbene fosse tardi per conoscerlo e vissi a Roma al tempo in cui vi regnò il buono Augusto, quando si credeva ancora agli dei falsi e bugiardi del paganesimo. Naturalmente questo è il pensiero di Dante, cattolico praticante, che disprezza, tramite Virgilio, la religione allora diffusa.

Arriviamo così al secondo canto nel quale troviamo subito al 6 verso una frase sentenziale: “…che ritrarrà la mente che non erra.” che significa …che la memoria che conserva con rigorosa esattezza ciò che il poeta vide riferirà. In altri termini quella guerra, impressa profondamente nella memoria sarà l’oggetto del poema che il poeta si appresta a scrivere.
Così continuando arriviamo al verso 19 nel quale Dante riflette sul viaggio che sta per compiere e sui personaggi che l’hanno già compiuto con le loro giuste cause: “…non pare indegno ad omo d’intelletto;” Così Dante si chiede se Dio, dopo essere stato così generoso con Enea, sarà tanto generoso anche con lui poiché è un uomo di intelletto, che ricorda l’importanza degli eventi. Da qui in poi sorgeranno tutti i dubbi sulle cause di questo viaggio che è l’argomento principale di tutto questo canto.
Ai versi 45-48 troviamo una frase detta da Virgilio verso Dante molto severa: “l’anima tua è da viltate offesa; la qual molte fiate l’omo ingombra sì che d’onrata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand’ombra.” Questa è solo l’inizio della risposta alle tante domande di Dante sul perché è concesso a lui questa grande opportunità. Virgilio sostiene che l’animo di Dante sia indebolito dalla paura la quale molte volte ostacola l’uomo a tal punto da distoglierlo dal compimento di un’impresa onorevole, come una falsa vista fa tornare indietro un animale impaurito. In realtà con questa risposta Dante sta spiegando come mai lui fa questo viaggio e, soprattutto, chi glielo ha permesso e chi lo protegge.

Proseguendo la ricerca di frasi sentenziali arriviamo al terzo canto, dove entriamo realmente nell’inferno.
Esattamente siamo al verso 4: “Giustizia mosse il mio alto fattore;” Questa frase, che è solo un piccolo pezzo di ciò che c’è scritto sopra alla porta dell’inferno, spiega la creazione dell’inferno: si parla infatti della volontà di giustizia; Dio, creando l’inferno, non solo ha compiuto un atto di giustizia ma non poteva non crearlo proprio perché la somma giustizia distribuiva dei premi e delle pene.
Subito dopo Virgilio spiega a Dante il significato delle parole sopra la porta dell’inferno e così troviamo un’altra sentenza: “Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui si morta.” Questa frase si può considerare come congiunzione con il secondo canto; infatti così Virgilio si accerta della volontà di Dante facendogli capire che da quel momento non si potevano avere più esitazioni.
Successivamente i due protagonisti incontrano gli ignavi e così Virgilio pronuncia una delle frasi più celebri dell’inferno: “…non rogionam di lor, ma guarda e passa.” Con questa frase si esprime uno dei pensieri più forti di Dante: la vita è degna di essere ricordata solo se le generazioni future potranno trarne esempio.
Così continuando arriviamo a Caronte, traghettatore dell’Acheronte, che rivolgendosi alle anime dannate dice una frase molto significativa: “Non isperate mai di veder lo cielo” che significa che i dannati, che rimpiangono la vita terrena con tutti i suoi beni perduti, non potranno mai rivedere il cielo, ovvero non potranno mai tornare a vivere, anzi dovranno essere dannati per l’eternità.
Sempre rivolto alle anime in attesa di essere trasportate, Virgilio dice un’altra cosa: “…sì che la tema si volve in disio.” ovvero …così che la paura si trasforma in desiderio. Infatti i dannati, coscienti di dover ricevere una pena per l’eternità, non riescono ad aspettare e vorrebbero andare subito sull’altra sponda dell’Acheronte per essere giudicati.

Proseguendo la lettura arriviamo nel quarto canto quando Virgilio e Dante incontrano tre grandi poeti del passato: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Questa scena si può definire come un’autoconsacrazione da parte di Dante poiché si unisce a loro ritenendosi già un grande poeta prima ancora di diventare veramente famoso. Questa frase a mio parere rispecchia il carattere di Dante: sicuro di sé. Infatti Dante nonostante tutto ciò che gli stava accadendo si riteneva in grado di comporre una grande opera, come poi ha fatto.

Finito il quarto canto arriviamo al quinto dove troviamo i lussuriosi: “…enno dannati i peccator carnali, che la ragion sottomettono a talento.” Dante punisce i lussuriosi poiché, secondo lui, sottomettono la ragione alla passione.
Sempre all’interno di questo canto Dante incontra Paolo e Francesca che raccontano la propria storia. Dante fa dire a loro frasi coerenti alla cultura del loro periodo: la civiltà cortese. Così essi sostengono che l’amore fa rapidamente presa e si colloca nei cuori gentili, non permette che chi è amato non ami la persona che l’ama e che il loro amore li ha condotti ad una stessa morte. Sempre Francesca sostiene che non c’è peggior cosa che ricordare i momenti felici quando si è nella miseria. Questo vale anche per Dante poiché lui, esiliato, non poteva far altro che ricordare e rimpiangere i momenti felici di quando era a Firenze assieme alla sua famiglia.

Continuando la lettura ci accorgiamo che nel sesto canto non ci sono frasi sentenziali e così arriviamo al settimo dove c’è al 25 verso un giudizio di Dante: lui sostiene che nel cerchio degli avari ci sia più gente che negli altri, ciò sta a significare che lui ritiene che nel mondo ci siano troppe persone avare.
Dopo continua il suo discorso sostenendo, al verso 58, che lo spendere e il risparmiare troppo li ha tolti dal paradiso e che così sono approdati nell’inferno alla loro orrenda punizione.
Infine arriviamo all’ottavo canto dove troviamo gli iracondi. Anche qui Dante esprime un suo giudizio; parla, ai versi 49-51, delle persone che in terra si credevano importanti e di alta autorità e che nell’inferno stanno come dei porci nel fango, lasciando come ricordo solo alcune loro pessime azioni.

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